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CAPITOLO IV Al servizio di due duchi

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Academic year: 2021

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CAPITOLO IV

Al servizio di due duchi

Cercare di ricostruire i rapporti che intercorsero tra il duca Alessandro e i suoi collaboratori appare un’operazione molto difficile per la nota carenza di documenti riguardanti il governo, e la segreteria privata, del primo duca di Firenze. La storiografia coeva e di poco successiva, come più volte ribadito, ci restituisce tuttavia l’immagine di un duca governato dai suoi ministri, messi accanto a lui da papa Clemente VII per indirizzarlo nelle scelte politiche. Insieme a questi, anche un piccolo gruppo di ottimati “palleschi” e più volte ricordati coadiuvò il giovane duca nella pratica di governo, configurandosi come un ristretto consiglio privato, avulso da qualunque provvedimento costituzionale. Quest’ultimo gruppo è quello che, immediatamente dopo gli eventi del 6 gennaio, si schierò a favore dell’elezione di Cosimo de’ Medici come capo della repubblica fiorentina, sconfiggendo in questo la fazione politica comunemente nota come “filoimperiale”, composta dai cortigiani di Alessandro, perlopiù non aristocratici e non fiorentini, legati più al potere imperiale che all’idea di una repubblica fiorentina indipendente.

I noti eventi che seguirono all’elezione mostrano un ultimo e disperato tentativo degli ottimati, e, uno su tutti, di Francesco Guicciardini, per cercare di limitare le prerogative del nuovo vertice dello stato. Il fallimento di quest’operazione, avvenuto per la quotidiana pratica di governo adottata quasi immediatamente da Cosimo, portò quindi all’amara accettazione, da parte di questi aristocratici, che non si poteva più tornare indietro. Più che l’indignazione per aver perso un’altra fetta di potere, tutto ciò appare maggiormente come una presa di coscienza dell’immutato stato delle cose.

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Ciò, a mio avviso, è indice del fatto che quando il secondo duca raggiunse quello che dagli storici dei decenni passati era stato visto come la perfetta realizzazione del “potere assoluto” del principe, non fu diverso nella sostanza da quello che già aveva operato Alessandro.

In quest’ottica il regime cosimiano si pone in continuità col precedente, soprattutto se guardato con un’attenzione particolare agli uomini che ne furono protagonisti. Il celebre Primo segretario di Alessandro, Francesco Campana da Colle, a capo di un entourage mutuato anch’esso da quello composto sotto la tutela di Clemente VII, figura fin dalle prime settimane a lavoro a fianco di Cosimo e Maria Salviati nella gestione degli affari più importanti dello stato, insieme al gruppo di ottimati “palleschi”, al cardinale Innocenzo Cybo e Alessandro Vitelli. Questi ultimi due furono piano piano estromessi dagli affari e allontanati da Firenze con la collaborazione diretta del Campana e della sua segreteria. I maggiori esponenti degli ottimati, i “palleschi”, che ricoprirono un ruolo importante sotto il primo duca, si posero ancora a fianco del secondo. Essi erano tuttavia in età ormai avanzata, e morirono tutti nel giro di una manciata di anni, ricoprendo nel frattempo il ruolo di consulenti come membri di quel tanto dibattuto “consiglio segreto”, almeno negli anni l542-1543. Cosimo non tagliò netto con l’aristocrazia, tutt’altro, proprio da questo ceto derivò alcuni dei suoi più fidati ambasciatori, o continuò ad utilizzarla per importanti incarichi nel dominio. Certo è tuttavia che gli uomini sui cui Cosimo poggiò le basi del proprio potere agli inizi del principato, e che diventarono poi la sua leva principale di azione nelle faccende di stato a partire soprattutto dalla riorganizzazione amministrativa iniziata nel 1543, facevano tutti parte di quel gruppo di “uomini del dominio” mutuato dalla segreteria del duca precedente, e che già allora si era occupato delle questioni di governo.

Proprio in quei primi mesi, infatti, il cardinale fuoriuscito Giovanni Salviati, in una nota lettera che abbiamo già citato, riferì allo stesso duca

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come egli “depende[sse] in tutto da altri”, descrivendo come una richiesta disonesta fattagli da Cosimo, fosse secondo lui stata “consultata con qualche maligno … et so che da lei non saria venuto a ricercarmi d’un simile officio, in che è molto a proposito il suo favorito vescovo de’ Martii o qualche altro

simile”1.

La formazione di questo “nuovo” entourage fu influenzata dalla costante opera tanto di mediazione quanto squisitamente politica di Maria Salviati, coadiuvata dal vecchio precettore di Cosimo, Pierfrancesco Riccio, che come abbiamo visto divenne una delle pietre angolari della segreteria privata del secondo duca di Firenze.

Se uno studio sul sistema di corte del principato mediceo rivela come questo avesse, almeno nelle sue prime fasi, “un’impronta precocemente burocratico-rituale” e si sviluppasse “di pari passo al costituirsi dello stato

assolutista”2, ciò deriva proprio dal particolare metodo di attuazione delle

pratiche di governo sviluppatosi pienamente nel regime cosimiano, basato sulla collaborazione diretta e quotidiana del principe con queste “personalità

altamente qualificate, versate sia nell’amministrazione che nella politica”3,

che si tradusse in una contiguità anche fisica, data la comune abitazione del duca con la propria segreteria a Palazzo Vecchio. La politica architettonica stessa di Cosimo, correlata alla definizione simbolica del nuovo regime, strutturò via dei Servi, insieme a via Maggiore, come i due assi processionali

del percorso cerimoniale del potere mediceo in Firenze4, e proprio qui un

uomo come Ugolino Grifoni, segretario dell’entourage privato del principe,

                                                                                                                         

1  La  lettera,  spedita  da  Giovanni  Salviati  al  duca  da  Bologna  il  24  febbraio  del  1537,  si   trova  trascritta  in  L.  A.  Ferrai,  Cosimo  I  cit.,  pp.  230-­‐232.  Cfr.  supra,  pp.  42-­‐43.  

2  M.   Fantoni,   La   formazione   del   sistema   curiale   mediceo   tra   Cinque   e   Seicento,   in  

Istituzioi  e  società  in  Toscana  cit.,  pp.  165-­‐166.  

3  R  Von  Albertini,  Firenze  dalla  Repubblica  cit.,  p.  284.  

4  M.   Fantoni,   op.   cit.,   p.   169.   Fondamentale,   per   la   politica   architettonica   di   Cosimo,   rimane   l’opera   Architettura  e  politica  da  Cosimo  I  a  Ferdinando  I,   a   cura   di   G.   Spini,   Firenze,  Olschki,  1976.  

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volle creare una delle sue residenze5. Questo sistema, per il periodo cosimiano, culmina ai nostri occhi nella descrizione fattaci negli anni sessanta del Cinquecento dall’ambasciatore veneto Vincenzo Fedeli, che ci mostra un principe intento a seguire una sorta di rituale giornaliero nel ricevimento dei

vari ministri e spedizione delle faccende di stato6. Siamo però appunto a quasi

venti anni di distanza da quella riorganizzazione amministrativa operata da Cosimo a partire dal 1543, a seguito del rientro in possesso delle fortezze di Firenze e Livorno e del consolidamento del suo potere sia sul piano interno che internazionale.

