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un seggio per l’UE La posizione dell’Italia: dal Coffee Club alla proposta di C APITOLO II

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C

APITOLO

II

La posizione dell’Italia:

dal Coffee Club alla proposta di

un seggio per l’UE

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Pur essendo entrata a far parte dell’ONU soltanto nel 1955, l’Italia ha sempre cercato di ricoprire un ruolo attivo all’interno dell’Organizzazione, avanzando proposte e mozioni, che nel corso del tempo hanno contribuito a tenere desta l’attenzione sul più generale problema di riforma delle Nazioni Unite.

Ben sei volte, del resto, il nostro Paese è stato eletto membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza e più precisamente nell’arco dei bienni 1959-1966, 1971-1972, 1975-1976, 1987-1988, 1995-1996, 2007-2008.

Degno di nota anche il suo contributo economico, grazie al quale l’Italia si piazza di diritto tra i principali contributori, occupando il sesto posto e collocandosi addirittura prima di Cina e Russia. L’apporto finanziario fornito al bilancio ordinario dell’organizzazione, infatti, è pari a circa settanta milioni di dollari (vale a dire circa il 5% del totale). L’Italia partecipa, inoltre, al finanziamento delle operazioni di mantenimento della pace, con una media di circa cento milioni di dollari all’anno. Per tacere dei finanziamenti destinati alle diverse attività dei numerosi organi, che si occupano di sviluppo economico e sociale per conto dell’Organizzazione. Su territorio italiano, infine, sono ospitate alcune delle più importanti istituzioni dell’ONU1. Ovvio, perciò, che nel tempo, la rappresentanza italiana abbia spinto per cercare un proprio “posto al sole”.

L’articolo 10 della Carta costituzionale, d’altro canto, ha previsto fin dall’inizio la partecipazione ad organismi internazionali ed il successivo articolo 11, affermando che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di

1

Hanno sede a Roma la FAO (Organizzazione per l’alimentazione), il WFP (Programma alimentare mondiale), l’IFAD (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo). A Torino, invece, è la sede dell’UNICRI (Istituto interregionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia) e dell’UN System Staff, per la formazione e l’aggiornamento continuo dei quadri delle Nazioni Unite. Infine, a Brindisi è la base logistica delle Nazioni Unite.

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offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» ha reso priva di qualsivoglia difficoltà procedurale l’adesione dello Stivale all’ONU.

Dunque, se all’inizio, l’atteggiamento dell’Italia è stato dettato dalla necessità, avvertita come pressante, di bloccare soluzioni che potessero escludere una sua partecipazione dal consesso dei cinque grandi2, in seguito il nostro Paese ha cercato di dare il suo reale contributo al processo di riforma di un organismo nato in un contesto storico – politico del tutto differente da quello attuale.

La stessa ammissione all’interno dell’ONU è stata piuttosto travagliata, poiché il nostro Paese, come altri del resto, si è trovato a subire il gioco dei veti incrociati, che negli anni della guerra fredda hanno pesantemente ostacolato l’attività stessa dell’organismo internazionale. Per tale motivo, l’Italia, fin dagli anni Sessanta, ha avanzato proposte che potessero rafforzare non solo la rappresentanza geografica nel Consiglio, ma soprattutto una più equa partecipazione democratica. In realtà, è proprio con la fine della guerra fredda che il bel Paese riuscirà a mettere sul tavolo mozioni più concrete, sempre nell’ottica di evitare la creazione di nuovi membri permanenti, dotati del diritto di veto. Quest’ultimo, del resto, è stato da più parti definito come un vero e proprio privilegio, anacronistico e, perciò, insopportabile, in un momento storico che dica di ispirarsi

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Si è parlato addirittura di “complesso di esclusione”, che avrebbe colpito il Paese in questa come in altre occasioni: moneta unica europea, “Gruppo di contatto” durante le guerre balcaniche degli anni novanta, G7.

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all’uguaglianza. Paolo Bargiacchi3, in particolare, rileva la contraddizione intrinseca ad una societas internazionale fondata sulla parità di tutti suoi membri e rappresentata dalla presenza di un organo, che assume decisioni in tema di gestione dell’ordine internazionale, essendo composto di quindici membri, di cui, peraltro, solo cinque detengono il potere di veto, in grado di condizionare la gestione multilaterale nell’esercizio del potere giuridico di ciascuno.

