• Non ci sono risultati.

INSULADULACAMARA Studi di psicologia e psichiatria psicodinamica. Andrea Ferrero

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "INSULADULACAMARA Studi di psicologia e psichiatria psicodinamica. Andrea Ferrero"

Copied!
23
0
0

Testo completo

(1)

INSULADULACAMARA

Studi di psicologia e psichiatria psicodinamica

Andrea Ferrero

(2)

2.

RICERCA

(sulla schizofrenia – parte III)

È solo dopo aver preso coscienza degli aspetti incomprensibili della schizofrenia che si può proporre una ricerca tesa all’operatività clinica, per tentare di lenire la sofferenza dei pazienti e di incidere sulla loro sintomatologia fino ad un’eventuale ed auspicabile guarigione.

Sentiamo spesso sostenere dai detrattori che le psicologie del profondo non sono in grado di spiegare pressoché nulla di ciò che accade con gli psicotici (e per il vero nemmeno di ciò che accade con i nevrotici!): l’analisi non è una scienza, parla di ciò che è inconscio ovvero, per l’appunto, di aspetti incomprensibili o di cose inafferrabili. I critici la equiparano dunque ad una sottospecie di rito magico, un po’ truffaldino; con corrispondente eccessiva modestia, alcuni analisti rispondono qualche volta decantandone solamente gli accenti umani che l’accostano all’artisticità ed alla creatività. Cogliendo solo un particolare aspetto della situazione, sia gli uni che gli altr i sembrano essere abbagliati dalla paura dell’incomprensibile; all’opposto coloro che si ostinano a credere che le teorie psicodinamiche debbano rispondere a criteri scientifici in senso stretto, sembrano accecati a loro volta dal desiderio di certezze. I1 senso da evidenziare è

invece quello di una ricerca operativa in campo psichiatrico, dove gli operatori formati in senso analitico posseggono uno strumento che può risultare prezioso per la comprensione e il trattamento delle psicosi.

La consapevolezza del terapeuta che esistono aspetti della schizofrenia che non è in grado di comprendere dovrebbe dunque guidarlo a non credere mai troppo al proprio sapere, che va considerato invece come una possibile testimonianza di un diverso senso delle cose, che si manifesta accanto a quello già dato e riconosciuto dalla coscienza del paziente; questo senso ulteriore, questo sapere, e inizialmente vissuto nella relazione terapeutica attraverso le manifestazioni dell’inconscio.

Dinanzi agli schizofrenici non bisogna quindi solo proporre il proprio modo d'atteggiarsi

d’intendere le cose, ma avere nel contempo “sempre presente il proprio vissuto di inferiorità” (G. e U. Lehmkuhl, 1985).

RIFLESSIONI SUI CURANTI E SUI PAZIENTI

In virtù delle considerazioni generali che abbiamo appena espresso, riteniamo doveroso che il terapeuta renda pubblicamente conto del proprio operato, di come conduce cioè le proprie terapie e dei risultati che ottiene.

Nei casi ove la patologia è più severa, come quelli che andiamo considerando, la dimensione analitica si concretizza maggiormente attraverso determinate modalità dell'agire psichiatrico che non per via di un trattamento psicoterapeutico strutturato.

A queste conclusioni approdano molti degli studi più recenti sugli esiti di vari trattamenti combinati od isolati su pazienti schizofrenici; il dato più rilevante, anche se generico, è costituito dal fatto che “l’utilità degli interventi interpersonali” sarebbe ampiamente testimoniata (Hogarty e coll., 1980; Smith e coll., 1980), mentre sarebbe assai poco confermata l'efficacia di singole tecniche psicoterapeutiche (Gomes Schwartz, 1984; Mc Glashan, 1984a, 1984b); peraltro, come vedremo, gli studi sugli esiti di trattamenti specifici richiedono una serie di cautele metodologiche particolari.

Dal momento che i1 lavoro clinico con gli schizofrenici cronici si svolge prevalentemente all’interno degli ambulatori pubblici di salute mentale, nei reparti o in vari presidi di accoglimento, dobbiamo comprendere cosa succede nell'incontro tra un’équipe terapeutica e “i1 mondo del paziente” (Siani, 1992), che comprende l'interscambio emotivo tra questi, i suoi familiari e le altre

(3)

figure significative di riferimento. Per comprendere questo incontro tra gruppi (quello dei terapeuti e quello dei pazienti) bisogna premettere alcune considerazioni sulle strutture e le istituzioni psichiatriche, sia per quanto riguarda le loro intrinseche caratteristiche specifiche, sia per i rapporti che le legano all'ambiente sociale.

La questione appare particolarmente rilevante anche in chiave storica, poiché le strutture

psichiatriche si sono sviluppare in modo preponderante proprio intorno al problema della schizofrenia. Si tratta d’ora in poi di non progettare più servizi e strutture che non tengono conto di come si articola la comunicazione dello psicotico e con lo psicotico, come è accaduto in passato nell’universo manicomiale e come può accadere ancora nella mistica (anche se non necessariamente nella pratica!) dell'intervento sul territorio. Sotto il profilo metodologico generale, l'etichetta diagnostica di schizofrenia si riferisce ad un modello teorico “forte” che fa riferimento a categorie descrittive oggettive, ma abbiamo già visto come, al di là delle esigenze della nosografia, vi è poi la necessità di recuperare anche le variabili soggettive di ogni individuo. Dove si tiene conto di una valutazione personale dei fatti da parte del paziente, non è più possibile proporre un'assistenza psichiatrica esclusivamente basata su un oggettivo giudizio di patologia in atto. Diventa necessario il superamento di una funzione che utilizzi unicamente i principi di autorità e che storicamente ha assunto una doppia veste: quella dell'istituzione completamente votata alla necessità dei pazienti di sentirsi appoggiati e quella della struttura che svolge una funzione francamente segregante, a difesa dei bisogni della comunità di autoproteggersi. Per la discussione sul ruolo delle strutture psichiatriche a fronte della patologia schizofrenica è ancora utile fare un riferimento iniziale all’ormai classica definizione che Goffman (1961) fornì delle “istituzioni totali”: “Uno degli aspetti sociali fondamentali della società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale. Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita”. Descrivendo le “istituzioni totali”, Goffman si riferisce eminentemente all’istituzione manicomiale, ma non necessariamente solo a questa e la sua definizione può servire come introduzione in due modi.

In primo luogo perché pone in evidenza come le strutture di ricovero per pazienti psichiatrici siano permeate costitutivamente dall’ambiguità dell'essere contemporaneamente luogo di cura, luogo di abitazione e luogo di socializzazione (questa ambiguità non va, crediamo, trascurata

nemmeno quando consideriamo le cosiddette strutture intermedie); in secondo luogo perché, in base ai denominatori comuni, tende ad omogeneizzare realtà diverse (pensiamo agli ospedali psichiatrici, alle carceri, alle caserme, ai conventi, ai collegi...) e richiama quindi il bisogno di un principio orientativo che sia specifico per l’ambito clinico. È a questo il livello che risultano particolarmente utili le ricerche psicopatologiche, anche in direzione psicodinamica.

Articolando da un lato i criteri generali su cui si basano le formulazioni diagnostiche e prognostiche e dall’altro i bisogni di libera espressione e di indipendenza dei pazienti, gli ambulatori, i reparti e le strutture intermedie potrebbero essere concepiti come “l'insieme di interventi terapeutici che privilegiano la riscoperta dei significati, utilizzando un’attività e un gruppo come mediazione del rapporto” (Serrani, 1987).

Una definizione di questo tipo comporta evidentemente una serie di risvolti applicativi, il primo dei quali è che “dobbiamo accettare che il servizio non sempre può dispensare autonomia, nel senso di libertà dal bisogno, e non sempre il paziente può compiutamente raggiungerla e il suo micro e macrocosmo condividerla e sorreggerla. Ne risulta di fatto, in termini di realtà, che dobbiamo accettare l'esistenza di gradienti di bisogni, di obiettivi e di progetti” (De Stefani, 1987).

Se dunque si ricerca l’autonomia, appare sciocco demonizzare a priori la dipendenza, tanto più quando i quadri clinici si cronicizzano. Anche riconoscendo che i cronici sono in parte il retaggio di un vecchio modo di fare psichiatria, non possiamo negare l'ipotesi che avremo a che fare ancora in futuro con la cronicità, con un certo numero di persone, cioè, il cui bisogno di dipendenza rimane elevatissimo. Ritroviamo già questi pazienti non solo all'interno delle comunità ma persino nei reparti di diagnosi e cura dove, secondo la ormai tristemente nota sindrome della “porta girevole”, un certo numero di degenti viene dimesso solo in apparenza, per essere nuovamente ricoverato

(4)

presso la medesima od altre strutture.

