CAPITOLO IV
Al servizio di due duchi
Cercare di ricostruire i rapporti che intercorsero tra il duca Alessandro e i suoi collaboratori appare un’operazione molto difficile per la nota carenza di documenti riguardanti il governo, e la segreteria privata, del primo duca di Firenze. La storiografia coeva e di poco successiva, come più volte ribadito, ci restituisce tuttavia l’immagine di un duca governato dai suoi ministri, messi accanto a lui da papa Clemente VII per indirizzarlo nelle scelte politiche. Insieme a questi, anche un piccolo gruppo di ottimati “palleschi” e più volte ricordati coadiuvò il giovane duca nella pratica di governo, configurandosi come un ristretto consiglio privato, avulso da qualunque provvedimento costituzionale. Quest’ultimo gruppo è quello che, immediatamente dopo gli eventi del 6 gennaio, si schierò a favore dell’elezione di Cosimo de’ Medici come capo della repubblica fiorentina, sconfiggendo in questo la fazione politica comunemente nota come “filoimperiale”, composta dai cortigiani di Alessandro, perlopiù non aristocratici e non fiorentini, legati più al potere imperiale che all’idea di una repubblica fiorentina indipendente.
I noti eventi che seguirono all’elezione mostrano un ultimo e disperato tentativo degli ottimati, e, uno su tutti, di Francesco Guicciardini, per cercare di limitare le prerogative del nuovo vertice dello stato. Il fallimento di quest’operazione, avvenuto per la quotidiana pratica di governo adottata quasi immediatamente da Cosimo, portò quindi all’amara accettazione, da parte di questi aristocratici, che non si poteva più tornare indietro. Più che l’indignazione per aver perso un’altra fetta di potere, tutto ciò appare maggiormente come una presa di coscienza dell’immutato stato delle cose.
Ciò, a mio avviso, è indice del fatto che quando il secondo duca raggiunse quello che dagli storici dei decenni passati era stato visto come la perfetta realizzazione del “potere assoluto” del principe, non fu diverso nella sostanza da quello che già aveva operato Alessandro.
In quest’ottica il regime cosimiano si pone in continuità col precedente, soprattutto se guardato con un’attenzione particolare agli uomini che ne furono protagonisti. Il celebre Primo segretario di Alessandro, Francesco Campana da Colle, a capo di un entourage mutuato anch’esso da quello composto sotto la tutela di Clemente VII, figura fin dalle prime settimane a lavoro a fianco di Cosimo e Maria Salviati nella gestione degli affari più importanti dello stato, insieme al gruppo di ottimati “palleschi”, al cardinale Innocenzo Cybo e Alessandro Vitelli. Questi ultimi due furono piano piano estromessi dagli affari e allontanati da Firenze con la collaborazione diretta del Campana e della sua segreteria. I maggiori esponenti degli ottimati, i “palleschi”, che ricoprirono un ruolo importante sotto il primo duca, si posero ancora a fianco del secondo. Essi erano tuttavia in età ormai avanzata, e morirono tutti nel giro di una manciata di anni, ricoprendo nel frattempo il ruolo di consulenti come membri di quel tanto dibattuto “consiglio segreto”, almeno negli anni l542-1543. Cosimo non tagliò netto con l’aristocrazia, tutt’altro, proprio da questo ceto derivò alcuni dei suoi più fidati ambasciatori, o continuò ad utilizzarla per importanti incarichi nel dominio. Certo è tuttavia che gli uomini sui cui Cosimo poggiò le basi del proprio potere agli inizi del principato, e che diventarono poi la sua leva principale di azione nelle faccende di stato a partire soprattutto dalla riorganizzazione amministrativa iniziata nel 1543, facevano tutti parte di quel gruppo di “uomini del dominio” mutuato dalla segreteria del duca precedente, e che già allora si era occupato delle questioni di governo.
Proprio in quei primi mesi, infatti, il cardinale fuoriuscito Giovanni Salviati, in una nota lettera che abbiamo già citato, riferì allo stesso duca
come egli “depende[sse] in tutto da altri”, descrivendo come una richiesta disonesta fattagli da Cosimo, fosse secondo lui stata “consultata con qualche maligno … et so che da lei non saria venuto a ricercarmi d’un simile officio, in che è molto a proposito il suo favorito vescovo de’ Martii o qualche altro
simile”1.
La formazione di questo “nuovo” entourage fu influenzata dalla costante opera tanto di mediazione quanto squisitamente politica di Maria Salviati, coadiuvata dal vecchio precettore di Cosimo, Pierfrancesco Riccio, che come abbiamo visto divenne una delle pietre angolari della segreteria privata del secondo duca di Firenze.
Se uno studio sul sistema di corte del principato mediceo rivela come questo avesse, almeno nelle sue prime fasi, “un’impronta precocemente burocratico-rituale” e si sviluppasse “di pari passo al costituirsi dello stato
assolutista”2, ciò deriva proprio dal particolare metodo di attuazione delle
pratiche di governo sviluppatosi pienamente nel regime cosimiano, basato sulla collaborazione diretta e quotidiana del principe con queste “personalità
altamente qualificate, versate sia nell’amministrazione che nella politica”3,
che si tradusse in una contiguità anche fisica, data la comune abitazione del duca con la propria segreteria a Palazzo Vecchio. La politica architettonica stessa di Cosimo, correlata alla definizione simbolica del nuovo regime, strutturò via dei Servi, insieme a via Maggiore, come i due assi processionali
del percorso cerimoniale del potere mediceo in Firenze4, e proprio qui un
uomo come Ugolino Grifoni, segretario dell’entourage privato del principe,
1 La lettera, spedita da Giovanni Salviati al duca da Bologna il 24 febbraio del 1537, si trova trascritta in L. A. Ferrai, Cosimo I cit., pp. 230-‐232. Cfr. supra, pp. 42-‐43.
2 M. Fantoni, La formazione del sistema curiale mediceo tra Cinque e Seicento, in
Istituzioi e società in Toscana cit., pp. 165-‐166.
3 R Von Albertini, Firenze dalla Repubblica cit., p. 284.
4 M. Fantoni, op. cit., p. 169. Fondamentale, per la politica architettonica di Cosimo, rimane l’opera Architettura e politica da Cosimo I a Ferdinando I, a cura di G. Spini, Firenze, Olschki, 1976.
volle creare una delle sue residenze5. Questo sistema, per il periodo cosimiano, culmina ai nostri occhi nella descrizione fattaci negli anni sessanta del Cinquecento dall’ambasciatore veneto Vincenzo Fedeli, che ci mostra un principe intento a seguire una sorta di rituale giornaliero nel ricevimento dei
vari ministri e spedizione delle faccende di stato6. Siamo però appunto a quasi
venti anni di distanza da quella riorganizzazione amministrativa operata da Cosimo a partire dal 1543, a seguito del rientro in possesso delle fortezze di Firenze e Livorno e del consolidamento del suo potere sia sul piano interno che internazionale.