Quello che premerà analizzare in quest’ultimo capitolo, basato principalmente su documentazione archivistica edita e inedita, sarà il ruolo avuto da quegli uomini che, prima ancora che attraverso una funzione istituzionalmente definita dalla loro carica, dimostrarono la loro importanza attraverso l’esperienza maturata nei primi decenni del Cinquecento. Esperienza che misero al servizio del secondo duca di Firenze, come già avevano fatto col primo, per istradarlo e formarlo oltre che coadiuvarlo, non solo per essere utilizzati come strumenti nelle sue mani, tanto che Cosimo, ormai quarantenne, si staglierà davanti agli occhi dell’ambasciatore veneto

come “grande nel maneggio e nel governo dello Stato”7.

Alessandro e Cosimo

Secondo la ricostruzione del Pieraccini, Alessandro sarebbe nato da Giulio de’ Medici e una serva, molto probabilmente dopo il 1511, essendo minore di Ippolito, e di lui non si hanno notizie sino a che non “comparì” a Roma, all’età di circa sette anni sempre secondo questa ricostruzione, alla morte di

                                                                                                                         

5  M.  Calafati,  Bartolomeo  Ammannati  cit.,  pp.  34-­‐36.  

6  V.   Fedeli,   Relazione   di   Toscana   (1561),   in   Relazioni   degli   ambasciatori   veneti   al  

Senato,  raccolte,  annotate  e  pubblicate  da  E.  Albéri,  Firenze,  Clio,  1839,  I,  pp.  355-­‐356.  

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Lorenzo duca di Urbino nel 15198. Avesse egli a quel tempo sette o nove anni, e venti o ventidue quando fu nominato duca, fosse figlio o meno del papa, certo è che egli si trovò a governare in giovane età, come un conquistatore, una città che fino a poco tempo prima aveva osteggiato la sua famiglia e direttamente lui stesso. Alessandro fu allevato alla corte di Giulio de’ Medici, fino a che, come abbiamo visto, non fu inviato a Firenze sotto la tutela del cardinale Passerini nel 1525, assieme a uomini di stretta fiducia di Clemente VII, legatissimi all’ambiente politico della restaurazione medicea, Giovanni Corsi e Ottaviano de’ Medici, per poi affrontare gli anni dell’esilio al seguito dei suoi tutori e infine alla corte cesarea, in attesa di rientrare nella città che avrebbe dovuto governare come primo esponente della famiglia,

cosa che fece il 5 luglio del 15319. La storiografia su Alessandro si è

mantenuta su un giudizio unanime, basato principalmente sull’immagine tradizionale del tiranno in preda delle passioni e dai bassi istinti, volto a soddisfare solamente i suoi bisogni, governato negli affari di stato, a causa del suo rapido disinteresse per la vita politica, da uomini posti al suo fianco da papa Clemente VII e dagli ottimati che avevano deciso di schierarsi definitivamente a favore della supremazia medicea. Tanto orgoglioso e geloso della sua posizione di preminenza come massimo esponente della famiglia Medici da colpire chi osasse innalzarsi al suo livello, come il celebre Filippo Strozzi con il figlio Piero. Costantemente seppur nascostamente disprezzato, percepito come la personalizzazione del giogo che papa Clemente VII aveva imposto all’antica repubblica, per di più figlio bastardo di una serva, fu nominato con i peggiori epiteti, oltre che dai suoi diretti oppositori, anche dagli storici coevi e successivi che, fino a Pieraccini almeno, non mancarono di sottolinearne “le malsane passioni” e l’egoismo. Dall’altro lato della medaglia, tuttavia, è stato riconosciuto al primo duca di Firenze un senso

                                                                                                                         

8  G.  Pieraccini,  La  stirpe  dei  Medici  Cafaggiolo  cit.,  vol.  I,  pp.  430-­‐436.   9  Supra,  pp.  15-­‐16.  

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pragmatico di giustizia egualitaria, di cui si pose come assoluto arbitro, e un governo volto a pareggiare le differenze tra città e dominio, o quantomeno a

pacificare, armare, risanare e farsi così alleato il secondo10. Certo, il carattere

di Alessandro dovette presentare alcuni di quei tratti negativi così costantemente ribaditi: basti pensare alla celebre e inascoltata supplica della

madre naturale, Simunetta, lasciata a mendicare e patire la fame11 .

L’osservazione del suo metodo di governo tuttavia, dei ministri che lo circondarono, e del periodo di transizione che si trovò ad affrontare può darci un’indicazione riguardo a quanto molti giudizi potessero essere influenzati soprattutto dallo scarso tatto che egli dimostrò verso la vecchia classe dirigente degli ottimati e alla sua condotta che lo portò a godere di un potere

pressoché indipendente dalle magistrature12.

Un regime autoritario dunque, portato a Firenze con una guerra combattuta da forze straniere che aveva devastato, oltre al suo territorio, la città stessa, esasperata dalla crisi economica e con una struttura costituzionale e mentale ancorata alla tradizione cittadina e repubblicana ma dotata oramai di un’estensione territoriale di dimensione regionale. Ci fu certamente molto da costruire e ricostruire, e in questo giocarono un ruolo fondamentale gli esperti ministri e i collaboratori del duca, perseguenti il progetto “mediceo” di Clemente VII, che affondava le sue radici nell’antico sistema seguito al 1512. Il regime fu effettivamente imposto, sicuramente ben oltre i limiti della costituzione del 1532 e forse anche oltre le aspettative dello stesso pontefice,

grazie all’opera concreta del governo di Alessandro13. Opera, questa, più che

del giovane e disinteressato duca dedito alla caccia, alle feste e agli amori,

                                                                                                                         

10  Per   una   rapida   scorsa   dei   tradizionali   giudizi   degli   storici   su   Alessandro   cfr.   G.   Pieraccini,  op.  cit.,  pp.  429-­‐446,  incluso.  Cfr.  inoltre  il  più  recente  G.  Spini,  Alessandro   cit.  

11  Ibid.;  la  lettera,  del  12  febbraio  1529,  si  trova  trascritta  in  L.  A.    Ferrai,  Lorenzino  e  

la  società  cortigiana  cit.,  p.  149.  

12  Supra,  pp.  26-­‐27.  

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soprattutto dei suoi ministri, tutori e consiglieri: il cardinale Innocenzo Cybo, il gruppo di ristretti e privati consiglieri aristocratici di cui il più illustre esponente fu Francesco Guicciardini, e sicuramente gli “uomini nuovi”, segretari e giuristi esperti della pratica di governo, cui emblema fu Francesco

Campana14.

L’Adriani, descrivendo il principato del primo duca, sottolinea l’industriosità di papa Clemente VII nel rendere “ben governita” la città, descrivendo come Alessandro, alla morte di questi, si trovasse impedito a godere del risultato raggiunto a causa delle controversie con Ippolito e con i fuoriusciti, che culminarono con la convocazione napoletana del 1536. Il duca tuttavia, appena uscito trionfante dal fastidio, poté adagiarsi e dedicarsi ai suoi piaceri dato che sul piano sia interno che internazionale era stata raggiunta una condizione di pace. L’idillio durò poco, e la situazione precipitò

nuovamente nel caos a causa dello sconsiderato gesto di Lorenzino15. Come

mostra la puntuale riflessione di Elena Fasano Guarini, lo storico cinquecentesco, descrivendo la situazione del 1537-1538, ricostruì il quadro di un dominio agitato da lotte di fazione e tensioni antifiorentine che, latenti sotto il regime di Alessandro, emersero alla notizia della sua morte. Questo fece negli anni sessanta del Cinquecento, un’epoca in cui i focolai di rivolta erano spenti, avendo dunque modo di celebrare l’opera di pacificazione

avvenuta nell’ultimo ventennio16. Gli Otto di pratica, nella cui cancelleria,

ricordiamo, aveva fatto esperienza Angelo Marzi, segretario del duca, incaricato nel 1537 della sicurezza e della polizia della città, spedirono prontamente una lettera circolare a tutti i giusdicenti del dominio,

                                                                                                                         

14  O.  Rouchon,  L’invention  cit.,  p.  70.  

15  G.  B.  Adriani,  Istoria  de’  suoi  tempi,  Venezia,  Giunti,  1587,  pp.  1-­‐62.  

16  E.  Fasano  Guarini,  Principi  e  territori  in  Italia:  il  caso  toscano  tra  Cinque  e  Seicento,   in  L’Italia  moderna  e  la  Toscana  dei  principi  cit.  p.  274,  originariamente  in  La  società  

dei   principi   nell’Europa   moderna   (secoli   XVI-­‐XVII),   a   cura   di   C.   Dipper   e   M.   Rosa,   Il  

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annunciando ufficialmente la morte del duca e invitandoli a stare all’erta,

presagendo i disordini che sarebbero conseguiti17.

