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I Quaderni de Il Popolo Veneto N 4

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Academic year: 2022

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I Quaderni de “Il Popolo Veneto”

N°4

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© Dicembre 2020 Luigi Pandolfi

Pubblicazione mensile in abbinamento a Il Popolo Veneto

Il Popolo Veneto

Direttore Responsabile: Emanuele Bellato Reg. Trib. N. 16 del 21/10/2004

www.ilpopoloveneto.it - ilpopoloveneto@gmail.com

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Luigi Pandolfi

Venivamo da lontano

Appunti sul PCI per il centenario (1921-2021)

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Tra tutte le esperienze comuniste del secolo scorso, quella del PCI rappresenta un caso sicuramente peculiare, che merita di essere analizzato con obiettività, serietà e, semmai, con un diverso spirito critico. Dopo gli anni del furore iconoclasta che non ha risparmiato alla storia del comunismo italiano la condanna generica di estraneità alla democrazia per affiliazione al comunismo sovietico, è giunto, nel centenario della sua fondazione1, il momento di rimettere le cose a posto, restituendo allo stesso i meriti che si è conquistato nella costruzione della democrazia repubblicana, nella lotta per l’avanzamento sociale della classe operaia e, più in generale, dei ceti popolari del nostro Paese, nella formazione di una cultura politica autonoma dei ceti subalterni.

Beninteso, la sua vicenda storica non è da intendersi alla stregua di caso separato dalla più complessiva esperienza novecentesca del movimento comunista internazionale. Anzi.

La sua fondazione nel 1921 fu una risposta organizzativa nazionale alla rottura che la Rivoluzione d’Ottobre produsse, su scala mondiale, in seno al movimento operaio e socialista. La crisi che investì il Vecchio Continente all’indomani della Prima guerra mondiale, unita al successo che i bolscevichi avevano avuto nel loro paese, faceva pensare ad una parte dei socialisti italiani che il tempo della rivoluzione fosse ormai giunto e che la politica del partito fosse ormai del tutto inadeguata rispetto a questa sfida epocale. «Fare come in Russia» divenne quindi un imperativo categorico per quei rivoluzionari italiani che, non senza eccessivo ottimismo, credevano di vedere più avanti rispetto al vecchio ceto politico socialista, attendista e rinunciatario, pregno di una lettura deterministica dello sviluppo storico.

Né le motivazioni alla base della scissione di Livorno né l’apparenza al campo internazionale dei comunisti consentirebbero tuttavia di chiudere il discorso sul significato storico della vicenda politica del PCI. Tutt’altro. Fondamentali ai fini della futura elevazione del profilo identitario del partito saranno, come si vedrà, due momenti molto particolari nella storia del comunismo italiano, successivi all’epopea «livornista» e, oggettivamente, non scontati: l’originale riflessione di Gramsci e la «svolta di Salerno», dopo il ritorno di Palmiro Togliatti in Italia nel 1944. Elementi che fecero l’originalità del PCI nel dopoguerra, ma che, alla lunga, costituiranno anche il suo principale limite, stante la collocazione internazionale dell’Italia e la conventio ad excludendum che le altre forze dell’arco costituzionale stipularono contro di esso dopo la rottura dei governi di unità nazionale (1944-1947).

Il contributo di Gramsci

Ciò che Gramsci pensò e scrisse durante gli anni della prigionia si rivelò un alimento formidabile per il PCI, alle prese con la sua riorganizzazione, negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto mondiale. La congiuntura internazionale e le scelte di Togliatti, del gruppo dirigente di quegli anni, contarono moltissimo nel conferire al PCI un determinato profilo e non un altro. Nondimeno, senza gli spunti della riflessione gramsciana il PCI sarebbe stato un’altra cosa. Nell’elaborazione di Gramsci, per come emerge dai suoi scritti raccolti postumi nei cosiddetti Quaderni dal carcere, l’elemento della complessità, riferita alle fondamentali questioni di teoria politica, sociale ed economica, costituisce un filo conduttore e, al tempo stesso, il principale punto di distinguo rispetto ai canoni del marxismo a lui contemporaneo.

Con riferimento ai problemi della funzione e del funzionamento degli Stati, del ruolo del partito politico, del rapporto tra politica e ideologia da un lato ed economia dall’altro, la riflessione di Gramsci va ben oltre gli schemi classici della teoria di Marx e dei suoi

1Il 21 gennaio 1921, dalla frazione comunista al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, venne fondato a Livorno il Partito Comunista d’Italia, Sezione italiana della III Internazionale. Dopo lo scioglimento del Comintern (maggio 1943), il partito assunse la denominazione di Partito Comunista Italiano (PCI).

