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Dal “respingimento” legislativo a quello giurisprudenziale. Quando l’obiettivo deflativo entra nella motivazione della sentenza. Brevi note a margine di Cass. n. 4228/2015 - Judicium

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MARCO MARINARO

Dal “respingimento” legislativo a quello giurisprudenziale.

Quando l’obiettivo deflativo entra nella motivazione della sentenza.

Brevi note a margine di Cass. n. 4228/2015.

In una recente riflessione Bruno Capponi ha rilevato come la tendenza del legislatore attuale sia quella del “respingimento” del contenzioso civile, ponendo in evidenza come nella produzione normativa contemporanea si possano individuare univoci indici che consentono di chiarire che l’obiettivo nel legiferare in ambito processualcivilistico sia quello «di restringere progressivamente l’accesso alla giustizia, prendendo atto di una sempre più diffusa opinione che vede nel ricorso al giudice – specie nelle fasi di impugnazione ma non soltanto – la manifestazione di un

“abuso”».

Inoltre, seguendo sempre il pensiero dell’autorevole studioso, «Una variante di tale tendenza considera “giustizia” non soltanto quella somministrata dal giudice (la “giurisdizione”), ma anche quella in vario modo gestita dal mediatore, dal conciliatore, dal negoziatore, dall’arbitro, da sedi amministrative di varia natura che possano fronteggiare con un minimo di credibilità i contenziosi che crescono a ritmo incontrollabile. Come se, all’atto pratico, ogni possibile soluzione si equivalesse purché sia data una risposta, alternativa a quella giurisdizionale, alla domanda di tutela legale».

La questione è di notevole rilievo e trova fonte nella grave situazione di congestione dell’apparato giudiziario italiano che ha condotto negli ultimi lustri ad introdurre con obiettivi deflativi una serie di norme che incidendo sul processo ha consentito l’introduzione di filtri endogeni ed esogeni alla giurisdizione, disegnando un quadro preoccupante tanto da giungere ad affermare che «Se non si opera un deciso cambio di passo, presto non resterà molto della tutela civile dei diritti».

Non è questa la sede per affrontare le complesse problematiche nelle quali si radicano i profondi disagi nei quali si dibatte la giustizia civile ed anche l’impiego di sistemi c.dd. alternativi sulla spinta della normativa europea propugnati in chiave meramente deflativa e per ciò stesso disciplinati per quel fine, obliterano ogni prospettiva culturale tesa a modellare un sistema di risoluzione dei conflitti nel quale accanto ad una giurisdizione rapida, qualificata ed efficiente possano operare in maniera complementare ed integrata quegli strumenti procedimentali che trovano primaria fonte nell’autonomia negoziale.

A fronte di questa preoccupazione condivisa diffusamente sia pur con diversità di opinioni dagli studiosi e dagli operatori della giustizia, è intervenuta una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (III Sezione

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civile, n. 4228 del 24 aprile 2015) che nell’àmbito della sua funzione nomofilattica ha espresso un principio che sembra potersi intendere quale forma di “respingimento” giurisprudenziale.

La questione principale portata all’attenzione della Cassazione attiene ad una sentenza del Tribunale di Bergamo – Sez. Treviglio che nell’accogliere una opposizione all’esecuzione aveva motivato tra l’altro affermando che la richiesta fatta valere (interessi da quantificare in euro 12,71 o 21,68 oltre alle spese di notifica e i diritti del processo) era «un importo oggettivamente simbolico e comunque tale da non giustificare un’esecuzione intrapresa per un importo di oltre diciassettemila euro».

Queste parole riportate nella motivazione della pronuncia della S.C.

parrebbero da condividere inquadrando le medesime nella fattispecie concreta sottoposta al giudicante di merito. Infatti, il creditore pur avendo ricevuto dopo la notifica dell’atto di precetto l’integrale pagamento della somma ivi indicata aveva poi proceduto al pignoramento dell’intero, richiedendo la somma di interessi maturata nelle more.

Invero, la Cassazione va ben oltre questo rilievo e precisa che

«L’interesse a proporre l’azione esecutiva, infatti, quando abbia ad oggetto un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non diversamente dall’interesse che deve sorreggere l’azione di cognizione, non può ricevere tutela giuridica se l’entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse stesso».

Il principio espresso è chiaro e appare dirompente.

L’entità minima dell’interesse patrimoniale azionato e di per sé privo di tutela giuridica. In pratica una valutazione (oggettiva) sulla quantità consente al giudice di valutare l’irrilevanza del medesimo interesse se non supportato – sia pur indirettamente - da altro interesse di natura non patrimoniale.

Non è ben chiaro ove possa rinvenirsi ad avviso della Corte il parametro oggettivo di rilevanza dell’interesse meramente patrimoniale cui ancorare siffatta valutazione, ma nella motivazione si precisa che «Per tale ragione neppure appare fondato il sospetto che la lettura dell’art. 100 c.p.c.

che la Corte ritiene di condividere si ponga in violazione dell’art. 24 Cost., che, tutelando il diritto di azione non esclude certamente che la legge possa richiedere, nelle controversie meramente patrimoniali, che per giustificare l’accesso al giudice il valore economico della pretesa debba superare una soglia minima di rilevanza, innanzi tutto economica e, quindi, anche giuridica».

