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Academic year: 2021

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Parte seconda

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STORIE

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RACCONTI E PERSONAGGI TRA TERRAFERMA E MARE

“Nel piccolo vecchio porto Viareggino ho visto per la prima volta tante paranzelle a motore e parlando con alcuni pescatori ho saputo che anche in altri porti, sia dell’Adriatico che del Tirreno, già ve ne sono in gran numero. È inutile, credo, soffermarsi a lungo per illustrare che questa applicazione porta vantaggi sulla barca a vela: ecnomia di personale, soprattutto di fatiche, aumento di velocità e maggior garanzia di marcia e di ritorno. […] Ma che? – ecco che dietro il fumo dei motori vi è tutta una candida e pura poesia che si annebbia e scompare, la poesia della barca a vela che cede terreno ai nuovi segni del progresso e che cede davanti all’invadenza di questo nostro grande secolo iconoclasta e creatore, ardito e geniale. Se non i figli saranno i nepoti nostri che le barche a vela le andranno a vedere nella sterile immobilità dei freddi musei e ne ascolteranno le gesta, meravigliati e attenti, attraverso le accese e nostalgiche narrazioni dei nonni. Ma essi tuttavia non potranno comprendere ciò che avrà perduto il mare e parrà anzi loro che questa forma di biblica locazione marina sia stata goffa e ridicola. La barca a vela è forse ancor l’unico avanzo dell’antichità che ci è rimasto, nella sua stretta originalità attraverso tanti secoli di mutamenti; e con essa tutto un piccolo mondo antico è rimasto. Guardate i piccoli equipaggi di quelle imbarcazioni e vedrete l’uomini che, colle folte, ispide capigliature, con le barbe rozzamente incolte, ingrossati sotto le crude fatiche della carrucola, della corda e del remo, possono far ricordare, in certo modo, i vecchi corsari dell’infelice Medio Evo. […] Addio! l’aspetto placido della pesca, che racchiude nel silenzioso procedere delle vele, gonfie sotto il miracoloso alito della natura, tanta armonia, tanto infinita pace sotto le diverse forme dell’arte, la sublimità degli affetti umani, sta per sparire. Ecco là, sopra i mille scintilli dell’acque, bonariamente increspate, il disco infuocato del sole declinare e, al nitido orizzonte, sullo sfondo chiaro del cielo, dieci, cento vele chiare, rosse, arancione, arabescate si stendono allineate come festanti addobbi del mare. Sono le barche dei pescatori che tornano. Sono ancora come quelli, non è cambiato: in coperta uno tiene il timone e canta uno tuffa il remo e canta, altri sono alla vela e alle reti, ancora come quelli che udirono e trasmisero la verità, lasciando il grande mare per la conquista del mondo. […] Domani, nelle ore del ritorno e della partenza, nella prossimità dei porti pescherecci, al posto del canto dei marinai e del lieve e dolce sfrusciar di acque avremo un assordante cozzar di ferri e un pulsar di macchine, il povero mare, solcato in mille sensi, parrà un’immensa distesa di maestranze al lavoro, tra il fumo e gli scoppi e l’urlo delle sirene. […] Poeti che ne avete la vena, cantate l’ultimo inno alla vela che passa”.1

Quest’ultimo appello apparso anonimo in un breve trafiletto a margine de «Il Popolo Toscano», quasi una profezia, sembra essere stato accolto dai nostri scrittori che, con alcune delle opere che andremo ad analizzare, hanno raccolto il messaggio dell’articolo dando vita, se è possibile azzardare questa ipotesi, ad una sorta di nucleo per una letteratura di mare tutta locale e viareggina che trae alimento da elementi realistici, dalla tradizione velica e marinara sviluppatasi nella città a partire dall’Ottocento, e che è inseribile nel panorama letterario italiano incentrato su tale genere, un panorama di cui non esiste un’autentica tradizione, se non per sporadici e del tutto autonomi accenni2 e in cui si oscilla tra una tematica fantastico-avventurosa, predominante, ed una restrizione del campo oceanico entro confini mediterranei e domestici.3 Infatti, nel suo complesso, all’interno del racconto d’acqua italiano l’Oceano e i

1 “Nostalgie marine – Il tramonto della vela”, in «Il Popolo Toscano», 19 luglio 1930. 2

Cfr. l’excursus di GIORGIO BARBERI SQUAROTTI, Viaggi per mare: dal fantastico al reale all’allegorico, in AA. VV., Il mare nella letteratura italiana. I libri di viaggio, atti della tavola rotonda; a cura di Mario Dentone e Giancarlo Borri, Savona, Sabatelli, 1987, pp. 7-17.

3 Monica Farnetti ha cercato di inquadrare e classificare i vari esempi di letteratura italiana dalle origine

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mari della grande letteratura marinara europea e americana vengono ridotti alle dimensioni protette e finite del mare interno, il mare nostrum, ad esperienze quotidiane cadenzate da partenze e ritorni, a brevi traversate che vedono protagonisti pescatori o capitani e marinai di piccola navigazione, senza però perdere di vista le funzioni simboliche e metaforiche, epiche, rituali o morali che di norma si attribuiscono al mare. Anche nei nostri tre autori, esponenti, almeno Viani e Tobino, della cosiddetta “linea tirrenica”,4 permarranno tali valenze e le rotte della narrazione non si spingeranno molto oltre i confini viareggini, restando in gran parte ancorate alla costa versiliese o ad essa facenti ritorno, in quanto tale costa è paesaggio d’attrazione e elezione essendo in primis paesaggio d’origine. Ad aprire gli orizzonti contribuiranno però il ripescaggio di alcune figure che hanno reso grande e famosa Viareggio in tutto il mondo, figure realistiche così rare nei “nostri mari letterari sempre più sognati o immaginati”.5

Ecco così che il fantasioso cede il passo al reale e sulla pagina incontreremo dal celebre capitano Raffaello Martinelli detto “il Bava”, che, nel 1875 compì un lunghissimo e pericoloso viaggio a bordo del brigantino Catone e su cui Viani incentrerà un suo romanzo, alla famiglia degli Antonini, un casato che dal 1858 e per tre generazioni lottò sugli oceani e di cui Tobino e soprattutto Micheli ci daranno notizia; dal famoso costruttore Fortunato Celli detto “Natino” e cantato da Tobino, ai palombari dell’Artiglio che, dopo una tragedia, recuperarono una ingente quantità d’oro dal relitto del transatlantico inglese Egypt e le cui gesta saranno riferite con occhio cronachistico da Micheli.

Nel caso che ci pertiene, avremo quindi storie marine e narrazioni definibili “di terra”, sia vere che romanzate e originatesi da scrittori del posto che narrano il mare e la propria città da una prospettiva che si potrebbe dire, secondo quanto scrive Bucciarelli, “interna”, ossia non dalla parte del semplice spettatore, bensì da quella di chi, avendo radici locali, ha vissuto da attore protagonista la propria Viareggio e ne ha seguito l’evoluzione.6

mare interno o apertura a oceani esotici o nordici (come accade ad esempio in Salgari). Cfr. MONICA FARNETTI, Il romanzo del mare. Morfologia e storia della narrativa marinara, Firenze, Le Lettere, 1996.

4

Monica Farnetti individua per la narrativa marinaresca italiana una geografia, un atlante in cui si possono distinguere un versante ligure-tirrenico, uno adriatico, e un bacino d’acque complessivamente indicate come “Mari del Sud” e colloca Viani e Tobino nella “linea tirrenica”. Non menziona Micheli, ma, visto il suo affrontare argomenti affini, marinai, capitani e, in più, palombari viareggini, anche lui si può collocare in questo filone, seppur lo contraddistingua una tendenza più cronachistica e storica. Cfr. MONICA FARNETTI, Il romanzo del mare. Morfologia e storia della narrativa marinara, cit., pp. 66-70.

5 G

IORGIO BARBERI SQUAROTTI, È la fantasia il vero mare dello scrittore, in AA.VV., Il mare nella letteratura italiana del Novecento, atti della tavola rotonda a cura di Mario Dentone e Giancarlo Borri, Milano, Res Editrice, 1985, p. 7.

6

Cfr. STEFANO BUCCIARELLI, La letteratura del mare in AA.VV., La Versilia e il mare, a cura di Alberto Bargellini e Antonella serafini, Firenze-Siena, Maschietto & Musolino, 2003, pp. 245-257. Altri interventi sempre di Bucciarelli sul rapporto e le influenze reciproche tra la letteratura locale e non solo e Viareggio sono: “Più bella d’Oriente”. Percorsi letterari nel verde cittadino in AA.VV.,Verde, Viareggio verde: ricognizione e rivisitazione del verde urbano di Viareggio per un’educazione paesaggistica, Viareggio, Baroni, 2000, pp.