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epigoni: si apre a nuovi e più complessi scenari, introduce significativi elementi di discrimine. Beninteso, quella di Gramsci non è una versione democratica o liberale del comunismo: il suo pensiero, benché largamente influenzato dai filoni più interessanti della cultura nazionale ed europea, rimarrà saldamente ancorato ad una visione materialistica del mondo e della storia, per come essa era venuta inverandosi negli sviluppi del marxismo del suo tempo. Ciò che Gramsci innova nella cultura politica del movimento operaio è l’approccio a taluni problemi fondamentali, che, sia con Marx che con i suoi continuatori, erano rimasti ad uno stadio di formulazione semplificata, ameno rispetto alla complessità delle società capitalistiche più avanzate, Italia compresa.

«Io ritengo che in queste posizioni di Gramsci vi è già qualche cosa che non solo seleziona determinati aspetti del leninismo, e li privilegia rispetto ad altri, ma «forza» il loro senso, li sviluppa».

(Pietro Ingrao, Masse e potere)

Come abbiamo accennato, si tratta di problematiche che vanno dalla natura degli Stati al rapporto tra forza e consenso nella dinamica del potere; dal ruolo della cultura e degli intellettuali al profilo ed alla funzione del partito politico moderno. A proposito della conquista e dell’esercizio del potere, in particolare, Gramsci è ben conscio della differenza tra la Russia zarista del ’17 e i paesi più sviluppati dell’Europa occidentale.

«In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile».

(Gramsci, Quaderni dal carcere)

Questa consapevolezza lo porterà a riflettere profondamente sul problema della rivoluzione in Italia e sul ruolo del partito. E infatti, proprio a proposito delle difficoltà che un processo di trasformazione della società avrebbe presumibilmente incontrato in Italia, Gramsci formulerà la nota distinzione tra «guerra manovrata» e «guerra di posizione», ovvero tra la possibilità di una conquista rapida del potere, per via insurrezionale, e la necessità, decisamente più realistica, di una lunga lotta per l’egemonia, da combattere sul terreno delle idee e della cultura. In questo è evidente un ripensamento, in senso dialettico, del rapporto tra struttura e sovrastrutture: tale rapporto perde il connotato deterministico originario e assume quello di una proficua e più complessa circolarità.

«Gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno dell’ideologia»

(Gramsci, Quaderni dal carcere)

Il tema dell’egemonia è quello che maggiormente anima la riflessione gramsciana sul potere, segno di un’attenzione particolare che il politico sardo rivolge alla questione culturale, nell’ambito della sua visione dei processi di rinnovamento della società. Non è un caso che, in riferimento al partito, ribattezzato «moderno principe», con chiaro riferimento al più noto Principe di Machiavelli, insisterà molto sulla sua funzione egemonica, sul suo profilo di propugnatore ed organizzatore di una «riforma intellettuale e morale».

«Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna».

(Gramsci, Quaderni dal carcere)

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Da reparto d’avanguardia del proletariato, come l’avevano concepito i suoi omologhi russi, il partito diventa in questo modo un grande «intellettuale collettivo», con una precisa funzione educativa-direttiva. Nelle condizioni date da una società articolata e complessa come quella italiana, per Gramsci diventa fondamentale un ripensamento della funzione del partito: non più un nucleo ristretto di «rivoluzionari di professione», ma un soggetto politico capace di incidere sui processi di acculturazione e di formazione delle idee. In questo senso la «riforma intellettuale e morale» avrebbe avuto una funzione propedeutica rispetto al rovesciamento dei rapporti economici e sociali.

