Università degli Studi di Genova Scuola di Scienze Mediche e Chirurgiche
Corso di Laurea Magistrale in Odontoiatria e Protesi dentaria
Coordinatore: Char.ma Prof.ssa Maria Menini
Tesi di Laurea
Nuovi impianti a cuneo in odontoiatria
Relatore:
Prof. Stefano Benedicenti
Candidato:
Federico Rebaudi
Anno Accademico 2020/2021
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Ringraziamenti
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nella stesura della tesi con suggerimenti, critiche ed osservazioni: a loro va la mia gratitudine.
Ringrazio anzitutto il Professor Stefano Benedicenti, Relatore, ed i medici che hanno partecipato allo studio clinico di questo elaborato: senza il loro supporto e la loro guida sapiente questa tesi non esisterebbe.
Un ringraziamento particolare va ai colleghi ed agli amici che mi hanno incoraggiato e a tutti quelli che hanno incrociato la loro vita con la mia lasciandomi qualcosa di buono.
Vorrei infine ringraziare le persone a me più care: i miei amici in particolar modo
Tomaso, Andrea e Tommaso che a loro modo mi hanno aiutato in questo
percorso a cui devo la maggior parte delle mie risate in questi anni. La mia
famiglia, in ogni momento mi è stata vicina e mi ha sempre supportato in ogni
scelta. L’instancabile aiuto di mia mamma Federica, la passione per questa
disciplina trasmessa da mio padre Alberto ed il costante confronto costruttivo con
mio fratello Bigi. I miei zii Lillo, Paco, Kiki guide sicure su cui poter contare. I miei
nonni Maria Beatrice, Lucietta e Mario che in ogni modo hanno sempre cercato
di spronarmi a fare del mio meglio. Il mio ringraziamento speciale a Giulia che è
sempre stata al mio fianco fin dai primi momenti di questo percorso e con cui ho
condiviso tantissimi bei momenti, oltre alla passione per questa materia, a loro
dedico tutto il mio lavoro.
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3 Sommario
Introduzione e scopo dello studio ... 5
Impianti endossei, storia e funzione... 5
Anatomia dell’osso ... 9
Fisiologia dell’osso ... 15
Legge di Wolff ... 15
Teoria Meccanostatica di Frost ... 17
RAP: Fenomeno di accelerazione locale ... 20
Osseointegrazione ... 22
Meccanismi regolatori dell’osso sulle superfici implantari ... 24
Adsorbimento proteico sulla superficie implantare ... 25
Aderenza cellulare ... 26
Produzione di fattori locali ... 26
Proliferazione ... 27
Differenziazione ... 27
Produzione di matrice ... 28
Meccanismo d’azione ... 29
Effetti superficiali sulla cicatrizzazione delle ferite e sulla successiva osteogenesi in vivo ... 30
Evoluzione della preparazione del sito implantare ... 35
Ultraosseointegrazione ... 36
Criteri di successo degli impianti dentali ... 40
Creste sottili, mancanza di volume osseo sufficiente per l’implantologia. Introduzione di un nuovo tipo di impianto cuneiforme e di un protocollo di preparazione del sito dedicato. ... 42
Evoluzione del disegno implantare ... 44
Progetto per un nuovo impianto a sezione rettangolare rispondente alle richieste cliniche in creste sottili. ... 48
Protocollo Chirurgico: tecnica di preparazione del sito implantare per perforazione ... 54
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Protocollo chirurgico: Tecnica di Preparazione del Sito Implantare perEspansione ... 58
Scelta della tecnica di preparazione del sito implantare: perforazione vs. espansione... 59
Materiali e Metodi ... 60
Rex PiezoImplant Study (RPS) ... 60
Risultati ... 61
Discussione ... 67
Conclusioni ... 69
Descrizione Caso Clinico ... 72
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Introduzione e scopo dello studioQuesta tesi tratta di un nuovo impianto dentale a forma di cuneo con sezione rettangolare e delle sue possibili applicazioni in odontoiatria. Alla base del progetto che ha portato alla realizzazione di un impianto cuneiforme, vi è l’esigenza di risolvere, con un approccio poco invasivo, il problema del trattamento delle creste sottili. Infatti i protocolli attuali suggeriscono, quando la larghezza della cresta ossea è insufficiente, di applicare procedure di aumento di volume osseo precedentemente o contestualmente all’inserimento dell’impianto. Questi interventi sono considerati necessari per assicurare la lunga durata di una terapia implantare ma comportano rischi aggiuntivi rispetto alla sola terapia implantologica oltre a causare un allungamento dei tempi della terapia e un aumento della morbilità per il paziente. L’ipotesi di utilizzare un impianto a cuneo di spessore sottile, si basa sulla possibilità di ottenere l’osseointegrazione con un metodo press fit, sfruttando le proprietà meccaniche e fisiche di un impianto in titanio a forma di cuneo che può essere stabilizzato a pressione in un materiale a consistenza visco elastica, che è l’osso. Questo può avvenire sfruttando lo spessore di osso nativo disponibile senza dover eseguire alcun aumento di volume, mantenendo sufficiente osso attorno all’impianto, riducendo invasività, morbilità, tempi e costi della terapia. Infatti il cuneo può entrare nell’osso ottenendo la stabilità primaria necessaria per l’osseointegrazione e contemporaneamente può espandere la stessa cresta aumentandone la larghezza con un intervento poco invasivo ma che fornisce benefici estetici e funzionali.
Relativamente allo spessore della cresta ossea, occorre considerare che un impianto dentale necessita di almeno un millimetro di osso intorno a tutta la sua circonferenza per puntare ad un successo a lungo termine. Quando l’osso peri-implantare è troppo sottile, esiste infatti un rischio di perdita ossea, che può causare una deiscenza con esposizione della spira della vite, e conseguente contaminazione batterica predisponente al rischio di infezione peri-implantare.
Lo spessore minimo di una cresta ossea residua sufficiente per l’inserimento di un impianto a vite di 4 mm di diametro è considerato essere di 6 mm. Questo è riportato in moltissimi articoli scientifici e prescritto come requisito essenziale nelle stesse istruzioni di utilizzo degli impianti dentali di tutte le aziende implantari. Purtroppo, non è sempre possibile avere a disposizione una cresta ossea di 6 mm o più di spessore perché dopo la perdita dei denti, l’osso eutrofico della cresta alveolare, tende ad assottigliarsi con il trascorrere delle settimane. Se la cresta è più sottile di 6 mm è teoricamente possibile mantenere sufficiente osso attorno all’impianto riducendone il diametro ma gli impianti a vite di piccolo diametro (al di sotto dei 3.5 mm), hanno dimostrato di essere fragili e non adatti ad essere posizionati in zone della bocca posteriori dove i carichi sono consistenti.
Studi anatomici e osservazionali dimostrano la riduzione volumetrica dell’osso di vario grado dopo la perdita dei denti e estrazioni dentali, dovuta a fenomeni di atrofia. L’atrofia della cresta ossea, si ritiene ascrivibile alla perdita del ricco letto vascolare parodontale ed è aggravata dalla conseguente riduzione del carico funzionale.
Il vantaggio principale di avere a disposizione un impianto a forma di cuneo è quello di poter ottenere una sicura stabilità primaria all’inserimento forzato del cuneo nell’osso.
Inoltre l’impianto a cuneo ha una sezione molto più sottile in spessore rispetto a quello a vite a sezione circolare, e questo permette di ottenere una maggior quantità di osso nei versanti vestibolare e linguale. a parità di superficie di contatto osso-impianto.