Nell'ambito della vecchia o nuova cronicità dei disturbi schizofrenici, la distinzione tra ciò che è terapia, presa in carico o riabilitazione, che serve a delimitare obiettivi e metodiche differenziate di intervento, può rivelarsi comunque oziosa se non prevede un rimando alla soggettività del paziente e se i trattamenti non vengono articolati nello spazio e nel tempo vitale di chi è utente del servizio:

si può naturalmente continuare a parlare separatamente di tutti i vari aspetti operativi, ma con riguardo a non disarticolare il vissuto individuale dal contesto generale.

Abbiamo già sottolineato come spesso non sia possibile considerare solo la comunicazione tra un paziente ed il suo terapeuta; interagiscono invece, secondo varie modalità e a vari livelli, gruppi di pazienti e gruppi di operatori ed è la configurazione formale stessa dell'organizzazione che tende a favorire o ad ostacolare certi tipi di comunicazione o di progetto. Anche i movimenti identificatori o proiettivi profondi dei pazienti dipendono in parte da come sono organizzati il servizio o la struttura. È sicuramente differente considerare ciò che accade in un reparto, in una comunità, in un day hospital o in un ambulatorio; sono molto rilevanti le modalità con cui la leadership burocratica, quella economico-amministrativa e quella delle idee (che è prevalentemente, ma non esclusivamente, detenuta dai medici e dagli psicologi) gestiscono il potere; è cruciale il modo in cui i vari sottogruppi di operatori, pur mantenendo le rispettive identità (ad esempio gli infermieri, oppure il servizio sociale, o i medici ad orientamento psicoanalitico, o ancora la cooperativa di lavoro, ecc...), riescono ad articolare dei canali di comunicazione significativi senza arroccarsi in chiusure aggressive e reciprocamente ipercompetitive.

Nonostante tutto, all'interno dei servizi e delle strutture psichiatriche, con le loro regole ed i loro limiti operativi, la comprensione delle dinamiche tra i pazienti ed i terapeuti non è sempre facile e risulta spesso più legata al comportamento agito che agli aspetti verbali.

ALCUNI ASPETTI DELLA SCHIZOFRENIA SECONDO LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE

Alla ricerca comunque di un maggior grado di consapevolezza e di migliori possibilità di dialogo, cercherò qui di descrivere alcuni degli aspetti che caratterizzano le relazioni interpersonali ed i meccanismi di funzionamento intrapsichici degli schizofrenici facendo riferimento alla Psicologia Individuale. Mi riferirò pertanto agli aspetti psicologici, quelli secondo cui, come ha detto Shulman (1980), i pazienti hanno scelto essi stessi la loro schizofrenia, che rappresenterebbe la personale visione di sé e del mondo, frutto di opinioni e fantasie largamente inconscie.

Sotto questo aspetto, un primo dato rilevante riguarda il rapporto che lo schizofrenico ha con la sua creatività e con la fantasia: è un rapporto difficoltoso almeno quanto lo è quello col reale. In proposito Adler, in Prassi e teoria della Psicologia Individuale (1920), annota come nello psicotico non sia distrutta la logica della realtà, ma come si verifichi “un trasferimento del campo d’azione nel non-reale”; in particolare, la finzione viene divinizzata dal paziente “quando la realtà lascia presagire una minaccia”, così da poterne evitare almeno in parte l'evidenza, se è testimone di una possibile sofferenza. Il meccanismo cui si riferisce ipoteticamente Adler (Il temperamento nervoso, 1912) è quello secondo cui la tensione tra i bisogni dell’esistenza reale e quelli del mondo immaginario porterebbe lo psicotico al tentativo di “tradurre in realtà la sua finzione”.

A quest’ordine di prospettive si ricollegano gli analoghi interrogativi che ancora recentemente Benedetti (1989) ha riproposto, tra gli altri, sui processi di simbolizzazione nella psicosi schizofrenica: in questi casi ci troviamo di fronte ad una loro ipertrofia o piuttosto la scissione dell’immagine di sé ostacola la formazione del simbolo e dobbiamo considerare una qualche sorta di desimbolizzazione psicotica? Benedetti sottolinea il fatto che negli schizofrenici l’immagine sembra assumere in sé il contenuto e divenire un'entità concreta, come aveva già rimarcato Adler:

l’immagine varrebbe dunque di per se stessa, non sarebbe associazione ma allucinazione, il simbolo perderebbe trasparenza ed il paziente, più che comprendere il suo delirio, ne sarebbe compreso.

Si può quindi ipotizzare che lo schizofrenico abbia un estremo bisogno di contatto sia con la

(5)

realtà sia con la propria fantasia, dal momento che entrambe sarebbero tendenzialmente cortocircuitate (specie nei fenomeni allucinatori) e perse in quella che gli Psicologi Individuali hanno descritto come la “logica privata” della psicosi. Questo termine, che peraltro risulta equivoco in quanto la comunicazione psicotica è comunque riferita anche all’Altro, ad un interlocutore molto amato e molto temuto, e comunque evocativo del fatto che sovente “è solo in virtù del sintomo nervoso, con il ritiro psichico, con l'isolamento, che l'individuo arriva ad un relativo equilibrio”

(Adler, Prassi e teoria della Psicologia Individuale, 1920).

Un aspetto particolare di ciò consiste nel fatto che nella schizofrenia “non c'è più futuro e non c'è più passato ma solo, come punta estrema di un iceberg, emerge un presente infranto e ridotto ad istante: destoricizzato e reificato” (Borgna, 1989): è quanto Storch (1965) ha definito come

“Momentaneizzazione” del tempo nello schizofrenico.

Ancora secondo Adler (ibid.), questa sorta di equilibrio si può anche rappresentare, per alcuni aspetti, come una sorta di “suicidio intellettuale di un individuo che si sente incapace di rispondere alle domande della società”. Se consideriamo che il precursore del sentimento sociale è il rapporto primigenio del bambino con sua madre, possiamo anche ipotizzare con Searles (1965) che questo suicidio della personalità sia come un'offerta immaginata dal paziente per la salvezza psicologica della propria madre, per evitarne la sofferenza e la pazzia. È una madre alle cui richieste lo schizofrenico non era in grado di rispondere: se il figlio si individua, la madre impazzirà.

I radicali aggressivi contenuti nelle primitive relazioni fantasmatizzate dello schizofrenico si esprimerebbero tuttavia successivamente anche attraverso delle modalità eterodirette. Accanto al suicidio psichico si collocherebbero quindi non solo le manifestazioni oppositive, colleriche o violente ma anche le tecniche inconsapevoli che definiscono il tentativo di far impazzire l’altro: una sorta di omicidio psichico che può essere vicendevolmente perpetuato dal paziente e dalle persone che lo circondano e lo curano.

Sono variamente segnalati, a carico della struttura delle comunicazioni familiari o anche delle distorsioni di altri rapporti significativi, ivi compresi quelli con i terapeuti: l'insistenza nella comunicazione su settori della personalità dell’altro che non sono in armonia con ciò che il soggetto crede di essere, le alternanze improvvise tra la stimolazione e la frustrazione, il passaggio da una lunghezza d'onda emotiva ad un’altra che squalifica il soggetto, l’uso di uno stesso tono emotivo in situazioni o per argomenti diversi, ecc.

Sembra in ogni caso decisiva, alla base di tutte queste considerazioni, la sorte dell'autostima del soggetto. Gli studi sulla personalità premorbosa dei futuri schizofrenici sono molto numerosi ma troppo spesso si riferiscono al carattere ed al comportamento mentre purtroppo, anche per motivi di metodologia della ricerca, rischiamo di non sapere nulla, se non per via indiretta, “dell'opinione che il bambino si fece di se stesso e del suo mondo” (Shulman, 1980).

Ancora Searles (1965) segnala come proprio la mancanza di autostima può far sì che lo schizofrenico impari a rappresentare la realtà esterna col corpo, con un linguaggio non verbale;

analogamente la Fromm-Reichmann (1959) afferma che lo psicotico “ha imparato a cogliere l’informazione (....) attraverso (....) uno sbadato gesto, un atteggiamento, una posizione, un’inflessione della voce o un movimento espressivo”: si può pertanto dare il caso che una quota delle comunicazioni verbali e non verbali di questi pazienti risultino autocontradditorie.

In termini molto riassuntivi, si considera dunque nelle psicosi schizofreniche una sorta di sovrapposizione confusiva del linguaggio concreto e di quello metaforico. Ciò corrisponde, secondo G. e U. Lehmkuhl (1985), ad una persistente difficoltà a differenziare il mondo esteriore dall’interiorità, il che ritraduce, forse, in un modo che non deve richiamare ad una “anatomia e fisiologia della psiche” (Parenti, 1983), il tradizionale asserto psicoanalitico secondo cui nella schizofrenia sono mal definiti i confini dell’Io. Sembra, in sintesi che si possa sostenere con Racamier (1980) che il problema essenziale nelle psicosi dissociative, per quanto concerne la razionalità e la creatività, non è costituito tanto dalla prova di realtà quanto piuttosto dal senso del reale e della sua familiarità.