Come si può notare il dato sovrastrutturale acquista in Gramsci un’inedita importanza: non è più considerato una mera proiezione di rapporti economici storicamente determinati, come la cultura marxista ufficiale lo aveva considerato fino ad un certo momento, bensì come un campo a cui la lotta politica dei comunisti avrebbe dovuto riservare la massima attenzione. Evidentemente non si trattava di una minima digressione dalla linea ortodossa del comunismo terzinternazionalista: l’importanza assegnata da Gramsci ai problemi culturali, agli orientamenti morali, alla formazione del senso comune, era direttamente collegata al peso che lo stesso attribuiva alla capacità egemonica del potere. In questo senso si spiega la sua rielaborazione del concetto di potere statale. Lo Stato moderno, per Gramsci, non è solo un insieme di «distaccamenti speciali» organizzati in funzione repressiva, ma un’entità complessa nella cui esperienza storica agiscono forza e consenso, dittatura ed egemonia, comando e direzione. Ed è proprio il tema del consenso, dell’integrazione consensuale delle masse nella vita pubblica, a spiegare perché il politico sardo insistesse tanto sulla necessità di una «riforma intellettuale e morale» che incidesse profondamente sulla coscienza collettiva del paese: la rivoluzione italiana intanto poteva esplicare la sua forza rinnovatrice, in quanto la sua azione fosse stata sostenuta da un profondo coinvolgimento culturale e morale delle masse popolari. Il che, è bene ricordarlo, costituisce un passo avanti anche rispetto alle convinzioni giovanili dello stesso Gramsci, in base alle quali ciò che contava, nella costruzione della «democrazia socialista», era soltanto, o semplicemente, la liquidazione degli istituti di rappresentanza e di direzione politica di matrice borghese.

«Questo nuovo governo proletario è la dittatura del proletariato industriale e dei contadini poveri (…). Il tipo di stato proletario non è la falsa democrazia borghese, forma ipocrita della dominazione oligarchica e finanziaria, ma la democrazia proletaria, che realizzerà la libertà delle masse lavoratrici; non il parlamentarismo, ma l’autogoverno delle masse attraverso i propri organi elettivi (…). La forma concreta dello Stato proletario è il potere dei consigli o di organizzazioni consimili».

(Gramsci, l’Ordine Nuovo)

Il contatto diretto con l’esperienza dei Consigli di fabbrica del biennio 1919-20, porterà Gramsci a ragionare molto in quel periodo sul futuro di tali organismi di direzione politica della classe operaia e sulla loro funzione in una società socialista. In essi, il politico sardo vedeva la cellula primigenia della futura organizzazione socialista della società. La dittatura del proletariato, secondo Gramsci, non poteva e non doveva essere imperniata sul primato del partito politico, bensì sull’autorganizzazione della classe operaia a partire dai luoghi di lavoro. I Consigli di fabbrica, in quest’ottica, assumevano la funzione di organismi di autogoverno della classe operaia, con funzione politica e di regolazione/gestione della «produzione materiale della vita», superando definitivamente la dicotomia tra capitale e lavoro e la stessa divisione sociale del lavoro che stava alla base dello sfruttamento nelle società capitalistiche. Non c’è dubbio che una simile visione dell’organizzazione della nuova società socialista si inscriveva, pur nella sua specificità, nel solco tracciato da Marx ed Engels a proposito del rapporto tra rivoluzione proletaria e nuovi assetti di potere. Una visione che, a rigor di critica, non concedeva nulla ai postulati fondamentali della concezione liberale dello Stato e dei suoi istituti di rappresentanza.

Come nella migliore tradizione del marxismo ortodosso, anche il giovane Gramsci

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pensava che la piena liberazione del proletariato dalla schiavitù salariale, passasse attraverso il superamento della divaricazione tra sfera del lavoro e della produzione da un lato e sfera della rappresentanza politica dall’altra. Pensava anch’egli, insomma, che le forme del politico nel sistema capitalistico assicurassero un’uguaglianza soltanto fittizia tra gli uomini, a fronte di una disuguaglianza di fatto degli individui nella società, frutto della divisione sociale del lavoro, di un modello economico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Attraverso la democrazia dei Consigli il contrasto tra uguaglianza nello Stato e disuguaglianza nella società sarebbe stato pertanto superato, ricondotto a sintesi. Proprio come nella precipua previsione marxiana, secondo la quale una nuova società di «liberi produttori associati» avrebbe soppiantato la falsa democrazia di matrice borghese. Una questione ancora aperta, a ben vedere, nonostante alcuni tentativi molto avanzati in tal senso nel secolo scorso, che meriterebbero comunque di essere studiati, per comprenderne aspetti positivi e negativi2. Ad ogni buon conto, questa elaborazione sui Consigli di fabbrica risale agli anni della sua militanza torinese, dell’Ordine Nuovo, mentre nella sua riflessione successiva, trasfusa nei Quaderni, il tema della democrazia consiliare non troverà più molto spazio. Il pensiero si farà più complesso. E a proposito dello Stato, in esso ci sarà spazio anche per importanti distinzioni tra le varie forme che lo stesso può assumere in determinati contesti e sotto l’impulso di determinati rapporti di forza nella sfera politica e in quella civile. Una cosa è lo Stato «veilleur de nuit» («corrispondente all’italiano Stato carabiniere», che secondo Gramsci non è mai esistito se non «sulla carta»), un’altra è lo «Stato intervenzionista» (che avoca a sé la «protezione delle classi lavoratrici contro gli eccessi del capitalismo»), o quello «etico» o, ancora, quello