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Mentre chi si è trovato ospite della Versilia e quindi fugace osservatore ci riporta l’immagine di un Eden incontaminato, di un luogo per il ristoro dello spirito, chi l’ha abitata ci offre una produzione letteraria fatta non di mere suggestioni di tipo vedutistico, ma di testi che racchiudono accadimenti, ambienti e personaggi veri e reali – seppur declinati a seconda dello stile proprio – e soprattutto che si fanno portavoce sia di un modo diverso di vedere la realtà in cui sono vissuti, sia di una lezione esistenziale, di un racconto sulla vita. La Viareggio popolare e marinara si materializzerà negli strani personaggi vianeschi o nei racconti quasi epici di Micheli, o verrà cantata con accenti libreschi e con toni tra il lirico e il nostalgico da Tobino, mentre l’elemento marino e il colloquio con esso produrrà storie di marinai e capitani, di mari e tempeste, di vagabondi e derelitti, in cui, al di là della personale vena creativa, il punto di partenza è sempre la storia e la realtà locali, unite ad un proprio e soggettivo sguardo al mare. Da tale osservazione esso si farà sia confidente e amico, rifugio e ristoro, ma anche cupo, presago e feroce nemico, un vero Polifemo divoratore delle sue vittime, in Viani; voluttuoso e saputo veleggiare con poesia e delicatezza in Tobino; tra epos e cronaca in Micheli.

Se fino ad ora la Viareggio che non c’è più dei nostri tre scrittori è trapelata qua e là per bagliori e frammenti, in questa sede cercheremo di mettere ordine agli spunti emersi fornendo una visone complessiva e chiarificatrice. Ma, novità, aggiungeremo qualche tassello, in particolare ci soffermeremo sui testi che si ispirano liberamente all’epopea marinaresca viareggina cercando di mostrare le soluzioni diverse elaborate dagli autori, soluzioni che però non perdono mai d’occhio il dato reale e che sono accomunate da un punto di partenza comune: Viareggio, una terra amata e quasi da difendere, in cui progressivamente si percepisce che il cambiamento portato dalla modernità – progresso industriale e turismo balneare – sta incrinando qualcosa, sta facendo cadere nell’oblio la memoria di glorie e fatti importanti del passato, di una leggendaria marineria, così come le tracce di quell’universo semplice e modesto, attanagliato dalla miseria e fatto di marinai, pescatori e povera gente che ha veramente costruito la città e ne ha costituito l’ossatura.

48; Scrittura e costruzione della Versilia: un mito alla prova, in AA.VV.,La costruzione della Versilia, cit., pp. 83-108.

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196 Capitolo primo

LA VIAREGGIO DI VIANI: REALTÀ, IMMAGINAZIONE, ALLUCINAZIONE

Pittore, xilografo e, dopo molti anni, anche scrittore, Lorenzo Viani è una personalità complessa nel panorama artistico e letterario novecentesco. Se della sua arte molto si è scritto e si è detto annoverandolo tra i maestri dell’Espressionismo pittorico italiano e europeo del Novecento, sulla sua produzione prosastica e poetica variegata e ampia si è preferito spesso tacere, facendola cadere, insieme a quella di tanti altri dimenticati, nel baratro dell’oblio. Chi ne ha parlato criticava di lui una scrittura difficile, piena di dialettismi, spesso incomprensibile, che sembrava voler raggiungere un’originalità forzata e artificiosa; ma sotto accusa venivano posti anche i suoi personaggi, troppo risentiti e indocili, troppo poco inquadrati e canonici, eccessivamente esasperati e disperati. Per non parlare poi del suo temperamento, tacciato di essere ambiguo e incoerente visto lo spostamento di orizzonti politici maturato nel corso della sua vita.7

Solo di recente, prima con una serie di eventi organizzati nel centenario della nascita, poi con il Piano di un’Opera Omnia dell’autore costituita da sedici volumi e curata dall’editore Baroni di Viareggio (attualmente interrottasi), c’è stato un “ritorno a Viani” e la critica è tornata ad interessarsi a questa figura difficile, vulcanica e, a mio avviso, mai comprensibile fino in fondo; più la si legge e più si tenta di avvicinarla, più sembra sfuggirci. Eccettuate brevi incursioni nel suo mondo pittorico, del resto già emerso in parte e a tratti nel corso del presente lavoro, il Viani di cui ci occuperemo sarà quindi quello narrativo. In particolare ci soffermeremo, visto il titolo del contributo, sul Viani che ha scritto pensando e vivendo nella sua terra d’origine. Due saranno i livelli che useremo per addentrarci nella Viareggio vianesca: l’analisi e lo studio di alcune delle sue figure tipiche, metaforiche e reali al tempo stesso, quelle però più marinare, incontrate o nate da suggestioni sperimentate nelle darsene viareggine; le avventure di due personaggi marittimi più o meno eroici in cui il mare prorompe nella narrazione venendo a ricoprire un ruolo ambivalente.

Verranno quindi presi in considerazione nell’ordine, prima, una scelta di racconti contenuti in

Gli Ubriachi, Storie di umili titani e Gente di Versilia, poi, Angiò uomo d’acqua e Il Bava in

cui l’elemento marino, fin qui rimasto in secondo piano, diventa protagonista e si affianca al ritratto di due figure realmente esistite a Viareggio. Il tutto però non può prescindere dal

7

Una panoramica sulla ricezione critica di Viani ce la offrono i seguenti interventi: IDA CARDELLINI SIGNORINI, Lorenzo Viani, cit., pp. 391-399; ROSARIA BERTOLUCCI, Lorenzo Viani: parola come colore, Firenze, Editrice La Ginestra, 1980, pp. 7-10; GIORGIO PITTÈRI,Ragguaglio su Lorenzo Viani e la critica letteraria, in AA.VV., Studi vianeschi, Atti del 1° Convegno, Viareggio, 31 maggio-1 giugno 1980; a cura di Marcello Ciccuto, Firenze, Grafiche Senatori, 1981, pp. 103-123

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tratteggiare prima un breve profilo biografico dell’autore, necessario per comprendere quella che poi sarà la sua ispirazione. Egli infatti scriverà le sue opere non perdendo mai di vista né il mondo della Darsena e della Viareggio vecchia in cui è cresciuto e che sente come proprio, né quella miseria toccata con mano nella sua infanzia e che lo accompagnerà per gran parte della sua vita. E questa peculiarità non è spuria deduzione di critici, lui stesso la sostiene in un’intervista, trascritta anni dopo dall’elzevirista che ha fatto conoscere i più grandi personaggi del Novecento letterario, Luigi Personè. È un documento importante perché derivante direttamente dalla voce di Viani, una sorta di professione di poetica sul suo modo di scrivere e sui soggetti della sua scrittura che ci fa capire le sue radici nella dimensione popolare più povera e oppressa, scandagliata da “informatore”, da “registratore”. 8

Andiamo quindi a vedere quale è stato il percorso accidentato e irrequieto di questo artista veramente vagabondo come i suoi derelitti, non perdendo mai d’occhio il suo personale rapporto col mare della sua Viareggio.

1.1 La vita intensa di un uomo irrequieto e vagabondo che voleva ogni volta tornare al suo mare

“Io sono nato nella Darsena vecchia in Viareggio, la sera di Tutti i Santi del 1882. Sono stato battezzato il giorno seguente, che è quello dei Morti al fonte battesimale della chiesa di San Francesco. […] Mi chiamo Lorenzo perché così si chiamava il mio compare, mi chiamo Romolo perché Romola si chiamava la mia comare, e mi chiamo Santi perché mia madre volle mettermi anche questo nome”.9

Questa è la presentazione che Viani fa di sé in quello che possiamo definire uno dei suoi libri autobiografici, Il figlio del pastore (Milano, Alpes, 1930), che narra in prima persona della sua esperienza di vita dalla nascita fino alla partenza per la Francia, ma che è altresì essenziale, insieme agli altri suoi testi autobiografici, per poter seguire il dipanarsi irto, tortuoso e complesso della sua biografia e per comprendere, oltre ai sentimenti avversi che covò nella sua infanzia, il suo rapporto contemplativo col mare maturato fin da quell’età.10

8

“[…] Il mio esercizio è notarile. […] Anche io noto secondo che la realtà mi informa […]. Io sono un informatore. Fo sapere la disperazione della povera gente. Sono il registratore di quel che infierisce sui deboli, sugli indifesi. Si vorrà concludere che sono l’avvocato d’ufficio di chi non può permettersi nemmeno il lusso di un avvocato in piena regola? […] Io non sono in piena regola. Perciò vado bene ai miei clienti. Un insofferente come loro, un umile, un offeso. […] Alcuni miei personaggi fanno orrore? Non li ho inventati io. Io li ho registrati. Le circostanze, ripeto, mi sono state favorevoli: fin dalla barberia dell’infanzia; e poi a contemplare i vàgeri lungo il molo o alla darsena; fra gli ubriaconi, fra gli accattoni, fra chi non ha fiato nemmeno per dire che ha fame, fra chi finge di vedere, mentre ha la vista annebbiata”. Cfr. LUIGI PERSONÈ, L’ispirazione dagli umili, in «L’Osservatore Romano», 29 agosto 1987.