Cosimo, non ancora diciottenne, si veniva a trovare ad essere eletto a capo di una città ancora una volta sull’orlo della crisi: le città del dominio vedevano una nuova opportunità per ribellarsi a Firenze, i fuoriusciti per rientrare e restaurare l’antica libertà, e, infine, gli ottimati come Francesco Guicciardini, per raggiungere finalmente quel “principato misto” tanto desiderato nel 1532 e svanito dinnanzi alle modalità di governo del primo duca.

Non a caso Francesco Guicciardini si mostrò come uno dei più strenui sostenitori dell’elezione di Cosimo, allo stesso modo in cui sostenne la possibilità di raggiungere così il suo obiettivo politico. Questa sua idea, tuttavia, si dimostrò irrealizzabile fin dai primissimi mesi del 1537, tanto che egli si ritirò gradualmente dalla scena politica fiorentina. E’ innegabile che Guicciardini vedesse nell’elezione di Cosimo anche un’opportunità personale, dati anche i suoi rapporti con la famiglia coltivati sin dal suo appoggio nella causa patrimoniale contro Lorenzino. La giovane età del duca, in più, lasciava presupporre che sarebbe stato facile per il gruppo di ottimati “palleschi” che già avevano sostenuto il predecessore controllarne le mosse e porsi come tutori. Egli però, soprattutto, si mostrò intenzionato a perseguire il suo obiettivo di raggiungere finalmente un compromesso tra gli aristocratici e il potere del principe, derivante non solo dalla pratica, ma anche dalla costituzione, come rivela il provvedimento del 10 gennaio da lui

caldeggiato18.

                                                                                                                         

17  Fino  al  24  marzo  del  1537  erano  in  carica  come  magistrati,  tra  gli  altri,  Ottaviano   de’  Medici  e  Giovanni  Corsi,  i  due  precettori  di  Alessandro  nel  suo  periodo  fiorentino   antecedente  al  1527.  Cfr.  O.  Rouchon,  Les  Troubles  de  1537  dans  le  domaine  florentine,   in  “Histoire  Économie  Société”,  XIX,  2000,  pp.  27-­‐28.  

18  Sul   ruolo   di   Guicciardini   nelle   vicende   dell’elezione   di   Cosimo,   e   sulla   sua   successiva   delusione   e   ritiro   dalla   politica   fiorentina   per   dedicarsi   a   incarichi   nel   dominio  cfr.  E.  Fasano  Guarini,  Francesco  Guicciardini  e  Cosimo  I:  il  senso  storico  di  una  

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Le vicende dei primi mesi del 1537 mostrano come il giovane “Cosimo di

Mona Maria”19 si fosse venuto a trovare in una situazione molto delicata e

particolare. Gli ottimati si trovavano in inferiorità rispetto all’importanza guadagnata, a causa della situazione internazionale e delle mosse spregiudicate del Vitelli, dalla fazione detta “filoimperiale” facente capo al cardinale Cybo e al comandante della guardia cittadina, insediati nella Fortezza da basso. L’agitazione militare dei fuoriusciti, oltre all’avversione che aveva per loro il cardinale e il timore dell’imperatore della fazione filofrancese interna a questi, fece sì che i tentativi di riconciliazione si risolvessero in un nulla di fatto culminato nella vittoria fortunata di Montemurlo.

I vecchi sostenitori di Alessandro, che inizialmente si erano schierati a favore dell’elezione di suo figlio naturale Giulio de’ Medici, infante, e di una maggiore sottomissione di Firenze all’impero, si trovarono – e in prima fila, tra loro, l’astuto Francesco Campana che si era prontamente schierato col nuovo duca dopo una breve indecisione – ad essere coinvolti in misura maggiore nell’organizzazione del nuovo governo.

Cosimo, giovinetto, guidato dalla madre che non mancò, come vedremo, di circondarlo di un gruppo di collaboratori degni di fiducia e mutuati dal vecchio regime, si ritrovò ad avere al suo fianco gli stessi uomini che, in una situazione diversa, erano stati posti al fianco di Alessandro da papa Clemente VII.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

vicenda   individuale,   in   Repubbliche   e   principi.   Istituzioni   e   pratiche   di   potere   nella   Toscana  granducale  del  ‘500-­‐‘600,   Bologna,   Il   Mulino,   2010,   originariamente   in   A.   E.  

Baldini  e  M.  Guglielminetti  (a  cura  di),  La  “riscoperta”  di  Guicciardini,  Genova,  Name,   2006,  pp.  45-­‐78,  pp.  209-­‐246.  

19  Come   titola   un   capitolo   G.   Spini,   Cosimo  I   cit.,   p.     22.   La   definizione,   che   il   Varchi   riferisce  attribuita  a  Cosimo  da  quelli  che  con  la  provvisione  del  10  gennaio  vollero   cercare  di  porre  un  freno  al  suo  potere  (B.  Varchi,  op.  cit.,  vol.  III,  p.  204),  si  rivelerà   decisamente  veritiera,  ma  in  un  senso  che,  a  mio  avviso,  si  rivelò  molto  contrario  agli   stessi  attributori.  

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La città, scossa dalle turbolenze del dominio e dei fuoriusciti, e attraversata dalle speranze di chi desiderava porre un nuovo freno al potere del duca per impedire il ripresentarsi di un governo assoluto, doveva essere, come nel 1532, nuovamente messa sotto il controllo di un principe Medici, il quale, ora forse più di allora, doveva anche guadagnarsi l’autonomia sul piano internazionale oltre che su quello strettamente politico e decisionale.

Questo, ovviamente, alla luce degli eventi successivi: Cosimo I de’ Medici, primo granduca di Toscana, è infatti stato visto dalla storiografia dei decenni passati come il vero artefice dello “stato assoluto” in Toscana, il primo a sfruttare a pieno le potenzialità insite nelle “ordinazioni” del 1532 per lo sviluppo del potere della sua carica.

I primi anni di governo, quelli che vanno dal 1537 al 1543, tuttavia, vedono un duca, sebbene dotato di un carattere molto più energico e votato al governo dello stato, di un’età, un’esperienza e una quantità di legami politici decisamente inferiore al suo predecessore. Come lui era appassionato di caccia, attività a cui dedicava moltissimo tempo, tanto da venire addirittura in alcune occasioni quasi redarguito dalla madre e dal precettore. Se poniamo attenzione alle lettere di quegli anni, ai protagonisti dell’entourage ducale nelle vicende politiche, e alle dinamiche interne di questo gruppo, possiamo comprendere come quegli stessi uomini di cui non abbiamo una documentazione adeguata a stabilirne il ruolo per il periodo di Alessandro, ma su cui la storiografia coeva e successiva ci ha fornito molte informazioni di come probabilmente reggessero e amministrassero il suo governo secondo le

direttive romane20, si configurarono per Cosimo come costanti e diretti

interlocutori nel delicato meccanismo di formazione della decisione politica, insieme al fedele Pierfrancesco Riccio e, almeno per i primi anni, alla madre Maria Salviati.