«indifferente», sembra voler dire Gramsci nei Quaderni, anticipando i termini di un dibattito che ancora oggi non si è concluso. Ciò non toglie che anche nella complessa articolazione dei suoi scritti dal carcere, la critica al parlamentarismo ed alle forme della rappresentanza in regime capitalistico sia facilmente riscontrabile, sebbene in forma dubitativa.

«È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del parlamentarismo che del regime burocratico, con un nuovo tipo di regime rappresentativo».

(Gramsci, Quaderni dal carcere)

Su un punto, tuttavia, non possono esserci dubbi: la ricchezza del pensiero di Gramsci è apprezzabile a prescindere dalla congiuntura culturale e politica che, per molti versi, lo ispirò. Come nel caso di altri classici del pensiero politico, le categorie, gli spunti, le interpretazioni che esso offre, costituiscono un patrimonio la cui valenza, scientifica e politica, travalica i confini temporali e spaziali in cui hanno trovato la loro gestazione. A parte l’interesse scientifico, ancora oggi molto vivo, per la sua opera, non si deve dimenticare che il contributo di quest’ultima alla definizione del profilo identitario ed organizzativo del PCI fu assolutamente decisivo. Si potrebbe dire, al riguardo, che gli elementi più originali, più innovativi e vitali, del suo pensiero andranno a costituire l’armatura basilare del partito nuovo nel Secondo dopoguerra. Come per una eterogenesi dei fini, la sua elaborazione teorica, i suoi spunti politico-culturali, maturati nella particolare temperie europea a cavallo tra le due guerre, proprio nel solco tracciato, anche sul versante dottrinale, dalla Rivoluzione d’Ottobre, troveranno una proficua applicazione nell’ambito della strategia che il PCI decise di adottare con l’avvento della democrazia e della Repubblica e che non conobbe soluzione di continuità per tutti gli anni della sua storia.

2 Il tentativo più concreto di costruire una società socialista fondata sull’autogestione operaia è stato quello portato avanti

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Togliatti e il «partito nuovo»

Non c’è dubbio che il PCI sia stato, con una certa coerenza almeno fino ai primi anni settanta, parte integrante del movimento comunista internazionale, che aveva nell’Unione sovietica e nell’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, il suo punto di riferimento storico- politico e ideologico, la sua radice fondante. Un’ovvietà, si potrebbe dire. Altrettanto vero è che, a guerra non ancora conclusa, segnatamente con il ritorno di Togliatti in Italia nel 1944, il Partito Comunista Italiano abbia profondamente rinnovato la sua strategia di lungo periodo, ragionando sulla necessità di inserirsi pienamente nel sistema democratico in formazione, adeguandosi sia organizzativamente che culturalmente alla nuova evenienza.

La «svolta di Salerno» non fu un espediente tattico per prendere tempo, in attesa del momento propizio per la rivoluzione, per l’instaurazione in Italia di un regime politico sul modello sovietico. No. Si trattò di una svolta vera, con implicazioni importanti sia sul piano teorico e programmatico che sul piano organizzativo. L’idea di Togliatti, che alla lunga si rivelerà vincente e, fino ad un certo momento, di grande forza propulsiva, era quella di costruire nel nostro paese un partito di massa che, sebbene regolato da una forte disciplina interna, avesse la capacità di attrarre sui contenuti della sua politica porzioni molto larghe della società italiana. Un partito che, pur non perdendo la sua natura classista, sapesse coniugare conflitto sociale e politica istituzionale, radicamento municipale e autonoma rappresentanza di classe.

Un partito nuovo insomma, non un nuovo partito, che non si limitasse alla protesta ed alla propaganda, isolato dalle dinamiche della politica nazionale, ma capace di incidere nella

«vita del paese», attraverso una presenza capillare nei luoghi di lavoro, nei grossi centri come nei piccoli villaggi, nelle amministrazioni locali e nei luoghi della formazione e della produzione culturale. Da piccola avanguardia di rivoluzionari professionali, di agitatori semiclandestini, il PCI sarebbe dovuto diventare un grande partito popolare, di quadri e di massa, aperto a tutti i lavoratori che ne avessero accettato il programma, anche a prescindere dalle personali convinzioni filosofiche e religiose. Un auspicio che con gli anni divenne realtà. E ’solo il caso di ricordare, a tal propositivo, che ancora agli inizi degli anni Ottanta questo partito contava un milione e mezzo di iscritti. Nel 1946 erano arrivati a più di due milioni. Numeri che non hanno eguali se rapportati alla consistenza degli altri partiti comunisti del mondo occidentale. Non c’è dubbio che un partito di questo tipo era pensato per concorrere a determinare la politica nazionale, nel quadro di una democrazia costituzionale pluripartitica. E il gruppo dirigente del PCI non ne faceva mistero.