Quello che premerà analizzare in quest’ultimo capitolo, basato principalmente su documentazione archivistica edita e inedita, sarà il ruolo avuto da quegli uomini che, prima ancora che attraverso una funzione istituzionalmente definita dalla loro carica, dimostrarono la loro importanza attraverso l’esperienza maturata nei primi decenni del Cinquecento. Esperienza che misero al servizio del secondo duca di Firenze, come già avevano fatto col primo, per istradarlo e formarlo oltre che coadiuvarlo, non solo per essere utilizzati come strumenti nelle sue mani, tanto che Cosimo, ormai quarantenne, si staglierà davanti agli occhi dell’ambasciatore veneto
come “grande nel maneggio e nel governo dello Stato”7.
Alessandro e Cosimo
Secondo la ricostruzione del Pieraccini, Alessandro sarebbe nato da Giulio de’ Medici e una serva, molto probabilmente dopo il 1511, essendo minore di Ippolito, e di lui non si hanno notizie sino a che non “comparì” a Roma, all’età di circa sette anni sempre secondo questa ricostruzione, alla morte di
5 M. Calafati, Bartolomeo Ammannati cit., pp. 34-‐36.
6 V. Fedeli, Relazione di Toscana (1561), in Relazioni degli ambasciatori veneti al
Senato, raccolte, annotate e pubblicate da E. Albéri, Firenze, Clio, 1839, I, pp. 355-‐356.
Lorenzo duca di Urbino nel 15198. Avesse egli a quel tempo sette o nove anni, e venti o ventidue quando fu nominato duca, fosse figlio o meno del papa, certo è che egli si trovò a governare in giovane età, come un conquistatore, una città che fino a poco tempo prima aveva osteggiato la sua famiglia e direttamente lui stesso. Alessandro fu allevato alla corte di Giulio de’ Medici, fino a che, come abbiamo visto, non fu inviato a Firenze sotto la tutela del cardinale Passerini nel 1525, assieme a uomini di stretta fiducia di Clemente VII, legatissimi all’ambiente politico della restaurazione medicea, Giovanni Corsi e Ottaviano de’ Medici, per poi affrontare gli anni dell’esilio al seguito dei suoi tutori e infine alla corte cesarea, in attesa di rientrare nella città che avrebbe dovuto governare come primo esponente della famiglia,
cosa che fece il 5 luglio del 15319. La storiografia su Alessandro si è
mantenuta su un giudizio unanime, basato principalmente sull’immagine tradizionale del tiranno in preda delle passioni e dai bassi istinti, volto a soddisfare solamente i suoi bisogni, governato negli affari di stato, a causa del suo rapido disinteresse per la vita politica, da uomini posti al suo fianco da papa Clemente VII e dagli ottimati che avevano deciso di schierarsi definitivamente a favore della supremazia medicea. Tanto orgoglioso e geloso della sua posizione di preminenza come massimo esponente della famiglia Medici da colpire chi osasse innalzarsi al suo livello, come il celebre Filippo Strozzi con il figlio Piero. Costantemente seppur nascostamente disprezzato, percepito come la personalizzazione del giogo che papa Clemente VII aveva imposto all’antica repubblica, per di più figlio bastardo di una serva, fu nominato con i peggiori epiteti, oltre che dai suoi diretti oppositori, anche dagli storici coevi e successivi che, fino a Pieraccini almeno, non mancarono di sottolinearne “le malsane passioni” e l’egoismo. Dall’altro lato della medaglia, tuttavia, è stato riconosciuto al primo duca di Firenze un senso
8 G. Pieraccini, La stirpe dei Medici Cafaggiolo cit., vol. I, pp. 430-‐436. 9 Supra, pp. 15-‐16.
pragmatico di giustizia egualitaria, di cui si pose come assoluto arbitro, e un governo volto a pareggiare le differenze tra città e dominio, o quantomeno a
pacificare, armare, risanare e farsi così alleato il secondo10. Certo, il carattere
di Alessandro dovette presentare alcuni di quei tratti negativi così costantemente ribaditi: basti pensare alla celebre e inascoltata supplica della
madre naturale, Simunetta, lasciata a mendicare e patire la fame11 .
L’osservazione del suo metodo di governo tuttavia, dei ministri che lo circondarono, e del periodo di transizione che si trovò ad affrontare può darci un’indicazione riguardo a quanto molti giudizi potessero essere influenzati soprattutto dallo scarso tatto che egli dimostrò verso la vecchia classe dirigente degli ottimati e alla sua condotta che lo portò a godere di un potere
pressoché indipendente dalle magistrature12.
Un regime autoritario dunque, portato a Firenze con una guerra combattuta da forze straniere che aveva devastato, oltre al suo territorio, la città stessa, esasperata dalla crisi economica e con una struttura costituzionale e mentale ancorata alla tradizione cittadina e repubblicana ma dotata oramai di un’estensione territoriale di dimensione regionale. Ci fu certamente molto da costruire e ricostruire, e in questo giocarono un ruolo fondamentale gli esperti ministri e i collaboratori del duca, perseguenti il progetto “mediceo” di Clemente VII, che affondava le sue radici nell’antico sistema seguito al 1512. Il regime fu effettivamente imposto, sicuramente ben oltre i limiti della costituzione del 1532 e forse anche oltre le aspettative dello stesso pontefice,
grazie all’opera concreta del governo di Alessandro13. Opera, questa, più che
del giovane e disinteressato duca dedito alla caccia, alle feste e agli amori,
10 Per una rapida scorsa dei tradizionali giudizi degli storici su Alessandro cfr. G. Pieraccini, op. cit., pp. 429-‐446, incluso. Cfr. inoltre il più recente G. Spini, Alessandro cit.
11 Ibid.; la lettera, del 12 febbraio 1529, si trova trascritta in L. A. Ferrai, Lorenzino e
la società cortigiana cit., p. 149.
12 Supra, pp. 26-‐27.
soprattutto dei suoi ministri, tutori e consiglieri: il cardinale Innocenzo Cybo, il gruppo di ristretti e privati consiglieri aristocratici di cui il più illustre esponente fu Francesco Guicciardini, e sicuramente gli “uomini nuovi”, segretari e giuristi esperti della pratica di governo, cui emblema fu Francesco
Campana14.