9 L

ORENZO VIANI,Il figlio del pastore, cit., pp. 7-8.

10 La testimonianza resa dal Viani in questo come negli altri libri autobiografici (Parigi, Ritorno alla patria,

Barba e capelli) sui motivi della propria ispirazione e della propria arte offre dati certamente interessanti e particolarmente utili per cogliere la singolare istanza creativa che caratterizza la sua esperienza artistica. Ma

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Già il suo affermare nell’incipit la nascita nella Darsena vecchia non è un dato trascurabile, è rivendicazione di un’appartenenza fiera ad un determinato ambiente. Infatti tutta la sua futura produzione sia artistica che letteraria deriverà proprio da questo luogo natale, trarrà la sua linfa vitale dalla gente che qui abitava e dal mondo che lui scorgeva dalla sua “casetta”. L’ambiente marinaresco viareggino, vissuto nelle libecciose notti di tempesta e nelle sere di chiaro di luna, diventa lo scenario da cui matureranno “le favole” della sua vita, come egli ammette nel frammento seguente in cui ci mostra una delle sue facce, la capacità cioè di parentesi liriche e suggestive, fortemente visive e sonore, con immagine del tutto uniche come quella delle stelle. La darsena si anima e i suoi elementi si antropomorfizzano, si lamentano e piangono quasi volessero parlare a Viani, suggerirgli le trame dei suoi futuri racconti:

La mia casetta era sotto al tumolo delle vele. Quando soffiava il vento di libeccio, il tetto suonava e dal letto si udiva lo scricchiolìo delle antenne e dei bompressi. Quando il mare in tempesta rompeva sulle calate del molo, le acque ferme delle darsene salivano, le murate dei barchi investivano le altre murate, i parabarche schiacciati fra le carene crocchiolavano, i fori delle gubìe risoffiando il vento pareva si dolessero; quando in quella selva d’alberi brucati ci dava la saetta, le schiezze delle antenne schizzavan sui tegoli. Nelle sere di chiaro di luna dalla cameretta, di tra i vasetti di garofani, si vedevano fiorire le stelle sui cimelli degli alberi, e tante rimanevano impigliate nelle maglie delle reti, stese a imbeversi di guazza. I cantarelli delle darsene, dove si lagna l’acqua che, croccolando dalle bocchette solleva i fondali dolciastri e frange sul verde limo la luna e le stelle, erano come il nostro focolare. Lì sono fiorite le prime favole della nostra vita […].11

Così la Darsena diventa spazio fisico e mentale dove egli ebbe modo di scorgere capitani di lungo corso, marinai, cucitori di vele, costruttori di navi, maestri d’ascia e calafati, pescatori, gente che aveva nelle proprie mani l’unica ricchezza e nel mare la fonte quotidiana della vita e della morte, ma anche anonimi artigiani che infondevano bellezza e valore alla materia povera attribuendogli dignità. Gente fiera quindi, e allo stesso tempo disperata, l’esistenza perennemente a repentaglio: godeva della vita nelle bettole che numerose trovava intorno a sé, ma temeva la morte e tremava di fronte ad essa, solo la solidarietà, forte e totale, la univa avvicinando l’orgoglio alla miseria, la gaiezza alla solitudine, la tragedia alla sua catarsi. Viani trovò qui il suo campionario di esperienze umane che, in virtù di questo loro essere ambivalenti, non potevano costruire dei dogmi, delle convinzioni ed infatti egli scriverà di ubriachi, di vàgeri, di gente di mare, tutti uomini impossibilitati a configurare la propria esistenza dentro categorie precise.

Se in Darsena Viani ebbe quindi il suo album di volti e figure dignitose nella miseria, alla Villa Reale dei Borbone dove il padre era entrato a servizio gli si offrirono altrettanti soggetti,

spesso, la tentazione poetica, l’immagine fantastica e il gioco delle metafore alterano il dato concreto e ne sfumano il valore documentario. Per rivelare sotto il velo della finzione, la vera realtà biografica vianesca uno studio essenziale è quello di GABRIELLA LODOLO, Studi su Lorenzo Viani, in «Aevum», A. XLV, gennaio-aprile 1971, pp. 287-321 e 491-544.

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la “Canaglia” come viene da lui chiamata bonariamente, “geldra varia”, intrisa di superstizione, spesso ubriaca, svogliata o nullafacente a differenza dei “darsenotti” e che, per questo, gli metteva una certa uggia.12

Viani, a suo agio nel mondo marinaro, non si sentirà mai di appartenere a questa realtà, sarà allora l’origine contadina dei genitori, emigrati dalla Pieve S. Stefano sulle colline lucchesi, a restare un punto fermo nella sua visione tanto che il titolo scelto per il suo romanzo autobiografico è Il figlio del pastore, volontà di sottolineare il suo attaccamento al mondo rurale di provenienza, un mondo di genuino lavoro e di fatica che lui ritrovava nella semplicità e nei valori degli artigiani della Darsena e che nel libro viene in un certo senso mitizzato, trasfigurato in un’Arcadia favolosa.13 Per questo motivo egli non accetterà mai il nuovo mestiere paterno e la condizione servile del padre strutturerà nel bambino Viani turbamenti e sensazioni negative, ben espresse nella sua autobiografia, dove il tono si fa caustico e polemico quando parla del nuovo impiego, assimilato alla sorte che spetta in galera al galeotto, parole forti che paragonano ad un vero e proprio tradimento il rifiuto da parte del padre Rinaldo della sua libera attività di pastore e della sua terra feconda e umile per piegarsi ad una ricchezza assicurata.14

I primi anni della sua infanzia furono quindi segnati, precocemente, da un certo ribellismo; persistenti nella sua memoria resteranno i ricordi delle scorribande nel parco della villa, nei boschi e soprattutto tra le dune che si aprivano allora dalla foce del Magra a Bocca di Serchio, dove egli maturò i primi rapporti col mare, ma anche i primi terrori e spaventi, precoci sintomi di un carattere appassionato, amante della solitudine, perso nella ricerca dell’inquieto mistero che avvolge l’uomo e animato da un’inconscia malinconia,15

tutti elementi che verranno trasferiti anche nei suoi scritti successivi:

12 L

ORENZO VIANI,Il figlio del pastore, cit., pp. 17-22. Qui troviamo la descrizione della servitù con il ritratto di figure alquanto strane come quelle di Giuliano il cocchiere, Ruffino il dispensatore di vino, “il Nasone” stalliere, “il Moro” contadino, il cuoco, il sotto-cuoco “Gioasse”, lo sguattero Sisto.

13 Questo è un punto chiave, come ci dice il Natali, per capire quell’indeclinabile forza terragna che permeerà

tutta la sua produzione artistico-letteraria e l’origine viscerale del suo aspirare ad una libertà primitiva. Cfr. ELVIO NATALI,Biografia in Mostra antologica di Lorenzo Viani, Bologna, Grafis Edizioni d’Arte, 1973.

14 “Mio padre non vide altra salvezza nella vita che nel servitorame; digrumarsi della melma impastata di lordura

feconda e mettere sulla bocca il sorriso imbelle del mascherotto, lordarsi con gli abiti a strisce, galeottismo profumato di canfora e di radica saponaria. La terra, la ferace terra della Pieve di Santo Stefano che sanguina dove la intacca il martello, che sotto i geli del verno diventa d’acciaio maturando la sementa nel suo seno caldo; le selve, nelle cui ceppaie si arrovellano i picchi pertugiandole, quella del Rimortaglio che aveva dato le travature alla casa, il timone ai giovenchi, lo stilo alla vanga, l’arca alle spose, la cassa alla morte, videro le spalle di mio padre fuggiasco verso l’abbiezione del pane assicurato”.LORENZO VIANI,Il figlio del pastore, cit., pp. 37-38. Anche Krimer riporta come testimonianza diretta le parole di Viani riferite al mestiere paterno: “Meglio pastore che servo!”, diceva. Cfr. KRIMER, Sodalizio con Viani, cit., p. 12 e IDEM, Affresco per Lorenzo Viani, cit., p. 10.