Sulla scorta di queste considerazioni è indispensabile allora addentrarsi un po' di più nel mondo istintivo ed affettivo dello schizofrenico, in cui risiedono le articolazioni tra le esperienze del

(6)

passato e le spinte motivazionali della vita del paziente.

A questo riguardo sembra che le difese psicotiche si costituiscano allo stesso tempo, come la risposta e come l’espressione della difficoltà di questi pazienti ad arginare, tollerare ed impiegare in modo costruttivo la loro istintualità. Adler pose ovviamente l’accento anche in questi casi sui sentimenti d’inferiorità, le tendenze alla rassicurazione e i desideri di compensazione; Searles (1965) osserva, a proposito delle modalità specifiche dello schizofrenico di vivere la propria inferiorità, come la perplessità, la confusione, l’incertezza e i sentimenti di frustrazione sarebbero stati mentali mantenuti attivamente dal soggetto (analogamente Adler: fattori teleologicamente attivati), in rapporto ad una folla di pensieri, cui poi il delirio dovrebbe dare sollievo.

Ritorna insomma alla mente, a questo proposito, un breve dialogo di un racconto di Kafka (1913):

“Laggiù c'è della gente, pensate, che non dorme mai!”

“Perché?”

“Perché non sono mai stanchi”

“Perché no?"

“Perché sono folli”

“E i folli non si stancano mai?”

“Come potrebbero stancarsi i folli?”

Il delirio, quindi, sarebbe il risultato, secondo Searles, di un tentativo di difesa rispetto ad un’intollerabile complessità del pensiero, secondo cui i1 paziente diffidente sarebbe spiazzato dall'interferenza di un secondo o di un terzo stimolo che sopraggiungono mentre ancora è intento ad operare sul primo. Secondo la Psicologia Individuale, questa supposta condizione psicopatologica del paziente diffidente, perplesso o confuso è anche connessa ad una tendenza ascendente legata all’aggressività, rispetto a cui i deliri si costituiscono come un freno ed operano come importante struttura di difesa, tenendo lontano dalla percezione di sé ciò che lo schizofrenico non riesce a sopportare o a rielaborare. Sono proprio questi aspetti intollerabili del vissuto psicotico, com'è noto, l’oggetto di quotidiani riscontri da parte di psichiatri e psicoterapeuti, che ne hanno talora sperimentato il doloroso peso insieme al paziente.

In questi casi, la testimonianza dei terapeuti, che esiste la possibilità di tollerare in qualche modo questi vissuti riveste un'importanza decisiva, tanto più se l'aggressività, come ha sottolineato bene Zapparoli (1979), non è solo in rapporto alle dinamiche della paura e della distruttività, ma anche delle possibilità di emancipazione; in questo senso, una precondizione del trattamento degli psicotici sarebbe, secondo Ping Nie Pao (1979), la possibilità che il paziente possa sperimentare una deflazione dei sentimenti di terrore, per ristrutturare in via successiva il proprio Sé, le opinioni che lo riguardano e quelle che ha verso gli altri. L'idea di poter accedere ad una dimensione non distruttiva dell'aggressività (Rovera, 1988a; Bonino e Saglione, 1978) e d'altronde un elemento cardine delle ipotesi psicoterapeutiche della Psico1ogia Individuale e la necessità di accogliere il paziente e di ridurne il terrore senza soffocarne l’individua1ità creativa è un esempio di come un incoraggiamento attento giochi un ruolo importante, nel rapporto con gli schizofrenici, “per lo sviluppo di una logica e di un 1inguaggio comuni” (Shulman, 1980).

La qualità della comunicazione riveste per 1o schizofrenico un’importanza tanto più fondamentale quanto più egli ha sperimentato come “le parole non sono usate so1tanto per comunicare, ma anche per velare (....) la comunicazione" (Fromm Reichmann, 1959). In questo senso ogni azione, come dice ancora Searles (1965), è un fronte su cui 1o schizofrenico deve combattere per comunicare ed ogni combattimento richiama nuovamente le considerazioni che abbiamo già tratteggiato sulle modalità psicotiche della volontà di potenza.

Come abbiamo visto, quindi, “ciò che gli altri hanno chiamato scarso Io frenante o scarso control1o della pulsione ed emergenza dei processi primari.... (potrebbe piuttosto essere) la accurata disattenzione dello schizofrenico a quegli stimo1i e percezioni che egli ha bisogno di filtrare, con la conseguente validazione interiore dell'illogicità, dell'irraziona1ità, dell'illusione, della

(7)

fantasticheria" (Shulman, 1980).

Giuseppe, schizofrenico da lunga data, presenta una ricorrente sintomatologia allucinatoria, vissuta come molto disturbante specie quando ad essa si collega una masturbazione coatta, cui il paziente è “costretto dalle voci”: tralascio qui di dimostrare in che modo, anche nell'ambito del rapporto con la moglie, questo sintomo si sia strutturato come difesa rispetto ad altri aspetti della sessualità ed ai sentimenti di co1pa legati al1’aggressività del paziente, per riportare invece una parte del suo delirio, a commento ed illustrazione delle considerazioni che ho appena espresso.

Il paziente interpretava i periodi in cui non si sentivano le voci come dovuti al fatto che

“maschere di infermieri e di frati” (egli era ricoverato presso un istituto retto da religiosi ospedalieri) gli mettevano “una cuffia”; inoltre, durante uno dei col1oqui, aveva asserito che “ricchi o poveri, istruiti o ignoranti, si finisce tutti nella schifezza; è inutile parlare di queste cose, perché non serve a nulla: tutti sono falsi (ed è questo il passo che intendo sottolineare di più) e mi hanno ingannato e non è possibile che io torni quello di prima; tutte queste cose non le dico io, ma è qualcuno che sta dietro di me che parla, ed è così anche quando dico le solite oscenità...”.

È per questa via, si potrebbe dire, che i pazienti giungono a perdere il sentimento di sé e della propria responsabilità (Adler, Prassie e teoria della Psicologia Individuale, 1920), anche come risultante di una sorta di strategia psicologica organizzata a non percepire né l'ambivalenza, né la depressione (organizzazione antiambivalente della personalità secondo Racamier, 1980).

La perdita della funzione centrale e coordinante di un sé creativo unitario (Fassino, 1988a), che viene variamente segnalata come uno dei nuclei più importanti della psicopatologia dinamica della schizofrenia, tenderebbe ad articolarsi, attraverso negazioni di senso (Racamier, ibid.), di modo che anche le verità che il paziente ha da testimoniare vengono scaricate nel ripostiglio della sua follia. I pazienti svuotano di significato ogni cosa e propongono ogni relazione come intercambiabile:

offrono dunque come pazza la realtà e negano i confini dell'alterità..

Io credo allora che dobbiamo riflettere sul fatto che un importante motivo di attaccamento dei pazienti alla loro psicosi è costituito dal fatto che essa costituisce il tramite per tentare di comunicare una vera esperienza vissuta. In termini kleiniani, Hinshelwood (1993) ha ricordato, a questo proposito, le descrizioni di Bion sulle lotte che lo schizofrenico sostiene “per trasmettere quanto avviene nel processo percettivo, malgrado gli impedimenti dovuti agli attacchi del sé che hanno paralizzato le sue capacità". Nei deliri in particolare, ed in tutti i vissuti schizofrenici in generale, verrebbe dunque espresso un nucleo di verità in versione paradossale, il che servirebbe a condensare contemporaneamente nella stessa comunicazione molte cose insieme, e forse troppe: in primo luogo che la verità, rispetto a cui gli schizofrenici hanno dunque un amore esagerato (Adler, 1912), sia misconosciuta o non esprimibile; in secondo luogo il desiderio di non esserne i proprietari e di non assumersene alcuna implicanza. Tutto questo venne riassunto da Adler (1929) parlando delle allucinazioni: “la volontà del malato deve essere considerata definitiva senza tuttavia essere ritenuta responsabile”.

I1 tema della paradossalità nella schizofrenia costituisce da tempo un campo di indagine psicopatologica particolarmente sviluppato in Psicologia Individuale, ad iniziare dalle prime annotazioni di Wilheim (1926) e di Adler (1931) sino ai recenti lavori di G. e U. Lehmkuhl (1985) e di Shulman (1980); in particolare, poi, Rovera (1984) e collaboratori (Rovera, Scarso, Fassino e Munno, 1983) hanno approfondito in chiave analitica, in confronto ai contributi della pragmatica della comunicazione, lo studio della paradossalità in quanto strategia non solo relazionale ma anche mentale, analogamente alle riletture psicoanalitiche già tratteggiate, per esempio, da Anzieu (1975) e Racamier (1980).