«L’obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo…Una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; le libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè del grande capitalismo monopolistico. Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito. In una parola nell’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana».

(Togliatti, Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana del 1 aprile 1944)

La «via italiana al socialismo» sarebbe stata caratterizzata dunque dalla piena accettazione dei principi, delle regole, degli istituti della democrazia costituzionale appena conquistata. Una democrazia pensata come «progressiva», che, a partire dai principi espressi nella nuova Carta costituzionale, fosse strumentale alla realizzazione di una serie di riforme strutturali dell’assetto economico e sociale italiano, che favorisse l’accesso delle masse popolari alla direzione economica e politica del paese.

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Quando si parla di «costituzione-programma», a proposito della Legge fondamentale italiana, ci si riferisce proprio a quella sua peculiarità di non limitarsi alla fotografia dell’esistente, alla sua caratteristica di promuovere per di più la trasformazione della realtà, con l’indicazione degli obiettivi da raggiungere e degli strumenti da utilizzare a tale fine. Non c’è dubbio che tale impostazione programmatica della Carta costituzionale abbia risentito anche della visione «progressiva» della nuova democrazia repubblicana, per come essa fu concepita dai comunisti in quella temperie. Non solo: essa conferma il carattere non tattico della svolta impressa da Togliatti al PCI dopo il suo ritorno in Italia.

«Ma quale Costituzione dobbiamo avere noi? Riconosciamo prima di tutto che grandi conquiste rivoluzionarie da sancire in un documento costituzionale dello Stato non ne abbiamo ancora realizzate, anche se nuove esigenze di giustizia e di rinnovamento sociale vengono vigorosamente affermate dalla coscienza degli strati più avanzate del popolo, da operai, intellettuali, contadini.

Quanto alla tradizione, vi sono scarsi appigli nella tradizione costituzionale del Risorgimento e il nostro Statuto attuale è documento di un liberalismo stentato e di evidente ispirazione legittimistica e conservatrice, che i costituzionalisti meno arretrati si sono sforzati di coprire parlando di costituzione di tipo elastico. Purtroppo, l’elasticità era così grande, che anche il fascismo ci potè entrare. (…) Abbiamo bisogno di una costituzione che seppellisca per sempre un passato di conservazione sociale e di tirannide reazionaria, (…) quindi di una costituzione la cui originalità consisterà nell’essere, in un certo senso, un programma per il futuro».

(Palmiro Togliatti, Relazione al V Congresso nazionale del PCI, Roma, 29 dicembre - 6 gennaio 1945)

La Rivoluzione d’Ottobre rimaneva un punto di riferimento importante, per certi versi ancora fondante del partito nuovo, ma i comunisti italiani, nell’assumerne il valore storico e simbolico, ne prendevano anche le distanze per quanto concerneva l’ordinamento statale che da essa ne scaturì. La sostanziale accettazione del gioco democratico, il ripensamento del partito, anche sul piano organizzativo, costituivano di fatto una rottura secca con il modello statale sovietico, monopartitico e autoritario.

Si è molto parlato di «doppiezza» a proposito dell’atteggiamento di Togliatti e del PCI nei confronti, distintamente, della democrazia italiana e del modello sovietico di transizione al socialismo. In quell’espressione non c’è dubbio che ci sia un fondo di verità. Tuttavia sarebbe sbagliato, profondamente sbagliato, leggere quell’apparente contraddizione come il segno di un’adesione opportunistica, ambigua e tattica, del PCI al nuovo corso democratico italiano. Piuttosto, la stessa andrebbe letta, anche alla luce della successiva evoluzione del partito, come il portato di una mediazione possibile tra l’appartenenza ad un movimento internazionale in cui l’Urss giocava un ruolo di leadership e la presa d’atto dell’impossibilità, oltre che dell’inopportunità, di applicare all’Italia un certo modello di organizzazione dello Stato e dell’economia. Una considerazione, questa, che trova conferma anche nelle ultime riflessioni di Togliatti, quelle, per intenderci, del memoriale scritto a Yalta, prima della morte improvvisa nell’agosto del 1964. In esso, a parte le considerazioni sui rapporti all’interno del movimento comunista internazionale e le preoccupazioni sull’unità dello stesso, ciò che risalta e dà forza al nostro ragionamento è la sottolineatura dell'originalità e della diversità delle vie che avrebbero portato alla costruzione di società socialiste nei vari paesi del mondo, Italia compresa.