La prima proposta di matrice italiana, dunque, si deve all’allora ministro degli esteri Beniamino Andreatta, il quale avanzò l’ipotesi di istituire seggi a rotazione a favore dei Paesi che contribuiscono maggiormente al raggiungimento degli obiettivi dell’Organizzazione. Era il 1993 e tale progetto fu poi ripreso a distanza di pochi anni, nel 1998: l’obiettivo è ancora quello di introdurre nel Consiglio di Sicurezza otto/dieci nuovi membri non permanenti, grazie ai quali garantire la rappresentatività di un certo numero di Paesi. La proposta, cioè, prevede un’alternanza degli Stati all’interno di gruppi di tre, scelti in base ai criteri dettati dall’articolo 23 dello statuto delle Nazioni Unite: contributo alla pace e sicurezza nazionale, equa distribuzione geografica, capacità e volontà di contribuire a operazioni di pace. Per garantire la maggiore rappresentatività e accountability, si prevedeva una revisione da parte dell’assemblea generale ogni dieci o quindici anni4.

Un ulteriore tassello nell’intricato puzzle della riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si è avuto nel 1995 con la creazione del cosiddetto

Coffee Club, fondato per volontà di Francesco Paolo Fulci, allora

rappresentante dell’Italia alle Nazioni Unite, insieme ad Egitto, Messico e

3

P. Bargiacchi, La riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Milano, Giuffrè, 2005, p. 5.

4

La proposta italiana è stata in parte ripresa nel cosiddetto modello B, presentato dal già citato Hight Level Panel.

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Pakistan, con l’intento, ancora una volta, di contrastare l’ampliamento dei seggi permanenti, a beneficio di quelli non permanenti5. Ben presto, aderiscono all’idea altre Nazioni quali Spagna, Argentina, Turchia, Canada, Corea del Sud e, in breve, il Coffee Club arriva ad inglobare circa cinquanta Paesi dell’Asia, Africa e America Latina. Sebbene il leitmotiv sia sempre quello di evitare che in Consiglio di Sicurezza seggano altri Paesi con privilegi derivanti da seggi permanenti e, quindi, di aggravare ulteriormente le disparità tra Paesi, soprattutto perché legate alla possibilità di fruire del potere di veto, per la prima volta, comincia a circolare un’idea che avrà fortuna, giacché a distanza di anni, è ancora tra le più “papabili”6

: il Coffee

Club, cioè, capeggiato dall’Italia, propone sì la creazione di nuovi membri,

ma con una nuova fisionomia: quella di membri semi permanenti. Si tratta, evidentemente, di una proposta che oggi appare tra le più praticabili. All’epoca, essa era formulata immaginando dieci seggi riservati ad un gruppo di trenta Stati. «Ciascun seggio sarebbe stato assegnato a tre stati, 30 paesi che a rotazione di sei anni avrebbero occupato a rotazione. […] nel corso di un periodo di sei anni ciascuno Stato avrebbe occupato quella posizione per due anni. La selezione sarebbe avvenuta sulla base di elementi oggettivi, quali l’area geografica di appartenenza, criteri demografici, la partecipazione ad attività di peace-keeping, di sviluppo

5

In realtà al rappresentante Fulci si deve anche un’importante risoluzione, presentata all’Assemblea generale nel 1998: qualunque riforma del Consiglio di Sicurezza avrebbe dovuto realizzarsi con il consenso dei due terzi dell’Assemblea e non con quello dei due terzi dei membri presenti e votanti, come avevano richiesto gli Stati aspiranti al seggio permanente. Si creava, così, un importante impedimento procedurale per tutte quelle riforme che non godessero di ampio consenso. E l’Italia portava a casa una vittoria che le avrebbe consentito di proseguire il cammino verso la proposta dei seggi semi-permanenti, per i quali vedi oltre. Si veda anche L’Italia all’ONU 1993-1999. Gli anni

con Paolo Fulci: quando la diplomazia fa gioco di squadra, a cura di R. Tallarigo,

Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. 6

In realtà tra le righe della proposta del ministro Andreatta c’era già qualcosa di simile.

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economico e tutela dei diritti umani; in ogni caso il gruppo sarebbe soggetto a revisioni di dieci o quindici anni, per evitare di creare nuovi status privilegiati»7.

Arriviamo così al 2005, anno in cui è ancora il nostro Paese a riunire attorno alla propria egida una serie di medie potenze (Argentina, Colombia, Messico, Kenya, Algeria, Spagna, Pakistan, Corea del Sud), accorpando cioè parte dei membri del Coffee Club, per proseguire nel progetto di opporsi all’ampliamento della membership permanente e formulare la proposta alternativa di un Consiglio di Sicurezza a venticinque membri, di cui dieci seggi soggetti a rotazione biennale e rinnovabili. È nato il gruppo

Uniting for Consensus8.