15 Cfr. E

LPIDIO JENCO,Discorso su Viani e sugli artisti viareggini e versiliesi, in Almanacco dei Vàgeri; a cura di Krimer, Firenze, Vallecchi, 1955, pp. 130-140.

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Quando in quei tempi passeggiavo sulla battima del mare e guardavo la duna stendersi dalla foce del Magra a Bocca di Serchio e pensavo all’Eternità dei castighi, ero preso da terrori e spaventi. Certi nomi, inzeppati nel capo dai frati, mi facevano fantasticare in modo stravagante: Nerone, mi pareva, che, a toccarlo, dovesse tingere di nero come il sacco delle seppie e il nero lo spurgasse dalla bocca in nuvola e lo risofiasse intorno per nascondersi in quel torbato come sogliono fare i polpi. […] Quanto re Erode sconturbò la mia infanzia! Tutto quel macello di pargoletti mi faceva aggricciare la pelle e l’anima. Quando andavo sulla duna nei giorni in cui il mare inghiottiva le braccia del molo e i poggioni, e il pèlago al largo bolliva come l’inferno, mi sovveniva di Sant’Agostino. […] Credere mi schiacciava e trovavo un sollievo soltanto a mormorare tra di me: – Non credo. – Non credo, fu lo sfondo su cui spiccò la mia piccola coscienza di cinque anni. […] Pensieri più pesanti della mia ossatura mi schiacciarono l’anima giovinetta. Volevo fingermi di nulla ma non potevo abissare, in questa voragine tenebrosa, il tutto. Riuscivo a cancellare la terra, il mare, la boscaglia, riuscivo a mortificare del tutto la mia povera anima, annientavo me stesso e Iddio. Allora mi sentivo come vanire in un sonno pauroso. Ma il mare spietato dilatava come l’eternità del suo rombo lo spazio, il cielo implacabile mi umiliava sotto la sua sterminata coltre cinerea, gli alberi, a guisa di mostri impazziti, colossi dalle mille braccia, protendevano verso di me, in gesti vendicativi, lo loro rame contorte: allora io toccavo la fronte umiliata sul pecciame e sentivo il terrore di essere nato.16

Si fanno rapidamente strada nell’animo del fanciullo sinistri pensieri, lugubri sentimenti, la paura di Dio e di un suo giudizio e soprattutto uno dei due approcci di Viani al paesaggio marino, quello in cui la natura circostante si deforma e incute timore, avvertita come qualcosa di più grande e impenetrabile si fa mostruosa e presaga di sventura nonché del proprio tragico destino. L’altro approccio è invece quello che emerge dal passo che propongo di seguito e che è estratto dalle solite pagine del frammento precedente. Tra i due momenti di dolore iniziale e finale appena trascritti, si incastona questa digressione dove la terra versiliese diviene territorio vergine e intatto in cui rifugiarsi, trovare ristoro e da cui trarre stimolo all’esaltazione di valori passionalmente legati alla terra. Una passeggiata in solitaria per i boschi della Versilia si trasfigura in un vagare che assimila il giovane Viani ad un Wanderer romantico empaticamente coinvolto con tutte le manifestazioni della natura:

La boscaglia a quei tempie era vergine: gli alberi di fusto, sulla còrtice scabra, erano ricamati di foglie verdi a forma di cuore. Tutti quei cuori che salivano ai cimelli mi davano piacere al cuore, e siccome quei cuoricini verdi erano di sapore dolce, io seduto al calcio degli alberi ne mangiavo tanti e poi tanti. L’ellera più soda s’abbarbicava alle radici serpigne che sbucavano dalle esplosioni della terra che spandeva intorno un profumo di ragia dinervante. I lecci con le frappe conteste di puniglioli, macchiavano di nero il verde cupo della boscaglia, i pioppi sbisciavano argenti e il fogliame bianco e smeraldo musicava di tacchettii sottili il fremito impetuoso del vento marino. Le prunaie accestite, spinose, accese di lumicini gialli e perenni, mettevano come un fantastico tempio sotto il bosco, gli acquitrinî capovolgevano il cielo sotto le barbe degli alberi e un altro bosco; i corvi crocidavano alti, il mare rompeva lentissimo sulla spiaggia vellutata dalle ventate che la nettevano delle festuche e dei marami. Gli alberi esili, ondeggianti, pareva tessessero tal fremito e lo sciogliessero alla pianura. Io giravo per il bosco sciolto come un cane, ambulavo dove ero sicuro di non incontrare anima viva. Il fogliame degli ontani che marciva era spesso il mio giaciglio. Quando tutta la boscaglia cantava, io mi fingevo un coro solenne di anime. Quando s’approssimava il temporale e le rondini volavano basse e il fringuello aveva note triti e lamentevoli, e le rane tacevano, e i rospi uscendo dalle tane saltellavano, e i fiori delle prunaie avevano un odore forte e penetrante, la mia piccola anima si apparecchiava come a uno spettacolo sacro. Quando la saetta abbrividiva nel cielo turchino e i tuoni facevano come esplodere la terra, e il bosco commosso sbandava la sua folta chioma a ponente e a levante, e il piovasco friggeva sugli stagni, e le prunaie si imperlavano, m’impeciavo al calcio d’una quercia ed ascoltavo, e la mia anima, piccolo uccello bianco entro la gabbia di una fragile ossatura, sentiva freschezza e sentiva piacenza.17

16 L

ORENZO VIANI,Il figlio del pastore, cit., pp. 75-80.

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Un doppio legame, quindi, col paesaggio, un duplice modo di viverlo, diviso tra attrazione contemplativa e ripulsa, ma un paesaggio che viene in entrambi i casi interiorizzato, rispecchiando stati d’animo e tensioni. Dai due estratti si delinea inoltre un opprimente pensiero della morte di cui ha una terribile paura seppur ancora non provato fisicamente dalle difficoltà del quotidiano. Diverse sono le pagine del romanzo autobiografico in cui ci parla dei rischi corsi e dei pericoli incontrati, quasi moniti a stare vigile perché il lutto poteva essere sempre in agguato,18 ma il disagio esistenziale di questo periodo è espresso dall’artista in un’ esplicativa lettera che acquista il significato di una vera e propria confessione, umana ma anche artistica, una rivelazione di poetica:

Ero sanissimo e vivevo in un ambiente dove non era possibile avere idee tristi. Una sera mia madre vedendomi tanto turbato mi chiese cosa avessi e io gli risposi ho paura della morte! Risero tutti almeno dieci minuti e per molto tempo fu l’oggetto di matte risate, dato il mio aspetto più che florido. Ma questa specie di chiodo non mi è stato possibile toglierlo dal cervello. Intorno alle mie figure non aliterebbe sempre questa morte? A me sembra di sì. Credo che passino tutte le mie visioni d’arte traverso questo andito buio del mio cervello e ne assumono il colore e l’intonazione.19

E infatti dolore e morte saranno due costanti nelle figure vianesche verso le quali egli dimostrerà sempre una certa empatia, una comunione di sentimenti. Non solo, le processioni degli “incappati della Misericordia” del paese, unite a ambientazioni spesso notturne o comunque cupe, tetre e squallide, saranno ricorsive nella sua opera, ribadendo una certa propensione alla tematica funebre.

Questa sensibilità particolare maturata pian piano in lui fu motivo di un’insofferenza per la disciplina, tra le cause principali dell’abbandono scolastico dopo la terza elementare. In seguito si affaccerà in Viani l’interesse per le figure storiche di rivoluzionari entrate nell’immaginario, come Paolino Pallas o Caserio che incarnò il mito della rivolta anarchica. Per ora sono solo bagliori, folgorazioni, che si arricchiranno e arricchiranno la sua temperie complessa e irrequieta quando entrerà in contatto con i randagi del luogo, perlopiù incontrati nella bottega dove iniziò il suo apprendistato nel 1893 e dove lavorò abitualmente dal 1898, la bottega, situata su un crociale di strade, tra la via Ferdinandea a la via centrale di Viareggio,

18 “Infanzia, la mia, contesa alla morte che mi ha teso più di un’insidia: un giorno caddi nella darsena Vecchia;

era il giorno di San Giuseppe ed ero già col capo sotto la chiglia di un bastimento; uno che era sulla calata col vestito nuovo, non se lo voleva imbrattare di loto per la mia salvazione ed io m’imbuzzai d’acqua marcia ed era lì lì per scoppiarmi il cuore quando mi sentii acchiappare per i capelli e svelgere dal limo ove ero calato. Mi sdraiarono più morto che vivo sul pietrame della calata e mi fecero recere tutta l’acqua marcia che avevo bevuto. […] Un’altra volta che andai sui pericoli e caddi in un fosso di scolo dove piano piano venivo inghiottito dal pollino, il mio fratello maggiore non aveva la forza di tirarmi su e mi teneva pei capelli affinché il fango non bevesse del tutto il mio corpo. […] Queste stiracchiate di capelli con la morte in bocca mi hanno per tanto tempo lasciato addosso l’idea di finire ghigliottinato”. Ivi, pp. 22-23.