«Una più profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica di accesso al socialismo, ci porta a precisare che cosa noi intendiamo per democrazia in uno stato borghese, come si possono allargare i confini della libertà e delle istituzioni democratiche e quali siano le forme più efficaci di partecipazione delle masse operaie e lavoratrici alla vita economica e politica. Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura»

(Togliatti, Promemoria di Yalta)

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Questo passo del memoriale merita un supplemento di approfondimento, perché in esso sono chiaramente esplicitati i convincimenti di Togliatti sul rapporto tra il PCI e la democrazia in Italia. Parafrasando il testo, si può così sintetizzare il ragionamento del segretario del PCI: la conquista del socialismo da parte delle classi lavoratrici italiane dovrà avvenire pacificamente, allargando la base democratica dello Stato, guadagnando, con la lotta politica, spazi di potere nell’ambito delle istituzioni date.

Strategicamente i comunisti non si danno come obiettivo l’abbattimento dello Stato borghese, ma la sua progressiva riforma, per consentire alle masse popolari di esserne effettivamente protagoniste. Ciò che vale la pena rilevare è che tali scelte segnarono una rottura di fatto, sia con il modello sovietico di organizzazione della società, dell’economia e dello Stato, sia con i fondamentali della teoria marxiana della storia. Anche solo come prospettiva teleologica, i temi della dittatura del proletariato e del superamento dello Stato, perdevano ogni importanza, a favore di una nuova visione dello sviluppo socialista della società, che, anche in termini strategici, assumeva le istituzioni democratiche come luogo di elezione della lotta politica. Non solo: la democrazia, secondo questa impostazione, diventava il fine della lotta dei comunisti, essendo il suo progressivo sviluppo la condizione necessaria per l’avanzamento dell’intera società, anche sul piano delle conquiste economiche e sociali. Si potrebbe dire che la lotta per il socialismo, secondo questa visione, finiva per coincidere con la lotta per l’allargamento della democrazia, fino alla fera economica e dei rapporti di produzione, per la piena attuazione dei principi della Costituzione repubblicana, che, per quanto avanzata, rimaneva pur sempre la costituzione di un paese capitalistico. Una linea che caratterizzerà la storia del PCI per tutti gli anni della sua lunga vita, senza significativi scostamenti. Nemmeno le correnti di sinistra interne al partito, al di là di una diversa interpretazione del capitalismo italiano, fuoriuscirono mai da tale schema, fatta salva la riflessione originaria del gruppo de Il Manifesto sulla “funzione politica” dei (ri)nascenti Consigli di fabbrica alla fine degli anni Sessanta.

«Qui bisogna uscire da un’ambiguità, che invece non è stata sciolta dai compagni del Manifesto, i quali pure si richiamano continuamente ad un rigore di analisi. Debbono essere — come a me sembra, come mi sembra proponga il partito — nuovi organi di lotta contro lo sfruttamento e contro l’organizzazione capitalistica del lavoro nella fabbrica. Oppure debbono operare e svilupparsi come

“soviet”, cioè come organi di classe che divengono o tendono a divenire, essi stessi, la struttura del nuovo potere statale?»

(Pietro Ingrao, Intervento al Comitato centrale del PCI, ottobre 1969)

«(…) costruire una democrazia politica che sia in grado non solo di intervenire nell’economia a fini perequativi o solidaristici, ma anche di mutare i rapporti di produzione e più ancora di operare un mutamento delle classi dirigenti».

(Pietro Ingrao, Masse e potere)

Questa impostazione, nei primi anni Settanta, finirà però per tradursi in un ripiegamento tout court sul «primato della politica» e delle «alleanze», ai fini di un «governo dall’alto» di processi trasformativi possibili nella sfera economica e nei rapporti sociali.

«Di qui l’insistenza nostra sulla necessità di investire contemporaneamente i momenti della struttura e della sovrastruttura, sulla necessità di porre la politica al primo posto, di verificare i contenuti e l’efficacia degli obiettivi di riforma con l’allargamento delle alleanze, della democrazia (…)».