Il ricordo di un paziente quasi cinquantenne e dei suoi deliri mi permette a questo punto di proporre un'altra esemplificazione di quanto ho cercato di descrivere attraverso le citazioni e le considerazioni teoriche.

F. P. è un lungodegente che presenta un delirio cronico ben strutturato di autoriferimento e di persecuzione, in cui sono evidenti anche alcune tematiche di tipo sessuale. La condizione del paziente si prospetta nella sua staticità se esaminiamo nel dettaglio la serie di alternative impossibili che egli ripropone attraverso i suoi sintomi, le proprie condotte e, in generale, tutta la propria

(8)

condizione psicologica e sociale. Questa innesca a sua volta una serie di risposte ambientali che contribuiscono per parte loro al mantenimento della cronicità: non intendo qui decidere se, nell'insieme di questi rapporti, sia prima l’uovo o prima la gallina, quanto piuttosto ricordare che il terapeuta, senza incolpare nessuno, avrebbe comunque il compito di porre il paziente di fronte alle sue buone o cattive ragioni, alle sue responsabilità ed alle sue prospettive, nei limiti di quanto è possibile e tollerabile. Ad ogni buon conto, si può qui affermare che, sotto il profilo clinico, questo paziente oscilla tra una posizione di inerzia, in cui prevalgono, accanto ai deliri, l’autismo, la depressione e i desideri di adeguamento passivo, ed un'altra situazione, che potremmo definire come un’area delle iniziative personali e sociali, cui si accompagnano intollerabili sensi di inadeguatezza e di colpa, i quali a loro volta vanno ad incrementare i deliri e ad alimentare la comparsa di manifestazioni aggressive. Il primo atteggiamento rende il paziente socialmente inabile, il secondo aumenta i già nutriti timori della madre (il padre morì quando il paziente era in giovane età) a riaccoglierlo stabilmente a casa, alimentando le giustificazioni a copertura delle sue tendenze espulsive: già in passato il paziente aveva, peraltro sporadicamente, minacciato e picchiato la madre.

Dopo aver sommariamente descritto ciò che appare dalle manifestazioni del paziente, si può forse cercare di capire più attentamente qualcuno dei suoi deliri. All'aggressività verso la madre e verso le donne sembrano riferirsi queste frasi allusive e generiche: “i vecchi le fanno ai più giovani (...), i vecchi hanno afferrato la madre e le hanno girato la testa” (frammento di delirio di autoriferimento e di persecuzione verso di sé e verso la madre). Sullo stesso argomento è indirizzata anche la seguente comunicazione, articolata in due parti proposte consecutivamente nello stesso colloquio. La prima si presenta sotto forma di breve delirio depressivo fantastico, con associati impulsi anticonservativi: “ho mangiato le pietre, volevo morire”. La seconda è invece la seguente:

“se vedo le donne ho paura che mi leghino, mi sembra che mi schiaccino, mi sembra di morire”:

sotto il profilo formale si presenta scollegata dalla precedente, ma ne sembra in realtà l’intima spiegazione emotiva, segnalando come le angosce relative alla femminilità siano all’origine del timore e del desiderio di morire; spiega inoltre il comportamento che il paziente teneva in quei giorni: aveva preso a non recarsi più da nessuna parte, nemmeno al bar dell’ospedale dove di solito andava sempre, per paura di incontrare delle donne: una paura da cui “poi ci si riprende, chiedendo perdono” (frammento di delirio di colpa), ma che comporta “la sofferenza incredibile” di potervi ricadere.

In questo contesto il paziente annunciò anche di non voler più lavorare, ancora nei modi di un delirio di autoriferimento e persecuzione (“i vicini ce l’avevano con me e mi impedivano di mungere”), nel cui meccanismo proiettivo appare chiaramente la funzione compensatrice dei suoi sensi di inadeguatezza, drammaticamente espressi nel loro valore estremo in un’altra associazione delirante di rovina, che il paziente produsse subito dopo: “io non guarisco più, come mio padre”. I1 paziente sembra esprimere, attraverso la rielaborazione delirante del lutto conseguente alla morte del padre, anche la perdita interna della possibilità di riferirsi ad un modello virile da contrapporre alle attenzioni apprensive ed alla espulsività della madre. In alternativa all'aggressività ritorta contro di sé, egli pensa che vi possa essere solamente quella che può rivolgere francamente verso l’esterno, il che rende terribilmente pericolosa ogni sua iniziativa, alimentando ancor più il timore di essere allontanato. La sua rabbia si era storicamente manifestata dopo un tentativo di sospensione degli psicofarmaci molti anni prima, che aveva rappresentato una specifica variazione dell'assetto biologico ma che era stato investito, inoltre, di uno specifico significato psicologico: F. P. aveva infatti annunciato che, se gli avessero tolto le medicine che lo rendevano fiacco, avrebbe potuto ricominciare a lavorare: “me le tolga tutte", aveva detto al medico, “che io possa riprendere più liberamente: vedrà che starò bene e tornerò a lavorare” (leggasi: ad avere una vita sociale al di là del

“maternage” istituzionale.

Penso, in sintesi, che la marcatissima fragilità dell'autostima dei pazienti psicotici più gravi sia rappresentata spesso attraverso il paradosso di vivere la morte. Esso si esprime nell’immobilità temporale in cui si sclerotizzano in genere i progetti degli schizofrenici: dietro la grandiosità del delirio di vivere l'eternità si nasconde dunque l’angoscia immutabile di non aver scampo da una

(9)

sorta di morte psicologica (Ferrero, Bosco, Rambaudi e Silba 1993). Questa dinamica paradossale è proprio quella dell’omicidio e suicidio mentale che abbiamo già ricordato: io credo che ne riscontriamo la traccia più o meno esplicita in tantissime comunicazioni di schizofrenici.

Non solo i pazienti, inoltre, ma anche le loro famiglie sono spesso coinvolte nella costruzione di doppi legami paradossali (l'ultimo caso citato è per certi versi paradigmatico a questo proposito):

questi legami avrebbero anche il significato difensivo, più o meno esplicito, di evitare la perdita del rapporto con il “folle”, attraverso un intreccio complesso di aggressività e colpevolizzazioni.

Più in generale ancora, queste ed altre dinamiche analoghe investono anche gli operatori sociali nel momento in cui sono chiamati a fornire risposte al problema della salute mentale. Ecco allora che esse esercitano sotterraneamente il loro influsso sulla psichiatria, nel senso di promuovere valutazioni morali dei pazienti (che i pazienti siano "buoni" o “cattivi” lo si dice in genere attraverso giudizi che appaiono ammantati di considerazioni tecniche), oppure ancora attraverso il bisogno di liberarsi di queste pastoie psicologiche, obiettivo rispetto a cui funziona molto bene una fredda lettura biologistica del disagio dei pazienti, che consideri in luogo della psiche solo sinapsi e circuiti neuronali.

Per gli aspetti che abbiamo considerato, le difese psicotiche sarebbero per larga parte rivolte verso l'impossibilità sia di sopportare sia di rielaborare il lutto ed il distacco: qui sarebbe massimamente in gioco la possibilità, di cui parlava Adler (1920), di mantenere o di riuscire a colmare un'estrema “distanza” dagli altri; nonostante i pazienti si abbarbichino ai terapeuti o alle istituzioni oppure ne scappino, contemporaneamente ed alternativamente, infinitamente lontano, dobbiamo sempre cercare di raccogliere i loro tentativi di comunicare.

N .P. era stato prigioniero di guerra dei Tedeschi durante la seconda guerra mondiale, dove era stato minacciato di morte; questa tragica esperienza precipitò una gravissima forma di schizofrenia al ritorno dalla prigionia, che rapidamente condusse il paziente ad una pressoché totale incapacità di accudirsi e ad un completo disinteresse di sé. La sintomatologia allucinatoria, immodificata dalle terapie con i neurolettici, riveste nel campo di coscienza del paziente una particolare importanza: si tratta delle “voci di spiriti custodi, che si manifestano solo ai pari grado” (quella di un maestro, di un famoso cantante, del Direttore Sanitario e del Direttore dell'Amministrazione dell’ospedale in cui è ricoverato), per cui egli stesso fa parte di questa ristretta cerchia di spiriti superiori; queste voci “consolano” il paziente e gli ordinano di “non avere interesse e cura di sé, di pensare solo a mangiare e dormire, al contrario di quello che succedeva in Germania” (sic!); peraltro “Dio tollera solo malamente questi spiriti" (superbi? ipercondizionanti? sicuramente saggi, il maestro, famosi, il cantante, potenti, i direttori dell'istituzione) “e li spegne poco a poco col tempo”: N.P. e l'ultimo degli spiriti e contro gli altri, prioritariamente ed autoprotettivamente, si scaglia la collera divina.