Oltre a chiedere una maggiore rappresentatività regionale, poi, l’Italia ribadisce la propria contrarietà alla creazione di nuovi seggi permanenti, ancorché senza diritto di veto. Tale “sotto categoria”, infatti, sarebbe la prova più tangibile di quel privilegio di cui si diceva: un beneficio a disposizione di un piccolo gruppo di Paesi, che non vuole condividerlo con una platea più vasta, composta da Nazioni che solo formalmente possiedono le medesime prerogative, ma che, nella realtà, sono discriminate e tenute ai margini delle fasi decisionali. A questo proposito, bisogna ricordare come Giulio Terzi di Sant’Agata, rappresentante permanente per l’Italia, ha sottolineato, ancora nel 2009, un aspetto sul quale non sempre si è posta attenzione e cioè che aumentare il numero di Paesi dotati di seggi permanenti, costituirebbe una evidente limitazione di sovranità maggiore di quella che gli Stati membri delle Nazioni Unite

7

L. De Micco, L’impasse nella riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite: “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, anzi gli oceani, «Rivista

dell’Associazione italiana dei costituzionalisti», 4, 2012 del 13/11/2012, p. 5. 8

L’origine del nome risale a un omonimo documento redatto dall’Italia e reperibile sotto la missione del Messico sul sito delle Nazioni Unite al link http://www.un.int/mexico/2005/UNReform-pp.htm.

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hanno accettato, illo tempore, quando hanno deciso di aderire all’Organizzazione internazionale9

. E come se ciò non bastasse, egli si è espresso in maniera categorica in merito all’esistenza stessa del veto: «The veto is a striking violation of principles that Italy, with many other Member States, has supported for years: sovereign equality between States, democracy, representation, efficiency. While it may have been born out of historical necessity, it no longer has any plausible justification in a community of sovereign States governed by the principles of the Charter and strengthened by a series of International norms and practices based on democracy and equality».

L’abolizione del veto, tuttavia, appare piuttosto improbabile: per questo, il nostro Paese, sempre all’interno del gruppo Uniting for

Consensus, ha proposto di eliminarlo gradualmente o comunque di usarlo

in maniera limitata. Per esempio, lo si potrebbe escludere in caso di interventi umanitari ed azioni svolte ai sensi del capitolo VI dello Statuto (soluzione pacifica delle controversie). Oppure potrebbe essere utilizzato solo se esercitato da due membri permanenti. O, infine, si potrebbe motivarne l’uso tanto al Consiglio di Sicurezza quanto all’Assemblea generale. Sempre nel 2009 il rappresentante italiano mette in guardia dai pericoli del cosiddetto hidden veto, probabilmente il più insidioso: si tratta infatti, di un divieto non concretamente esercitato in sede di Consiglio di Sicurezza, poiché esso viene fatto valere per bloccare l’inserimento di una determinata questione tra i punti all’ordine del giorno da trattare. Un meccanismo, come è noto, ben sperimentato nel corso degli anni in cui imperversava la guerra fredda e i due blocchi contrapposti si fronteggiavano proprio su un terreno di tale genere. Giulio Terzi di

9

A. De Guttry-F. Pagani, Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di

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Sant’Agata, in conclusione, ha auspicato una vera e propria moratoria per l’uso del veto, con effetto immediato «che consenta a tutti gli Stati che siedono in Assemblea generale di esprimere la propria visione in merito alla riforma del Consiglio di Sicurezza»10. La parte conclusiva del suo discorso all’Assemblea generale merita di essere riportata: «All animal are equal, but some are more equal than others. At least what George Orwell wrote in Animal Farm. Eight hundred years have gone by since an English monarch first accepted limitations on sovereign power by signing the Magna Charta. The idea of placing restraints on executive power, to promote equality and representation are the cornerstones of many of our Constitutions. What we want is more democratic Security Council. A reform that will modernize the Council rather than make it more elitist. A Security Council that works better, not one that amplifies inequality»11.

Giunti a questo punto, volendo riassumere in maniera schematica la posizione dell’Italia, si può affermare che il nostro Paese insiste sulla necessità di abolire il veto e che in attesa di tale svolta epocale propone i seguenti passaggi graduali verso una nuova condizione: a) escludere il veto in caso di double veto, di nuovi membri ammessi al Consiglio di Sicurezza, di interventi umanitari; b) renderlo effettivo, se ad esercitarlo sono due membri; c) dare puntuale e chiara motivazione del suo utilizzo tanto al Consiglio di Sicurezza quanto all’Assemblea generale. L’Italia propone, inoltre, la creazione di tre seggi interregionali di durata quinquennale, non rinnovabile o biennale, rinnovabile. Fondamentali, infine, report periodici del Consiglio dinanzi all’Assemblea.

10

Ivi, p. 10. 11

L’intervento completo del Rappresentante italiano è reperibile all’indirizzo: http://www.italyun.esteri.it/Rappresentanza_ONU/Menu/Comunicazione/Archivio_Ne ws/2009_03_16+terzi.htm.