Il razionale alla base della creazione di questa nuova forma implantare è stato quello di cercare di sfruttare le caratteristiche anatomiche e biologiche della cresta ossea residua
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per l’inserimento di un impianto che potesse al tempo stesso funzionare come pilastro protesico e come elemento di stimolo ai tessuti per favorire funzione e durata della riabilitazione rispettando i seguenti punti:• Evitare l’innesco di ulteriori fenomeni di atrofia limitando la preparazione del sito il più possibile alla spongiosa dell’osso, per ridurre al minimo l’interessamento delle corticali
• Sfruttare le proprietà della preparazione del sito con gli ultrasuoni per accelerare la guarigione attorno al sito implantare preparato nell’osso
• Sfruttare gli effetti biologici della deformazione ossea generata dall’inserimento forzato di un cuneo nell’osso, per aumentare la densità ossea e lo spessore della cresta
• Utilizzare un disegno implantare adatto ad assorbire i carichi funzionali e a distribuirli uniformemente all’osso peri-implantare. Questo può avvenire grazie a scanalature orizzontali atte a una migliore distribuzione del carico funzionale alle corticali ed alle trabecole ossee.
Questo processo è favorito da un protocollo chirurgico ripetibile preceduto da una attenta programmazione dell’inserimento che tenga conto delle variabili anatomiche e del progetto protesico. Uno dei punti fondamentali del sistema degli impianti cuneiformi è la sua inserzione nel rispetto dell’integrità del compartimento corticale dell’osso della cresta alveolare residua atrofica. Infatti il protocollo di preparazione del sito ed inserimento dell’impianto prevede che lo spazio delle corticali ossee vestibolare e linguale non venga invaso dalla preparazione del sito implantare, almeno nella sua porzione coronale. La totale integrità della corticale e della sua delicata vascolarizzazione evita così di generare ulteriori fenomeni di atrofia e predispone ad una guarigione ottimale, requisito essenziale per mantenere uno spessore adeguato dell’osso peri-implantare nel tempo.
La preparazione ultrasonica del sito penetra in profondità nell’osso spongioso con sottili strumenti da taglio, associati alla cavitazione di soluzione fisiologica irrigante che distacca l’endostio dalle trabecole ossee denudandole ed esponendo la superficie ossea al coagulo ematico. Questa azione potrebbe favorire uno stimolo ad una guarigione accelerata secondo i principi del RAP (Regional acceleratory Phenomena). Inoltre, il successivo inserimento dell’impianto a forma di cuneo in una sottopreparazione ossea spinge uniformemente le corticali ad allontanarsi lateralmente allargando la cresta ossea con beneficio funzionale ed estetico ed un ulteriore stimolo per la funzione ossea. Infatti, l’applicazione di una deformazione delle pareti ossee del sito, mantenuta nel tempo dalla forma dell’impianto, potrebbe determinare una risposta biologica che tende a condurre all’inspessimento dell’osso secondo i principi della legge di Wolff e della teoria Meccanostatica di Frost.
Alla base di questa tesi, vi sono studi istologici su impianti sottoposti a carico ed uno studio osservazionale su un follow up clinico radiografico ed istologico su un gruppo di pazienti che hanno ricevuto impianti cuneiformi consecutivi. I risultati di questo studio fanno supporre che vi siano effetti biologici sui tessuti dovuti all’azione piezoelettrica della preparazione del sito e all’introduzione dell’impianto a cuneo.
Una nuova forma implantare che sfrutta questi benefici potrebbe essere una valida alternativa mini-invasiva per la riabilitazione delle creste sottili edentule che richiederebbero aumento di volume osseo per l’inserimento di impianti standard.
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Impianti endossei, storia e funzioneL’obiettivo dell’odontoiatria moderna consiste nel riportare il paziente ad una corretta funzione, estetica, fonetica, comfort e guarigione. Quello che rende unica l’implantologia è che permette di raggiungere questi scopi in pazienti con gravi atrofie o con gravi problemi dell’apparato stomatognatico, anche nei casi in cui altre tecniche protesiche da sole non lo permetterebbero (Tatum et al. 1988).
L’estetica di un paziente totalmente edentulo è inficiata da atrofia muscolare ed ossea.
Dopo la perdita dei denti, un continuo riassorbimento per atrofia determina irreversibili cambiamenti delle ossa mascellari e conseguentemente anche del volto. Tale riassorbimento colpisce prevalentemente l’osso alveolare e non coinvolge in maniera significativa l’osso basale dei mascellari, che lo sostiene.
È stato riportato che dopo l’estrazione di un elemento dentario il volume osseo perso in un anno è del 25%. Questo riassorbimento nel tempo può progredire e nei tre anni dopo l’estrazione può arrivare alla perdita del 40-60% in volume. Questo riassorbimento coinvolge in particolar modo la dimensione orizzontale dell’osso accompagnata successivamente da una perdita verticale(Carlsson et al.1967). Le ragioni fondamentali di questa atrofia dipendono dalla mancanza di stimoli biomeccanici dovuta al non uso e la scomparsa del ricco letto vascolare del parodonto. Una protesi implantare in molti casi ha dimostrato di stimolare l’osso, aiutandolo a ridurre la perdita ossea e quindi a mantenere la sua dimensione tridimensionale similmente alla funzione dei denti naturali (Reddy et al. 2002). La quantità e qualità di osso disponibile è una condizione essenziale per il corretto inserimento degli impianti endossei.
L’impianto endosseo è definito come un dispositivo costruito con materiale alloplastico che viene inserito chirurgicamente in una cresta ossea residua allo scopo di sostenere una protesi. Endosseo significa che durante la procedura chirurgica, l’impianto viene inserito all’interno dell’osso (Cranin 1990).
L’implantologia dentale è la seconda disciplina in odontoiatria per anzianità, la più antica disciplina fu la chirurgia estrattiva.
Già 4000 anni fa antichi popoli cinesi intagliavano bamboo e lo posizionavano all’interno dell’osso per sostituire denti mancanti, seguirono poi gli egizi 2000 anni fa che utilizzavano metallo per creare protesi dentarie.
Più recentemente nel 1809 fu Maggiolo(Maggiolo 1809) ad introdurre i primi impianti in oro a forma di radice dentale. All’inizio del 1900 furono testati moltissimi materiali come alluminio, argento, rame rosso, oro, fino ad arrivare al 1946 quando Strock disegnò il primo impianto dentale in titanio.
Nel 1952 Branemark iniziò importanti studi sperimentali sul midollo osseo poi applicati all’inizio degli anni ‘60 all’implantologia dentaria. I primi studi clinici su esseri umani con la filosofia Branemark iniziarono nel 1965 seguiti da 10 anni di follow up e pubblicati nel 1977 (Branemark 1977). Verso la metà degli anni ’70 Branemark, grazie alle conoscenze dell’osseointegrazione, ha sviluppato protocolli chirurgici-implantari in grado di garantire soddisfacenti percentuali di successo implantare, differentemente da quanto fatto da altri precedentemente.
BIBLIOGRAFIA:
• Branemark PI, Hansson BO, Adell R et Al: Osseointegrated implants in the treatment of the edentolous jaw: ecperiencefrom a 10-tear period, Scand J Plast Reconstr Surg Suppl 16:1-132, 1977
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• Carlsson GE, Bergman B, Hedegård B. Changes in contour of the maxillary alveolar process under immediate dentures. A longitudinal clinical and x-ray cephalometric study covering 5 years. Acta Odontol Scand. 1967 Jun;25(1):45- 75. doi: 10.3109/00016356709072522. PMID: 5233859.
• Cranin AN: Glossary of implant terms, J Oral Implant 16:57-63, 1990
• Maggiolo: manuel de l’art dentaire (Manual of dental art), Nancy, France, 1809, C Le Seure
• Reddy MS, Geurs NC, Wang IC, Liu PR, Hsu YT, Jeffcoat RL, Jeffcoat MK (2002). Mandibular growth following implant restoration: does Wolff's law apply to residual ridge resorption? Int J Periodontics Restorative Dent 22(4): 315-21.