Inoltre, “quando finisce l’inverno e le giornate si allungano, la minaccia svanisce...”; il paziente passa talora lunghe ore di fronte ad un orologio, immobile per “controllare l'ora”.

In questo caso la sintomatologia produttiva condiziona il paziente ad una pressoché completa inattività e mancanza di comunicativa ed appare deputata a proteggere inconsciamente il paziente da quell’angoscia di morte che, come abbiamo visto, è di per sé molto significativa nella schizofrenia e che ha reso tanto più traumatica l’esperienza di prigionia di N.P.; ebbene, anche in queste situazioni o in quelle dove prevale il ritiro autistico, oppure ancora nei pazienti più destrutturati o nei catatonici che diventano improvvisamente violenti ed impulsivi, sperimentiamo comunque il tentativo dello schizofrenico di comunicare: di questo desiderio, quindi, dobbiamo ricordarci anche in presenza delle manifestazioni più scoraggianti ed allontananti.

L’esperienza del rapporto che lo schizofrenico ha cogli altri può costituire qui un terzo e specifico punto della riflessione psicodinamica che stiamo tratteggiando alla ricerca di una possibile funzione terapeutica non solo in chiave farmacologica.

La Psicologia lndividuale, fin dalle originarie definizioni di Adler (1912, 1920), concorda con la Psicoanalisi nel rimarcare come nella schizofrenia l’oggetto della relazione sarebbe esperito in modo frammentato e narcisistico. A fronte dell’esperienza di situazioni e vissuti registrati come umilianti, l’ideale della personalità, amplificato sino alla rassomiglianza col divino, si costituirebbe come unico punto di riferimento definitivo per lo schizofrenico, sempre ammesso che l’attivazione

(10)

di una simile configurazione psicologica riesca nel difficile intento di “dominare (....) la scissione psichica” (Adler, 1912). Si direbbe pero (Racamier,1980) che il narcisismo

schizofrenico si configuri prevalentemente in forma di narcisismo negativo: i pazienti non tenderebbero tanto ad eliminare la realtà, di cui, come abbiamo già visto, avrebbero estremo bisogno, quanto a svuotarla di senso, a renderla inane; in quanto attori della inanità, finirebbero col rendere inani anche se stessi.

Credo che Adler sia stato il primo a parlare dei meccanismi della scissione, ma sicuramente essi vennero poi ampiamente descritti nella letteratura psicoanalitica, anche in connessione con altri meccanismi di difesa, prevalentemente di tipo proiettivo ed introiettivo, di volta in volta supposti come attivi nelle psicosi. Essi si attiverebbero, secondo Adler (1920), quando “la tendenza alla sicurezza ed il bisogno di orientamento (....) esercitano una pressione così notevole da richiedere una dissociazione dell’unita dell’Io in due o più frammenti opposti”; la scissione viene mantenuta, quindi, in modo prevalentemente inconscio, a scopo autoprotettivo, “come un meccanismo di salvaguardia del valore personale”, teso “ad evitare esperienze più dolorose in futuro” (Kramer 1974).

La relazione dello schizofrenico tende a configurarsi dunque come bisogno di rapporto con un oggetto umano che risulta inanimato ed indifferenziato (Zapparoli, 1979); questa ricerca svuotata di senso tende peraltro a segnalare, testimoniare e ricreare l’esperienza già subita e vissuta in passato.

Secondo quanto sostiene Adler (1920), infatti, le modalità specifiche della relazione vengono mantenute tali in virtù di un movimento regressivo, in cui “l’idea della costrizione esterna è spinta all’estremo e tutte le esigenze della comunità e dell’umanità sono respinte con una suscettibilità esagerata”. L’atteggiamento che ne consegue sembra allora “diretto contro gli altri, contro influenze e situazioni dietro le quali si suppone che si nasconda tutta l’umanità”.

Riassuntivamente, Shulman (1980) sostiene che il sintomo faciliterebbe da un lato il ritiro dall’integrazione sociale, ne sconfiggerebbe, per altri versi, il potentissimo richiamo e permetterebbe in modo bizzarro il ristabilirsi del rapporto cogli altri. Dietro queste supposizioni dello psicotico si cela dunque un’idea di rapporto col mondo che 1a centratura narcisistica renderebbe indifferenziato e precario.

Nel discorso della Psicologia Individuale sulla schizofrenia possiamo proporre ancora due ordini complementari di riflessioni, che specificano quelli che abbiamo già espresso riferendoci al concerto di sentimento sociale.

Per un primo aspetto, ponendo la nostra attenzione sui processi di integrazione e differenziazione, consideriamo come le difficoltà dei pazienti potrebbero dipendere dalle carenze del sentimento sociale come funzione intrapsichica interiorizzata (Fassino, 1988b): questi processi sono quelli che presiedono alla formazione delle immagini strutturali del funzionamento psichico di ognuno che sono state descritte e concettualizzate nei termini di: concetto di Sé, ideale di Sé, non- Sé (Shulman, 1973a; Mosak, 1977; Ansbacher, 1968). I rilievi psicoanalitici sulla disorganizzazione e frammentazione del Sé nella patologia schizofrenica sembrano possedere un significato analogo;

negli studi di matrice kleiniana (Bion, 1959; Hinshelwood, 1993) è più sottolineato, però, il concetto dell’attacco al legame. Esso verrebbe posto in atto non solo nell’ambito delle relazioni emotivamente significative tra la psiche del paziente e quella degli altri, ma all’interno stesso di sé (attacco al Sé). Alla base di queste carenze sembrano avere particolare rilievo le mancate opportunità per uno sviluppo armonico dei processi di identificazione, sia in riferimento alla struttura particolare del gruppo familiare, sia, più o meno direttamente, a tutta la struttura micro- e macro-sociale in cui il paziente è vissuto. I processi di identificazione riconoscono infatti una matrice che è trans-individuale (Fassino, 1987; Fassino e Ferrero, 1982) ed in senso più ampio culturale (Rovera, 1976).

Il secondo aspetto è quello che richiama un’attenzione particolare sui disturbi precoci della relazione madre-bambino nella genesi dei disturbi schizofrenici: esso è connesso col precedente dal momento che, come ha esplicitato Schaffer (1976), le potenzialità ereditarie del sentimento sociale prendono forma proprio sull’asse preferenziale originario di questo rapporto.

Più precisamente, Schaffer specifica: “All’origine del suo sviluppo si trova la relazione madre-

(11)

figlio, simbiosi tra questi due esseri, che permette alla prima di manifestare il suo amore materno e, per quella via, di risvegliare la facoltà del senso sociale nel secondo. Lo scambio affettivo, il sorriso legato alle funzioni della nutrizione, le carezze, si trovano all’origine di una lunga cooperazione tra la madre e il bambino....”.

In questa prospettiva, che si richiama sostanzialmente alle osservazioni della psicologia evolutiva, il disturbo schizofrenico può essere rappresentato anche come “il risultato di una evoluzione a lungo termine, comprensibile attraverso la biografia del paziente” (G. e U. Lehmkuhl, 1985). Questa traccia storica non è tanto costituita da una serie di fatti raccolta da un’anamnesi accurata, quanto dallo sviluppo interiorizzato delle tracce di relazione significative. L’evoluzione della psicosi non è, sotto questo aspetto, “un fatto da attribuirsi al destino, indipendente dall’ambiente, ma il risultato di un’interazione permanente inconscia tra lo schizofrenico e il mondo che lo circonda” (Bauer, 1973).

Se si può sostenere, come dice Adler, che in qualche modo l’edificazione delle strutture deliranti si ricollega all’infanzia, pur senza voler proporre un’indebita confusione tra lo sviluppo psicologico normale del bambino e la patologia dell’adulto, alcune immagini riferibili alla primitiva relazione con la madre possono far comprendere meglio certi aspetti del vissuto psicotico che abbiamo considerato finora.

Bisogna tener conto, allora, che il lattante si rapporta inizialmente con una “madre-ambiente”

(Winnicott, 1971), non distinta come oggetto separato (Mahler, 1968) con cui potere interloquire, e quindi estensivamente sperimentata e ricreata. A questa modalità di esperienza sono state accostate da Racamier (1980) le fantasie deliranti di onnipotenza creatrice che negli schizofrenici sembrano complementari al desiderio di rendere tutto insensato e tutto vano: esse corrisponderebbero all’idea di creare giorno dopo giorno gli oggetti (nel delirio non vi è critica legata all’osservazione del reale) e di essere in ultima istanza anche i procreatori di se stessi. Questo atteggiamento interiore potrebbe essere correlato a fantasie identificatorie di possesso indirizzate alla madre, dal momento che “in ogni madre noi possiamo trovare il sentimento più o meno alto di aver compiuto, attraverso i suoi figli, un’opera di creazione. Essa ha la sensazione, potremmo quasi dire, di aver creato come crea Dio” (Adler, 1930-33).