                                                                                                                         

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Cosimo era un ragazzo per nulla abituato a reggere in mano le redini di uno stato, mentre i suoi collaboratori provenivano tutti dall’esperienza del precedente governo, in cui erano dovuti diventare gli strumenti, nonché gli interlocutori e interpreti, della volontà del duca, del suo potere “assoluto” e delle disposizioni che almeno fino al 1534 giungevano da Roma. Esperienza diretta questa che, come abbiamo visto, si era formata nell’ambito del potere mediceo, fosse esso direttamente fiorentino o indirettamente romano, in tempi ancora precedenti.

Appare dunque difficilmente pensabile come uomini di questo tipo, sebbene legati nelle loro fortune al capriccio del loro datore di lavoro, non abbiano lasciato, con la loro frequentazione costante e personale del duca, un’impronta decisiva sul suo governo, almeno per i difficili anni antecedenti al consolidamento della sovranità, per così dire, “nazionale e internazionale” del principato. L’importanza degli uomini dunque, più che delle cariche, le quali assumeranno maggior rilievo e definizione anche per il periodo cosimiano solo a seguito della riorganizzazione istituzionale del 1543.

Dell’influenza degli aristocratici – intesi come esponenti di una “classe sociale e politica” dominante ai tempi della repubblica e dialogante con il potere del principe – si smetterà di parlare, se già così non si era fatto in questo senso, quando gli uomini, appartenenti al primo nucleo di “palleschi” formatosi sotto Clemente VII e passato ad Alessandro, che avevano davvero avuto una funzione di consiglio privato del principe, Matteo Strozzi, Francesco Vettori, Francesco Guicciardini, Roberto Acciaiuoli, Matteo Niccolini, troveranno naturalmente la morte nei primi anni del principato. Cosimo si servì certamente ancora degli ottimati mutuati dal vecchio regime come Luigi Guicciardini e Bartolomeo Lanfredini nel suo governo della provincia, ma questi, già lontani “fisicamente” dal potere politico, furono

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utilizzati come strumenti dal principato. Lo stesso vale per i “nuovi arrivati”,

come gli ambasciatori Averardo Serristori e Angelo Niccolini21.

Tutto questo dimostra, a mio avviso, come a rendere importanti tutti questi uomini nei primi anni del principato, ottimati o meno che fossero, e a dotarli di un ruolo politico, seppur mediato e non espresso dalle attribuzioni della

carica ricoperta22, fu soprattutto la loro storia antecedente alla formazione del

principato stesso e, per il periodo di Cosimo, la loro esperienza maturata negli anni di insediamento, se non di assestamento, quelli di Alessandro, della signoria medicea a Firenze.

Nel presente e conclusivo capitolo cercheremo infatti di delineare, attraverso elementi desunti dalle lettere scambiate internamente dai membri dell’entourage cosimiano, per il quale si trova molta documentazione al contrario del periodo precedente, come questo ruolo politico si dovette esprimere, lumeggiando infine nelle conclusioni come il governo di Cosimo si pose, nel periodo trattato, in diretta continuità con quello di Alessandro su molte di quelle questioni di politica interna che erano apparse più stringenti già nei primi anni seguiti all’assedio, pur con le sue diverse caratteristiche. Un simile gruppo di collaboratori politici da un lato, e una simile pratica di governo dall’altro, caratterizzano questi primi undici anni di vita del principato fiorentino, attraversati da due duchi umanamente molto diversi tra loro, accomunati dalla giovane età, che si trovarono immersi nello stesso ambiente politico.

Maria Salviati

Com’è noto, Maria Salviati nacque il 17 luglio del 1499 da Iacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico. Nel novembre del 1516 sposò Giovanni delle Bande Nere, figlio di Giovanni de’ Medici “il

                                                                                                                         

21  Cfr.  supra,  p.  28;  R.  Von  Albertini,  Firenze  dalla  Repubblica  cit.,  pp.  285-­‐286.   22  F.  Angiolini,  op.  cit.,  p.  708.  

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popolano” appartenente a quel ramo cadetto della famiglia di cui farà parte anche Lorenzino il tirannicida, e Caterina Sforza. I due sposi erano stati allevati insieme dalla famiglia di Maria fin dal 1509. Tre anni dopo il matrimonio, il 12 giugno del 1519, nacque Cosimo de’ Medici, unico figlio

dei due coniugi23. Secondo Natalie Thomas, studiosa che recentemente si è

occupata della figura di Maria Salviati, la donna chiese a papa Leone X di fargli da padrino, cosa che egli accettò dando al bambino il nome del primo

illustre antenato della casata24.

Finché i due rimasero insieme, Maria Salviati si adoperò costantemente per il bene del marito, trattando con i membri più influenti delle due famiglie, Medici e Salviati, di cui faceva parte. Ad esempio, dopo che fu esiliato da Firenze nel 1518, Giovanni fu, per dirlo con le parole della Tomas, “politically rehabilitated” da papa Leone X, che lo impiegò come comandante militare per riconquistare Parma di lì a pochi mesi. Figure chiave del suo rapporto con gli esponenti più importanti del potere mediceo, specie in questi anni, furono i genitori, Iacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, e il fratello,

“Cardinale nostro” come lo definiva, Giovanni Salviati25.

La donna si occupò della gestione del patrimonio appartenente al nucleo familiare, e di sorreggere il marito continuamente sottoposto a difficoltà economiche. Cercò di intercedere presso papa Clemente VII, nel dicembre del 1523, affinché questi venisse in aiuto per togliere quei “tanti interessi et

depositi” che Giovanni “si trova addosso”26. Continuamente preoccupata che

                                                                                                                         

23  Per   una   biografia   di   M.   Salviati   le   opere   più   complete,   a   cui   mi   sono   riferito   per   questa  parte,  rimangono  ancora  le  datate:  G.  F.  Young,  I  Medici,  Firenze,  Salani,  1934,   vol.  II,  pp.  186-­‐204  e  G.  Pieraccini,  op.  cit.,  vol.  I,  pp.  499-­‐524.  

24  N.   R.   Tomas,   The   Medici   Women:   Gender   and   Power   in   Renaissence   Florence,   Aldershot,  Ashgate,  2003,  p.  148.  

25  Ibid.,  p.  147;  per  i  legami  della  famiglia  Salviati  con  la  famiglia  Medici  a  Roma  negli   anni  venti  del  Cinquecento  cfr.  ibid.,  pp.  141  e  sgg.  La  citazione  riguardo  al  Cardinale   Salviati  deriva  da  una  lettera  riportata  in  G.  Pieraccini,  op.  cit.,  vol.  I,  p.  502.  

26  C.   Guasti,   Alcuni   fatti   cit.,   p.   26:   lettera   di   Maria   Salviati   a   Clemente   VII   del   5   dicembre  1523.  

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la spensieratezza e le spese del marito minassero la stabilità economica e l’onore della sua famiglia, fu nuovamente costretta a tornare a Roma insieme al figlio per cercare di ottenere aiuto da papa Clemente nel febbraio del 1524, fallendo miseramente. La donna appariva già molto attenta alla scena politica che la circondava: Pieraccini riporta come in una lettera diretta al marito, del 31 dicembre 1523, lo informasse sulle ultime mosse del papa, come dell’idea di spedire a Firenze i due rampolli Ippolito e Alessandro, consigliandogli

quindi di tornare e pensare alle cose del suo stato27. Young, nella sua opera

sui Medici, ritiene che Maria avvertisse in Clemente VII la volontà di allontanare Giovanni da ogni possibile rivendicazione, lasciandolo sul campo

di battaglia e sperando nella sua morte28.