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In tempi più recenti, Antonio Bernardini, vice rappresentante permanente all’ONU ha dichiarato: «Siamo dell’idea che la riforma può realizzarsi solo attraverso l’allargamento dei seggi non permanenti di lunga durata, allo scopo di garantire un Consiglio più democratico e inclusivo»12. Obiettivo dell’Uniting for Consensus, dunque, è il raggiungimento reale di un processo democratico e trasparente, cosa che si sposa con le aspirazioni del Gruppo Africano, il più penalizzato e sottorappresentato.

Lo stesso Enrico Letta, primo ministro italiano fino al 14 febbraio 2014, intervenendo alla 68a Assemblea generale ha affermato: «Un cambiamento è ormai indispensabile, per aumentare la trasparenza, la responsabilità e l’efficienza del Consiglio di Sicurezza. Siamo disposti a ricercare compromessi, pur di avere il consenso del maggior numero di Stati possibile»13.

Ancora a settembre 2013, Emma Bonino, Ministro degli esteri italiano, presiedendo a New York la riunione dei Paesi appartenenti al gruppo Uniting for Consensus14, ha sottolineato l’importanza di procedere spediti verso una riforma del Consiglio di Sicurezza, in vista del 2015, anno in cui cadrà il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite e, dunque, occasione imperdibile per apportare quelle modifiche di cui si discute da tempo. Il capo della Farnesina, infatti, ha dichiarato: «Il 2014 per il nostro gruppo sarà un anno di attività anche a livello di riunioni di gruppi regionali», facendo evidentemente riferimento alla partecipazione al

summit dell’Unione africana. Sempre a settembre, viceministri e ministri

12

L’intervento del vice rappresentante Bernardini è consultabile all’indirizzo internet

http://qn.quotidiano.net/esteri/2013/11/09/979504-riforma_consiglio_sicurezza_cerca_compromesso.shtml. 13

L’intervento del Presidente del Consiglio Letta è consultabile all’indirizzo internet http://qn.quotidiano.net/esteri/2013/09/26/956583-letta_indispensabile.shtml.

14

Presenti i ministri degli esteri e rappresentanti di Argentina, Canada, Colombia, Corea del Sud, Costarica, Malta, Messico, Pakistan, San Marino, Spagna, Turchia, Cina e Indonesia.

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del gruppo Uniting for Consensus, si sono dati appuntamento rispettivamente in Messico (gennaio 2014) e in Turchia (seconda parte dell’anno), per lavorare a fondo su tale obiettivo e contestualmente lanciare una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo15, poiché, come ha concluso il ministro Bonino «la riforma del Consiglio di Sicurezza non è solo una questione del palazzo di vetro, ma è una delle questioni politiche più importanti».

Un’altra proposta avanzata dall’Italia, sempre nell’ambito della maggiore rappresentatività regionale, fa riferimento al cosiddetto compromesso italo-colombiano, dal nome dei due Paesi che, in rappresentanza del gruppo Uniting for Consensus, l’hanno presentata nel 2009, in occasione dei negoziati intergovernativi. Si tratta di un’ipotesi in base alla quale si immaginano seggi interregionali con un mandato più lungo: «Ad esempio tre seggi di mandato quinquennale non immediatamente rinnovabile oppure con un mandato biennale immediatamente rinnovabile, con il limite di due mandati consecutivi»16.

Negli ultimi anni, la posizione dell’Italia, pur rimanendo saldamente ancorata alla volontà di non allargare la platea dei membri non permanenti, con o senza diritto di veto, ha ulteriormente ampliato il ventaglio delle sue proposte: in particolare, l’Italia si è detta eventualmente disponibile ad assecondare le rivendicazioni dei Paesi non allineati, che chiedono un’implementazione dei seggi non permanenti e ha pubblicamente

15

Per il meeting in Messico si veda anche la pagina internet http://www.lamoncloa.gob.es/IDIOMAS/9/Gobierno/News/2014/20140117_Uniting_C onsensus.htm.

16

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caldeggiato l’ipotesi di un seggio permanente assegnato all’Unione europea17.

1. L’Unione Europea nell’ONU

Tale ipotesi, tuttavia, risulta a tutt’oggi di difficile realizzazione: vediamo perché. Vinta l’obiezione secondo cui l’Unione Europea non ha personalità giuridica18, restano problemi legati alla natura dei nuovi rapporti, che si svilupperebbero con i membri già presenti in Consiglio di Sicurezza.