19 L

ORENZO VIANI, Lettera autobiografica (1913), in Lorenzo Viani scrittore: mostra bio-bibliografica e iconografica; a cura di Marcello Ciccuto, Viareggio, La Darsena, 1982, p. 13. La lettera era apparsa per la prima volta su «Giornale di bordo», luglio 1968, p. 482.

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del barbiere da camera e parrucchiere teatrale Fortunato Primo Puccini, che era anche callista e pedicure, incettatore di capelli per far parrucche femminili e di attori, cerusico e consulente per ogni caso disperato.20

Se Viani in questa fase della sua vita si avviò alla professione di “barbitonsore”, come la chiama lui, questo fu dovuto al licenziamento del padre da parte dei Borboni e al conseguente stato di miseria in cui cadde la famiglia. A tal proposito rimandiamo direttamente alle sue parole, ancora una volta estratte dalla Lettera autobiografica:

Verso l’età di 15 anni, mio padre fu come tutti gli altri servi licenziato, la mia vita cambiò dalle basi. Dall’agiatezza alla miseria. Come tutti coloro che sono poveri andai anch’io a imparare un mestiere, feci per molto tempo il barbiere, e divenni anarchico. Forse se la fatalità non mi avesse gettato sul marciapiede a contatto con forme di vita per me fino allora sconosciute, e traverso questa conoscenza non fosse penetrato nel mio cervello un certo che di nikilismo, io non sarei stato artista, no con certezza.21

Quel mondo di povertà che prima aveva solo visto dall’esterno diventa ora il suo mondo, ma, come si evince dalla lettera, egli non ne è dispiaciuto, anzi ne va quasi fiero, ammettendo che sperimentare quella miseria è stato funzionale alla sua formazione, è servito a farlo diventare, da un parte il Viani artista, e dall’altra il Viani anarchico. “Il mio mondo era quello degli infelici – dirà lo scrittore – verso di loro mi sentivo portato da un sentimento di fraternità e di ribellione”.22

Avvicinarsi alla strada gli permise infatti di frequentare tutte quelle figure di vagabondi che popoleranno prima la sua produzione pittorica e dopo le pagine de Gli

Ubriachi (Milano, Alpes, 1923) e de I Vàgeri (Milano, Alpes, 1927) nelle quali metterà a

fuoco i temi dell’emarginazione e della degradazione. Ma la vita on the road lo rese incline anche alle problematiche sociali e alle iniziative promosse dal movimento operaio in Versilia, in quel periodo protagonista di agitazioni e scioperi.23 La situazione sociale a Viareggio era e sarebbe stata estremamente agitata e il licenziamento del padre fu una sorta di evento rivelatore per Viani, gli fece capire come andava e stava andando il mondo a lui circostante mostrandogli senza schermi ideali la povertà e la sorte degli umili. Ciò che vide e visse lo convinse della necessità di un individualismo rivoluzionario e della ribellione a certe

20

Memoria della povera gente, su cui Viani sembra esercitare il suo bisogno innato di trovare, sotto la persona, la maschera, il personaggio, è affidata, insieme al ricordo di più facoltosi che si trovò qui a servire, al romanzo postumo Barba e capelli (Firenze, Vallecchi, 1939).

21

LORENZO VIANI,Lettera autobiografica (1913), cit., p. 13.

22 L

ORENZO VIANI,Il figlio del pastore, cit., p. 165.

23 Certo influirono su di lui l’eco dei moti nella vicina Carrara del 1897 e gli scioperi, le insurrezioni che, sul

volgere del secolo, caratterizzarono sia Viareggio che la Versilia. I renaioli viareggini insorsero infatti nell’aprile 1899 coinvolgendo i cavatori versiliesi e apuani legati, per un verso, all’industria della sabbia silicea; con la formazione della Camera del Lavoro, dal primo maggio 1901 iniziò la sua attività a favore della classe di lavoratori con manifestazioni di protesta e astensioni generali dal lavoro; tra il 1903 e il 1906 entrarono in sciopero carpentieri, calafati e segantini per un aumento salariale e per la riduzione delle ore lavorative; nel 1910 fu la volta di vetturini e fornai e quest’ondata proseguì per tutto il 1913 quando si astennero dal lavoro per giorni e giorni muratori, tranvieri, boscaioli della Tenuta Salviati.

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consuetudini borghesi, gli dette cioè la cifra del suo agire, la passione di riformare il mondo e di vendicare gli oppressi. 24

Fu, come si può intuire da quanto scrive il Natali,25 una scelta maturata in un clima di generale disagio e connaturale ad una situazione locale di disperazione, fame, violenza, tragici e ingiusti lutti per mare, messa in risalto da Viani stesso con queste parole, parole in cui si descrive, seppur caricandola e con punte di eccesso, tutta la miseria e il degrado che realmente alitava tra i vicoli della Viareggio popolare di fine ‘800, lontana dal lungomare chic e balneare:

Il nostro vicinato era di casupole a cui mancavano e porte e finestre; ad una mancava anche il tetto e l’avevano fatto con dei pezzami di vela. Le spose erano di continuo gravide; sul rimanente del corpo dilupato il ventre dondolava indolente. […] Vicinato di tristezza. Di fronte alla mia casa ci abitava una donna a cui erano affogati due figli nel mare; era sempre vestita di nero e li chiamava a nottate sane. Qua e là abitavano vedove di marinai annegati. Le notti che il mare rompeva nei muri degli orti, pareva che l’ombre dei morti ritornassero alle loro casette gemendo. […] Buon parte della notte la passavo in un “Casone”, in compagnia di altri trascurati, giuocando per delle lunghissime ore. […] I pianti continui, i lamenti, le risse, le coltellate non ci facevano alzare nemmeno il capo dalle carte luridissime. Le ultime ore della notte si passavano in una tettoia lungo il fosso, in compagnia di tutte le trasandate di passaggio. Il padrone della tettoia mercanteggiava anche la moglie. Una sera un nostro amico fece traffico con lui. Il marito andò al caffè notturno, si ubriacò; poi tornò a casa e con la coltella che teneva per chiavaccio all’uscio sgangherato, trapassò l’amico da una parte all’altra, lo prese per i capelli e lo strascicò sul pietrato del fosso.26

Quindi “Viani visse fin dall’adolescenza, con precise esperienze dirette – vogliamo dire non contaminate da suggestioni letterarie”,27

egli fu a contatto con un realismo crudo che resterà impresso nella futura opera, caratterizzandola e rendendola uno spaccato di offesi e umiliati in cui egli si sente coinvolto totalmente perché vi ha vissuto i prima persona. E se a volte una tendenza all’iperbole pare viziare la genuinità del sentimento, l’effetto risale ad un’indecifrabile esigenza interiore, precisamente all’ansia di una resa espressiva adeguata agli stimoli svegliati dentro dai contatti esterni, dalla comunione, sofferta toto corde, con i reietti e i diseredati.

Gli anni in questione furono anche quelli in cui iniziò la sua smania d’imparare, quell’ansia di sapere che caratterizzerà tutta la sua vita, la quale ci appare, in sostanza, travaglio e fatica in

24 Come sostiene la Cardellini possiamo supporre la sua adesione all’anarchia tra il 1897 e il 1898, quando

strinse amicizia con i socialisti Luigi Salvatori, Vico Fiaschi e Pietro Gori, e del resto la sua presenza con quest’ultimo al trasporto del feretro di Cavallotti da Genova verso Milano e poi la sua successiva partecipazione al funerale del patriota (6 marzo 1898), confermata da quanto egli scrive in Roccatagliata, attesterebbe a quest’altezza la sua militanza nelle file del movimento. Cfr. IDA CARDELLINI SIGNORINI,Lorenzo Viani, cit., p. 182.

25 E

LVIO NATALI,Biografia, cit.

26

LORENZO VIANI,Il figlio del pastore, cit., pp. 126-132. Qui e nelle pagine successive Viani allude ad un fatto di sangue realmente accaduto a Viareggio, l’uccisione, nella notte tra il 30 luglio ed il 31 luglio 1905, di Duilio D’Auro, marinaio di 28 anni, per mano di Arcangelo Burchi che lo aveva rinvenuto in casa propria nudo, insieme alla propria moglie, Annunziata Firma Bartelloni, nota donna di facili costumi.