• Tatum OH:The Omni implant system, Birmingham, Ala,1988, Alabama implant congress
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Anatomia dell’ossoIl tessuto osseo è costituito principalmente da fibre collagene immerse in una fase minerale e da cellule. La fase minerale è formata da cristalli di idrossiapatite orientati longitudinalmente alle fibre collagene e presenta una densità progressiva associata alla maturazione del tessuto. Le fibre collagene, invece, sono orientate nello spazio dal carico a cui il tessuto è soggetto durante la formazione o il rimodellamento. Sia la fase minerale sia quella organica sono coinvolte nella resistenza meccanica del tessuto. Al microscopio, la microstruttura ossea può apparire come un tessuto fibroso ovvero come un tessuto lamellare.
Il tessuto osseo fibroso (o a fibre intrecciate) è un tessuto immaturo che si rinviene durante la guarigione delle fratture e si presenta come una serie di fibre intrecciate nelle tre dimensioni dello spazio in maniera pressoché casuale (figura. 1). Le maglie di questa
“ragnatela tridimensionale” sono costituite da grosse fibre di collagene dallo spessore rilevante (5-10 micron di diametro). L’osso intrecciato è più elastico e meno consistente di quello lamellare a causa della minore quantità di minerali e della mancanza di un orientamento preferenziale delle fibre collagene. L’osso intrecciato è usualmente riassorbito e rimpiazzato nel tempo con osso di tipo lamellare.
Figura 1 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)
Il tessuto osseo lamellare forma l’osso maturo che deriva dal rimodellamento del tessuto fibroso o di osso preesistente. Rispetto all’osso intrecciato, è un tessuto più
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organizzato, con un orientamento ordinato e parallelo delle fibre collagene, che si dispongono in strati sovrapposti detti lamelle ossee. Tra una lamella e l’altra, piccoli spazi comunicanti tra loro (lacune) ospitano le cellule che, per mezzo di un sistema di canalicoli, entrano in contatto con le zone dell’osso dalle quali possono ricevere materiali nutritivi. Tra i due tipi di tessuto, il lamellare è il più diffuso e costituisce la quasi totalità dell’osso compatto e buona parte di quello spugnoso. I due tipi di tessuto osseo (lamellare e non lamellare) si distinguono, al microscopio, per la disposizione delle fibre collagene, ordinate nel primo tipo e non ordinate nel secondo. Negli adulti, tutto il tessuto osseo è di tipo lamellare, con una suddivisione in osso compatto e in osso spugnoso. La composizione di base è uguale, ma è diversa la loro architettura tridimensionale.L’osso compatto si trova principalmente nella mandibola e in misura minore nel mascellare (cortex). Formato da unità strutturali denominate osteoni, l’osso compatto si presenta con lamelle concentriche intorno a un vaso longitudinale* e viene detto sistema haversiano (figura 1). I vari sistemi osteonici comunicano tra di loro (anastomosi), con la cavità midollare e con la superficie libera dell’osso tramite canali disposti trasversalmente e obliquamente detti canali di Volkmann. Fra osteoni adiacenti si trova osso interstiziale Oi (figura 2).
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Figura 2 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)
Figura 3 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)
L’osso spugnoso (figura 3) si trova principalmente nel mascellare e in misura minore nella mandibola. È formato da trabecole ossee più o meno dense disposte spazialmente secondo linee di resistenza al carico. L’architettura del tessuto osseo è il risultato di un adattamento biomeccanico complesso su base genetica. I meccanismi di adattamento evoluzionistico-ambientale filogenetici e ontogenetici non sono i soli responsabili dell’architettura dell’osso; permane per tutta la vita una plasticità fenotipica particolarmente utile in odontoiatria.
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Figura 4 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)Il meccanismo fisiologico attraverso il quale il carico applicato all’osso viene “percepito”
dal tessuto vitale e trasmesso alle cellule che formano e riassorbono il tessuto stesso non è completamente chiaro. Osteoblasti e osteoclasti sono le cellule effettrici, responsabili del mantenimento dell’omeostasi e dell’adattamento della microstruttura del tessuto alla deformazione meccanica indotta dal carico occlusale. Le cellule meccano- sensoriali dell’osso, in grado di attivarsi sotto carico con un meccanismo di amplificazione del segnale mediato dalla deformazione della matrice ossea e dal relativo flusso di fluido nei canalicoli ossei, sono gli osteociti. Questi, immersi nella matrice mineralizzata dell’osso (figura 4) all’interno di lacune, sono interconnessi da molti processi citoplasmatici (circa 60 per cellula) e presentano una distribuzione spaziale tridimensionale con connessioni sia alla rete vascolare sia agli osteoblasti (sincizio osteocitico-vascolare). I processi citoplasmatici degli osteociti decorrono all’interno di canalicoli immersi in un fluido macromolecolare di composizione non definita, mentre le giunzioni fra le membrane cellulari sono del tipo gap junction.
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figura 5 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)Figura 5: Foto al SEM (15.000x) di un osteocita (**) all’interno di una lacuna ossea (Lo):
si notano prolungamenti citoplasmatici. La freccia bianca mostra un canalicolo osseo all’interno del quale si porta un prolungamento citoplasmatico (freccia nera).
Gli Osteoclasti sono cellule multinucleate di grandi dimensioni (50- 70um) dotate di un grande apparato di Golgi con numerosi mitocondri e un esteso reticolo endoplasmatico in grado di riassorbire il tessuto osseo mineralizzato. Gli osteoclasti attivati presentano una polarizzazione funzionale con un orletto a spazzola in contatto con l’osso. La membrana citoplasmatica dell’orletto aderisce all’osso attraverso i recettori delle integrine (vitronectina) formando una zona di chiusura (sealing zone). Il microambiente che si forma ha un pH acido per l’azione degli enzimi proteolitici lisosomiali coinvolti nella degradazione della fase minerale e organica dell’osso. L’ambiente acido è
generato dall’anidrasi carbonica di tipo II pompata fuori dal citoplasma degli osteoclasti dalle pompe protoniche. Quando, nel microambiente fra osso e orletto a spazzola, la concentrazione di Ca++ è elevata, la membrana degli osteoclasti si stacca e termina la funzione osteolitica. Quando gli osteoclasti abbandonano la superficie dell’osso
lasciano delle concavità denominate fossette di Howship (figura 6). La presenza di numerose fossette di Howship su una superficie ossea è segno di una precedente, intensa attività osteoclastica.
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Figura 6 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)Figura 6: Immagine al microscopio ottico (1200x) di un osteoclasta (Ost) durante le fasi di attivo riassorbimento osseo. Le frecce nere mostrano i limiti della fossetta di
Howship (azzurro II e fucsina acida). O, osso.
La microvascolarizzazione ossea riveste un ruolo di primo piano nell’omeostasi del tessuto (figura 7). La vascolarizzazione si riduce dell’80 per cento alla perdita dei denti, che è accompagnata dalla perdita del ricco letto vascolare parodontale. La perdita di trofismo che ne deriva innesca i noti fenomeni atrofici che portano l’osso alveolare alla nota atrofia post estrattiva progressiva con profonde modifiche anatomiche e del microcircolo. La micro-vascolarizzazione della corticale ossea, è un complesso tridimensionale formato da canali di Havers in genere paralleli tra loro, che seguono la direzione del flusso arterioso interconnessi da piccoli vasi anastomotici denominati canali di Volkmann. Il compartimento vascolare della corticale ossea, nell’uomo, ha poche afferenze da vasi perforanti periostali o endostali e pertanto risente in misura importante di ogni interruzione del flusso ematico. Pertanto, il compartimento corticale risulta un sistema autonomo dal punto di vista della nutrizione e ben distinto da quello dei tessuti circostanti come il connettivo circostante o dallo stesso osso spongioso dai quali è separato attraverso l’endostio o il periostio. La migrazione cellulare necessaria ai processi di modellamento e rimodellamento osseo si attua grazie alla presenza dei vasi sanguiferi.