Destinare un seggio ad un organismo regionale, del resto, sia esso l’Unione Europea, la Lega araba o l’Unione africana è una proposta che circola negli ambienti internazionali da diversi anni. Il già ricordato ministro degli esteri italiano, Andreatta, aveva all’epoca fatto cenno a questa possibilità, ma è evidente che i tempi non fossero maturi. Quanto lo siano diventati ora, non è del tutto chiaro. Che gli organismi regionali e in particolare l’Unione Europea, abbiano ricoperto negli ultimi anni ruoli sempre più importanti nelle operazioni di peacekeeping è evidente19. Il

17

Si veda a riguardo l’intervento dell’allora ministro degli esteri Gianfranco Fini, riportato dal «Corriere della Sera» (3 dicembre 2004) che definisce la rappresentanza comune dell’Unione Europea nel Consiglio di Sicurezza «obiettivo di fondo della politica estera e di sicurezza comune» e il discorso di Carlo Azeglio Ciampi,presidente della Repubblica dal 1999 al 2006, (reperibile sul sito ufficiale del Quirinale), il quale ha dichiarato: «La prospettiva di una radicale e diversa distribuzione del potere mondiale rende ancora più necessaria un’Europa forte e autorevole, che parli con una sola voce alle Nazioni Unite».

18

Il Trattato di Lisbona, infatti, ha definitivamente chiarito con l’articolo 46 A delle disposizioni finali che l’Unione Europea è dotata di personalità giuridica e in quanto tale può stipulare accordi, concludere trattati, avere relazioni diplomatiche ed aderire ad organismi internazionali.

19

Si legga in proposito l’articolo pubblicato sul quotidiano «La Stampa» del 4.06.2012 a firma di Hervé Ladsous, sottosegretario dell’ONU capo del dipartimento delle operazioni di peacekeeping. Si fa notare, inoltre, che nel 2012 l’Unione Europea è stata insignita del premio Nobel per la pace «per i progressi nella pace e nella

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problema è che la proposta italiana si è scontrata con la ferma opposizione di Francia e Gran Bretagna, ma non ha comunque raccolto consensi concreti da Stati Uniti, Cina e Russia20. Quale sarebbe, infatti, il ruolo che tale seggio dovrebbe avere con quelli, altrettanto europei, assegnati fin dall’inizio ai due Paesi rispettivamente d’Oltralpe e di oltre Manica? Appare irrealistico anche solo pensare che le due Nazioni accettino di rinunciare alla propria prerogativa in favore di una seggio comune e d’altra parte se anche ciò potesse ipotizzarsi, bisognerebbe poi interrogarsi sul rischio di ridurre il peso dell’Europa all’interno del Consiglio di Sicurezza, dove peserebbero non più due voti, come allo stato attuale (cioè due Paesi = due voti), ma solo uno. Al contrario, nel caso si realizzasse tale ipotesi, senza che Francia e Gran Bretagna perdano il proprio ruolo, si alimenterebbe ulteriormente l’accusa, già rivolta da buona parte dei Paesi del sud del mondo, di un Consiglio eurocentrico. Comunque la si veda, insomma, appare difficile immaginare uno sblocco della situazione in tempi rapidi e in ogni modo, su tutto, andrebbe chiarita sempre e comunque, la natura del rapporto tra un eventuale seggio dell’Unione e gli altri, pure europei, presenti in Consiglio. Ancora Finizio spiega: «Altri due nodi sono interni all’UE e sono rappresentati dagli attuali membri permanenti europei nel Consiglio: Francia e Gran Bretagna. Da questo punto di vista, la riforma del Consiglio di Sicurezza e l’unificazione

riconciliazione» e per aver garantito «la democrazia e i diritti umani nel Vecchio continente, ha contribuito all’avanzamento della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa», come si evince dal sito www.nobelprize.org.

20

Bargiacchi, La riforma del consiglio di sicurezza cit., p. 130 nota 9, riporta le parole di Hubert Vedrine, Ministro degli esteri francese dal 1997 al 2002, il quale ha affermato: «Non vi è alcuna possibilità o alcun rischio che stati Uniti, Cina o Russia (la posizione di Francia e Gran Bretagna è più ambigua) accettino di rinunciare a questo diritto: nessuna riforma dell’Onu lo prevederà. Qualora Francia e Gran Bretagna dovessero rinunciare al loro diritto di veto, lo farebbero in modo unilaterale, da sole. E quindi non lo faranno. È infatti evidente quello che avrebbero da perdere, mentre non sarebbe chiaro cosa ne guadagnerebbero l’Onu, l’Europa o il diritto internazionale».

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politica europea corrono in parallelo, dal momento che da un lato l’ingresso europeo nell’organo presuppone che […] l’UE si possa esprimere con una sola voce e ciò implica, a sua volta, una politica estera unitaria e l’unificazione politica del continente; dall’altro è vero anche l’inverso, cioè che non ci può essere una politica estera unitaria senza che la Francia e la Gran Bretagna rinuncino al loro seggio a favore di un seggio unico europeo, dato che il Consiglio di Sicurezza è l’organo per eccellenza dell’high politics»21

.

La Germania, invece, che almeno inizialmente non sembrava voler rinunciare alla rivendicazione di un seggio permanente, ha ultimamente modificato la propria posizione, aprendosi anche ad altre possibilità22.