L’Adriani, descrivendo il principato del primo duca, sottolinea l’industriosità di papa Clemente VII nel rendere “ben governita” la città, descrivendo come Alessandro, alla morte di questi, si trovasse impedito a godere del risultato raggiunto a causa delle controversie con Ippolito e con i fuoriusciti, che culminarono con la convocazione napoletana del 1536. Il duca tuttavia, appena uscito trionfante dal fastidio, poté adagiarsi e dedicarsi ai suoi piaceri dato che sul piano sia interno che internazionale era stata raggiunta una condizione di pace. L’idillio durò poco, e la situazione precipitò
nuovamente nel caos a causa dello sconsiderato gesto di Lorenzino15. Come
mostra la puntuale riflessione di Elena Fasano Guarini, lo storico cinquecentesco, descrivendo la situazione del 1537-1538, ricostruì il quadro di un dominio agitato da lotte di fazione e tensioni antifiorentine che, latenti sotto il regime di Alessandro, emersero alla notizia della sua morte. Questo fece negli anni sessanta del Cinquecento, un’epoca in cui i focolai di rivolta erano spenti, avendo dunque modo di celebrare l’opera di pacificazione
avvenuta nell’ultimo ventennio16. Gli Otto di pratica, nella cui cancelleria,
ricordiamo, aveva fatto esperienza Angelo Marzi, segretario del duca, incaricato nel 1537 della sicurezza e della polizia della città, spedirono prontamente una lettera circolare a tutti i giusdicenti del dominio,
14 O. Rouchon, L’invention cit., p. 70.
15 G. B. Adriani, Istoria de’ suoi tempi, Venezia, Giunti, 1587, pp. 1-‐62.
16 E. Fasano Guarini, Principi e territori in Italia: il caso toscano tra Cinque e Seicento, in L’Italia moderna e la Toscana dei principi cit. p. 274, originariamente in La società
dei principi nell’Europa moderna (secoli XVI-‐XVII), a cura di C. Dipper e M. Rosa, Il
annunciando ufficialmente la morte del duca e invitandoli a stare all’erta,
presagendo i disordini che sarebbero conseguiti17.
Cosimo, non ancora diciottenne, si veniva a trovare ad essere eletto a capo di una città ancora una volta sull’orlo della crisi: le città del dominio vedevano una nuova opportunità per ribellarsi a Firenze, i fuoriusciti per rientrare e restaurare l’antica libertà, e, infine, gli ottimati come Francesco Guicciardini, per raggiungere finalmente quel “principato misto” tanto desiderato nel 1532 e svanito dinnanzi alle modalità di governo del primo duca.
Non a caso Francesco Guicciardini si mostrò come uno dei più strenui sostenitori dell’elezione di Cosimo, allo stesso modo in cui sostenne la possibilità di raggiungere così il suo obiettivo politico. Questa sua idea, tuttavia, si dimostrò irrealizzabile fin dai primissimi mesi del 1537, tanto che egli si ritirò gradualmente dalla scena politica fiorentina. E’ innegabile che Guicciardini vedesse nell’elezione di Cosimo anche un’opportunità personale, dati anche i suoi rapporti con la famiglia coltivati sin dal suo appoggio nella causa patrimoniale contro Lorenzino. La giovane età del duca, in più, lasciava presupporre che sarebbe stato facile per il gruppo di ottimati “palleschi” che già avevano sostenuto il predecessore controllarne le mosse e porsi come tutori. Egli però, soprattutto, si mostrò intenzionato a perseguire il suo obiettivo di raggiungere finalmente un compromesso tra gli aristocratici e il potere del principe, derivante non solo dalla pratica, ma anche dalla costituzione, come rivela il provvedimento del 10 gennaio da lui
caldeggiato18.
17 Fino al 24 marzo del 1537 erano in carica come magistrati, tra gli altri, Ottaviano de’ Medici e Giovanni Corsi, i due precettori di Alessandro nel suo periodo fiorentino antecedente al 1527. Cfr. O. Rouchon, Les Troubles de 1537 dans le domaine florentine, in “Histoire Économie Société”, XIX, 2000, pp. 27-‐28.
18 Sul ruolo di Guicciardini nelle vicende dell’elezione di Cosimo, e sulla sua successiva delusione e ritiro dalla politica fiorentina per dedicarsi a incarichi nel dominio cfr. E. Fasano Guarini, Francesco Guicciardini e Cosimo I: il senso storico di una
Le vicende dei primi mesi del 1537 mostrano come il giovane “Cosimo di
Mona Maria”19 si fosse venuto a trovare in una situazione molto delicata e
particolare. Gli ottimati si trovavano in inferiorità rispetto all’importanza guadagnata, a causa della situazione internazionale e delle mosse spregiudicate del Vitelli, dalla fazione detta “filoimperiale” facente capo al cardinale Cybo e al comandante della guardia cittadina, insediati nella Fortezza da basso. L’agitazione militare dei fuoriusciti, oltre all’avversione che aveva per loro il cardinale e il timore dell’imperatore della fazione filofrancese interna a questi, fece sì che i tentativi di riconciliazione si risolvessero in un nulla di fatto culminato nella vittoria fortunata di Montemurlo.
I vecchi sostenitori di Alessandro, che inizialmente si erano schierati a favore dell’elezione di suo figlio naturale Giulio de’ Medici, infante, e di una maggiore sottomissione di Firenze all’impero, si trovarono – e in prima fila, tra loro, l’astuto Francesco Campana che si era prontamente schierato col nuovo duca dopo una breve indecisione – ad essere coinvolti in misura maggiore nell’organizzazione del nuovo governo.
Cosimo, giovinetto, guidato dalla madre che non mancò, come vedremo, di circondarlo di un gruppo di collaboratori degni di fiducia e mutuati dal vecchio regime, si ritrovò ad avere al suo fianco gli stessi uomini che, in una situazione diversa, erano stati posti al fianco di Alessandro da papa Clemente VII.
vicenda individuale, in Repubbliche e principi. Istituzioni e pratiche di potere nella Toscana granducale del ‘500-‐‘600, Bologna, Il Mulino, 2010, originariamente in A. E.
Baldini e M. Guglielminetti (a cura di), La “riscoperta” di Guicciardini, Genova, Name, 2006, pp. 45-‐78, pp. 209-‐246.
19 Come titola un capitolo G. Spini, Cosimo I cit., p. 22. La definizione, che il Varchi riferisce attribuita a Cosimo da quelli che con la provvisione del 10 gennaio vollero cercare di porre un freno al suo potere (B. Varchi, op. cit., vol. III, p. 204), si rivelerà decisamente veritiera, ma in un senso che, a mio avviso, si rivelò molto contrario agli stessi attributori.
La città, scossa dalle turbolenze del dominio e dei fuoriusciti, e attraversata dalle speranze di chi desiderava porre un nuovo freno al potere del duca per impedire il ripresentarsi di un governo assoluto, doveva essere, come nel 1532, nuovamente messa sotto il controllo di un principe Medici, il quale, ora forse più di allora, doveva anche guadagnarsi l’autonomia sul piano internazionale oltre che su quello strettamente politico e decisionale.
Questo, ovviamente, alla luce degli eventi successivi: Cosimo I de’ Medici, primo granduca di Toscana, è infatti stato visto dalla storiografia dei decenni passati come il vero artefice dello “stato assoluto” in Toscana, il primo a sfruttare a pieno le potenzialità insite nelle “ordinazioni” del 1532 per lo sviluppo del potere della sua carica.