27

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un’interrotta, interiore rivolta per assicurarsi un linguaggio inedito, non logorato dall’uso, tutto suo.

A questa altezza la sua forsennata volontà di apprendere sfociò in letture rapsodiche e variegate trovate nel retrobottega di Fortunato. Tra opere di Guerrazzi, Monti, e perfino la

Commedia di Dante, entrò in contatto anche con libri di Zola, Hugo, Michelet, che Cesare, il

figlio del barbiere, gli narrava e che alimentarono in lui il mito della Comune mediato dalla delle gesta di Amilcare Cipriani che quel ragazzo era solito raccontargli la sera “lungo il mare, dove, diceva lui, le parole vengono frante dai battiti della maretta”.28

Letture frammentarie e disordinate, senza un apparente filo conduttore, apprese qua è là a pezzi e bocconi o da autodidatta e, in gran parte, di una particolare tematica rivendicativa e sociale. Questo è il bagaglio libresco che andò a formare la prima cultura di Viani, asistematica e casuale, “strana ma non dilettantesca”,29 filtrata spesso da racconti di marinai e da maestri improvvisati, una disomogeneità e un’assenza di metodo che permarranno in tutta la formazione dell’autore, tanto che per lui non si può pensare ad un modello letterario di riferimento e le citazioni letterarie e artistiche che egli farà nei suoi libri non sono mai rigorose, necessitano sempre di un confronto con gli originali, perché spesso approssimative e devianti.

Oltre alle letture iniziò anche a disegnare, attitudine che si approfondì quando riuscì a frequentare a Lucca, con un sussidio offertogli dal Comune, l’Accademia di Belle Arti Augusto Passaglia (1901-1903).Di questa città, durevole nella sua memoria resterà anche, perché poi riflesso nella sua opera come notò il Campolonghi, 30 la vista delle mura, del carcere di San Giorgio, e, poco fuori, del manicomio di Fregionara e delle risaie della piana che poteva scorgere quando nel fine settimana o nei momenti di nostalgia tornava a Viareggio attraversando il Monte Quiesa spesso a piedi:

Fuori di Lucca è il piano florido di grano di fieno di pioppi. Molti giorni la nostalgia del mare mi richiamava e allora prendevo uno strada bianca di polvere di fango o di neve e via verso casa. Sulle colline di Maggiano c’è un’altra casa di dolore, il Manicomio di Fregionara, e poi ancora il piano acquitrinoso con le risaiole e più in là il mare, il bel mare della Versilia.31

Il mare diventa l’elemento attrattivo che sempre lo spingerà a ritornare alla propria terra, un elemento di liberazione, simbolo della sua insofferenza, un’insofferenza che peraltro lo

28 L

ORENZO VIANI, Parigi, cit., pp. 25-26.

29

GUGLIELMO PETRONI, Ritrattino dell’epoca, in «La Fiera Letteraria», 8 luglio 1951, p. 4.

30 L

UIGI CAMPOLONGHI, Cronache vagabonde. Il pittore della strada, in «Il Lavoro», 28 novembre 1907. L’articolo è interamente leggibile ora in NICOLETTA MAINARDI, Lorenzo Viani. Studi per un ritratto, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004, pp. 82-86.

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porterà a non frequentare assiduamente le lezioni all’Accademia e a raggiungere altri luoghi, Firenze, prima, e Venezia, dopo.

Anche quando nel gennaio 1904 fu ammesso, insieme a Moses Levy, alla scuola libera di nudo all’Accademia fiorentina delle arti del disegno, si riproporrà la nostalgia del mare, la quale lo farà tornare indietro, alla sua terra versiliese:

Per quel concetto, errato, dei giovani, cioè che sia indispensabile la conoscenza di coloro che ci hanno preceduto gloriosamente nell’arte, andai a Firenze, la visione delle passate grandezze mi allietò molto il soggiorno, lassù. Ma era il mare era la natura erano i vecchi navarchi spodestati che mi chiamavano ancora e senza alcun rimpianto lasciai Firenze deciso di non muovermi più da Viareggio. 32

E infatti si stabilirà tra i bohèmiens torrelaghesi, ma un’ansia dell’ evasione e dell’ andare lo continuerà a animare. Parigi diventerà allora la meta desiderata, il sogno accarezzato con l’immaginazione nella sua giovinezza, perché patria della Comune e della rivoluzione, non solo pittorica, ma anche sociale e politica. Se per la madre e per i dolorosi amici della darsena vecchia il giovane Viani non avrebbe rincorso la fortuna, ma sarebbe andato ad “aberintarsi” in una città sconosciuta incontrando solo rovina, per Viani quel viaggio rappresentava la corsa verso un Eldorado.

Tralasciando tutta l’annosa quanto intellettualistica controversia circa la data del primo soggiorno,33 possiamo, con i documenti citati dalla Cardellini – lettere, cartoline e opere datate – e con un po’ di elasticità, collocare Viani a Parigi tra il gennaio 1908 e la primavera inoltrata del 1909, con un breve rientro a Viareggio nell’estate del 1908 durato fino al settembre.34 Per quanto riguarda il secondo soggiorno parigino, anch’esso motivo di accesi dibattiti, mi sembra nuovamente attendibile e chiaro quanto dice la Cardellini che utilizza sempre fonti documentarie risalenti alla mano dell’autore. Grazie a queste è ragionevole dire che “sembra di dover restringere questa seconda gita, più breve della prima e meno incisiva, agli ultimi mesi dell’11; o tutt’al più ai primi del ’12, ché il 24 gennaio V. riprende la collaborazione a Versilia”. 35

32 Ibidem. 33 Cfr. I

DA CARDELLINI SIGNORINI,Lorenzo Viani, cit., pp. 298-299. Qui la Cardellini fa una colletio dei pareri di alcuni critici, confrontando le varie posizioni e portando avanti la sua ipotesi. Studi più recenti sulla problematica datazione e sul soggiorno parigino di Viani sono: prefazione di Marcello Ciccuto a LORENZO

VIANI, Parigi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980, pp. 21-29; PIERO PACINI,Lorenzo Viani. Parigi / la guerra; con una testimonianza di Renato Santini, catalogo della mostra tenuta alle Focette tra il 7 agosto e il 12 settembre 1982, pp. 7-16 e pp. 27-28; MARCELLO CICCUTO,Nuovi documenti su Viani parigino, in «Inventario», A. XXIII, n. 13, 1985; ETTORE ROTELLI, Lorenzo Viani a Parigi: una questione storiografica, in «Nuova Antologia», A. CXXXV, fasc. 2216, ottobre-dicembre 2000; IDEM,Lorenzo Viani a Parigi, andata e ritorno, 1908-1912, in AA.VV.,Lorenzo Viani. Un maestro del Novecento europeo, cit., pp. 51-65.

34 I

DA CARDELLINI SIGNORINI,Lorenzo Viani, cit., p.299 e p.301.

35

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Al di là di tutte queste discussioni un po’ fini a se stesse, importante è dire cosa lo scrittore ci ha lasciato di quest’esperienza, come l’ha vissuta e cosa ha apportato al suo bagaglio artistico e umano. Innanzitutto, anche se scritto quindici anni dopo e quindi da prendere con le molle, ci ha lasciato un libro, Parigi (Milano, Treves, 1925), libro che ci è utile per ripercorrere i momenti passati qui, i quali si rivelarono in realtà ricchi di sconforto e frustrazione, sentimenti registrati a caldo e già fissati nella Lettera autobiografica del 1913, 36 quindi a breve distanza dall’ultimo viaggio parigino.

Qui scontò davvero fame e patimenti e poco venne toccato dai nuovi artisti e dalle nuove correnti che animavano il clima pittorico parigino di inizio secolo. Nulla che potesse interessare il viareggino: lui, pittore del popolo di Viareggio in cui ancora poteva esistere un rapporto primordiale con la Natura grazie alla presenza del mare, mal si addiceva a quei pittori che sulle tele stampavano per ricchi committenti un proletariato urbano schiacciato dall’inferno metropolitano negatore di cultura e ormai privo di intensità passionale e sentimentale.37

Per questo senso di oppressione avvertito in città, mosso nuovamente dalla nostalgia del suo mare, tornò a Viareggio nel luglio 1909; poi, passati alcuni anni dedicati soprattutto alle prime mostre, l’esperienza della guerra a cui partecipò a partire dal luglio 1916 per il suo convinto interventismo, e anche durante questi tragici momenti, trascorsi tra il Carso, il Veneto, la Lombardia e l’Altopiano di Asiago, il pensiero andrà sia alla sua amata città attraverso una divagazione sulle vele viareggine pitturate dalla gente della Darsena con figure di Santi, sia alla sua cara terra versiliese rivista ad occhi chiusi in una sognate poesia, due testi che riflettono il tentativo di evasione dall’orrore che viveva e la necessità di un conforto familiare, poi compresi nella raccolta di appunti dalla trincea trascritti e curati dal genero Vivaldi e da lui pubblicato nel ’62 col titolo Il Romito di Aquileia.38

Uscito provato e disilluso dall’esperienza bellica, Viani subirà una sorta di riconversione. L’animo inquieto e incendiario tenderà a attenuarsi e le sue posizioni si faranno meno radicali.