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Figura 7 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)Figura 7: Foto al SEM (320x) della rete vascolare presente all’interno dell’osso mandibolare di cane: si notano numerose anastomosi vascolari (frecce bianche) e abbondanti osteociti presenti sia all’interno della matrice mineralizzata sia a ridosso dei vasi stessi (frecce nere).
Fisiologia dell’osso Legge di Wolff
Nel 1892, Julius Wolff sostenne che il rimodellamento osseo conseguente al carico meccanico era legato a leggi matematiche. La legge di Wolff sosteneva che: Ogni cambiamento nella forma e/o nella funzione dell’osso è seguito da variazioni sia dell’architettura interna sia della conformazione esterna dell’osso in pieno accordo con le leggi matematiche”.
Ciò sembrava suggerire che l'osso fosse adattabile ai carichi meccanici che creano sollecitazioni nella sua struttura. In realtà, l'interpretazione di Wolff era basata sull'osservazione e non su prove empiriche. La legge di Wolff divenne un'importante base concettuale per ulteriori lavori sperimentali che tentavano di identificare le regole matematiche da lui proposte. Il concetto importante che ha presentato in modo così chiaro fu che la struttura ossea può essere predetta utilizzando regole matematiche, basate su sollecitazioni meccaniche imposte alla struttura stessa.
Il paradigma che Wolff ha reso famoso è piuttosto semplice: lo stress meccanico a cui è sottoposto il tessuto osseo viene percepito in qualche modo dalle proprie cellule, che successivamente, agiscono depositando osso dove è necessario per prevenire fragilità o rimuovendo l'osso dove non è necessario.
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La legge di Wolff è essenzialmente un sistema di feedback negativo in cui un input meccanico (in questo caso, la deformazione) attiva le cellule ossee (osteoclasti e / o osteoblasti) per adattarsi al nuovo livello di deformazione. Ciò aumenta o diminuisce la massa dell'osso, che quindi regola la tensione (maggiore o minore) al nuovo livello di attività. Il feedback continua fino a quando la deformazione meccanica non torna all'interno della normale "finestra" di grandezza della deformazione.Figura 1e 2
Figura 3 e 4
Figura 1, 2, 3, 4: Bone Implant Contact (BIC) Micro CT 3D Results In Animals
Le precedenti immagini realizzate con sezioni microCT mostrano i risultati sull’osso peri- implantare di impianti sottoposti a trazione ortodontica controllata. Questi studi dimostrano che applicando forze adeguate di sovraccarico all’interno del range previsto dagli studi di Frost, è possibile ottenere un aumento di densità ossea attorno agli impianti. (SISBIO – studio non pubblicato- per gentile concessione del coordinatore dello studio, Dr. Alberto Rebaudi). Figura 1 e 2 impianto prima della trazione ortodontica.
Figura 3 e 4 impianto dopo la trazione ortodontica.
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17 Teoria Meccanostatica di Frost
Alla fine degli anni '80, Frost propose un modello concettuale, la Teoria Meccanostatica, per spiegare l'adattamento osseo in seguito a segnali meccanici. Frost concettualizzò l’adattamento osseo come un sistema a feedback negativo sostenendo che l’osso si adatta strutturalmente alle diverse esigenze attraverso meccanismi biologici differenti:
rimodellamento, modellamento e riparazione, nel contesto generale di quattro livelli (finestre) di stress meccanico con passaggi da una finestra all’altra segnati da intervalli di valori soglia di microdeformazione (microstrain). Ogni processo adattativo richiede per la sua attivazione il raggiungimento di un valore soglia di microdeformazione definito minimum effective strain (MES).
La teoria meccanostatica si basa su quattro principi fondamentali:
1. Una risposta viene stimolata solo quando lo stimolo di deformazione ossea è al di sopra o al di sotto di un certo punto di regolazione.
2. Sono definite quattro diverse finestre di utilizzo meccanico entro le quali l'osso si adatta a diversi processi biologici.
3. Modellamento e rimodellamento sono antagonisti. Operano all'interno di diversi intervalli di deformazione e hanno conseguenze architetturali distinte.
4. La formazione ossea è controllata, in parte, dalle condizioni locali.
Molti studi hanno dimostrato quanto sia importante l’ampiezza della deformazione ossea (strain) per una sua risposta. La maggior parte dei modelli concettuali sviluppati negli ultimi 30 anni che descrivono come l'osso risponde ai carichi, hanno utilizzato l'ampiezza della deformazione come iniziatore chiave della risposta scheletrica. Ciò è stato guidato in gran parte dagli esperimenti pionieristici di Lance Lanyon, che ha applicato estensimetri alle ossa di una varietà di animali che svolgevano attività diverse e ha effettivamente misurato la deformazione ossea. Questi studi hanno chiaramente dimostrato che i picchi di strain nell'osso erano simili tra le specie e le varie attività, portando all’ipotesi che l'osso debba adattarsi, almeno in parte, per controllare l'entità di questi strain. Inizialmente, sono stati utilizzati misuratori uniassiali; questi misuratori potevano misurare solo le deformazioni in una sola direzione. Successivamente, tuttavia, sono stati impiegati a questo scopo misuratori a rosetta multiassiali sovrapposti che potevano misurare la deformazione su tre piani e che consentivano il calcolo delle deformazioni massime di compressione e di trazione e le loro direzioni. Gli esperimenti che utilizzarono questi misuratori dimostrarono che le trabecole ossee sono orientate nella direzione dei principali strain di compressione e trazione. La dimostrazione di questi due principi chiave:
- l'uniformità del picco di tensione tra le specie e
- la corrispondenza tra l'orientamento trabecolare e le principali direzioni di deformazione
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è stata la chiave per identificare l'entità della deformazione (strain) come un regolatore dell'adattamento scheletrico all'ambiente meccanico. Negli esperimenti incentrati sull'ampiezza della deformazione non c'era una corrispondenza perfetta tra l'ampiezza della deformazione misurata sperimentalmente e le posizioni specifiche della formazione ossea. Questo, insieme ai modelli concettuali descritti da Harold Frost, suggerirono che la distribuzione dello sforzo all'interno della struttura scheletrica poteva essere più indicativa di dove si sarebbe verificata la formazione ossea piuttosto che la grandezza assoluta dello sforzo. Inoltre, questi esperimenti suggerirono che le attività che determinavano deformazione ossea distribuita in maniera insolita, anche se con strain non molto elevati, potevano determinare la neo-apposizione ossea.Nella teoria meccanostatica la risposta ossea ad uno stimolo meccanico è guidata da soglie di microstrain, queste soglie sono anche chiamate setpoint. Frost ha definito questi setpoint Strain minimi efficaci (MES). I setpoint sono probabilmente determinati da molti fattori nell'ambiente ormonale e metabolico e non dovrebbero essere visti come soglie fisse. La teoria Meccanostatica prevede soglie diverse per determinare perdita ossea netta, formazione ossea netta e riparazione ossea. Questi tre setpoint definiscono quattro “finestre” all'interno delle quali si verificheranno specifici processi di adattamento (Figura5).