I primi anni di governo, quelli che vanno dal 1537 al 1543, tuttavia, vedono un duca, sebbene dotato di un carattere molto più energico e votato al governo dello stato, di un’età, un’esperienza e una quantità di legami politici decisamente inferiore al suo predecessore. Come lui era appassionato di caccia, attività a cui dedicava moltissimo tempo, tanto da venire addirittura in alcune occasioni quasi redarguito dalla madre e dal precettore. Se poniamo attenzione alle lettere di quegli anni, ai protagonisti dell’entourage ducale nelle vicende politiche, e alle dinamiche interne di questo gruppo, possiamo comprendere come quegli stessi uomini di cui non abbiamo una documentazione adeguata a stabilirne il ruolo per il periodo di Alessandro, ma su cui la storiografia coeva e successiva ci ha fornito molte informazioni di come probabilmente reggessero e amministrassero il suo governo secondo le
direttive romane20, si configurarono per Cosimo come costanti e diretti
interlocutori nel delicato meccanismo di formazione della decisione politica, insieme al fedele Pierfrancesco Riccio e, almeno per i primi anni, alla madre Maria Salviati.
Cosimo era un ragazzo per nulla abituato a reggere in mano le redini di uno stato, mentre i suoi collaboratori provenivano tutti dall’esperienza del precedente governo, in cui erano dovuti diventare gli strumenti, nonché gli interlocutori e interpreti, della volontà del duca, del suo potere “assoluto” e delle disposizioni che almeno fino al 1534 giungevano da Roma. Esperienza diretta questa che, come abbiamo visto, si era formata nell’ambito del potere mediceo, fosse esso direttamente fiorentino o indirettamente romano, in tempi ancora precedenti.
Appare dunque difficilmente pensabile come uomini di questo tipo, sebbene legati nelle loro fortune al capriccio del loro datore di lavoro, non abbiano lasciato, con la loro frequentazione costante e personale del duca, un’impronta decisiva sul suo governo, almeno per i difficili anni antecedenti al consolidamento della sovranità, per così dire, “nazionale e internazionale” del principato. L’importanza degli uomini dunque, più che delle cariche, le quali assumeranno maggior rilievo e definizione anche per il periodo cosimiano solo a seguito della riorganizzazione istituzionale del 1543.
Dell’influenza degli aristocratici – intesi come esponenti di una “classe sociale e politica” dominante ai tempi della repubblica e dialogante con il potere del principe – si smetterà di parlare, se già così non si era fatto in questo senso, quando gli uomini, appartenenti al primo nucleo di “palleschi” formatosi sotto Clemente VII e passato ad Alessandro, che avevano davvero avuto una funzione di consiglio privato del principe, Matteo Strozzi, Francesco Vettori, Francesco Guicciardini, Roberto Acciaiuoli, Matteo Niccolini, troveranno naturalmente la morte nei primi anni del principato. Cosimo si servì certamente ancora degli ottimati mutuati dal vecchio regime come Luigi Guicciardini e Bartolomeo Lanfredini nel suo governo della provincia, ma questi, già lontani “fisicamente” dal potere politico, furono
utilizzati come strumenti dal principato. Lo stesso vale per i “nuovi arrivati”,
come gli ambasciatori Averardo Serristori e Angelo Niccolini21.
Tutto questo dimostra, a mio avviso, come a rendere importanti tutti questi uomini nei primi anni del principato, ottimati o meno che fossero, e a dotarli di un ruolo politico, seppur mediato e non espresso dalle attribuzioni della
carica ricoperta22, fu soprattutto la loro storia antecedente alla formazione del
principato stesso e, per il periodo di Cosimo, la loro esperienza maturata negli anni di insediamento, se non di assestamento, quelli di Alessandro, della signoria medicea a Firenze.
Nel presente e conclusivo capitolo cercheremo infatti di delineare, attraverso elementi desunti dalle lettere scambiate internamente dai membri dell’entourage cosimiano, per il quale si trova molta documentazione al contrario del periodo precedente, come questo ruolo politico si dovette esprimere, lumeggiando infine nelle conclusioni come il governo di Cosimo si pose, nel periodo trattato, in diretta continuità con quello di Alessandro su molte di quelle questioni di politica interna che erano apparse più stringenti già nei primi anni seguiti all’assedio, pur con le sue diverse caratteristiche. Un simile gruppo di collaboratori politici da un lato, e una simile pratica di governo dall’altro, caratterizzano questi primi undici anni di vita del principato fiorentino, attraversati da due duchi umanamente molto diversi tra loro, accomunati dalla giovane età, che si trovarono immersi nello stesso ambiente politico.
Maria Salviati
Com’è noto, Maria Salviati nacque il 17 luglio del 1499 da Iacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico. Nel novembre del 1516 sposò Giovanni delle Bande Nere, figlio di Giovanni de’ Medici “il
21 Cfr. supra, p. 28; R. Von Albertini, Firenze dalla Repubblica cit., pp. 285-‐286. 22 F. Angiolini, op. cit., p. 708.
popolano” appartenente a quel ramo cadetto della famiglia di cui farà parte anche Lorenzino il tirannicida, e Caterina Sforza. I due sposi erano stati allevati insieme dalla famiglia di Maria fin dal 1509. Tre anni dopo il matrimonio, il 12 giugno del 1519, nacque Cosimo de’ Medici, unico figlio
dei due coniugi23. Secondo Natalie Thomas, studiosa che recentemente si è
occupata della figura di Maria Salviati, la donna chiese a papa Leone X di fargli da padrino, cosa che egli accettò dando al bambino il nome del primo
illustre antenato della casata24.
Finché i due rimasero insieme, Maria Salviati si adoperò costantemente per il bene del marito, trattando con i membri più influenti delle due famiglie, Medici e Salviati, di cui faceva parte. Ad esempio, dopo che fu esiliato da Firenze nel 1518, Giovanni fu, per dirlo con le parole della Tomas, “politically rehabilitated” da papa Leone X, che lo impiegò come comandante militare per riconquistare Parma di lì a pochi mesi. Figure chiave del suo rapporto con gli esponenti più importanti del potere mediceo, specie in questi anni, furono i genitori, Iacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, e il fratello,
“Cardinale nostro” come lo definiva, Giovanni Salviati25.
La donna si occupò della gestione del patrimonio appartenente al nucleo familiare, e di sorreggere il marito continuamente sottoposto a difficoltà economiche. Cercò di intercedere presso papa Clemente VII, nel dicembre del 1523, affinché questi venisse in aiuto per togliere quei “tanti interessi et
depositi” che Giovanni “si trova addosso”26. Continuamente preoccupata che
23 Per una biografia di M. Salviati le opere più complete, a cui mi sono riferito per questa parte, rimangono ancora le datate: G. F. Young, I Medici, Firenze, Salani, 1934, vol. II, pp. 186-‐204 e G. Pieraccini, op. cit., vol. I, pp. 499-‐524.
24 N. R. Tomas, The Medici Women: Gender and Power in Renaissence Florence, Aldershot, Ashgate, 2003, p. 148.
25 Ibid., p. 147; per i legami della famiglia Salviati con la famiglia Medici a Roma negli anni venti del Cinquecento cfr. ibid., pp. 141 e sgg. La citazione riguardo al Cardinale Salviati deriva da una lettera riportata in G. Pieraccini, op. cit., vol. I, p. 502.