Quando questa avvenne, sul finire del 1526, Maria si sistemò nella sua villa al Trebbio assieme alla famiglia di Pierfrancesco de’ Medici (deceduto nel 1524), per spedire immediatamente Cosimo, insieme al precettore Pierfrancesco Riccio e ai cugini, a Venezia, dove li raggiunse pochi mesi dopo. Madre e figlio furono costretti a continui spostamenti nell’avvicendarsi delle fortune del casato mediceo, al Trebbio, a Bologna e a Roma, fino a che non si stabilirono nuovamente e finalmente, dopo la caduta della repubblica,

nelle loro proprietà fiorentine nell’ottobre del 153029.

Per citare ancora una volta Natalie Tomas, “in widowhood, Maria directed her energies towards maximising opportunities for her son Cosimo … much as she had done for his father”: questo fece cercando di intercedere per lui, in più occasioni, presso suo padre Iacopo e suo fratello Giovanni, accusati dalla

donna di non fare abbastanza per il loro nipote30. Maria si adoperò dunque per

sfruttare a fondo i suoi contatti, dai parenti Salviati al cugino Innocenzo

                                                                                                                         

27  G.  Pieraccini,  op.  cit.,  vol.  I,  pp.  500-­‐504  (la  lettera  si  trova  citatata  alle  pp.  502-­‐503).   28  G.  F.  Young,  op.  cit.,  vol.  II,  p.  200.  

29  Supra,  p.  38;  R.  Cantagalli,  Cosimo  I  de’  Medici  Granduca  di  Toscana,  Milano,  Mursia,   1985,  pp.  18-­‐31.  

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Cybo, cercando perfino di fare leva sulla sorellastra del duca Alessandro, Caterina de’ Medici, cui Clemente VII era affezionato, data la sua importanza

come carta politica da utilizzare al momento opportuno31. Noto è che Maria

rifiutò la richiesta, fattagli dal papa nel 1531, di risposarsi, adducendo la motivazione di non poter abbandonare il figlio in quanto, soprattutto, era

“nato … di quelle felici ossa”32, sottolineando quindi la fortuna della sua

discendenza. Nonostante ciò, la Salviati continuò a sperare nell’aiuto di Clemente VII, raccomandandogli il figlio in varie occasioni o accettando di accompagnare, appunto, nel 1533, Caterina de’ Medici nel suo viaggio in Francia in occasione del matrimonio col duca d’Orléans pur di ingraziarsi il pontefice. Questo nonostante il costo della gita, per lei difficilmente

sostenibile33.

La situazione finanziaria di Maria, infatti, non migliorò con l’instaurazione del principato. Giovanni delle Bande Nere era morto lasciando dietro di sé molti debiti e pochissimo denaro e, come ricordato, suo cugino Pierfrancesco si rivelò un pessimo amministratore. A questo, si erano aggiunti il fallimento dei due tentativi per trovare una sistemazione matrimoniale a Cosimo, rispettivamente con la nipote del cardinale Cybo e con la figlia di Francesco Guicciardini, Elisabetta, al cui padre Maria propose l’affare dopo il suo ritorno dalla Francia. Infine, la morte del papa, nel settembre 1534, dissolse definitivamente la speranza di ottenerne qualche vantaggio. Anche la causa patrimoniale vertente con i figli di Pierfrancesco tirò per lunghe, e si risolse solo nel 1536 grazie all’intervento di Francesco Guicciardini nella sentenza

emessa da Lelio Torelli34. Nel novembre del 1530 Maria, nel chiedere grazia a

Bartolomeo Valori per due suoi servitori gravati dalle imposizioni, non mancò

                                                                                                                         

31  R.  Cantagalli,  op.  cit.,  pp.  31-­‐36.  

32  Lettera  di  Maria  Salviati  a  Giovanni  Salviati  del  3  maggio  1531,  cfr.  ibid.   33  Ibid.,  pp.  148-­‐149  e  supra,  p.  29.    

34  G.  V.  Parigino,  Il  tesoro  del  principe.  Funzione  pubblica  e  privata  del  patrimonio  della  

famiglia  Medici  nel  Cinquecento,   Firenze,   Olschki,   1999,   pp.   32-­‐38;   R.   Cantagalli,   op.  

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di ricordargli quanto lei e il figlio fossero “scorticati nelle adversità”35, situazione che non dovette in definitiva cambiare radicalmente negli anni che seguirono.

Gli anni del principato di Alessandro videro una Maria Salviati impegnata ad occuparsi del figlio che, nonostante fosse un giovane cortigiano del duca, non godeva certo né di un ingente patrimonio né di grandi prospettive, sebbene fosse inserito nella linea di successione. La presenza a corte come membro della famiglia regnante e quindi la prossimità, se non quotidiana, certamente frequente, al duca di Firenze, tuttavia, dovettero elevare la Salviati e il figlio a un ruolo di una certa importanza e inserirli in un sistema di relazioni legato al centro del potere politico fiorentino.

Piccoli indizi, come le formule di saluto presenti nelle lettere del carteggio di Bologna, o informazioni che a prima vista potrebbero sembrare di poco conto, possono invece aiutarci a darci un’idea di questo sistema. Da alcune lettere di Cosimo, spedite alla madre in quell’occasione, possiamo riscontrare che il duca Alessandro non doveva essere troppo estraneo o disinteressato nei confronti della donna, giacché attraverso le lettere del figlio non mancò in più di un’occasione di “recomandarsi” a lei, cioè di porgerle i suoi saluti, secondo una formula comunemente utilizzata: “Io sto bene, et il nostro Signor D[uca] similmente, et meco si recomanda alla S V”; “l’Excellentia del nostro Signor Duca sta benissimo, et meco se recomanda alla S V”; infine, dopo aver detto alla madre di non preoccuparsi riguardo al fallimento dei vari negozi perché avranno tempo di ragionarne in futuro “scrivendo all’hora pensatamente dove sarà necessario a benefitio mio con la sodisfactione dell’Excellentissimo Signor D[uca] nostro patrone quale sta bene, et io anchora, et meco se

recomanda alla S V”36. Emerge come Cosimo cercasse, con almeno formale

                                                                                                                         

35  ASFi,   Mediceo   Avanti   il   Principato,   140,   c.   10,   Maria   Salviati   a   Bartolomeo   Valori,   “magnifico  commissario  generale  di  Nostro  Signore”,  25  novembre  1530.  

36  ASFi,  Mediceo  Avanti  il  Principato,  140,  le  citazioni  si  trovano,  rispettivamente,  alle   cc.   52   (da   Vigevano,   20   marzo   1532   s.f.),   55   (da   Genova,   30   marzo   1533),   56   (da  

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successo e sebbene non avesse ancora 14 anni, di entrare nelle grazie del duca Alessandro. A causa di questo impegno egli si scusò pure con la madre: “se io non gli scrivo così spesso hora, bisogna accusarne che io non perdo anche tempo nell’essere apresso del nostro Illustrissimo D[uca] in che mi pare l’importantia della cosa, come più volte gl’ho accennato”, pur assicurandole

che “Li soi ricordi mi sono precepti et legge”37. Le formule di saluto apposte

da Cosimo in molte delle sue lettere, infine, ci indicano quali dovessero essere i rapporti che lui, da Bologna, e la madre, a Firenze, stavano coltivando: Cosimo non manca mai di raccomandarsi al cardinale Innocenzo Cybo, al tempo luogotenente di Alessandro, e a Ottaviano de’ Medici, depositario

ducale38. Noti, infine, sono i successi che il figlio di Giovanni delle Bande

nere dovette riscuotere nel suo tentativo di mettersi in mostra, successi che arrivarono anche quando, quattro anni più tardi, si presentò a Napoli davanti

all’imperatore al seguito di Alessandro39.