In realtà, queste fantasie deliranti fanno invece da eco e da contraltare alla constatazione che spesso nelle famiglie dei pazienti psicotici le madri sono state od appaiono ancora sostanzialmente disattente ai propri figli, sia nel senso di apparire catturate egoisticamente da un desiderio di affetto possessivo, sia mostrandosi invece troppo lontane e incapaci di partecipazione empatica. Si è molto discusso in letteratura sulle modalità secondo cui si struttura la famiglia schizofrenogenica: si registra spesso “una patologica realizzazione dei ruoli che appaiono in genere eccessivamente rigidi, con totale fusione tra ruolo famigliare ed identità personale” (Gaia, 1992).

Giova ricordare, a questo proposito, che sono le difficoltà stesse del figlio che diventerà schizofrenico che possono talora condizionare, fin dalle primissime fasi, la relazione con la madre, ingenerando in essa sconcerto e angoscia.

Sempre su questo argomento, segnalando come il grado di una buona intimità colla madre si costituisce come pre-requisito per uno sviluppo maturo della relazione con gli altri, Frieda Fromm- Reichmann (1959) asseriva che è come se lo schizofrenico avesse accettato una madre cattiva come proprio destino per cui la disponibilità al confronto con la realtà risulta attenuata e sostituita da una propensione alla segregazione; Shulman (1980) ha anche sottolineato come molto importante la convinzione opposta, originatasi anch’essa precocemente nello schizofrenico, di essere qualcosa di diverso e di dover utilizzare la propria diversità per comunicare con gli altri, anche nel senso aggressivo di impaurirli.

Si è anche sottolineato, in Psicologia Individuale, come il modo specifico secondo cui si struttura l’intimità nel rapporto primitivo tra la madre e il bambino (G. e U. Lehmkuhl, 1985), che ha caratteristiche di tipo simbiotico (Künkel, 1957), possa tendere a protrarsi nel tempo se viene originariamente vissuto in modo particolarmente disturbato; questa modalità relazionale particolare può anche essere riattivata in via regressiva e costituirebbe un modello in qualche modo significativo nel mondo dei vissuti psicotici.

(12)

Il rapporto con la madre si costituirebbe dunque, in quanto precursore fondamentale dei futuri sviluppi del sentimento sociale, come il prototipo vissuto di successivi rapporti paradossali, allo stesso tempo infinitamente intimi ed infinitamente lontani; un’esperienza che può fornire anche indicazioni sulle caratteristiche dei movimenti transferali degli schizofrenici cronici nei confronti dei loro terapeuti. Questo tema della distanza paradossale, come difesa relazionale ed intrapsichica nei pazienti schizofrenici, rimanda alle osservazioni della Mahler (1968) su particolari esperienze negative tra la madre e il lattante, che comportano per quest’ultimo sia l’angoscia dell’essere tenuto, sia il dolore dell’essere deposto, ovvero sperimenta l’impossibilità di fidarsi delle cure materne.

All’angoscia di essere tenuto corrisponderebbe l’impossibilità di allontanarsi, al dolore di essere deposto l’impossibilità di avvicinarsi.

Sotto il profilo psicologico, queste particolari modalità dell’esperienza possono predisporre l’individuo a costruirsi, a titolo compensatorio, un mondo psichico surreale a cui credere ciecamente e che funga da contraltare ad uno spazio esterno popolato da mostri ed aggressioni. Ciò comporta in ultima analisi, un radicale disturbo dell’esperienza e della comunicazione in quanto segnalazione reciproca (Mahler, 1968; Ping Nie Pao, 1979).

Riassumendo: tutti questi aspetti che abbiamo segnalato brevemente sulla creatività, l’istintualità e le caratteristiche del sentimento sociale nei pazienti schizofrenici possono delineare alcuni tratti del quadro psicopatologico entro cui valutare gli interventi psicologici, sia per quanto concerne l’atteggiamento globale degli operatori degli ambulatori, delle strutture intermedie o delle unità di ricovero, sia per ciò che riguarda eventualmente una psicoterapia strutturata, individuale o di gruppo.

INTERVENTI PSICOTERAPEUTICI

Ci porremo dunque ora in un ambito che è possibile definire quello dell’attitudine psicoterapeutica di tutti gli operatori, qualunque sia l’intervento clinico che essi stanno svolgendo. Mc Glashan e Keats (1989) hanno esplicitato l’ottica che vi è sottesa attraverso il fatto di porsi incessantemente la domanda: “che cosa stava succedendo a quel punto” nel rapporto col paziente? Per valutare le dimensioni psicologiche della relazione clinica bisogna infatti chiedersi di che tipo essa sia e quale significato abbia per il paziente. Gli stessi Autori appena citati hanno elaborato uno schema

riassuntivo dei livelli relazionali a cui ogni processo psicoterapeutico può essere riferito. Questo schema può aiutare gli operatori psichiatrici ad orientarsi anche in un qualunque altro tipo di intervento con pazienti psicotici. Siamo di fronte ad interazioni imprevedibili ed incomprensibili o ad oscillazioni rapide ed intense della distanza relazionale (avvicinamento/fuga)? Il terapeuta è l’unico oggetto di relazione per il paziente (relazione di attaccamento) oppure ci troviamo di fronte ad un’alleanza di lavoro supportava, nel senso che è solo l’operatore a fornire aiuto ed il paziente riceve solamente? Si è invece raggiunto un livello di comunicazione più paritario, nel quale si lavora per identificare e chiarire i pensieri ed i sentimenti, per differenziare chi è che prova e che cosa prova, per valicare consensualmente gli eventi emotivi Oppure ancora: la relazione è volta alla soluzione di terminati problemi, che costituisce un livello ancora più complesso di alleanza

terapeutica? Si è valutato quanto un determinato progetto riabilitativo possa implicitamente sottendere la capacità del paziente di funzionare a quest’ultimo livello di relazione terapeutica?

Non meno importante dell’esame delle dinamiche relazionali è la comprensione degli atteggiamenti e dei meccanismi di difesa del paziente, di come, cioè, combatte la sua angoscia:

devono essere rispettati oppure, in quanto patologici, bisogna lavorare proprio su di essi? Sono la scissione e la frammentazione, ad esempio, che rendono ragione del fatto che una determinata esperienza emotiva e comportamentale del paziente non sia poi apparentemente riproducibile in altri contesti e con altri operatori? Sembra di buttar acqua in un secchiello bucato, ma è proprio vero che non resta nulla?

Un modo per verificare ed approfondire queste tematiche nella pratica clinica ci può essere fornita considerando, ora, un’attività psicoterapeutica strutturata per poi passare a qualche

(13)

considerazione sulle potenzialità che i reparti di degenza, le strutture intermedie e gli ambulatori posseggono, in virtù dell’insieme dei rapporti non strutturati che si realizzano tra gruppi di utenti e gruppi di operatori.

A titolo di esempio ci riferiremo allora a quanto ha prodotto un gruppo di pazienti schizofrenici, ospiti di una struttura riabilitativa psichiatrica, nell’arco di 5 anni di attività, presso un atélier di arti visive (Fassino e Ferrero, 1992b).

L’arte-terapia è un altro tema che è stato tradizionalmente oggetto di particolari attenzioni da parte della Psicologia Individuale, specie di scuola americana; mi piace pensare che questo possa anche essere in relazione col fatto che inizialmente, nella teoria di Adler le considerazioni sulla psiche umana riassunte poi nel concetto di stile di vita erano state espresse facendo riferimento ad

“immagini-guida” interiori, in un modo, quindi, che mi pare francamente preferibile alle formulazioni successive, per le più precise tonalità evocative riguardanti la natura del processo psicologico che si intende descrivere.

Per quanto riguarda l’arte-terapia nei suoi termini più generali, Elisabeth Stone (1992) asserisce che nelle sedute “il paziente usa materiali artistici per organizzare sensazioni, pensieri, ricordi e conflitti esprimendoli simbolicamente attraverso una forma visuale concreta”. Ciò comporta il fatto che egli ha la possibilità di esternare una parte di quel suo mondo interiore che può essere difficilmente accessibile alla coscienza e a cui il processo artistico fornisce invece una modalità per poter essere comunicato, all’interno di un setting dove gli scambi relazionali vengono favoriti e il rapporto con gli altri componenti del gruppo ed il terapeuta è, per quanto possibile, di collaborazione.