26 C. Guasti, Alcuni fatti cit., p. 26: lettera di Maria Salviati a Clemente VII del 5 dicembre 1523.
la spensieratezza e le spese del marito minassero la stabilità economica e l’onore della sua famiglia, fu nuovamente costretta a tornare a Roma insieme al figlio per cercare di ottenere aiuto da papa Clemente nel febbraio del 1524, fallendo miseramente. La donna appariva già molto attenta alla scena politica che la circondava: Pieraccini riporta come in una lettera diretta al marito, del 31 dicembre 1523, lo informasse sulle ultime mosse del papa, come dell’idea di spedire a Firenze i due rampolli Ippolito e Alessandro, consigliandogli
quindi di tornare e pensare alle cose del suo stato27. Young, nella sua opera
sui Medici, ritiene che Maria avvertisse in Clemente VII la volontà di allontanare Giovanni da ogni possibile rivendicazione, lasciandolo sul campo
di battaglia e sperando nella sua morte28.
Quando questa avvenne, sul finire del 1526, Maria si sistemò nella sua villa al Trebbio assieme alla famiglia di Pierfrancesco de’ Medici (deceduto nel 1524), per spedire immediatamente Cosimo, insieme al precettore Pierfrancesco Riccio e ai cugini, a Venezia, dove li raggiunse pochi mesi dopo. Madre e figlio furono costretti a continui spostamenti nell’avvicendarsi delle fortune del casato mediceo, al Trebbio, a Bologna e a Roma, fino a che non si stabilirono nuovamente e finalmente, dopo la caduta della repubblica,
nelle loro proprietà fiorentine nell’ottobre del 153029.
Per citare ancora una volta Natalie Tomas, “in widowhood, Maria directed her energies towards maximising opportunities for her son Cosimo … much as she had done for his father”: questo fece cercando di intercedere per lui, in più occasioni, presso suo padre Iacopo e suo fratello Giovanni, accusati dalla
donna di non fare abbastanza per il loro nipote30. Maria si adoperò dunque per
sfruttare a fondo i suoi contatti, dai parenti Salviati al cugino Innocenzo
27 G. Pieraccini, op. cit., vol. I, pp. 500-‐504 (la lettera si trova citatata alle pp. 502-‐503). 28 G. F. Young, op. cit., vol. II, p. 200.
29 Supra, p. 38; R. Cantagalli, Cosimo I de’ Medici Granduca di Toscana, Milano, Mursia, 1985, pp. 18-‐31.
Cybo, cercando perfino di fare leva sulla sorellastra del duca Alessandro, Caterina de’ Medici, cui Clemente VII era affezionato, data la sua importanza
come carta politica da utilizzare al momento opportuno31. Noto è che Maria
rifiutò la richiesta, fattagli dal papa nel 1531, di risposarsi, adducendo la motivazione di non poter abbandonare il figlio in quanto, soprattutto, era
“nato … di quelle felici ossa”32, sottolineando quindi la fortuna della sua
discendenza. Nonostante ciò, la Salviati continuò a sperare nell’aiuto di Clemente VII, raccomandandogli il figlio in varie occasioni o accettando di accompagnare, appunto, nel 1533, Caterina de’ Medici nel suo viaggio in Francia in occasione del matrimonio col duca d’Orléans pur di ingraziarsi il pontefice. Questo nonostante il costo della gita, per lei difficilmente
sostenibile33.
La situazione finanziaria di Maria, infatti, non migliorò con l’instaurazione del principato. Giovanni delle Bande Nere era morto lasciando dietro di sé molti debiti e pochissimo denaro e, come ricordato, suo cugino Pierfrancesco si rivelò un pessimo amministratore. A questo, si erano aggiunti il fallimento dei due tentativi per trovare una sistemazione matrimoniale a Cosimo, rispettivamente con la nipote del cardinale Cybo e con la figlia di Francesco Guicciardini, Elisabetta, al cui padre Maria propose l’affare dopo il suo ritorno dalla Francia. Infine, la morte del papa, nel settembre 1534, dissolse definitivamente la speranza di ottenerne qualche vantaggio. Anche la causa patrimoniale vertente con i figli di Pierfrancesco tirò per lunghe, e si risolse solo nel 1536 grazie all’intervento di Francesco Guicciardini nella sentenza
emessa da Lelio Torelli34. Nel novembre del 1530 Maria, nel chiedere grazia a
Bartolomeo Valori per due suoi servitori gravati dalle imposizioni, non mancò
31 R. Cantagalli, op. cit., pp. 31-‐36.
32 Lettera di Maria Salviati a Giovanni Salviati del 3 maggio 1531, cfr. ibid. 33 Ibid., pp. 148-‐149 e supra, p. 29.
34 G. V. Parigino, Il tesoro del principe. Funzione pubblica e privata del patrimonio della
famiglia Medici nel Cinquecento, Firenze, Olschki, 1999, pp. 32-‐38; R. Cantagalli, op.
di ricordargli quanto lei e il figlio fossero “scorticati nelle adversità”35, situazione che non dovette in definitiva cambiare radicalmente negli anni che seguirono.
Gli anni del principato di Alessandro videro una Maria Salviati impegnata ad occuparsi del figlio che, nonostante fosse un giovane cortigiano del duca, non godeva certo né di un ingente patrimonio né di grandi prospettive, sebbene fosse inserito nella linea di successione. La presenza a corte come membro della famiglia regnante e quindi la prossimità, se non quotidiana, certamente frequente, al duca di Firenze, tuttavia, dovettero elevare la Salviati e il figlio a un ruolo di una certa importanza e inserirli in un sistema di relazioni legato al centro del potere politico fiorentino.
Piccoli indizi, come le formule di saluto presenti nelle lettere del carteggio di Bologna, o informazioni che a prima vista potrebbero sembrare di poco conto, possono invece aiutarci a darci un’idea di questo sistema. Da alcune lettere di Cosimo, spedite alla madre in quell’occasione, possiamo riscontrare che il duca Alessandro non doveva essere troppo estraneo o disinteressato nei confronti della donna, giacché attraverso le lettere del figlio non mancò in più di un’occasione di “recomandarsi” a lei, cioè di porgerle i suoi saluti, secondo una formula comunemente utilizzata: “Io sto bene, et il nostro Signor D[uca] similmente, et meco si recomanda alla S V”; “l’Excellentia del nostro Signor Duca sta benissimo, et meco se recomanda alla S V”; infine, dopo aver detto alla madre di non preoccuparsi riguardo al fallimento dei vari negozi perché avranno tempo di ragionarne in futuro “scrivendo all’hora pensatamente dove sarà necessario a benefitio mio con la sodisfactione dell’Excellentissimo Signor D[uca] nostro patrone quale sta bene, et io anchora, et meco se
recomanda alla S V”36. Emerge come Cosimo cercasse, con almeno formale
35 ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140, c. 10, Maria Salviati a Bartolomeo Valori, “magnifico commissario generale di Nostro Signore”, 25 novembre 1530.