(Enrico Berlinguer, Relazione al XIII Congresso nazionale del PCI, Milano, 13-17 marzo 1972)

Era nell’ordine delle probabilità questo approdo, stando alle premesse del partito nuovo e della «via italiana al socialismo». La stessa politica del «compromesso storico», ovvero l’idea di una nuova collaborazione tra comunisti e DC al governo del Paese, discendeva,

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mutatis mutandis, da quegli stessi presupposti. Lo sviluppo ed il rinnovamento della democrazia, politica ed economica, dentro la cornice della Carta del ’48, richiedevano una più larga partecipazione delle masse popolari alla direzione del Paese. E questo poteva avvenire soltanto dall’incontro tra masse comuniste, socialiste e cattoliche, ovverosia tra i loro partiti.

«Con la politica del «compromesso storico» il movimento operaio dimostra di intendere la democrazia non più come strumento per la conquista del potere, ma come la forma normale dello Stato, la quale consente e pretende il dispiegamento della funzione egemonica della classe operaia nella gestione del potere».

(Franco Rodano, Questione democristiana e compromesso storico)

Purtroppo, l’idea della «politica al primo posto», una volta abbandonata ogni prospettiva di cambiamento reale della società, diventerà negli anni successivi solamente aperto politicismo, fino alla definitiva dissoluzione del partito. Quando Berlinguer, a partire dal 1980, girò le spalle alla prospettiva del governo con la DC e iniziò a parlare di «alternativa democratica» non uscì dal binario della «politica al primo posto», puntò semplicemente su altri «alleati». La «via italiana al socialismo» era diventato ormai un vicolo cieco. Difficile dire se negli anni Ottanta il partito fosse ancora in grado di ripensarsi e di ripensare la sua strategia di medio periodo, e soprattutto se ci fosse la volontà politica di procedere in questa direzione. Forse no, non più. In ogni caso la caduta del Muro di Berlino suonò come l’ora del becchino anche per PCI, nonostante la sua storia fosse stata quella di un partito che i conti con la democrazia li aveva fatti già dopo la caduta del fascismo, molti decenni prima.

Quanto «comunista» fu il PCI?

Viene da chiedersi, a questo punto, quanto «comunista» sia stato il PCI. Se in politica, come nella vita in genere, le parole traggono il proprio significato sia dalla loro capacità di indicare oggettivamente una data realtà, un’idea, una situazione, sia dall’uso che storicamente se n’è fatto, nel caso del PCI potremmo affermare che l’aggettivo

«comunista» risulta troppo stretto per definirne la vera identità o, comunque, a riassumerne la sua storia complessa ed originale. Paradossalmente, provocatoriamente, si potrebbe dire, se si prescindesse dal quadro delle relazioni internazionali, dal legame con le esperienze del socialismo cosiddetto «reale», che la storia del PCI del secondo dopoguerra dovrebbe essere letta come la storia di una formazione politica post- comunista che, nei fatti, aveva compiuto uno strappo con la prospettiva marxiana di transizione al socialismo già con la svolta del 1944, occupando «passivamente», dall’opposizione, lo spazio politico che in altri paesi dell’Europa occidentale hanno occupato per decenni le socialdemocrazie.

Non è difficile comprendere che lo sviluppo di rapporti economici e sociali più avanzati nel quadro della democrazia costituzionale di origine borghese era una cosa molto diversa dall’autogoverno dei produttori di matrice marxiana, dove la sfera del politico, nella sua forma astratta e «alienata», avrebbe praticamente cessato di esistere. D’altro canto, l’accettazione delle regole della democrazia borghese implicava anche, inevitabilmente, l’accettazione della divisione in classi della società, per quanto lo Stato potesse addolcirne i contorni, promuovendo, sulla base di un compromesso tra capitale e lavoro, un allargamento della base del benessere ed una maggiore estensione dei diritti sociali. Non che nelle cosiddette «democrazie popolari» dell’Europa orientale, in Cina, a Cuba, nella stessa Unione Sovietica il problema fosse stato risolto. Tutt’altro: in questi paesi, fatte le dovute differenze, l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non si

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della vita» attraverso nuovi organismi di autogoverno, accentuerà sempre più, negli anni, fino a livelli insopportabili, il suo carattere di separatezza rispetto al resto della società.