Ciò significa che l’interesse ad agire e, quindi, la rilevanza giuridica che giustifica l’azione debba superare il preliminare vaglio circa una soglia minima in quanto si ritiene sia già vigente questo limite da desumere –

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almeno così si ritiene di poter intendere – dall’art. 100 c.p.c. Soglia minima dunque da individuare a cura del giudice in ciascuna controversia con le conseguenze che è possibile immaginare. Senza considerare che, prescindendo dal processo esecutivo, la possibile applicazione di questo principio anche ai processi di cognizione, ove l’importo richiesto è da quantificare, la valutazione della rilevanza o meno dell’interesse dedotto costituirà una momento che segue l’accertamento e precede la condanna.

Ma se l’interesse è giuridicamente irrilevante a causa della esiguità dell’importo determinato anche la semplice fase dell’accertamento non potrà che concludersi con un rigetto della domanda.

Ma la pronuncia della S.C. prosegue motivando ulteriormente:

«Poiché la giurisdizione è, notoriamente, risorsa statuale limitata ben può la legge, esplicitamente o implicitamente, limitare il ricorso al giudice per far valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero della azioni giudiziarie non può non influire, stante la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragionevole dei giudizi, che è bene protetto dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU». Come a dire che non essendo possibile gestire tutti i processi civili, il giudice può smaltire quelle controversie aventi ad oggetto somme esigue fondando la decisione sulla irrilevanza giuridica dell’interesse meramente patrimoniale.

Entra nella motivazione della sentenza e in un principio della S.C. la valenza negativa della congestione del sistema giudiziario che sinora aveva orientato il solo legislatore, ma che ora invece sembra avviarsi a conformare anche le decisioni dei giudici. Tuttavia, appare davvero preoccupante che il pur corretto rilievo circa l’impossibilità di dare risposte processuali ad un sistema ove la domanda rischia di aumentare senza controllo in quanto la risposta di giustizia non potrà essere comunque illimitata, finisca per indirizzare non la politica legislativa verso una revisione dei sistemi di risoluzione delle liti, ma orienti la stessa decisione del giudice.

Il legislatore potrà dunque inserire soglie minime di accesso alla tutela giudiziale? E nelle more i giudici potranno volta a volta sindacare se l’importo richiesto merita tutela oppure no? È questo lo scenario che sembra profilarsi all’alba della sentenza in commento. Uno scenario che non può essere assimilato all’abuso del processo come invece la Corte nel prosieguo della motivazione riconduce il suo pensiero richiamando la nota pronuncia delle SS.UU. n. 23726/2007 sulla infrazionabilità del credito o anche la sentenza n. 6664/2013 e n. 9488/2014.

Delle sentenze richiamate sono noti i princìpi affermati per evitare il c.d. abuso del processo e cioè un utilizzo del processo eccedente e deviante rispetto all’interesse sostanziale fatto valere anche in applicazione del principio costituzionale di solidarietà (art. 2 Cost.) e del giusto processo (art.

111 Cost.). Sul tema la citata pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite ha segnato il passaggio dall’abuso “nel” processo all’abuso “del”

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processo. Infatti, la Cassazione ha chiarito che «è contrario alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo, ostativo all'esame della domanda, il frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, di un credito unitario» (Cass. civ., Sez. Un., sent., 15/11/2007, n. 23726). Nella prospettiva indicata dalla citata decisione, l’abuso del processo viene definito sia con riguardo al profilo privatistico (ricorso allo strumento processuale per fini che non gli sono propri, con dolo della parte che vi ricorra), sia al profilo pubblicistico (abuso del processo come antitesi al giusto processo e alla ragionevole durata dello stesso) che legittima la sanzione processuale dell’inammissibilità della domanda. Tale interpretazione consente di evitare l’accesso indiscriminato alla giurisdizione prescindendo dalla fondatezza della domanda e, quindi, della tutela del diritto. Ciò che rileva è la modalità con la quale tale tutela viene richiesta “da” e “nel” processo.

Nel caso esaminato dalla sentenza in commento invero non si profila un utilizzo abusivo del processo, ma la qualificazione in termini di irrilevanza dell’interesse dedotto secondo una valutazione discrezionale del giudice.

Adottando il principio espresso, la S.C. d’ora innanzi (almeno per il processo esecutivo) occorrerà valutare prima di promuovere un’azione se la richiesta economica, qualora non supportata anche da un interesse non patrimoniale, non sia da ritenersi “oggettivamente minima”. Ma tale valutazione dovrà tenere conto dell’oggettiva situazione patrimoniale del creditore o dovrà essere sganciata dalla stessa?

Tutti interrogativi privi di risposta in quanto il dubbio che permea gli stessi appare evidente, posto che la valutazione della rilevanza di un interesse patrimoniale è questione affatto diversa dall’abuso del processo.

Cass. civ. Sez. III, 03/03/2015, n. 4228 [massima CED Cassazione]

In tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 cod. proc. civ., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 Cost. in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU. (Nella specie, il

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creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di euro 12,00 a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento).

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