In realtà, i problemi posti da una presenza europea all’interno del Consiglio di Sicurezza sono diversi: per esempio, i ventotto Paesi attualmente presenti a Bruxelles dovrebbero essere in grado di esprimere una posizione unica su tutte le questioni di sicurezza internazionale e la cosa appare quanto meno di difficile realizzazione. Recenti accadimenti, infatti, hanno mostrato quanto le posizioni di Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia – per citare solo alcuni dei componenti l’Unione Europea – siano state divergenti rispetto a crisi internazionali quali quella irachena del 2003 o quella siriana scoppiata nel 2011 e tutt’ora in corso23. Non si può che concordare con Giovanni Finizio quando, facendo una panoramica generale sulla questione, afferma: «Appare perciò illusorio

21

G. Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU: un inventario critico delle

proposte di riforma, Torino, Centro Studi sul Federalismo, agosto 2008, p. 88.

22

Si deve al governo di coalizione costituito da liberali e democratici la maggiore enfasi dimostrata a favore di un eventuale seggio europeo nel 2009.

23

Anche il rappresentante permanente della Germania, Hans Peter Wittig, proprio in riferimento al caso della Siria, ha fatto notare come solo una riforma reale e strutturale del Consiglio possa effettivamente renderlo più efficiente e rappresentativo del mondo attuale, restituendo, così, all’organismo la funzione per cui esso era nato, oggi oscurata da paralisi ed impasse.

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pretendere di assegnare ai vari continenti uno o due seggi permanenti e pensare che ciò contribuisca significativamente a innalzare il grado generale di rappresentatività dell’organo, tanto più considerando che se esiste una tradizione di pan regionalismo in Africa e in America Latina, essa è ancora marginale in Asia dove tra diversi Paesi esistono non solo rivalità di status, ma profonde inimicizie di lunghissimo corso (ad esempio Cina/Giappone, India/Pakistan). Ogni potenza regionale cui dovesse essere assegnato un seggio permanente rappresenterebbe solo se stessa, specialmente nei contesti dove l’integrazione regionale è più bassa. Va infine considerato che il seggio permanente in sé esercita una forza centrifuga rispetto all’integrazione regionale, perché costituisce un bagaglio che perpetua un senso di eccezionalità nelle relazioni internazionali: analizzando il caso europeo, si può notare che nell’assemblea generale sono raggiunte posizioni comuni all’Unione Europea in oltre il 95% dei casi, ma un’analisi dei comportamento di Francia e Gran Bretagna nell’assemblea dimostra quanto sia importante l’effetto seggio permanente nel loro comportamento di voto: se la media di allineamento degli altri Paesi a posizioni comuni è circa il 97%, il dato per la Francia è dell’85, 62% e per la Gran Bretagna 88,26%. Nonostante tale riscontro sia al momento disponibile solo per i membri permanenti UE, cioè Francia e Gran Bretagna, ed il dato sia per esse in un certo senso abbastanza naturale, dato il loro passato di grandi potenze, è lecito immaginare che il seggio permanente produrrebbe analogo effetto su altre potenze in altri continenti»24.

D’altro canto, lo stesso già citato Ladsous, pur definendo l’Unione Europea un alleato esemplare e pur sottolineando che «il contributo

24

Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU cit., pp. 45-46. I dati citati si riferiscono all’anno 2003 e sono reperibili sul sito www.europa-eu-un.org/.

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dell’Europa al peacekeeping delle Nazioni Unite è amplificato attraverso i molti aspetti della nostra partnership con l’Unione europea e la North

Atlantic Treaty Organization (NATO), di cui l’Europa è uno dei principali

attori»25 non si spinge a parlare di un seggio europeo, preferendo fare riferimento piuttosto a un comitato direttivo congiunto UE-ONU.

È innegabile ad ogni modo che in un dibattito franco e aperto a diverse possibilità circa una riforma del Consiglio di Sicurezza, l’Unione Europea rientri a pieno titolo. Essa è una potenza commerciale e monetaria, uno spazio di oltre cinquecento milioni di abitanti26, con un PIL complessivo che supera quello degli USA. Non si può, perciò, non tenerne conto nel dibattito che da anni è ormai in corso, soprattutto perché sotto il profilo storico politico, l’Unione Europea è l’esempio di un successo di organizzazione sovranazionale, in grado di superare il concetto “stato-nazione” e di portare la pace tra Paesi che in passato sono stati su fronti contrapposti. Non è uno Stato, è vero, ma presenta elementi di statualità e perciò è un attore rilevante per la riforma dell’ONU, anche grazie al contributo economico fornito che è del 38% contro il 22% degli USA27. Ma a ben vedere i motivi per cui l’Unione Europea sarebbe titolata ad entrare all’interno dell’ONU, se non del Consiglio di Sicurezza, vanno al di là di mere statistiche e dati informativi. Le due organizzazioni, infatti, sono accomunate da uguali intenti e valori, che spingono entrambe ad avere una visione del mondo che è comune: basta stabilire un confronto tra

25

Vedi nota n. 11. 26

Il dato è aggiornato al 2013, come si deduce dalla pagina internet http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&language=en&pcode=tps00001 &tableSelection=1&footnotes=yes&labeling=labels&plugin=1.