In quanto funzione mediatrice, l’arte può dunque aiutare le persone a stare meglio con se stesse o a cambiare il modo di autopercepirsi, ma può anche semplicemente produrre una piacevole esperienza: in questo procedimento gli aspetti non verbali dell’esperienza giocano in ogni caso un ruolo centrale: “è il piacere tattile”, si chiede Sadie E. Dreikurs (1986), arte-terapeuta adleriana di Chicago, oppure sono “l’emozione sensuale evocata dall’uso dei colori sulla carta o un’esperienza spirituale” che innescano il procedimento interiore?

La risposta è complessa: qui mi pare utile sottolineare innanzitutto alcuni aspetti relazionali in qualche misura aspecifici.

Il primo: all’interno di una struttura psichiatrica il fatto stesso che si possa aprire un canale di comunicazione che va al di là delle tradizionali definizioni di status e di ruolo istituzionale sia dei terapeuti che dei pazienti è molto significativo. Inoltre: è molto incoraggiante il fatto che le finalità del lavoro personale e di gruppo possono essere perseguite senza soverchie preoccupazioni di approvazione e di successo da parte dei pazienti. Infine: l’insegnamento di abilità tecniche può incitare all’iniziativa anche con l’aiuto di una certa quota di direttività, che può essere utile se rappresenta una risposta appropriata ai bisogni di sostegno, soprattutto in fase iniziale.

Per quanto riguarda invece lo specifico dell’esperienza artistica, la clinica segnala come anche pazienti con forti valenze autistiche, di fronte ad un pezzo di carta giungono spesso ad esprimere qualcosa di sé e l’isolamento completo viene rotto in un modo che è accettabilmente poco traumatico: nei casi, tuttavia, in cui questo non può avvenire, il rispetto della libera scelta di non produrre alcunché riveste comunque un’importanza prioritaria.

Infatti il gruppo di arte-terapia deve connotarsi innanzitutto come spazio di libera decisione ed è necessario evitare che aumentino nel paziente quella confusione e quella diffidenza che dobbiamo considerare costitutive della sua sofferenza. Proprio a questo scopo, si rivela utile talvolta incentrare e limitare il lavoro di commento e di rielaborazione alle sole motivazioni immediate dell’individuo (le “hidden reasons” della Dreikurs), evitando un lavoro psicologico esteso e profondo. Non sono in ogni caso da attendersi con gli schizofrenici cronici estesi cambiamenti dello stile di vita, per lo meno in tempi brevi.

Nell’ambito del lavoro in atélier i pazienti, anche quelli più gravi, possono mostrare abbastanza rapidamente un comportamento validamente strutturato, talvolta con grande sorpresa degli operatori che li osservano di solito in situazioni più medicalizzate. Può accadere, inoltre, che si instauri all’interno del gruppo un certo grado di tenerezza e così pure che da parte degli esterni possano

(14)

giungere testimonianze di riconoscimento, attenzione, affettuosità.

In termini sintetici, si può quindi considerare che, per gli aspetti creativi dell’immaginario, l’obiettivo centrale in arte-terapia sia costituito (sono ancora parole della Dreikurs) dalla

“promozione del senso di appartenenza, della sensazione di avere un posto", dal poter immaginare quindi uno spazio interiore che viene di volta in volta evocato oppure espresso dai disegni, dai dipinti, dagli oggetti. La conquista di questo spazio rimane in ogni caso sofferta e precaria negli schizofrenici e talora non si riesce nemmeno ad avviare il processo: esso comunque non si realizza in modo disgiunto da quegli aspetti del rapporto interpersonale che abbiamo sottolineato in precedenza, dalla costituzione di un’adeguata distanza (Adler, 1920) relazionale col terapeuta e con i compagni dell’esperienza terapeutica nel gruppo.

Sotto l’angolatura del sentimento sociale, il lavoro dell’arte-terapia, così come di altre terapie in cui viene privilegiata l’espressività non verbale, può costituirsi negli schizofrenici cronici come stimolo ed occasione specifica per la produzione di contenuti emotivi scissi. Definirei questi movimenti come prevalentemente pseudorelazionali, il che non vuol dire che non vi è la possibilità di transazioni altamente significative od anche creative tra il paziente, gli operatori e gli altri pazienti (sappiamo che la relazione con gli psicotici è talora anche drammaticamente coinvolgente sul piano emotivo), ma ribadisce semplicemente il fatto che nella psicosi non vi è stabilmente spazio per una reale distinzione tra il sé e ciò che è altro da sé. Questi movimenti pseudorelazionali difficilmente veicolano una reale comunicazione del paziente se non per aspetti settoriali; per altr i aspetti della relazione, i pazienti possono invece agire sentimenti e punti di vista scollegati o contrapposti.

Pur ammettendo comunque che, per mezzo delle sedute, si sviluppino valenze relazionali anche genuine su direttrici relativamente aconflittuali e con la possibilità, nei singoli pazienti, di selettivi riconoscimenti d’identità, l’accadimento che ha maggiore importanza è costituito dal fatto che la produzione di questi contenuti pseudorelazionali può essere riconosciuta, interpretata, ammirata o rigettata, accolta dal gruppo o dal terapeuta. Questi contenuti specifici manifestati nel gruppo possono attirare in una parola risposte empatiche verbali e non verbali da parte di partner non psicotici (o non esclusivamente tali).

In molti casi non è possibile evocarne di analoghe, invece, attraverso la comunicazione verbale, per le distanze troppo ampie che intercorrono tra i pazienti e i terapeuti nell’istituzione sanitaria, dove spesso il paziente si trova o si colloca egli stesso in una posizione di eccessiva passività ed inferiorità.

Questo possibile riconoscimento autentico dei contenuti scissi e proiettati degli schizofrenici fa anche sì che gli operatori possano variamente esternare di volta in volta il tono della loro partecipazione. A questo proposito, si può dare molte volte veramente il caso che il paziente sappia dipingere, scolpire e disegnare (ma anche cantare, suonare, ballare) molto meglio del suo terapeuta.

Al di là degli obiettivi specifici, quindi, attraverso esperienze di comunicazione creativa non verbale, si può produrre un particolare tipo di cura e di attenzione non scoraggiante, di cui ogni paziente con problematiche narcisistiche ha in genere particolarmente bisogno. Questo incoraggiamento è strettamente correlato ad una produzione attiva del paziente, il che ha una grande importanza anche se l’attività non è spontanea ma viene organizzata o guidata.

In definitiva, compito preciso dei terapeuti è quello di non ratificare, trascurando proprio i desideri scissi o negati di indipendenza ed autoindividuazione dello schizofrenico, il suo desiderio di immobilità autolesiva: si può piuttosto metterlo in condizione di riconoscere nei fatti alcune delle sue potenzialità, nonostante egli non le voglia vedere.

Il riconoscimento del paziente coincide per lo più, inizialmente, col riconoscimento dei terapeuti.

La soddisfazione di questi ultimi per i comportamenti più gradevoli delle persone che curano può essere uno stimolo perché questi si riparano ed attirino ulteriori e genuini movimenti empatici da parte degli altri.

Si verifica in definitiva un “miglioramento”: si sono attenuati i sintomi, i pazienti sono più attivi, disturbano di meno... Il risultato finale, nei casi più favorevoli, è un miglior funzionamento della struttura psicotica in termini di benessere soggettivo ed integrazione sociale; da un punto di vista

(15)

clinico si può parlare di miglior compenso, mantenibile o incrementabile di solito a patto che per lungo tempo i terapeuti (e le strutture terapeutico-riabilitative in genere) proseguano la loro funzione di sostegno e di accoglimento. Quest’ultima funzione può definire realisticamente per lungo tempo gli obiettivi principali dell’intervento nel caso di psicotici con rilevanti sintomi difettuali, molto regrediti o autistici.

Pur avendo posto l’accento in questo modo sulle possibilità di espressione non verbale dei pazienti, non intendo limitare le mie considerazioni a questo aspetto; altre esperienze cliniche, che si riferiscono al versante della comunicazione verbale, permettono invece di ampliare ulteriormente il discorso.

Un esempio può essere quello dei gruppi di discussione (Fassino e Ferrero, 1992a), intendendo con questo termine particolari riunioni periodiche di pazienti, sofferenti di regola di patologia psicotica cronica o borderline, finalizzate all’espressione, alla discussione ed alla rifessione in gruppo su temi di vario genere, liberi o concordati, con la conduzione di uno o due terapeuti.