36 ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140, le citazioni si trovano, rispettivamente, alle cc. 52 (da Vigevano, 20 marzo 1532 s.f.), 55 (da Genova, 30 marzo 1533), 56 (da
successo e sebbene non avesse ancora 14 anni, di entrare nelle grazie del duca Alessandro. A causa di questo impegno egli si scusò pure con la madre: “se io non gli scrivo così spesso hora, bisogna accusarne che io non perdo anche tempo nell’essere apresso del nostro Illustrissimo D[uca] in che mi pare l’importantia della cosa, come più volte gl’ho accennato”, pur assicurandole
che “Li soi ricordi mi sono precepti et legge”37. Le formule di saluto apposte
da Cosimo in molte delle sue lettere, infine, ci indicano quali dovessero essere i rapporti che lui, da Bologna, e la madre, a Firenze, stavano coltivando: Cosimo non manca mai di raccomandarsi al cardinale Innocenzo Cybo, al tempo luogotenente di Alessandro, e a Ottaviano de’ Medici, depositario
ducale38. Noti, infine, sono i successi che il figlio di Giovanni delle Bande
nere dovette riscuotere nel suo tentativo di mettersi in mostra, successi che arrivarono anche quando, quattro anni più tardi, si presentò a Napoli davanti
all’imperatore al seguito di Alessandro39.
Possiamo dunque comprendere come la Salviati detenesse un certo grado di influenza politica. Da una lettera del podestà di Prato, Bartolomeo Lanfredini, del gennaio 1533, si evince come un non meglio identificato Antonio di Pierpagolo Castelli si fosse rivolto a lei per ottenere un qualche tipo di favore dal podestà, il quale si dice disposto ad accontentarlo per affezione della
Salviati40. Potere, questo, che emerge anche dalle più note lettere citate dal
Guasti, in cui Pierfrancesco Riccio proprio alla Salviati si rivolse per cercare
Genova, 9 aprile 1533), tutte lettere che Cosimo invia alla madre dai luoghi in cui si trova a dover far tappa per il viaggio di ritorno dopo il soggiorno bolognese.
37 ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140, c. 47, Cosimo de’ Medici a Maria Salviati, da Bologna, 16 gennaio 1532 (s.f.).
38 Si vedano le numerose carte di questo tipo in ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140, cc. 44 e sgg.
39 Lettere esemplificative dell’apprezzamento ricevuto da Cosimo appena giunto a Bologna sono quelle trascritte in C. Guasti, op. cit., pp. 49-‐64. Per il soggiorno napoletano cfr. supra, pp. 39-‐40, e R. Cantagalli, op. cit., pp. 37-‐38.
40 ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140, c. 156, Bartolomeo Lanfredeini podestà di Prato a Maria Salviati, 26 gennaio 1532 (s.f.), nel poscritto “ho riceuta la vostra in
rachomandatione di Antonio di Pierpagolo Castellj al quale senza altro dir per amor di V S farò que piaceri che sarà possibilj”.
di ottenere da Alessandro una cappella nella pieve di Prato: “la suplico voglia di gratia domandare all’excellentia del nostro illustrissimo Duca, che, occorrendo, si degni farmi gratia di decta capella”. Pare che il duca le facesse rispondere che egli era desideroso di soddisfarla e soddisfare “il maestro di Cosimo”, tanto che “n’ha fatto pigliare nota a monsignore de’
Marsi”41.
Infine, sempre per cercare di definire il ruolo che Maria Salviati dovette cercare ed ebbe la possibilità di ritagliarsi come personaggio precipuo al vertice del potere politico di Firenze, basti ricordare che il palazzo dei Medici in via Larga, residenza di Lorenzino de’ Medici, compagno di scorribande e galanterie del duca, e poi suo assassino, doveva essere saltuariamente abitato
anche da lei e dal figlio che ne condividevano la proprietà42.
La morte del duca Alessandro pose immediatamente Cosimo al centro dell’attenzione: tradizionalmente si vuole che il ragazzo, a caccia nel Mugello, avesse intuito che qualcosa stava avvenendo in città e avesse deciso
di recarvisi, tanto che Girolamo degli Albizi43, incaricato di andarlo a
prendere al Trebbio, lo incontrò a metà strada. Il ruolo di Maria Salviati dopo le note vicende dell’elezione, è stato in passato dibattuto tra gli storici: Young asserì che Cosimo non ascoltò né andò più a trovare la madre, la quale si ritirò dalla politica; Pieraccini, basandosi su fonti ancora oggi utilizzate, sostenne la tesi opposta, che vedeva una Maria intenta a governare le cose più importanti
e urgenti dello stato assieme al figlio44.
41 C. Guasti, op. cit., pp. 32-‐33.
42 Cfr. i noti aneddoti riguardanti gli avvertimenti dati da Maria Salviati ad Alessandro de’ Medici riguardo alle vere intenzioni di Lorenzino e la preparazione del terreno per l’omicidio operata da questi, volta a non allarmare al momento dell’azione la madre di Cosimo. Se anche fossero, com’è probabile, frutto di esagerazione, questi racconti esprimono l’esperienza dei contemporanei del quotidiano svolgersi dei rapporti a corte. Il racconto di queste vicende si può trovare ad esempio in M. Rastrelli, Storia di
Alessandro cit., vol. 2, passim e in B. Varchi, Istorie Fiorentine cit., passim.
43 Proprio da Cosimo Girolamo degli Albizi sarà nominato Commissario delle bande, succedendo ad Antonio Ricasoli. Cfr. G. Spini, op. cit., p. 179.
Effettivamente, come rilevato ancora dalla Tomas, Maria dovette non solo avere un ruolo politico molto importante fin dai primi giorni del principato di Cosimo, ma dovette anche essere stata protagonista diretta delle discussioni nate nei giorni successivi alla morte del primo duca riguardo alla possibilità di eleggere suo figlio, come hanno accennato il Nardi e il Nerli. Maria ospitò inoltre, secondo quanto riferisce il Segni, nel palazzo di famiglia (Salviati), alcune tra le discussioni avvenute a Firenze subito dopo l’elezione di Cosimo
con i cardinali fuoriusciti45.