27

Il dato è aggiornato al 2007, come si può verificare alla pagina internet www.unric.org/html/english/pdf/Leporello_EU-vn_e.pdf.

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70

l’European Security Strategy28

, il documento presentato nel 2003 da Javier Solana, alto rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza Comune dell’UE e l’Hight Level Panel, già precedentemente citato, del 2004 o il rapporto29 presentato nel 2005 dal Segretario Generale Kofi Annan, in occasione della 60a sessione dell’Assemblea generale. Si tratta di una visione del mondo fondata sul «multilateralismo effettivo» inteso come lo «sviluppo di una società internazionale più forte, di istituzioni internazionali funzionanti e di un ordine internazionale basato sul diritto»30. Ma i membri permanenti come reagirebbero all’ipotesi che un seggio venisse assegnato all’Unione Europea? E come gli altri Paesi che fanno parte dell’ONU? «Posto che, in quanto potenza egemonica, gli Stati Uniti detengono nei fatti il diritto di vita e di morte su qualsiasi ipotesi di riforma (e la storia dell’ultimo round di negoziati, nel settembre 2005, lo dimostra), è dubbio che essi vogliano acconsentire all’ingresso dell’UE nel Consiglio, operazione che la rafforzerebbe notevolmente quale attore politico globale, in concorrenza con gli Stati Uniti quanto a modelli di ordine mondiale, strategie di politica estera, e così via. Ma gli ostacoli non sono rappresentati solo dalla potenza egemonica: non è detto infatti, che un seggio europeo riscuota le simpatie di tutti i Paesi in via di sviluppo, molti dei quali

28

Il documento, approvato dal Consiglio Europeo del 2003 è consultabile alla pagina http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cmsUpload/78367.pdf.

29

In larger freedom Towards, security, development and human rights for all, United Nation, New York 2005.

30

Come ricordato giustamente da Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU cit., p. 84: «non solo l’intera ESS può essere riassunta nel sostegno di questi principi, ma ad essa vanno aggiunti altri documenti delle istituzioni dell’Unione che riaffermano la scelta dal multilateralismo ed il sostegno delle Nazioni Unite in qualità di organizzazione al vertice del sistema multilaterale: European Commision, The

European Union and the United nations: the choice of multilateralism, COM (2003)

526 final, 10 september 2003; European Union, The enlarged European Union at the

United Nations: Making multilateralism matter, Luxembourg, 2004; Parlamento

Europeo, Relazioni UE/ONU. Risoluzione del Parlamento Europeo sulle relazioni tra

(17)

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potrebbero interpretare l’operazione in chiave politica di potenza, vedendo l’UE come un attore coloniale. La permanenza di questo tipo di percezioni dipende dalla limpidezza del progetto politico europeo […] e dalla chiarezza con cui saprà rendere manifesta la propria visione post-egemonica del mondo ed anche la propria idea sulla riforma del Consiglio»31.

È appena il caso di ricordare, infine, che quando si ventila la proposta di un seggio per l’Unione Europea, non si prendono in considerazione i limiti che la stessa oggettivamente presenta in materia di politica estera. La gestione di quest’ultima, infatti, a differenza di altri ambiti nei quali si esplica l’azione dell’Unione Europea, ricade principalmente sugli Stati membri, i quali, però, possono avvalersi degli strumenti comuni32.

Tornando al nostro Paese, senza perdere di vista l’obiettivo che a questo punto possiamo definire prioritario e cioè quello che non vengano creati altri membri permanenti che aumentino le disparità pure già esistenti, esso ha mostrato di essere favorevole alla possibilità che un seggio venga assegnato all’Unione Europea, soprattutto attraverso contatti regolari e frequenti tra la presidenza dell’Unione e la rappresentanza permanente a New York.

Rispetto a Francia, Gran Bretagna e Germania, perciò, l’Italia appare maggiormente predisposta al multilateralismo, sia esso dettato dall’adesione all’ONU, all’Unione Europea o alla NATO. E del resto, è stato osservato che la politica di cooperazione internazionale si adatta

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Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU cit., p. 88. 32

Si rimanda alla pagina internet http://www.eeas.europa.eu/csdp/about-csdp/index_en.htm per una disamina dei compiti assegnanti all’Unione Europea in materia di politica estera.