Possiamo dunque comprendere come la Salviati detenesse un certo grado di influenza politica. Da una lettera del podestà di Prato, Bartolomeo Lanfredini, del gennaio 1533, si evince come un non meglio identificato Antonio di Pierpagolo Castelli si fosse rivolto a lei per ottenere un qualche tipo di favore dal podestà, il quale si dice disposto ad accontentarlo per affezione della

Salviati40. Potere, questo, che emerge anche dalle più note lettere citate dal

Guasti, in cui Pierfrancesco Riccio proprio alla Salviati si rivolse per cercare

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

Genova,  9  aprile  1533),  tutte  lettere  che  Cosimo  invia  alla  madre  dai  luoghi  in  cui  si   trova  a  dover  far  tappa  per  il  viaggio  di  ritorno  dopo  il  soggiorno  bolognese.  

37  ASFi,  Mediceo  Avanti  il  Principato,  140,  c.  47,  Cosimo  de’  Medici  a  Maria  Salviati,  da   Bologna,  16  gennaio  1532  (s.f.).    

38  Si   vedano   le   numerose   carte   di   questo   tipo   in   ASFi,   Mediceo   Avanti   il   Principato,   140,  cc.  44  e  sgg.  

39  Lettere   esemplificative   dell’apprezzamento   ricevuto   da   Cosimo   appena   giunto   a   Bologna   sono   quelle   trascritte   in   C.   Guasti,   op.   cit.,   pp.   49-­‐64.   Per   il   soggiorno   napoletano  cfr.  supra,  pp.  39-­‐40,  e  R.  Cantagalli,  op.  cit.,  pp.  37-­‐38.  

40  ASFi,   Mediceo  Avanti  il  Principato,   140,   c.   156,   Bartolomeo   Lanfredeini   podestà   di   Prato   a   Maria   Salviati,   26   gennaio   1532   (s.f.),   nel   poscritto   “ho   riceuta   la   vostra   in  

rachomandatione  di  Antonio  di  Pierpagolo  Castellj  al  quale  senza  altro  dir  per  amor  di   V  S  farò  que  piaceri  che  sarà  possibilj”.  

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di ottenere da Alessandro una cappella nella pieve di Prato: “la suplico voglia di gratia domandare all’excellentia del nostro illustrissimo Duca, che, occorrendo, si degni farmi gratia di decta capella”. Pare che il duca le facesse rispondere che egli era desideroso di soddisfarla e soddisfare “il maestro di Cosimo”, tanto che “n’ha fatto pigliare nota a monsignore de’

Marsi”41.

Infine, sempre per cercare di definire il ruolo che Maria Salviati dovette cercare ed ebbe la possibilità di ritagliarsi come personaggio precipuo al vertice del potere politico di Firenze, basti ricordare che il palazzo dei Medici in via Larga, residenza di Lorenzino de’ Medici, compagno di scorribande e galanterie del duca, e poi suo assassino, doveva essere saltuariamente abitato

anche da lei e dal figlio che ne condividevano la proprietà42.

La morte del duca Alessandro pose immediatamente Cosimo al centro dell’attenzione: tradizionalmente si vuole che il ragazzo, a caccia nel Mugello, avesse intuito che qualcosa stava avvenendo in città e avesse deciso

di recarvisi, tanto che Girolamo degli Albizi43, incaricato di andarlo a

prendere al Trebbio, lo incontrò a metà strada. Il ruolo di Maria Salviati dopo le note vicende dell’elezione, è stato in passato dibattuto tra gli storici: Young asserì che Cosimo non ascoltò né andò più a trovare la madre, la quale si ritirò dalla politica; Pieraccini, basandosi su fonti ancora oggi utilizzate, sostenne la tesi opposta, che vedeva una Maria intenta a governare le cose più importanti

e urgenti dello stato assieme al figlio44.

                                                                                                                         

41  C.  Guasti,  op.  cit.,  pp.  32-­‐33.  

42  Cfr.  i  noti  aneddoti  riguardanti  gli  avvertimenti  dati  da  Maria  Salviati  ad  Alessandro   de’  Medici  riguardo  alle  vere  intenzioni  di  Lorenzino  e  la  preparazione  del  terreno  per   l’omicidio  operata  da  questi,  volta  a  non  allarmare  al  momento  dell’azione  la  madre  di   Cosimo.   Se   anche   fossero,   com’è   probabile,   frutto   di   esagerazione,   questi   racconti   esprimono   l’esperienza   dei   contemporanei   del   quotidiano   svolgersi   dei   rapporti   a   corte.  Il  racconto  di  queste  vicende  si  può  trovare  ad  esempio  in  M.  Rastrelli,  Storia  di  

Alessandro  cit.,  vol.  2,  passim  e  in  B.  Varchi,  Istorie  Fiorentine  cit.,  passim.  

43  Proprio  da  Cosimo  Girolamo  degli  Albizi  sarà  nominato  Commissario  delle  bande,   succedendo  ad  Antonio  Ricasoli.  Cfr.  G.  Spini,  op.  cit.,  p.  179.  

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Effettivamente, come rilevato ancora dalla Tomas, Maria dovette non solo avere un ruolo politico molto importante fin dai primi giorni del principato di Cosimo, ma dovette anche essere stata protagonista diretta delle discussioni nate nei giorni successivi alla morte del primo duca riguardo alla possibilità di eleggere suo figlio, come hanno accennato il Nardi e il Nerli. Maria ospitò inoltre, secondo quanto riferisce il Segni, nel palazzo di famiglia (Salviati), alcune tra le discussioni avvenute a Firenze subito dopo l’elezione di Cosimo

con i cardinali fuoriusciti45.

La madre continuò ad occuparsi del figlio salito alla massima carica di governo attraverso un aiuto costante, almeno nei primi anni. Dalla Salviati, secondo Cantagalli, dovette venire il consiglio di lasciare praticamente immutati, almeno inizialmente, i quadri del vecchio governo, togliendo dai servitori in carica ogni preoccupazione di essere cassati e rafforzando così il

legame di dipendenza e fiducia col nuovo potere46. Riferisce il Segni che

Cosimo “governò la repubblica … usando assai il consiglio di madonna Maria

                                                                                                                         