Figura 5 (Immagine tratta da Burr, D.B. 2019 modificata)
Se lo stimolo meccanico è molto basso, cioè al di sotto del setpoint inferiore, verrà attivato il rimodellamento che determina la rimozione dell’osso non necessario e si verificherà una perdita ossea (BONE LOSS). Se lo stimolo è al di sopra di questa soglia,
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ma non sufficientemente alto da essere al di sopra di un setpoint superiore, il rimodellamento manterrà la massa ossea in equilibrio, rimuovendone un po’, ma aggiungendone quasi altrettanto (BONE MAINTENANCE). Questa è la finestra entro la quale il nostro osso funziona la maggior parte del tempo, perché è generalmente ben adattato al suo ambiente meccanico e non richiede grandi aggiustamenti per mantenere le deformazioni entro un intervallo accettabile. Tuttavia, se lo stimolo meccanico aumenta maggiormente, come negli esperimenti di Turner e in quelli di Rubin e Lanyon, verrà attivato il modellamento osseo che determina una formazione ossea netta (BONE GAIN). Se il carico è sufficientemente elevato da causare danni interni alla matrice ossea (microdanneggiamento della matrice o microfratture), verrà attivato il rimodellamento mirato specificamente alla riparazione del danno. In questo caso, il tessuto osseo può anche essere creato: mediante formazione ossea diretta su superfici preesistenti oppure de novo all'interno della cavità midollare, come il periostio che circonda l'osso (DAMAGE/REPAIR).Figura 6 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)
Figura 6: Finestra del disuso: l’osso esposto a un carico basso o assente presenta una deformazione molto bassa o assente e va incontro a un riassorbimento fino a che non viene raggiunto un nuovo equilibrio fra carico e deformazione. Finestra del carico fisiologico: l’osso esposto a un carico fisiologico presenta un continuo rimodellamento con raggiungimento dell’equilibrio di massa fra riassorbimento e formazione. Finestra del sovraccarico: l’osso esposto a un carico maggiore del limite fisiologico presenta una deformazione elevata e va incontro a un accrescimento della massa (corticalizzazione) fino a che non viene raggiunto un nuovo equilibrio fra carico e deformazione. Finestra della frattura: l’osso esposto a un carico maggiore del limite del sovraccarico si frattura e si riassorbe.
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20 RAP: Fenomeno di accelerazione locale
Il RAP è un fenomeno descritto da Frost nel 1983 (Frost 1983) è caratterizzato da un’accelerazione variabile da 2 a 10 volte del processo fisiologico di guarigione dei tessuti (sia molli sia duri). Potenzia la guarigione e incrementa le capacità difensive locali con un’azione pleiotropica caratterizzata da un aumento della perfusione, un’accelerazione del metabolismo e del turnover cellulare, incremento dei processi di guarigione e crescita, di modellamento, di rimodellamento e attività infiammatoria. Come conseguenza, causa segni clinici classici dell’infiammazione (edema, eritema e calore).
Per quanto riguarda il tessuto osseo, la risposta a un insulto di tipo chirurgico come un taglio o una perforazione della corticale che scende nella sottostante spongiosa, causa un picco di deposizione di osso a circa sei settimane dall’evento chirurgico. Lo schema della (figura 7) riassume l’interazione fra le moderne teorie sulla fisiologia del tessuto osseo e i processi di riparazione e adattamento.
Figura 7 (Immagine tratta da T.Traini 2012 modificata)
Figura 7: Rappresentazione schematica della fisiologia ossea. Il paradigma dello Utah affida un ruolo importante sia agli agenti non meccanici sia ai fattori meccanici nel determinismo dell’equilibrio fra salute e malattia dello scheletro attraverso la mediazione dei meccanismi biologici di modellamento e rimodellamento. Tale meccanismo di base presenta modulazioni da feedback continue che trovano la massima espressione nei processi rigenerativi e adattativi (ad es., dopo l’inserimento di un impianto sottoposto a carico) attraverso interazioni secondarie operate dal RAP e dai meccanismi dalla teoria Meccanostatica.
Il rimodellamento osseo La funzione principale del rimodellamento osseo è riparare le aree con microfratture da stress e di mantenere l’osso meccanicamente competente.
Il processo consiste nella rimozione del tessuto vecchio (maturo o a fibre intrecciate) e dal successivo rimpiazzo con nuovo tessuto di tipo lamellare. Il meccanismo prevede il reclutamento locale e l’attivazione di osteoclasti e osteoblasti. Il reclutamento e
l’attivazione possono essere accoppiati (coupled) quando si attivano
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contemporaneamente e mutualmente sia cellule osteoclastiche sia celluleosteoblastiche oppure indipendente (uncoupled) quando, viceversa, i processi sono autonomi e dissociati. Nell’osso corticale il rimodellamento avviene attraverso la formazione di osteoni secondari per opera di unità funzionali denominate BMU (basic multicellular units). Nell’osso trabecolare il processo è il medesimo ed è descritto come emiosteonico (Parfitt AM. 1996).
BIBLIOGRAFIA:
• Burr, D.B. (2019). Basic and applied bone biology. London: Elsivier. Chapter 11
“Mechanical Adaptation”
• Frost HM. The regional acceleratory phenomenon: a review. Henry Ford Hosp Med J 1983;31(1):3-9.
• Microstruttura e funzione del tessuto osseo. Parte I: meccanismi di adattamento June 2012 Italian Oral Surgery 11(3):80, 83–84, 87–93, 94, 95
DOI: 10.1016/j.ios.2012.01.003 T. Traini, E. Gherlone, P. Capparè, Microstruttura e funzione del tessuto osseo. Parte I: meccanismi di adattamento, Italian Oral
Surgery, Volume 11, Issue 3, 2012, Pages 80-95, ISSN 1827-2452
• Parfitt AM. Osteonal and hemi-osteonal remodeling: the spatial and temporal framework for signal traffic in adult human bone. J Cell Biochem 1996;55:273-86.
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OsseointegrazioneIl termine osseointegrazione fu definito da Branemark come “formazione di un forte legame tra osso vivente e la superficie di un impianto”(Branemark 1969) dopo analisi al microscopio ottico. Inizialmente dopo l’inserzione dell’impianto si credeva che il processo biologico che portasse alla guarigione fosse sovrapponibile alla guarigione di una frattura ossea, requisiti indispensabili erano quindi l’immobilità e l’assenza di sollecitazioni meccaniche. In condizioni di immobilità ed assenza di carico protesico l’osseointegrazione portava a guarigione di un impianto in titano con superficie liscia (macchinata) in tre mesi nella mandibola ed in sei mesi nella mascella.
Oggi l’osseointegrazione è diventata comune nella disciplina implantare e descrive non solo condizioni microscopiche ma anche condizioni cliniche di una fissazione rigida.
Fissazione rigida è un termine clinico che implica movimenti non osservabili dell’impianto quando sono applicate forze da 1 a 500g, quindi un processo grazie al quale si ha una fissazione rigida ed asintomatica di un materiale alloplastico, mantenuta durante il carico funzionale (Koth 1981). Il sistema osso-impianto, quindi, è un processo dinamico che deve mantenersi nel tempo durante il carico funzionale e non un meccanismo statico legato solo al posizionamento dell’impianto. Da qui nasce la definizione di osseo- integrazione proposta nel 1991 da Zarb e Albrektsson “processo tramite il quale raggiungere e mantenere, durante il carico funzionale, la fissazione rigida e clinicamente asintomatica all’osso di materiali alloplastici”. (Albrektsson 1986, Zarb 1991)
Affinché avvenga osseointegrazione è necessario che l’impianto abbia una buona stabilità primaria, tale stabilità primaria è data dalla relazione di contatto o la frizione instauratasi tra osso mineralizzato del sito ricevente e l’impianto dopo il suo inserimento.