39

La guerra gli aveva palesato la vera natura dell’uomo, lasciandogli una ferita profonda;

36

“Forse lo avrei anche fatto [di non muovermi più da Viareggio] se Parigi non mi avesse sempre attirato, un bel giorno lasciai Viareggio diretto a Parigi, senza conoscenze con poche lire e senza conoscere una parola di francese. Tiriamo un velo sul resto, patimenti fame umiliazione freddo disperazione angoscia, la cronaca è inutile sono mille i casi miei, la viltà borghese è grande nella città, più grande della misericordia di Dio.” Cfr. LORENZO VIANI, Lettera autobiografica (1913), cit., p. 14.

37 Cfr. introduzione di Tiziano Giannotti a L

ORENZO VIANI, Parigi, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, pp. 7-12.

38

LORENZO VIANI, Il Romito di Aquileia, cit., pp. 49-50 (La vela mia) e p. 58 (Visione di Versilia).

39 A tal proposito chiarificatrice e veritiera sembra una dichiarazione lasciata a Ojetti nel 1924. Alla domanda del

critico: “E l’anarchia? Come andò a finire?”, Viani rispose: “L’anarchia? Ma c’è stata la guerra e io l’ho fatta tutta, sa, in linea. Mi spiego. – […] ‒ Per essere anarchici bisogna credere nella bontà dell’uomo, nell’uomo che, bontà di Dio nasce buono. Ma quando s’è fatta, vissuta, veduta, toccata la guerra e gli uomini in guerra, chi può

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così, finito quell’orrore, all’indomani del suo congedo e del suo rientro, sentirà il bisogno di ricominciare da capo. E lo farà, guarda caso, in un modo tutto borghese, sposando il 2 marzo 1919 Giulia Giorgetti, “l’adolescente tutta vestita di nero, con un bel capo di capelli d’ebano voluminosi come un casco e sotto un medaglione greco con due occhi vellutati e neri” 40

come la descrive ne Il figlio del pastore – che aveva conosciuto molti anni prima a Viareggio in casa di uno zio. Il vagabondo trova fissa dimora e se ora si sposta a Montecatini Terme lo fa per seguire sua moglie, maestra elementare in questa località termale.

La permanenza a Montecatini con la dolce e salvifica “Giulina”, tra la fine del 1919 e gli inizi del 1920 – anche se forse avvenne di fatto solo nel 1920 – fu soprattutto una pausa meditativa, un “momento idillico”41

come dice il Pittèri e come pare trasparire da alcune parole dello scrittore contenute in Geremia, un racconto autobiografico contenuto ne I Vàgeri. Dalle prime battute emergerebbe che un angolo di quella città fu davvero luogo propizio alle sue riflessioni, ma, poco dopo, questo idillio sembra svanire. Alla moglie che gli chiede se riuscirà mai a lavorare nel nuovo ambiente, lui risponde: “Silvio Pellico ha scritto in segregazione”. L’anima vagabonda, insofferente, “abitualmente senza dimora”,42 torna quindi a farsi sentire, ma a fargli pronunciare quella frase pungente è soprattutto la sensazione di nostalgia che prova ancora una volta per il mare. Rientrato da una passeggiata con Geremia, direttore e proprietario dell’Hotel Flora dove alloggia con Giulia, si ferma sull’uscio dell’albergo e, mirando il cielo in atto contemplativo, questo improvvisamente si trasforma in mare, mentre le stelle diventano fari e gli sprazzi rossastri che annunciano il tramonto vele: “Sentivo nostalgia di mare che era lontano; guardai allora il cielo; vele rosse erano in cammino verso l’infinito e fari di stelle s’accendevano in quell’oceano di cobalto”.43

Una pennellata di colore e un tocco di poesia mirabilmente fusi tra loro per esprimere il rimpianto dell’elemento marino e della sua città e di ciò che essi rappresentano per lui, l’uno, l’anelito alla libertà e il momento regressivo e epifanico, l’altra la sua identità e il suo mondo. Il viaggio, compiuto o per motivi obbligatori come era accaduto dopo il matrimonio, o per la ricerca di un improbabile rinnovamento e di ulteriori stimoli come era stato per Parigi, sembra in Viani quasi sempre risolto con l’impellente necessità di un ritorno alla sicurezza della terra d’origine, archetipica e primordiale, che racchiude il suo passato e il passato di un popolo ancora ricco di valori e di proprie figure tipiche e genuine. L’evasione dalla città marinara,

credere più nella bontà dell’uomo? Lei ci crede ancora?”. UGO OJETTI, Cose viste. Brilli e Viani in «Corriere della Sera», 27 luglio 1924 poi in UGO OJETTI,Cose viste, vol. II (1923-1924), Milano, Mondadori, 1937.

40 L

ORENZO VIANI, Il figlio del pastore, cit., pp. 151-152.

41 G

IORGIO PITTÈRI, Lorenzo Viani, Milano, Mursia, 1978, p. 15.

42 L

ORENZO VIANI,I Vàgeri, in IDEM,Storie di Vàgeri, vol. I, Firenze, Vallecchi, 1988, p. 257.

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insieme all’ansia della fuga, porta l’impronta dello smarrimento e del timore perché, scrive Viani, “le città dentro terra ferma destano ripugnanza al marinaio. Egli, quando si sente terra alle spalle, è preso da panico come un soldato accerchiato. […] Le città non risonanti del possente ànsito del mare terrorizzano il navigante come la prigione”. Un motivo questo che trasferirà nelle figure dei suoi marinai e che nella sua personale biografia lo porterà costantemente ad avvicinarsi al mare; lui, navigante della vita e viandante sulla terraferma, sentirà, come i suoi attori, sempre il bisogno di riassaporare l’aria salmastra con cui era cresciuto.

Un fugace distacco da Montecatini per avvicinarsi ai propri lidi e al mare lo ebbe, seppur per tristi motivi, il 3 agosto 1919, quando, morto l’amico Ceccardo, partecipò ai funerali che si tennero a Genova. L’evento lo scosse a tal punto – era infatti per lui scomparso un mito – che su «Ardita» scrisse un articolo per l’occasione (Il poeta dei viandanti. «Dalla Valle della

Lima, agosto 1919»), volto a celebrarlo e a glorificarlo agli occhi dei posteri per renderlo in

un certo qual modo eterno, una glorificazione che troverà spazio in Ceccardo (Milano, Alpes, 1922), il primo libro di Viani con cui esordì come scrittore in ritardo di quasi vent’anni rispetto alla pittura.

Dopo la morte di Ceccardo, la scomparsa dei vecchi compagni apuani e il regolamentarsi sui binari familiari, il suo anarchismo perse vitalità. Il nuovo indirizzo ideologico sarà allora la collaborazione al giornale «Popolo d’Italia» e quindi l’amicizia e la simpatia con Mussolini, ma, anche in questo caso, “fuori d’ogni rigido senso confessionale”,44

in modo irrazionale come era stato per l’adesione all’anarchia e mostrando non poche ambiguità.45

L’adesione di Viani fu ricca di contraddizioni e esasperata, da un lato mediata dal riconoscimento che il nuovo regime andava tributando alla sua arte rimasta fino allora ai margini, e dall’altro dall’illusione che la nuova ideologia potesse essere rimedio alla mediocrità. Fatto sta che questo nuovo cambio di direzione peserà molto sulle spalle di Viani nonostante lui continuasse a gridare a tutti: “Io sono sempre il solito!” come ci testimonia l’amico scultore Renato Santini.46

44

GIORGIO PITTÈRI, Lorenzo Viani, cit., p. 14.

45 Il rapporto ambiguo Viani-Duce emerge da: E

TTORE ROTELLI, La forma della giovinezza. Lorenzo Viani e il Duce. Lettere, Milano, Archinto, 1996; MARCELLO CICCUTO, Una lettura politica vianesca, fra pittura e scrittura, in AA.VV., Lorenzo Viani. I luoghi della coerenza; a cura di Enrico Dei, Firenze, Edizioni “Il Ponte”, 1996, pp. 23-27; UMBERTO SERENI, I giorni del “Bios” in AA.VV., Lorenzo Viani, un maestro del Novecento europeo, cit., pp. 77-86.