45  Cfr.   F.   De’   Nerli,   Commentarj   cit.,   pp.   291-­‐292,   che,   riferendosi   al   gruppo   degli   uomini   che   si   trovarono   in   quei   giorni   successivi   all’assassinio   a   discutere   dell’elezione,   ovvero   al   cardinale   Cybo,   Francesco   Guicciardini,   Matteo   Niccolini,   Roberto  Acciaiuoli,  Matteo  Strozzi,  Francesco  Vettori  ed  Ottaviano  de’  Medici  riferisce   come   “tennero   alcuni   di   essi   pratiche   con   Madonna   Maria   de’   Salviati   madre   del   Signor   Cosimo   …   per   eleggere   in   luogo   del   Duca   morto   esso   Signor   Cosimo,   e   trovarono  disposizione  in  lei,  e  nel  figliulo,  che  per  tale  effetto  fu  subito  dopo  quelle   pratiche  fatto  tornare  dentro  la  città”.  Cfr  J.  Nardi,  Istorie  della  città  di  Firenze,  Firenze,   Società  editrice  delle  storie  del  Nardi  e  del  Varchi,  1838-­‐1841,  vol.  II,  p.  325,  secondo   cui  Maria  Salviati  era  “contraddicente  e  molto  reclamante  …  perché  diceva,  non  volere   che   il   figliuolo   fosse   innalzato   a   quel   grado   di   dignità   con   certissimo   pericolo   di   capitare  male,  secondo  gli  esempi  delle  vanità  del  mondo”.  Entrambi,  seppur  dando   una   diversa   interpretazione   della   volontà   della   donna,   mostrano   come   questa   fosse   stata   presa   in   considerazione.   Cfr.   B.   Segni,   op.   cit.,   pp.   333-­‐334:   “In   casa   Salviati   si   ferono   molte   consulte,   dove   interveniva   madonna   Maria   sua   sorella   [del   cardinale   Giovanni  Salviati,  fuoriuscito]  e  gli  altri  cittadini  primi  dello  stato  molte  volte  detti  da   me  …  Pregava  il  cardinal  Salviati  e  Lorenzo  la  sorella,  che  non  volessi  mettere  l’unico   suo   figlio   in   tanto   pericolo”.   Noto   è   che   queste   trattative   sfociarono   in   un   nulla   di   fatto.   A   questi   tre   passi   si   riferisce   N.   R.   Tomas,   op.   cit.,   pp.   149-­‐150   per   indicare   il   ruolo  di  Maria  Salviati  nei  primi  mesi  del  1537.  

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sua madre, che amministrava con l’autorità sua molte faccende”47. Come abbiamo visto lungo l’arco del presente lavoro, egli si trovò affiancato, fin dagli inizi, da un gruppo di collaboratori mutuato dal precedente duca, e “alla testa di questo gruppo fu – almeno nei primi tempi – l’intelligente,

combattiva, appassionata Maria Salviati”48, che si preoccupò di porre uomini

d’esperienza e degni di fiducia accanto al figlio, come di trovargli nuovi sostenitori, oltre ad assicurarsi la fedeltà di quelli appartenuti anche al marito Giovanni. Il Guasti già ne fornisce un’idea citando due lettere del 1537 in cui Maria scrive, quasi con la medesima formula, a due vecchi “affezionatissimi” del marito, informandoli dell’avvenuta elezione del figlio ed esortandoli a stare pronti a radunare altre persone da far accorrere a Firenze “per servircene

occorrendo a bisogno” 49, segnale delle preoccupazioni che dovevano

affliggerla riguardo alla sicurezza sua e di Cosimo. Altra espressione di ciò è una lettera del 24 gennaio al vicario di Scarperia, da cui emerge che Maria Salviati gli aveva fatto spedire una lettera dagli Otto di pratica affinché questo

facesse trasportare dai suoi uomini un rifornimento di grano al Trebbio50. La

considerazione di Maria Salviati per i vecchi servitori del marito, ma anche di questi verso di lei, doveva essere molto forte, tanto che il primo di ottobre del 1537 inoltrava al Riccio una “supplicatione d’uno Iuliano … antiquo servitore di questa casa et della Bo. Me. del Signor nostro consorte”. Nella stessa lettera Maria inviava al segretario anche “quello che in substantia conteneva

                                                                                                                         

47  B.  Segni,  op.  cit.,  p.  374.   48  G.  Spini,  op.  cit.,  p.  68.  

49  Lettere  di  Maria  Salviati  citate  in  C.  Guasti,  op.  cit.,  p.  30.  La  prima,  dell’11  gennaio,  è   diretta  a  Bernardo  della  Tassinara,  che  si  trovava  a  Galeata.  La  seconda  è  diretta  a  un   anonimo  ed  è  senza  data,  ma  è  sicuramente  ascrivibile  a  questi  primi  e  convulsi  giorni   di   governo.   Cfr.   anche   G.   Pieraccini,   op.   cit.,   pp.   508-­‐509.   Le   lettere   si   trovano   entrambe  in  ASFi,  Mediceo  Avanti  il  Principato,  140.  

50  Ivi,  c.  34,  al  Vicario  di  Scarperia  Francesco  degl’Alberti,  da  Firenze,  24  gennaio  del   1536  (s.f.)  da  Maria  Salviati.  

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la cifra che era in la lettera del Mantova”, affinché questo ragionasse con

Cosimo di entrambe le questioni51.

La Salviati dunque, a conoscenza perfino dei messaggi cifrati che giungevano dalle corti estere, non si interessava solo di politica interna, ma anche di questioni internazionali, non mancando di ricevere anche avvisi

riguardanti i fuoriusciti52. Dopo aver già contattato Giovanni Bandini in veste

di “benefatrice”, nel luglio del 1537, per comunicargli “la fede tenghiamo

verso V S per li molti beneficii, et molta servitù sua verso questa casa”53, il 2

novembre del 1537 gli scrisse “come sorella” per “ricordargli quello che per se medesimo ha sempre operato a benefitio di questa casa, et tanto più penso il farà quanto che si po render certissimo che tutte quelle opere farà a bene fino del prefato S mio figlio, et mio le collocherà ad persone le quali l’amono da fratello, et che farebbono quel medesimo per lui”. Ancora, il 17 novembre si mostra soddisfatta delle “accoglienze ad Averardo Serristori oratore nostro” fatte dal Bandini, come anche delle notizie giunte, che spera “haranno quel fine che comunemente per noi et per li amici nostri si desidera, et li cieli

partorranno quelle vendette a nimici nostri che meriteranno e loro peccati”54:

proprio in questi mesi, infatti, alla corte cesarea, gli ambasciatori fiorentini

                                                                                                                         

51  ASFi,  Mediceo  del  Principato,  1169/2.  Lettera  di  Maria  Salviati  Pierfrancesco  Riccio,   1°  ottobre  1537,  da  Firenze.  

52  ASFi,  Mediceo  del  Principato,  182,  c.  20,  Lettera  a  Gianfrancesco  Nigrini,  1°  marzo   1536  (s.f.),  “in  nome  della  Illustrissima  Signora  Maria  madre  di  S.  Excellenza”.  Maria   scrive:  “Risponderò  alle  parte  necessarie  delle  4  vostre  di  24  et  26  del  passato  le  quali   ha  tutte  visto  il  S.  mio  figliolo  et  molto  ben  examinate  commentando  la  diligentia  et   affectione   vostra   in   servitio   delli   interessi   nostri   …   Li   avisi   ne   date   de   fuoriusciti   et   disegno  loro  sonno  stati  grati  et  per  vostro  contento  vi  si  dica  l’impresa  loro  andar  più   tosto  risolvendosi  …  et  da  ogni  banda  da  conto  le  cose  nostre  passano  in  tanto  buon   termino  che  ‘l  non  se  ne  può  sperare  se  non  desiderati  buoni  successi,  et  per  Noi  non   si   mancha   di   tutte   quelle   gagliarde   provisioni   perché   le   si   mantenghino   et   augumentino   et   certamente   questi   nobili   et   tutto   l’Universale   et   della   città   et   del   Dominio   si   portano   con   tanta   affectione   quanto   maggiormente   da   essi   sperare   si   puossa”.  

53  Lettera   di   Maria   Salviati   a   Giovanni   Bandini   del   22   luglio   1537,   trascritta   in   L.   A.   Ferrai,  Cosimo  I  cit.,  p.  170.  

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stavano lavorando su un caso politico di massima rilevanza, la consegna a Cosimo di Filippo Strozzi, rinchiuso nella fortezza da Basso nelle mani di Alessandro Vitelli. Il Bandini, sospettato di non collaborare con Cosimo nel fargli consegnare il prigioniero e di volerlo salvare in virtù di vecchi legami di amicizia e soprattutto di necessità economica, fu dal settembre affiancato e

controllato da Averardo Serristori e Lorenzo Pagni55.