La madre continuò ad occuparsi del figlio salito alla massima carica di governo attraverso un aiuto costante, almeno nei primi anni. Dalla Salviati, secondo Cantagalli, dovette venire il consiglio di lasciare praticamente immutati, almeno inizialmente, i quadri del vecchio governo, togliendo dai servitori in carica ogni preoccupazione di essere cassati e rafforzando così il
legame di dipendenza e fiducia col nuovo potere46. Riferisce il Segni che
Cosimo “governò la repubblica … usando assai il consiglio di madonna Maria
45 Cfr. F. De’ Nerli, Commentarj cit., pp. 291-‐292, che, riferendosi al gruppo degli uomini che si trovarono in quei giorni successivi all’assassinio a discutere dell’elezione, ovvero al cardinale Cybo, Francesco Guicciardini, Matteo Niccolini, Roberto Acciaiuoli, Matteo Strozzi, Francesco Vettori ed Ottaviano de’ Medici riferisce come “tennero alcuni di essi pratiche con Madonna Maria de’ Salviati madre del Signor Cosimo … per eleggere in luogo del Duca morto esso Signor Cosimo, e trovarono disposizione in lei, e nel figliulo, che per tale effetto fu subito dopo quelle pratiche fatto tornare dentro la città”. Cfr J. Nardi, Istorie della città di Firenze, Firenze, Società editrice delle storie del Nardi e del Varchi, 1838-‐1841, vol. II, p. 325, secondo cui Maria Salviati era “contraddicente e molto reclamante … perché diceva, non volere che il figliuolo fosse innalzato a quel grado di dignità con certissimo pericolo di capitare male, secondo gli esempi delle vanità del mondo”. Entrambi, seppur dando una diversa interpretazione della volontà della donna, mostrano come questa fosse stata presa in considerazione. Cfr. B. Segni, op. cit., pp. 333-‐334: “In casa Salviati si ferono molte consulte, dove interveniva madonna Maria sua sorella [del cardinale Giovanni Salviati, fuoriuscito] e gli altri cittadini primi dello stato molte volte detti da me … Pregava il cardinal Salviati e Lorenzo la sorella, che non volessi mettere l’unico suo figlio in tanto pericolo”. Noto è che queste trattative sfociarono in un nulla di fatto. A questi tre passi si riferisce N. R. Tomas, op. cit., pp. 149-‐150 per indicare il ruolo di Maria Salviati nei primi mesi del 1537.
sua madre, che amministrava con l’autorità sua molte faccende”47. Come abbiamo visto lungo l’arco del presente lavoro, egli si trovò affiancato, fin dagli inizi, da un gruppo di collaboratori mutuato dal precedente duca, e “alla testa di questo gruppo fu – almeno nei primi tempi – l’intelligente,
combattiva, appassionata Maria Salviati”48, che si preoccupò di porre uomini
d’esperienza e degni di fiducia accanto al figlio, come di trovargli nuovi sostenitori, oltre ad assicurarsi la fedeltà di quelli appartenuti anche al marito Giovanni. Il Guasti già ne fornisce un’idea citando due lettere del 1537 in cui Maria scrive, quasi con la medesima formula, a due vecchi “affezionatissimi” del marito, informandoli dell’avvenuta elezione del figlio ed esortandoli a stare pronti a radunare altre persone da far accorrere a Firenze “per servircene
occorrendo a bisogno” 49, segnale delle preoccupazioni che dovevano
affliggerla riguardo alla sicurezza sua e di Cosimo. Altra espressione di ciò è una lettera del 24 gennaio al vicario di Scarperia, da cui emerge che Maria Salviati gli aveva fatto spedire una lettera dagli Otto di pratica affinché questo
facesse trasportare dai suoi uomini un rifornimento di grano al Trebbio50. La
considerazione di Maria Salviati per i vecchi servitori del marito, ma anche di questi verso di lei, doveva essere molto forte, tanto che il primo di ottobre del 1537 inoltrava al Riccio una “supplicatione d’uno Iuliano … antiquo servitore di questa casa et della Bo. Me. del Signor nostro consorte”. Nella stessa lettera Maria inviava al segretario anche “quello che in substantia conteneva
47 B. Segni, op. cit., p. 374. 48 G. Spini, op. cit., p. 68.
49 Lettere di Maria Salviati citate in C. Guasti, op. cit., p. 30. La prima, dell’11 gennaio, è diretta a Bernardo della Tassinara, che si trovava a Galeata. La seconda è diretta a un anonimo ed è senza data, ma è sicuramente ascrivibile a questi primi e convulsi giorni di governo. Cfr. anche G. Pieraccini, op. cit., pp. 508-‐509. Le lettere si trovano entrambe in ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140.
50 Ivi, c. 34, al Vicario di Scarperia Francesco degl’Alberti, da Firenze, 24 gennaio del 1536 (s.f.) da Maria Salviati.
la cifra che era in la lettera del Mantova”, affinché questo ragionasse con
Cosimo di entrambe le questioni51.
La Salviati dunque, a conoscenza perfino dei messaggi cifrati che giungevano dalle corti estere, non si interessava solo di politica interna, ma anche di questioni internazionali, non mancando di ricevere anche avvisi
riguardanti i fuoriusciti52. Dopo aver già contattato Giovanni Bandini in veste
di “benefatrice”, nel luglio del 1537, per comunicargli “la fede tenghiamo
verso V S per li molti beneficii, et molta servitù sua verso questa casa”53, il 2
novembre del 1537 gli scrisse “come sorella” per “ricordargli quello che per se medesimo ha sempre operato a benefitio di questa casa, et tanto più penso il farà quanto che si po render certissimo che tutte quelle opere farà a bene fino del prefato S mio figlio, et mio le collocherà ad persone le quali l’amono da fratello, et che farebbono quel medesimo per lui”. Ancora, il 17 novembre si mostra soddisfatta delle “accoglienze ad Averardo Serristori oratore nostro” fatte dal Bandini, come anche delle notizie giunte, che spera “haranno quel fine che comunemente per noi et per li amici nostri si desidera, et li cieli
partorranno quelle vendette a nimici nostri che meriteranno e loro peccati”54:
proprio in questi mesi, infatti, alla corte cesarea, gli ambasciatori fiorentini
51 ASFi, Mediceo del Principato, 1169/2. Lettera di Maria Salviati Pierfrancesco Riccio, 1° ottobre 1537, da Firenze.
52 ASFi, Mediceo del Principato, 182, c. 20, Lettera a Gianfrancesco Nigrini, 1° marzo 1536 (s.f.), “in nome della Illustrissima Signora Maria madre di S. Excellenza”. Maria scrive: “Risponderò alle parte necessarie delle 4 vostre di 24 et 26 del passato le quali ha tutte visto il S. mio figliolo et molto ben examinate commentando la diligentia et affectione vostra in servitio delli interessi nostri … Li avisi ne date de fuoriusciti et disegno loro sonno stati grati et per vostro contento vi si dica l’impresa loro andar più tosto risolvendosi … et da ogni banda da conto le cose nostre passano in tanto buon termino che ‘l non se ne può sperare se non desiderati buoni successi, et per Noi non si mancha di tutte quelle gagliarde provisioni perché le si mantenghino et augumentino et certamente questi nobili et tutto l’Universale et della città et del Dominio si portano con tanta affectione quanto maggiormente da essi sperare si puossa”.
53 Lettera di Maria Salviati a Giovanni Bandini del 22 luglio 1537, trascritta in L. A. Ferrai, Cosimo I cit., p. 170.
stavano lavorando su un caso politico di massima rilevanza, la consegna a Cosimo di Filippo Strozzi, rinchiuso nella fortezza da Basso nelle mani di Alessandro Vitelli. Il Bandini, sospettato di non collaborare con Cosimo nel fargli consegnare il prigioniero e di volerlo salvare in virtù di vecchi legami di amicizia e soprattutto di necessità economica, fu dal settembre affiancato e
controllato da Averardo Serristori e Lorenzo Pagni55.