46 “Una volta, sulla passeggiata a mare, Viani fu trattato da cambiagiubbe da parte dello scrittore Falaschi,

famoso anarchico carrarino. Mi trovai in mezzo alla mischia e feci quello che potevo per dividerli e per allontanare Viani che urlava: «Io sono sempre il solito!». Ripensai a quella frase: in verità la sua arte non era cambiata, continuava ad essere sempre una denuncia, salvo qualche omaggio ritrattistico al Duce, che lui

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Il 1923 segna la data del suo definitivo rientro a Viareggio, presso la casa paterna della moglie, sotto il campanile di S. Francesco. Un nuovo ritorno nella sua città natale convinto di ritrovare qui quello che gli era sempre mancato nei suoi viaggi, ma in realtà si accorge, con molto rammarico, di un mutato clima:

Sono nato in una casetta situata dietro la Darsena Vecchia di Viareggio ed ò passato l’infanzia nei cantacci del porto dove sono in isfacelo le vecchie tartane golette e menaite…Un Viareggio che va scomparendo sommerso dalle lacche dei pigyama e i gialli degli ombrelloni estivi; carni incotte rosseggiano ora sui toni della sabbia. Il mio Viareggio s’è rintanato nelle stamberghe di via Pinciana, e i Borghetti, trafficando coi bertovelli in padule o con la fiocina lungo le fosse irte di falaschi…Essendo l’arte un continuo ricordo penso che ancora molti rettangoli di cartone dovrò coprire prima di aver fermato con segni i miei sogni preferiti.47

E i suoi sogni preferiti sono quelli che gli provoca un mare diverso da quello che tutti, da turisti, ricercano, un mare libeccioso e tempestoso, non snaturato o “imborghesito”, che non tradisce la sua vera natura di predatore, da qui la critica seguente mossa verso la Viareggio turistica:

I Lombardi non sentono il mare. Lo vedono d’estate nelle stazioni climatiche della Riviera: marugello bollente e stagnante tra le paratie delle scogliere, nella stagione che ci stanno in guazzo e in fusione la gente adorna di succinto costume. Perché è una verità che – io, nato e cresciuto sul mare, ho notato il mare d’estate – pare si adegui alla clientela della spiaggia. Una nebbiolina celestognola s’alza dall’isola della Meloria proprio a l’ora del bagno, e il maestrale vento fresco, si leva all’undici, soave antipasto. I “sandolini” bianchi come colombelle marine filano sull’acqua mossa a bavarella. Al Bagno “Colombo”, bagno dove si allogano i preti, sembra d’essere in un coppo d’olio, e al “Teti” bagno delle monache sembra d’essere in 44 bottiglione d’acqua di colonia. Le cordate stese a un metro d’acqua son grappoli umani ridenti, una soave letizia è diffusa anche sul volto delle educande. L’implacabile divoratore degli scafi ferrigni, il dipanatore delle tempeste, colui che spurga i cadaveri e le carene, che immerge montagne e solleva fondali e sbarba lecci olmi e piante, e che quando fa alleanza con Eolo subbissa il mondo, mette a travaglio il cielo squassa la terra, l’estate, è lì liscio e pacato, celeste e bianco come la camicia di una collegiale.48

Questi sono i pensieri che prenderanno forma in Viani una volta rientrato da Montecatini a Viareggio dove non ritrova più la sua vecchia città, quella di Byron e Shelley o quella delle darsene simili a selve dove svettavano gli alberi dei velieri e dove si aggiravano vecchi navarchi traballanti per il vino e per il ricordo delle navigazioni. Ormai il boom turistico l’ha resa una fila di ombrelloni e una sfilata di costumi sgargianti.

La sua Viareggio rimane nel paesaggio marino, rifugio e meta di vagabondaggi giovanili, che tornerà descritto con passione e sentimento nelle seguenti pagine autobiografiche de Il figlio

del pastore, tentativo di ribadire il suo attaccamento all’immagine di uno scenario viareggino

considerava un nuovo rivoluzionario. Cfr. RENATO SANTINI,Alcuni ricordi con Viani, in PIERO PACINI, Lorenzo Viani. Parigi / la guerra, cit., p. 29.

47

LORENZO VIANI, Autopresentazione, in Prima mostra nazionale d’arte marinara promossa dalla Lega navale italiana, Roma 1926-1927, catalogo, Roma, E. Pinci, 1926.

48 L

ORENZO VIANI, Scritti e battaglie d’arte, cit., pp. 258-259. L’estratto fa parte di un articolo apparso, col titolo L’Arte Marinara (… fa di tutti gli oceani il mare nostro), su «Augustea» il 15 dicembre 1926.

(18)

210

fatto di pescatori, vele, distese equoree e isole, il tutto incorniciato dai monti apuani e simile ad un dipinto:

Un gran tremito mi prendeva, andavo sulla duna e passavo delle giornate sane senza cibarmi, guardando il mare. Le barche che uscivano dal porto, tutte invelate, erano la mia consolazione; seguivo il loro corso fino a che non sparivano verso l’Isola della Gorgona. Perduto nell’infinito, sognavo viaggi lontani lontani.

Oltre il braccio di pietrame bigio del molo, c’era tutto lo scenario delle Alpi Apuane e la foce della Magra. Dalle insenature del golfo della Spezia s’udivano come dei tuoni. I pescatori d’arselle andavano lungo la bàttima come anime meditabonde. Le piccole vele dei “gozzi” da “nicchi” giallo sbiadite, sul turchino del mare, lo aravano come aratri setati. Gli uomini governavano il timone, che filava argento sulla scia. Il tonfo del ferro gettato sobbolliva di spume lo sterminato plumbeo. I vapori lontani lontani parevano dipinti sull’orizzonte; anche il fumo delle ciminiere pareva dipinto. Al di là di quella linea infinita, luminosa, profondissima, travagliavano e penavano altre genti. Col chiarirsi delle arie, al vespero, emergevano le isole tutte celesti, la Meloria e la Gorgona, la Capraia, la Pianosa come grandi vascelli disalberati.49

Viani, che aveva in mente questa immagine della sua terra, non poteva non sentirsi straniato nella Viareggio degli anni ’20, invasa nel giro di breve tempo dal turismo borghese e dalle sciccherie del Liberty. Questo non riuscire più a ritrovare e riconoscere le sue radici lo porterà a comporre articoli polemici in difesa della città e contro le speculazioni in aumento.50 Ha inizio così la meditazione su Viareggio e la volontà di preservare il suo volto più genuino per evitare che il passato marinaro e la storia della povera gente che ha costituito il nerbo della città scompaiano e vengano rigettati insieme alla lingua che per secoli li ha accompagnati. Di qui l’uso del dialetto e del gergo locali e della terminologia marinaresca, non solo garanzia di autenticità quasi documentaria per ciò che scrive, ma anche tentativo protestatario di scardinare le coercizioni della lingua ufficiale e di preservare, allo stesso tempo, un modo di esprimersi autoctono.

Ripresa della tradizione marinara si ha con Giovannin senza paura (Milano, Alpes, 1924), racconto per ragazzi dedicato alle figlie e maturato nel periodo montecatinese insieme ad un altro libro per l’infanzia, Cuore di madre che uscirà postumo nel ’61. Mentre quest’ultimo è pervaso dal sentimento di amore di una madre verso il figlio Cherubino che ella protegge sempre, probabile tributo vianesco al suo affetto verso la madre e al rapporto con lei durante l’infanzia, Giovannino narra, con una prosa chiara e scorrevole, le vicende di un discolo – che a tratti riflette il Viani ragazzo – il quale, imbarcato sulla Cassandra, naufraga e viene salvato da un pastore. L’ambientazione è quindi quella cara allo scrittore, una Viareggio di barcobestia, capitani e calafati e per giunta anche l’argomento non è totalmente frutto di finzione se ascoltiamo la voce diretta del Celli, il quale ci testimonia la storia vera di Carlino

49

LORENZO VIANI, Il figlio del pastore, cit., pp. 130-131.

50 Si è anticipato l’articolo Edificare o tritolare? in «La difesa di Viareggio», 27 aprile 1919, e quello sulle

ceramiche di Chini apparso sul «Libeccio» del 2 settembre 1923. Si vedano anche: «Libeccio», 19 gennaio 1918 e «Versilia», 10 agosto 1919. Nel primo si ha un intervento volto a regolarizzare, all’indomani dell’incendio, il volto della città istituendo un piano regolatore; nel secondo Viani polemizza contro il teatro all’aperto di Pea.

Riferimenti

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