La funzione di collante tra il duca e i suoi dipendenti non dovette terminare presto. Nel 1538, il 26 marzo, scriveva a Vincenzio Bovio, agente mediceo e del cardinale Cybo a Bologna: “più cose sono quelle che faranno credere alla s v che siamo al tutto immemore di lei, et delli officij ha per utile nostro sempre operati”, scusandosi che a causa del male che non ha “possuto con lo

Illmo S nostro figlio operare per lei come era il dovere” e “non si è possuto

demostrare alla S V il grado che noi pretendiamo havere delli meriti fatti de cose nostre, et di questo ne è suto causa le superflue spese, et quelle che senza le quali non si posseva fare per conto del levare del Dominio nostro quelli soldati che continuamente ci affligevano”, assicurando infine che, con l’alleggerimento delle spese “non mancheremo d’ogni nostra opera di riconoscere l’amorevole servitù sua verso noi … et far si che cognoscerà non havere perso il tempo … et la preghiamo non manchi fare per l’advenire per amore nostro quelle che ha fatto per il passato che certo gliene terremo

obligho immortale”56.

Fosse o no anche per questo ruolo, la Salviati doveva apparire agli occhi dei contemporanei come una delle chiavi per accedere a una posizione di rilievo agli occhi del figlio, o per rimanervi. Valga come esempio quello di uno di quei personaggi più invisi del vecchio regime, l’unico che fu

                                                                                                                         

55  Cfr.  supra,  p.  44.  Per  il  sospetto  sorto  in  Cosimo  verso  il  Bandini  e  lo  sviluppo  della   questione  fino  all’incarcerazione  dell’ambasciatore,  nel  1543,  con  l’accusa  di  sodomia,   cfr.  R.  Cantagalli,  op.  cit.,  passim  e  Istruzioni  agli  ambasciatori  e  inviati  medicei  cit.,  p.3.   56  ASFi,  Mediceo  Avanti  il  Principato,  140,  c.  39.  Su  Vincenzio  Bovio  cfr.  G.  Spini,  op.  cit.,   p.  61.  

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prontamente allontanato da Firenze, Maurizio Albertani: proprio a lei si rivolse nel febbraio del 1537, dopo essere stato inviato a Pisa e quindi presumibilmente già rimosso dalla cancelleria degli Otto di guardia, per cercare di entrare nelle grazie del nuovo duca. “S’io havessi mille vite, non mi

basterebbono a metterle per la Extia del suo figlio, et per vostra Illma S” scrive

da Pisa il 18 febbraio, lamentandosi che “gran peccato fa chi opera contra di

me et non vole bene ne a dio ne a sua extia ne a vostra S Illma”; soprattutto egli

spera che, ripensando ai servizi da lui svolti per la casata, Maria lo “piglierà in protettione”. Infine, valga come idea che poteva avere un servitore di Alessandro, per quanto intento a chiedere grazia, in merito a quello che dovevano essere stati i difficili i primi cinque anni di assestamento del

principato mediceo: “ma quando s ecctia si metterà in core l’animo della

invitta memoria di suo padre farà tremare chi per natura sprezza et potrallo fare meglio che la fedele memoria del Duca Lesandro perché ha trovato le

cose più in essere di lui”57. Sempre da una lettera dell’Albertani, spedita lo

stesso giorno, possiamo avere l’immagine di come dovessero apparire i rapporti gravitanti attorno alla corte del duca. Egli scrisse a Ugolino Grifoni, lamentando di non sapere quale dovesse essere il suo compito dato che il duca, semplicemente, gli aveva comandato “va a Pisa, et scrivi di tua mano”. Interessante è, a mio avviso, la formula di saluto utilizzata: “che si degni

tenermi in bona gratia di sua Extia et della Illma Madonna Maria, et a vostra S

di core mi raccomando”, il che non sorprende, e ci fa capire chi realmente dovesse essere in intimi e quotidiani rapporti col duca. Proprio per questo è notevole che solamente dopo la data, il “buon servitor” Maurizio si ricordi di

pregare il Grifoni che “si degni raccommandarmi al Rdo M Franco Campana

                                                                                                                         

57  ASFi,   Mediceo   del   Principato,   330,   c.   141.   Valga   come   ultima   nota   di   colore,   per   delineare   quanto   il   “buon   servitor   Mauritio”,   come   si   definisce,   fosse   fedele   all’immagine   che   i   contemporanei   avevano   di   lui,   la   soluzione   proposta   per   sedare   l’agitazione   che   si   percepiva   a   Pisa   in   quei   giorni:   la   questione   sarebbe   stata   facilmente  risolvibile,  data  la  scarsa  e  poca  importanza  della  cosa,  “solo  col  mandare  

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mio patrone”: questo potrebbe essere interpretato come una semplice dimenticanza, e non sappiamo se derivasse dal fatto che sulle prime il Campana si era dimostrato indeciso sul nuovo duca, ma il fatto che venisse aggiunto indica come anch’egli dovesse essere tornato subito in stretti contatti con la corte e con Maria Salviati, come anche Ugolino Grifoni, cui l’Albizi

scrisse poco dopo58.

La vicinanza della Salviati col Grifoni era al tempo ben nota, tanto celebre è la pagina del Varchi riferita a questo segretario: “dopo il Campana, partito Bernardo da Colle [Bernardo Giusti], si riferivano tutte le cose della cancelleria a messer Ugolino Grifoni da San Miniato, il quale, perché era stato copista dell’arcivescovado e cancelliere di quel famoso capo di parte, e anco perché essendo tangoccio e tozzotto gli rendeva un po’ d’aria, si chiamava da chi voleva ingiurarlo o avvilirlo, ser Ramazzotto. Ma la signora [Maria] conoscendolo fedele e molto affezionato della casa gli voleva bene e

lo chiamava per amorevolezza Ulino”59. Un’immagine, questa, che dovette

dare adito anche a maliziose voci sul loro conto, tanto che nel 1539 “Ulino”, in una lettera a Pierfrancesco Riccio, si lamentò che “già il buon Vescovo di Forlì et il Ricasoli con altri alla prossima [prossimità] di S Excellentia senza rispetto della Signora Duchessa mi rodevano il baffo dicendo che io sto in lecto con la Salviata, ne saria tornato sino a stamanj in quello io arrivaj, et ognuno tacque, poi mi fu conto tutto da m Pietro, Vedrà V S che belle

crea[n]ze. Horsu basta”60.

                                                                                                                         

58  Ibid.,  c.  146.  

59  B.  Varchi,  op.  cit.,  vol.  3,  pp.  237-­‐238.  

60  ASFi,   Mediceo  del  Principato,   1169,   lettera   del   9   ottobre   1539,   spedita   da   Ugolino   Grifoni  dal  Poggio  a  Pierfrancesco  Riccio  a  Firenze.  Il  vescovo  di  Forlì  è  Bernardo  de’   Medici,  nato,  probabilmente  a  Firenze,  nei  primi  anni  del  Cinquecento;  seguì  i  Medici   in  esilio  nel  1527,  divenne  vescovo  di  Forlì  nel  1528  per  opera  di  Clemente  VII  e  servì   il  cardinale  Ippolito,  per  la  cui  morte  nel  1535  fu  chiamato  in  causa;  nel  gennaio  1537   risultava   già   al   servizio   di   Cosimo,   che   lo   inviò   in   Spagna   a   rendere   conto   all’imperatore   della   morte   di   Alessandro   (cfr.   V.   Bramanti,   Bernardo   de’   Medici,   in  

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