Man mano che l'osso guarisce, il processo di osseointegrazione produce stabilità secondaria, responsabile del successo a lungo termine dell'impianto. Durante il processo di rimodellamento osseo dopo il posizionamento dell'impianto, la stabilità primaria diminuisce mentre la stabilità secondaria aumenta dalla formazione di nuovo osso (Figura 1)..
Figura 1 Curva di Raghavendra (Immagine tratta da Raghavendra 2005 modificata)
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Il periodo tra stabilità primaria e secondaria in cui esiste una stabilità totale inadeguata è indicato come calo di stabilità (Smeets 2016).Il concetto biomeccanico di stabilità secondaria, o osseointegrazione, degli impianti dentali è stato caratterizzato come una connessione strutturale e funzionale tra l'osso neoformato e la superficie dell'impianto. (Albrektsson 1987) L'osseointegrazione è costituita da una cascata di meccanismi fisiologici complessi simili alla guarigione da frattura diretta (Von Wilmowsky 2014). La stabilità secondaria di un impianto dentale dipende in gran parte dal grado di formazione di nuovo osso nell'interfaccia osso - impianto. Alla fine della fase di rimodellamento, circa il 60-70% della superficie dell'impianto è a contatto con l'osso. (Schwartz 2005).
Questo è chiamato contatto osso-impianto (BIC) ed è ampiamente utilizzato nella ricerca per misurare il grado di osseointegrazione.
La grande rivoluzione del metodo introdotto da Branemark è stata non tanto nei materiali quanto nel protocollo di utilizzo degli impianti. Infatti, erano già presenti nel mercato impianti endossei in titanio, anche a vite, ma i protocolli di inserimento e di carico fino a quel momento non erano stati codificati. Branemark, con il suo sistema ha introdotto un protocollo ripetibile per la preparazione del sito implantare ed un protocollo di guarigione che ha migliorato le percentuali di osseointegrazione così tanto da portare alla attuale ampia diffusione degli impianti nel mondo.
BIBLIOGRAFIA:
• Albrektsson T, Jacobsson M. Bone-metal interface in osseoin- tegration. J Prosthet Dent. 1987;57(5):597–607. https://doi. org/10.1016/0022-3913(87)90344-1.
• Albrektsson t, Zarb G, WorthingtonP, Eriksson A.R. The long-term efficacy of currently used dental implants: a review and proposed criteria of success. Int j Oral Maxillofac Implants 1986;1(1):11-25
• Brånemark P-I, Breine U, Adell R, Hansson BO, Lindstrom J, Ohlsson A. Intra- osseous anchorage of dental protheses. Part 1: experimental studies. Scand J Plast Reconstr Surg Hand Surg 1969; 3(2):81-100.
• Koth DL, McKinney RV. The single crystal sapphire endosteal dental implant. In Hardin JF: Clark’s clinical dentistry, Philadelphia, 1981, JB Lippincott.
• Schwartz Z, Nasazky E, Boyan BD. Surface microtopography regu- lates
osteointegration: the role of implant surface microtopography in osteointegration.
Alpha Omegan. 2005;98(2):9–19.
• Smeets R, Stadlinger B, Schwarz F, et al. Impact of dental implant surface modifications on osseointegration. Biomed Res Int. 2016;2(1): 1–15.
• von Wilmowsky C, Moest T, Nkenke E, et al. Implants in bone: part I. A current overview about tissue response, surface modifications and future perspectives.
Oral Maxillofac Surg. 2014;18(3):243–257. https://doi.org/10.1007/s10006-013- 0398-1.
• Zarb G A. e Albrektsson T. (1991). Osseointegration- a requiem for the parodontal legament Editorial. International Journal of Periodontology and Restorative Dentistry 11, 88-91
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Meccanismi regolatori dell’osso sulle superfici implantariI primi studi sui meccanismi attraverso i quali l'osso interagisce con le superfici dell'impianto dipendevano principalmente dalle osservazioni morfologiche dell'impianto e del letto osseo circostante. Questi studi hanno determinato la biocompatibilità dell'impianto esaminando il tessuto perimplantare per la presenza o l'assenza di una risposta immunitaria cronica. I ricercatori hanno notato che l'osso non si formava in modo uniforme sulla superficie dell'impianto. In generale, c'era un'interfaccia fibrosa del tessuto connettivo che era maggiore o minore a seconda della quantità di micromovimento sperimentata dall'impianto. Occasionalmente sono stati notati siti in cui il tessuto osseo sembrava essere legato all'impianto stesso. Per ottenere una migliore approssimazione osso / impianto, sono stati studiati e sviluppati meccanismi che promuovono un migliore interblocco meccanico. Ciò ha portato all'uso di rivestimenti porosi sulla superficie dell'impianto, comprese perle sferiche e fibre metalliche, che hanno favorito la crescita ossea. Nonostante queste innovazioni, tuttavia, l'effettiva interfaccia tra il tessuto osseo e la superficie dell'impianto è rimasta sfuggente come prima. L'attuale attenzione si è spostata sull'esito clinico. Il fatto che un trattamento superficiale provochi o meno un cambiamento misurabile nel successo di un particolare design di impianto dipende da una serie di variabili che coinvolgono la fisiologia dell'ospite.
Indipendentemente dal materiale dell'impianto, il risultato clinico dipende in primo luogo da come il dispositivo influenza la risposta acuta all'intervento chirurgico e se è stata stabilita una risposta immunitaria cronica. In generale, i primissimi passi della fase di guarigione acuta saranno gli stessi in presenza o in assenza di un impianto perché la risposta è iniziata da un trauma chirurgico. Da questo punto in poi, tuttavia, le caratteristiche del materiale del dispositivo determinano le fasi verso il successo della guarigione della ferita. Nel caso di un materiale impiantato nei tessuti ossei, una guarigione di successo determina l'incorporazione e quindi l'osseointegrazione dell'impianto nel letto osseo circostante. Il modo in cui l’osso interagisce con l'impianto è influenzato dalle caratteristiche della superficie implantare come composizione, topografia, rugosità ed energia superficiale (Schwartz & Boyan, 1994). Questi sono altamente correlati ed è difficile distinguere gli effetti delle singole caratteristiche.
Inizialmente il ruolo dell'energia superficiale, come dettato dalla rugosità superficiale, microtopografia e composizione dell'impianto, può giocare un ruolo importante nel determinare quali proteine, lipidi, sali e zuccheri vengono adsorbiti sulla superficie e, infine, quali cellule sono in grado di aderire. Pertanto, l'energia superficiale può avere un effetto sulle prime fasi della formazione ossea e della calcificazione influenzando i tipi di cellule che inizialmente si attaccano al materiale e si differenziano a livello dell'interfaccia cellule /impianto.
In definitiva, è l'effetto combinato del materiale e delle popolazioni cellulari che rispondono precocemente, che determina la risposta a lungo termine del corpo agli impianti (Schwartz & Boyan, 1994). Affinché si verifichi una formazione ossea ottimale, devono verificarsi una serie coordinata di eventi che vanno dall'adsorbimento delle proteine alla sintesi e alla calcificazione degli osteoidi. In generale questi eventi possono essere riassunti come adsorbimento di proteine, aderenza cellulare, produzione di fattori locali, proliferazione, differenziazione, produzione di matrice e calcificazione.