La funzione di collante tra il duca e i suoi dipendenti non dovette terminare presto. Nel 1538, il 26 marzo, scriveva a Vincenzio Bovio, agente mediceo e del cardinale Cybo a Bologna: “più cose sono quelle che faranno credere alla s v che siamo al tutto immemore di lei, et delli officij ha per utile nostro sempre operati”, scusandosi che a causa del male che non ha “possuto con lo
Illmo S nostro figlio operare per lei come era il dovere” e “non si è possuto
demostrare alla S V il grado che noi pretendiamo havere delli meriti fatti de cose nostre, et di questo ne è suto causa le superflue spese, et quelle che senza le quali non si posseva fare per conto del levare del Dominio nostro quelli soldati che continuamente ci affligevano”, assicurando infine che, con l’alleggerimento delle spese “non mancheremo d’ogni nostra opera di riconoscere l’amorevole servitù sua verso noi … et far si che cognoscerà non havere perso il tempo … et la preghiamo non manchi fare per l’advenire per amore nostro quelle che ha fatto per il passato che certo gliene terremo
obligho immortale”56.
Fosse o no anche per questo ruolo, la Salviati doveva apparire agli occhi dei contemporanei come una delle chiavi per accedere a una posizione di rilievo agli occhi del figlio, o per rimanervi. Valga come esempio quello di uno di quei personaggi più invisi del vecchio regime, l’unico che fu
55 Cfr. supra, p. 44. Per il sospetto sorto in Cosimo verso il Bandini e lo sviluppo della questione fino all’incarcerazione dell’ambasciatore, nel 1543, con l’accusa di sodomia, cfr. R. Cantagalli, op. cit., passim e Istruzioni agli ambasciatori e inviati medicei cit., p.3. 56 ASFi, Mediceo Avanti il Principato, 140, c. 39. Su Vincenzio Bovio cfr. G. Spini, op. cit., p. 61.
prontamente allontanato da Firenze, Maurizio Albertani: proprio a lei si rivolse nel febbraio del 1537, dopo essere stato inviato a Pisa e quindi presumibilmente già rimosso dalla cancelleria degli Otto di guardia, per cercare di entrare nelle grazie del nuovo duca. “S’io havessi mille vite, non mi
basterebbono a metterle per la Extia del suo figlio, et per vostra Illma S” scrive
da Pisa il 18 febbraio, lamentandosi che “gran peccato fa chi opera contra di
me et non vole bene ne a dio ne a sua extia ne a vostra S Illma”; soprattutto egli
spera che, ripensando ai servizi da lui svolti per la casata, Maria lo “piglierà in protettione”. Infine, valga come idea che poteva avere un servitore di Alessandro, per quanto intento a chiedere grazia, in merito a quello che dovevano essere stati i difficili i primi cinque anni di assestamento del
principato mediceo: “ma quando s ecctia si metterà in core l’animo della
invitta memoria di suo padre farà tremare chi per natura sprezza et potrallo fare meglio che la fedele memoria del Duca Lesandro perché ha trovato le
cose più in essere di lui”57. Sempre da una lettera dell’Albertani, spedita lo
stesso giorno, possiamo avere l’immagine di come dovessero apparire i rapporti gravitanti attorno alla corte del duca. Egli scrisse a Ugolino Grifoni, lamentando di non sapere quale dovesse essere il suo compito dato che il duca, semplicemente, gli aveva comandato “va a Pisa, et scrivi di tua mano”. Interessante è, a mio avviso, la formula di saluto utilizzata: “che si degni
tenermi in bona gratia di sua Extia et della Illma Madonna Maria, et a vostra S
di core mi raccomando”, il che non sorprende, e ci fa capire chi realmente dovesse essere in intimi e quotidiani rapporti col duca. Proprio per questo è notevole che solamente dopo la data, il “buon servitor” Maurizio si ricordi di
pregare il Grifoni che “si degni raccommandarmi al Rdo M Franco Campana
57 ASFi, Mediceo del Principato, 330, c. 141. Valga come ultima nota di colore, per delineare quanto il “buon servitor Mauritio”, come si definisce, fosse fedele all’immagine che i contemporanei avevano di lui, la soluzione proposta per sedare l’agitazione che si percepiva a Pisa in quei giorni: la questione sarebbe stata facilmente risolvibile, data la scarsa e poca importanza della cosa, “solo col mandare
mio patrone”: questo potrebbe essere interpretato come una semplice dimenticanza, e non sappiamo se derivasse dal fatto che sulle prime il Campana si era dimostrato indeciso sul nuovo duca, ma il fatto che venisse aggiunto indica come anch’egli dovesse essere tornato subito in stretti contatti con la corte e con Maria Salviati, come anche Ugolino Grifoni, cui l’Albizi
scrisse poco dopo58.
La vicinanza della Salviati col Grifoni era al tempo ben nota, tanto celebre è la pagina del Varchi riferita a questo segretario: “dopo il Campana, partito Bernardo da Colle [Bernardo Giusti], si riferivano tutte le cose della cancelleria a messer Ugolino Grifoni da San Miniato, il quale, perché era stato copista dell’arcivescovado e cancelliere di quel famoso capo di parte, e anco perché essendo tangoccio e tozzotto gli rendeva un po’ d’aria, si chiamava da chi voleva ingiurarlo o avvilirlo, ser Ramazzotto. Ma la signora [Maria] conoscendolo fedele e molto affezionato della casa gli voleva bene e
lo chiamava per amorevolezza Ulino”59. Un’immagine, questa, che dovette
dare adito anche a maliziose voci sul loro conto, tanto che nel 1539 “Ulino”, in una lettera a Pierfrancesco Riccio, si lamentò che “già il buon Vescovo di Forlì et il Ricasoli con altri alla prossima [prossimità] di S Excellentia senza rispetto della Signora Duchessa mi rodevano il baffo dicendo che io sto in lecto con la Salviata, ne saria tornato sino a stamanj in quello io arrivaj, et ognuno tacque, poi mi fu conto tutto da m Pietro, Vedrà V S che belle
crea[n]ze. Horsu basta”60.
58 Ibid., c. 146.
59 B. Varchi, op. cit., vol. 3, pp. 237-‐238.
60 ASFi, Mediceo del Principato, 1169, lettera del 9 ottobre 1539, spedita da Ugolino Grifoni dal Poggio a Pierfrancesco Riccio a Firenze. Il vescovo di Forlì è Bernardo de’ Medici, nato, probabilmente a Firenze, nei primi anni del Cinquecento; seguì i Medici in esilio nel 1527, divenne vescovo di Forlì nel 1528 per opera di Clemente VII e servì il cardinale Ippolito, per la cui morte nel 1535 fu chiamato in causa; nel gennaio 1537 risultava già al servizio di Cosimo, che lo inviò in Spagna a rendere conto all’imperatore della morte di Alessandro (cfr. V. Bramanti, Bernardo de’ Medici, in