Sono quindi gruppi terapeutici ad espressione dichiaratamente verbale: la consegna è quella di parlare insieme o di restare insieme in silenzio. La parola risulta quindi il mezzo di comunicazione che viene privilegiato rispetto ad altri possibili: gestualità, atti, espressioni visive o sensoriali d’altro genere. È solo dalla discussione che possono emergere in primo piano i possibili risvolti operativi degli argomenti di cui si parla, senza che peraltro questo determini uno svolgimento diverso delle riunioni che seguono.

Se si tratta di pazienti schizofrenici a vivace espressività clinico-sintomatologica, in fase di scompenso oppure in qualche grado regrediti e deteriorati, le indicazioni per la definizione del setting non possono essere precise in assoluto, ma flessibili in funzione di ogni specifico gruppo;

rimane però assolutamente utile, specie in caso di incontri protratti, che il ritmo delle sedute sia prefissato e la durata delle medesime sia indicata; allo stesso modo, ai pazienti è utile sapere che le sedute devono avere uno svolgimento regolare e che quindi devono riferirsi e attenersi ad un orario concordato.

Per quanto riguarda questo aspetto, si ritiene in linea generale che una durata inferiore ai 40 minuti non consenta un discorso sufficientemente sviluppato e che, soprattutto, non dia sufficiente modo a tutti i membri del gruppo di esprimersi se lo desiderano. All’opposto, una durata molto lunga può risultare difficile per la difficoltà di mantenere la concentrazione e demandare altri eventuali bisogni.

Le indicazioni di tempo devono risultare funzionali, comunque, agli obiettivi di ogni specifico gruppo.

Il numero dei partecipanti è meglio non sia troppo elevato; questo tipo di gruppi è in genere aperto ad un lento ricambio, che avviene quando un paziente termina la sua esperienza ed un altro si inserisce al suo posto.

La disposizione in cerchio dei pazienti è preferibile per far sì che tutti i componenti del gruppo si possano vedere agevolmente.

Poiché per qualcuno di essi la frequentazione dei gruppi può dipendere in certi momenti (specie all’inizio) dal fatto di poter essere accompagnati alle sedute o, più semplicemente, dal fatto che la presenza venga ricordata o stimolata, tutto questo non costituisce pregiudiziale negativa tale da comportare l’esclusione; dove è possibile, rimane però preferibile che il paziente testimoni il suo impegno presentandosi agli incontri di propria iniziativa, La necessità di farsi accompagnare o di lasciare prematuramente la seduta viene considerata qui come un atto significativo del paziente, rispetto a cui egli è lasciato libero ma è anche invitato a fornire spiegazioni al gruppo.

Una certa flessibilità rispetto alle norme dev’essere intesa come il fatto che ad esse viene riconosciuto appieno il loro valore e devono essere chiaramente definite ma, come altrove, si dà la possibilità che possano essere trasgredite.

Con i pazienti psicotici bisogna avere sempre presente che una situazione di comunicazione protratta può impegnarli talora a sopportare troppo a lungo le stimolazioni che provengono dagli altri e, in modo correlato, dal proprio mondo interiore: il fatto di poter rimanere formalmente all’interno del gruppo per la durata della seduta è dunque indice, di per sé, di un minimo controllo

(16)

di base degli impulsi e dell’istintualità.

Per quanto riguarda gli obiettivi globali ed i metodi terapeutici, è necessario che i singoli pazienti, a seconda del grado di patologia e di diversità delle problematiche, possano vivere in modo personale la loro esperienza di gruppo, sperimentando sia l’emergenza delle peculiarità individuali, sia il bisogno e la capacità di sentirsi simili agli altri. In questo senso, un’esperienza che renda possibile e incoraggi l’espressione di entrambi questi aspetti potrebbe contribuire ad allentare meccanismi troppo rigidi di difesa e, in qualche caso più favorevole, contribuire almeno in parte ad una migliore definizione dell’identità personale.

Le tematiche degli incontri possono essere lasciate sufficientemente libere. Nella nostra esperienza si è riscontrato come una parte delle motivazioni a partecipare al gruppo sia connessa in qualche modo ad elementi ludici, che si esprimono sia nel modo di comunicare, sia come contenuto della comunicazione stessa.

In base alle conoscenze psicodinamiche che abbiamo degli schizofrenici ciò non desta sorpresa e bisogna considerare che, per una certa parte, le potenzialità di integrazione psichica che hanno gli psicotici sono legate alle dimensioni psicologiche del gioco e del piacere.

Altro tema di rilievo, che spesso emerge nelle sedute, è quello delle condizioni di vita del paziente in quel momento (anche eventualmente in comunità o in condizioni di ricovero).

L’argomento non risulta sempre semplice o piacevole da affrontare per il gruppo, ma poter discutere questi aspetti permette di definire più chiaramente l’esperienza che il paziente in quel momento sta vivendo, con l’opportunità di condividere e di confrontare questo significato con i compagni.

Un aspetto estremamente importante ai fini del lavoro terapeutico è valutare se i singoli pazienti hanno una sufficiente capacità psicologica di rielaborazione. Assumendo come valida la distinzione proposta da Racamier (1973) tra “soin” (cura) e terapia, secondo cui nel primo caso si lavora sui rapporti che intercorrono tra gli avvenimenti e le emozioni corrispondenti e nel secondo caso tra queste ultime e le relative rappresentazioni fantasmatiche, bisogna tener conto che un gruppo di discussione con psicotici può lavorare più facilmente, specie all’inizio, nel primo senso piuttosto che nel secondo perché quest’ultimo richiede che i pazienti siano sufficientemente liberi dai meccanismi della psicosi. Questi ultimi, infatti, tendono a rendere impossibile, all’interno degli avvenimenti psicologici, una distinzione del registro simbolico e del registro ideale rispetto al registro di realtà.

I1 fatto che il gruppo possa lavorare preliminarmente meglio nel senso del “soin" che della terapia non vuol dire che i pazienti spontaneamente tendano a organizzare la discussione in questo senso. Può accadere anzi che, nelle loro comunicazioni, essi neghino difensivamente non solo le correlazioni tra i loro affetti ed i fatti che succedono ma, ancor più, i fatti stessi. Sono questi i casi in cui i pazienti tendono a riproporre con insistenza il mondo delle loro fantasie, sia in forma di delirio sia attraverso una sorta di pseudo-rielaborazione dei ricordi del passato che non ha però il significato di illuminare la vita e i progetti futuri e che sembra piuttosto un tuffo nostalgico all’indietro per escludere le angosce del presente. Per altri pazienti, all’opposto, non esiste altro interesse che l’immediato succedersi degli eventi quotidiani, senza che appaia la possibilità di correlarne il senso alla propria personalità e alla propria storia. Anche in questo caso il paziente sembra non possa o non debba farsi carico di ciò che vive.

Queste modalità difensive opposte possono manifestarsi contemporaneamente in seno al gruppo:

alcuni membri dello stesso tenderanno a riferire solo fatti di cronaca, senza rielaborarli, altri solo ricordi e fantasie senza agganci a situazioni di fatto.

Un altro punto riguarda i conduttori: nel caso in cui essi facciano parte dell’équipe dei curanti, devono farsi carico del fatto che portano con sé, anche all’interno del gruppo, il ruolo di potere che deriva loro dall’essere parte dello staff degli operatori. I pazienti, per parte loro, ne tengono gran conto. Si deve favorire il fatto che la funzione terapeutica dei conduttori all’interno del gruppo possa essere vissuta come un momento diverso ma coerente con le altre eventuali funzioni; solo se i conduttori hanno un’esplicita consapevolezza della loro funzione direttiva, questa può essere superata e messa da parte a vantaggio di un ascolto partecipe o di una delega del potere decisionale, quando sia opportuno ma soprattutto quando sia comprensibile per il gruppo. Gli interventi dei

Riferimenti

Documenti correlati

A protocol for in vitro germination and protocorms’ development of the hybrid was successfully achieved on both M551and BM-1 media under asymbiotic conditions, that is without

The member states of the European Union appear not to question the authority of the European Court of Justice in this matter, even where its rulings might conflict with directives

Quanto fin qui sostenuto con uso di termini esterni alia teoria junghiana, appare perfettamente assumibile all'interno della stessa concezione teorica che forni- sce anche, a

Ai fini clinici e per una contemperanza della prassi junghiana con le tecniche d'intervento psichiatrico sulle psicosi si può citare Gaetano Benedetti che con- tribuisce a questo

L’articolo 11 di questa legge rende obbligatorio uno studio di sicurezza pubblica (E.S.S.P.), nell’ambito degli studi preliminari alla realizzazione dei progetti di pianifi

Apprendere le principali alterazioni patologiche delle suddette funzioni e il loro riflesso sul comportamento, sapendone riconoscere e ricercare le manifestazioni attraverso le

Lo studio psicologico del linguaggio comprende, necessariamente, anche lo studio della memoria, della organizzazione cognitiva dello spa- zio semantico, della percezione,