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25 Adsorbimento proteico sulla superficie implantare
Una varietà di materiali differenti viene impiantata nell'osso con l'aspettativa che si verifichi l'osteogenesi. Immediatamente dopo l'inserimento, i materiali dell'impianto vengono condizionati da fluidi corporei e il dispositivo viene rivestito con uno strato di componenti organici e inorganici del plasma. Queste proteine, lipidi, zuccheri e ioni si adsorbono sulla superficie dell'impianto, con affinità relative che dipendono dal materiale. Meyer e collaboratori (Meyer et al., 1988) hanno dimostrato che l'adsorbimento di lipidi e proteine su vari biomateriali, incluso il titanio, avviene entro 5 minuti in vivo. Il tempo è un fattore importante. L'adsorbimento delle proteine avviene in pochi minuti e anche in secondi. Ad esempio, la superficie di un certo numero di materiali viene essenzialmente ricoperta immediatamente con la proteina sierica fibronectina (Pearson et al., 1988). A seconda della composizione della superficie, non solo può aderire un diverso complemento di molecole, ma l'orientamento delle proteine può essere modificato.
Le molecole di adesione cellulare orientate sulla superficie sono fondamentali per determinare come le cellule possono attaccarsi e la natura dell'attaccamento.
Modificando una superficie o precondizionandola con proteine specifiche, si possono modificare i tipi di composti aderenti e la loro sequenza di adsorbimento. Questo è fondamentale per organizzare la risposta del corpo all'impianto (Hench & Paschall, 1973;
Pankowsky et al., 1990; Pearson et al., 1988; Vroman & Adams, 1969; Vroman et al., 1980; Ziats et al., 1988). Si è scoperto che la fibronectina, una proteina presente nel plasma a 2-3 mg / dl (Pankowsky et al., 1990), si lega quasi istantaneamente a un certo numero di materiali (Pearson et al., 1988). Questa proteina ha una sequenza del sito di legame arginina-glicina-acido aspartico (RGD), che le consente di mediare l'attaccamento delle cellule mesenchimali (Bourdon e Ruoslahti, 1989). Anche altre proteine, con sequenze di siti di legame simili, possono adsorbirsi sulla superficie. Ad esempio, è stato dimostrato che l'attaccamento di cellule derivate dall'osso ad acciaio inossidabile, titanio, allumina o polietilene-tereftalato in vitro dipende dal precedente adsorbimento della vitronectina sulla superficie (Howlett et al., 1994). Inoltre, proteine come l'albumina e le IgG vengono anche adsorbite sul materiale nei primi momenti dopo l’inserimento (Pankowsky et al., 1990). La composizione delle proteine di superficie può essere alterata nel tempo (Vroman & Adams, 1969; Vroman et al., 1980). Un materiale può preferenzialmente adsorbire una proteina rispetto a un'altra semplicemente cambiando il trattamento che riceve durante la fabbricazione. La produzione può modificare l'energia superficiale depositando sostanze organiche e quindi modificando i profili di bagnabilità. Anche se la tensione superficiale critica (CST) può non essere influenzata dalla lavorazione meccanica, è influenzata dal trattamento superficiale. I cambiamenti nei profili di bagnabilità superficiale hanno effetti diretti sull'aderenza delle molecole alla superficie dell'impianto (Baier & Meyer, 1988; DePalma, 1976; DePalma &
Baier, 1978), con conseguente scarsa adesione dei tessuti e sviluppo di tessuto cicatriziale perimplantare. Kilpadi e Lemons (Kilpadi & Lemons, 1994), tuttavia, hanno scoperto che il CST di due materiali di titanio commercialmente puro (cpTi) di diversa granulometria (23 µm contro 70 µm) non variava. Poiché i materiali di titanio formano rapidamente uno strato di ossido di titanio amorfo sulla loro superficie, è in effetti il CST dello strato di ossido di titanio amorfo e non quello del substrato metallico sottostante che viene esaminato.
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26 Aderenza cellulare
Le caratteristiche della superficie hanno un'influenza diretta sull'attaccamento cellulare.
In uno studio che utilizza fibroblasti umani, Keller e colleghi (Keller al., 1990) hanno scoperto che la tecnica di sterilizzazione alterava in modo significativo i segnali di aderenza cellulare. Mentre la percentuale di cpTi passivata con acido era all'incirca la stessa di quella sul polistirene di coltura tissutale dopo 15, 30 e 60 minuti, quelle su superfici sterilizzate con autoclavaggio, etanolo o ossido di etilene hanno mostrato un considerevole attaccamento cellulare. Anche la rugosità superficiale e la micro- topografia influenzano l'aderenza cellulare (Brunette, 1986). La microarchitettura nel contesto della singola cellula può essere definita come qualsiasi caratteristica morfologica che si trovi all'interno della dimensione della cellula stessa. La lunghezza media di una cellula mesenchimale è di circa 5-12 um; pertanto, una rugosità maggiore della lunghezza della cellula sarebbe percepita come liscia da quelle cellule situate tra i picchi adiacenti. E’ stato scoperto che cellule simili agli osteoblasti aderiscono più fortemente alle superfici Ti con un Ra relativamente ruvido di 6-7 um rispetto alle superfici levigate con un Ra di 0,2 um (Martin et al., 1995). Le cellule in realtà non si attaccano al materiale in sé, ma al materiale organico che aderisce sulla superficie del materiale. Formano attaccamenti focali attraverso i loro recettori integrinici, descritti in maggior dettaglio di seguito, con sequenze RGD in proteine come fibronectina e vitronectina. Sinha e Tuan (Sinha & Tuan, 1996) hanno dimostrato che i recettori dell'integrina espressi su cellule simili agli osteoblasti differivano a seconda della composizione della superficie dell'impianto. Windeler e colleghi (Windeler et al., 1991) hanno dimostrato che le cellule simili agli osteoblasti aderivano più fortemente alle superfici di Ti mentre gli osteoclasti aderivano più fortemente alle superfici di idrossiapatite. La superficie influisce anche sull'adesione di cellule meno desiderabili, cioè batteri. Gli studi che hanno esaminato la colonizzazione batterica dello smalto dentale in seguito al trattamento con fluoro hanno mostrato che c'era un aumento della carica superficiale negativa, che ha alterato la formazione della pellicola dello smalto e, infine, i tipi di batteri che erano in grado di aderire alla pellicola (Ericsson & Ericsson, 1967; Rolla et al., 1977). Allo stesso modo, i batteri mostrano preferenze per varie superfici di materiali. In uno studio di Gabriel e collaboratori (Gabriel et al., 1994), i microrganismi comunemente associati a infezioni perimplantari (Staphylococcus epidermidis) sono stati incubati in presenza di substrati di Ti micro-lavorato, alluminio (Al) e vanadio (V) per 15 a 60 minuti. È stato riscontrato che S. epidermidis aveva una maggiore affinità con il vanadio. Inoltre, i batteri sono in grado di distinguere tra grani a- solo e grani combinati a e ß di lega di Ti, esibendo una maggiore affinità in quest'ultimo caso.
Produzione di fattori locali
In un sito di ferita chirurgica, come con qualsiasi lesione traumatica, la risposta infiammatoria acuta include il rilascio e l'attivazione di una varietà di citochine e fattori di crescita che mediano gli eventi iniziali. Molti di questi fattori sono forniti dalle piastrine, ma altri vengono rilasciati dalle cellule polimorfonucleate e macrofagi. Di conseguenza, le cellule mesenchimali migrano sul coagulo e sintetizzano una rete di collagene che diventa l'impalcatura per la riparazione della ferita. Ben presto, queste cellule producono anche il proprio complemento di fattori, alcuni dei quali agiscono sulle cellule in modo autocrino e alcuni agiscono su altre cellule tramite meccanismi paracrini. Man mano che le cellule si differenziano in cellule osteoprogenitrici e, infine, in osteoblasti, continuano
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a produrre e rispondere ai fattori regolatori locali. La produzione locale di fattori determina la qualità della formazione ossea o la formazione di fibrosi. Le proprietà dell'impianto dovrebbero promuovere la produzione e il rilascio di un profilo fattoriale che migliori l'osteogenesi, ove appropriato, e ritardi il riassorbimento osseo. E’ dimostrato che la rugosità superficiale influisce sulla produzione di fattori locali importanti nella guarigione delle ferite e nella formazione dell'osso. Sia i mediatori dell'infiammazione (PGE) che i fattori di crescita (TGF-B1) sono espressi nel range osteogenico su superfici ruvide e non a livelli che promuoverebbero il riassorbimento osseo (Kieswetter et al.1996). Tuttavia, su superfici lisce, vengono prodotti solo bassi livelli di questi fattori, il che può spiegare perché esiste una tendenza alla formazione di tessuto fibroso su queste superfici in vivo. Inoltre, fattori locali possono non solo influenzare le cellule in modo autocrino ma anche paracrino e quindi influenzare l'osteogenesi a siti distanti.