Nondimeno, ancorché nella loro forma autoritaria, perfino con cadute grottesche in certi casi, questi esperimenti sono stati il volto che il comunismo ha assunto laddove i comunisti sono arrivati al potere. Tutto da buttare? No, piuttosto sarebbe venuto il momento di un approccio più sereno a questa storia, che non fu soltanto una storia di ombre e di fallimenti. Il PCI fu dentro e fuori questa storia. Dentro per affiliazione al comunismo internazionale, fuori per la sua strategia politica sul piano nazionale.

Con il suo scioglimento nel 1991, si ebbe in ogni caso una rottura radicale, definitiva, anche con una certa visione critica dei rapporti economici e sociali capitalistici, che, a ben vedere, aveva resistito a tutte le altre «svolte» ed a tutti gli altri «strappi» del passato.

Infatti, sia la «svolta di Salerno» che gli «strappi» berlingueriani, non misero mai in discussione l’orizzonte del socialismo, nonostante la continua ricerca, sul piano teorico, di spunti per l’elaborazione di una specifica «via nazionale» al conseguimento di tale obiettivo. La stessa opzione eurocomunista della metà degli anni settanta, che vide il PCI di Enrico Berlinguer protagonista, insieme ai principali partiti omologhi dell’Europa occidentale, di un tentativo di ripresa di un’autonoma strategia politica di medio e lungo periodo dei comunisti europei, nel mentre cercava di formalizzare un chiaro distacco dal modello socialista di stampo sovietico, non rinunciava a rilanciare la sfida per una riforma strutturale dell’organizzazione capitalistica della società e dell’economia, andando oltre il compromesso socialdemocratico ormai in crisi, dopo le stagioni del successo degli anni Cinquanta e Sessanta.

Col XIX congresso di Bologna nel 1990 e poi con il XX congresso che si svolse a Rimini l’anno successivo, si scelse invece di recidere il rapporto, anche nominalmente, con una tradizione che, nella diversità, aveva tenuto in vita per quasi un cinquantennio l’idea di un possibile approdo ad una società diversa da quella data. Lo scioglimento del PCI, peraltro, non aprì la strada alla rifondazione di una sinistra nuova, autonoma, del ventunesimo secolo. Non ci fu un «nuovo inizio», per usare le parole del fautore della «svolta», Achille Occhetto, ma una resa definitiva al capitalismo nella sua versione neoliberista. Né, sul versante di coloro che non accettarono la liquidazione del PCI e andarono via per fondare un nuovo partito, c’è mai stata una vera «rifondazione», sul piano teorico, dell’opzione comunista. Il comunismo è stato un fatto storico e un’organica concezione del mondo e della stessa storia. Per quanto si vogliano distinguere singole esperienze nell’ambito della vicenda che lo ha riguardato nel corso di oltre un secolo di storia mondiale, resta il fatto che qualsiasi richiamo ad esso, nel tempo presente, non può eludere il dato problematico della sua essenza sia ideologica che storico-materiale. Non ce la si può cavare contrapponendo al comunismo quale fenomeno storico un comunismo immaginario, immacolato, ancora di là da venire. Un comunismo senza comunismo, insomma. Meglio sarebbe trasfondere e rielaborare in un nuovo pensiero critico dell’esistente gli elementi sia teorici che fattuali più vivi, ancora attuali, di quella storia. Senza necessariamente chiamarsi ancora «comunisti».

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Riferimenti bibliografici per le citazioni testuali

1) Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975.

2) Da Gramsci a Berlinguer, la Via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito Comunista italiano, Volumi II e III, Edizioni del Calendario, 1985.

3) L’Ordine Nuovo, 1919-1920/1924-1925, Milano, Edizioni del Calendario,1969.

4) Pietro Ingrao, Masse e potere, Roma, Editori Riuniti, 1977.

5) Franco Rodano, Questione democristiana e compromesso storico, Roma, Editori Riuniti, 1977.

Luigi Pandolfi

Giornalista, divulgatore scientifico, scrive di economia e politica su vari giornali, riviste e web magazine. Collabora con “il manifesto”. Tra i suoi libri, “Destra, correnti ideologiche e temi culturali nell’Italia repubblicana” (2000); “Un altro sguardo sul comunismo, teoria e prassi nella genealogia di un fenomeno politico”

(2011); “Lega Nord. Un paradosso politico in 5 punti e mezzo” (2011); “Crack Italia.

La politica al tempo della crisi” (2012). A gennaio 2020 è uscito per “manifestolibri”

il suo nuovo libro “Metamorfosi del denaro. Perché una risorsa della società non può rimanere solo un affare privato”.

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