Oltre a modulare la produzione di fattori locali, la rugosità superficiale influenza il modo in cui le cellule simili agli osteoblasti rispondono agli ormoni sistemici (Boyan et al., 1998).
Proliferazione
TGF-B1, PGE, BMP-2 e 1,25 (OH), D, modulano tutti la proliferazione cellulare in una certa misura. Le cellule mesenchimali pluripotenti rispondono al TGF-B1 aumentando la proliferazione (Cassiede et al., 1996), ma osteoblasti e condrociti impegnati rispondono a tutti questi fattori con una diminuzione della proliferazione e una maggiore differenziazione (Bonewald et al., 1992; Scranton et al. ., 1975). Allo stesso modo, la rugosità superficiale influisce sulla proliferazione; all'aumentare della rugosità, la proliferazione diminuisce (Martin et al., 1995). Ciò può essere dovuto in parte all'aumentata produzione di TGF-B1 e PGE (Kieswetter et al., 1996). Molti di questi effetti sono specifici della cellula. Anche i fibroblasti e le cellule epiteliali sono influenzati dalle caratteristiche della superficie (Cochran et al., 1994). Esperimenti che confrontano la risposta dei condrociti della piastra di accrescimento dalla zona di riposo a quelli della zona di crescita (preipertrofica e ipertrofica superiore) mostrano che gli effetti delle superfici del materiale sulla proliferazione dipendono anche dalla maturazione cellulare (Boyan et al., 1995; Schwartz et al., 1996). In generale, la diminuzione della proliferazione precede l'espressione di un fenotipo più differenziato e la diminuzione della proliferazione è associata a marcati cambiamenti nella morfologia cellulare, segnalando l'espressione fenotipica e la differenziazione. Mentre è stato scoperto che la rugosità superficiale influisce sulla proliferazione (Martin et al. 1995), studi che confrontano cellule simili agli osteoblasti MG63 non hanno dimostrato alcun effetto sul numero di cellule o sulla produzione di collagene. Al contrario, si sono verificati cambiamenti nella fosfatasi alcalina, un marker delle cellule calcificanti (Windeler et al., 1991). Nella crescita modello di condrociti a piastra, la proliferazione è stata inibita su Al, O e fosfato di calcio, ma non su TiO, (Hambleton et al., 1994).
Differenziazione
L'enorme numero di permutazioni disponibili rispetto agli effetti di energia superficiale, rugosità, topografia e composizione sull'efficacia dei materiali di impianto ha portato a tentativi da parte di parecchi laboratori di isolare una di queste caratteristiche ed esaminare attentamente i suoi effetti sulla risposta cellulare in vitro (Bowers et al., 1992;
Cochran et al., 1994; Davies et al., 1990; Keller et al., 1990; Ricci et al., 1991). Sono stati utilizzati due modelli sperimentali separati per indagare gli effetti della composizione
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superficiale e della rugosità sulle cellule di origine mesenchimale. Le cellule MG63, una linea cellulare umana simile agli osteoblasti, hanno caratteristiche fenotipiche e genetiche tipiche di un osteoblasto relativamente immaturo (Boyan et al., 1989).Sebbene MG63 non calcifichi la sua matrice extracellulare in cultura, la linea cellulare è sufficientemente differenziata lungo il lignaggio osteogenico da servire come un eccellente sistema per esaminare eventi precoci nella risposta delle cellule ossee alle superfici. Quando vengono coltivate su colture tissutali plastiche o su superfici lisce (Boyan et al., 1998), queste cellule non rispondono a 1,25 (OH), D3 con aumento della produzione di PGE, tuttavia quando vengono coltivate su Ti ruvido, esse rispondono non solo producendo PGE, ma l'effetto della rugosità superficiale è sinergico con 1,25 (OH), D3 (Boyan et al., 1998). Sebbene la risposta di MG63 alle superfici dell'impianto indichi il ruolo della PGE2 in questi processi, queste cellule derivano da un osteosarcoma e sono, quindi, anormali in una certa misura. Inoltre, mentre si presume che rappresentino uno stato di maturazione precoce degli osteoblasti, questo non può essere conosciuto con certezza. Per risolvere questo problema, è stato sviluppato il sistema di coltura dei condrociti della piastra di crescita come modello alternativo. Nella piastra di crescita, le cellule sono allineate in colonne da meno mature a più mature e gli stati di maturazione possono essere separati da una dissezione acuta. In una serie di studi, sono stati confrontate le cellule della zona di riposo (zona di riserva), che producono una matrice cartilaginea di tipo ialino, con le cellule delle zone preipertrofiche / ipertrofiche superiori (zona di crescita), che sono francamente nella cascata di differenziazione endocondrale e sono destinati a calcificare la loro matrice. Il confronto di queste cellule rispetto alla regolazione da parte della vitamina è stato riesaminato (Boyan et al., 1997). Utilizzando questi due modelli, sono stati in grado di dimostrare che la differenziazione è migliorata su superfici ruvide in base alla stimolazione dell'attività specifica della fosfatasi alcalina.
La fosfatasi alcalina è un enzima marcatore per le vescicole della matrice, gli organelli associati alla formazione iniziale di minerali nella cartilagine calcificante (Ali et al., 1970) e nell'osso tessuto (Schwartz et al., 1989). L'effetto della rugosità superficiale sulla fosfatasi alcalina è specificamente mirato a questi organelli, suggerendo che la differenziazione potenziata è per un fenotipo calcificante. Anche la produzione di osteocalcina, una proteina della matrice extracellulare che modula la crescita dei cristalli di apatite (Xiao et al., 1997), è aumentata sulle superfici più ruvide nel modello cellulare MG63 (Martin et al., 1995). La differenziazione delle cellule MG63 e dei condrociti della piastra di crescita è sensibile alla composizione della superficie e alla rugosità della superficie. Quando questi due modelli sono stati usati per vedere se c'era una differenza nella risposta cellulare su Ti v. TI6AI4V, è stato scoperto che l'attività specifica della fosfatasi alcalina della vescicola della matrice era preferenzialmente aumentata nelle cellule MG63 e nei condrociti della zona di crescita coltivati su CpTi approssimativo (Lincks et al., 1998a; Lincks et al., 1998b). Inoltre, effetti simili sono stati notati su film rivestiti con sputter di cpTi amorfo e cpTi cristallino.
Produzione di matrice
Un'appropriata deposizione di minerali è fondamentale per garantire che le successive iterazioni del ciclo di rimodellamento sulla superficie dell'impianto siano ottimali. Una volta riassorbito l'osso, la formazione di nuovo osso avverrà in un ambiente fisiologicamente molto diverso dalla ferita chirurgica acuta iniziale. La produzione di matrice è necessaria per la corretta interrelazione tra i cristalli di apatite e il collagene.
Per capire come le caratteristiche della superficie potrebbero modulare la produzione