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meglio ad un Paese che non ha un forte sentimento della propria identità nazionale e che, quindi, non ha propensione per una politica estera forte33. «Vi sono state, inoltre, ragioni di politica interna: per esempio la percezione di molti governi che con la scelta multilaterale e in particolare con la centralità delle Nazioni Unite si poteva “ecumenicamente” compiacere il mondo cattolico e l’opposizione di sinistra, inclusa quella comunista. Ancora oggi la “linea delle Nazioni Unite” esercita un forte richiamo unificante nel sistema politico italiano. Vi sono stati, poi, i limiti e le esigenze dettati dalla posizione dell’ Italia di cerniera tra Est e Ovest e dalla taglia internazionale del nostro Paese. Si tratta del codice genetico di molte medie potenze, che vedono nel multilateralismo il migliore moltiplicatore della propria capacità di influenza. In altri termini, l’Italia ha visto nelle Nazioni Unite, e nel multilateralismo più in generale, un’occasione e un’opportunità per rendere la propria politica estera più dinamica e, in certe occasioni, meno appiattita sulle posizioni transatlantiche»34. Naturalmente, non va tralasciato anche il fatto che proprio per le sue caratteristiche di media potenza, il nostro Paese ha avuto tutto l’interesse a vedere rafforzati i meccanismi di sicurezza collettiva, soprattutto fino a quando i rapporti tra Est e Ovest erano improntati al progressivo innalzamento di una spessa cortina di ferro, per citare una fortunata definizione.

Con la fine della guerra fredda lo scenario mondiale muta e con esso il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere nel contesto internazionale. Così, a poco a poco, il nostro Paese passa da security consumer a security

provider, garantendo la propria presenza in interventi di pace, che spaziano

dall’Africa ai Balcani, sotto la guida statunitense o, come nel 1997,

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A. Panebianco, Guerrieri Democratici, Bologna, Il Mulino, 1997. 34

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nell’operazione “Alba”, assumendo in prima persona la leadership della forza multinazionale per la stabilizzazione dell’Albania.

È però nel 2003, con la crisi irachena scoppiata in seguito all’attacco degli Stati Uniti, che l’Italia si trova per la prima volta a dover decidere tra la fedeltà all’alleato americano e l’adesione ai principi sottoscritti al palazzo di vetro. Come gli avvenimenti siano poi andati è fatto noto, su cui, dunque, non mi soffermo. Quello su cui vale la pena insistere è il fatto che l’episodio può essere visto come una cesura, come uno spartiacque, tra un prima e un dopo. Da quel momento in poi, infatti, alcuni Paesi (in primis gli Usa) cominceranno a pensare di dover ripiegare sull’unilateralismo per trovare le risposte necessarie alle proprie legittime aspirazioni di incolumità e sicurezza generale. Altri, invece – e fortunatamente verrebbe da dire – si sono adoperati alacremente per restituire al sistema multilaterale l’autorevolezza necessaria a risolvere controversie internazionali.

In tale contesto l’Italia non ha saputo tenere una condotta coerente e ha fatto registrare una evidente ambiguità, che senza dubbio non le ha giovato nel consesso mondiale. «Il dovere dell’Italia è quello di rimanere fedeli in ogni caso alla posizione che le Nazioni Unite assumeranno» dichiarava dalle pagine del «Corriere della Sera» l’allora Ministro degli Esteri Franco Frattini. Era il 19 gennaio 2003. Poco più di un mese dopo, dalle colonne del quotidiano francese «Le Figaro», Frattini faceva sapere che «la relazione con gli Stati Uniti è un pilastro della nostra politica estera da cinquant’anni», aggiungendo in seguito che se le Nazioni Unite non avessero agito per tempo, lo avrebbero fatto i Paesi membri dell’Organizzazione. Il tutto mentre nel Paese una larga fetta dell’opinione pubblica si diceva contraria all’intervento armato, giudicato illegittimo e in contrasto con i dettami della carta ONU, anche da buona parte della

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comunità internazionale. Per la prima volta, dunque, il governo di Roma decide in maniera nettamente diversa da quello di Berlino e Parigi.

«Tuttavia, gli eventi successivi al conflitto iracheno del 2003 contribuiscono a diffondere la sensazione che vi sia stato, di recente, un qualche ripensamento da parte del governo italiano sulla scelta di agire al di fuori di un mandato delle Nazioni Unite. La ricerca quasi ossessiva di una nuova risoluzione dell’ONU che offrisse un’adeguata copertura anche ai nostri reparti inviati in Iraq nell’operazione “Antica Babilonia”, il richiamo costante all’esigenza di rispettare i principi della Carta e le pressioni per un pieno coinvolgimento delle organizzazioni internazionali nella soluzione della crisi, sembrano segnalare la volontà di ritornare alla tradizionale posizione italiana della centralità delle Nazioni Unite. Se è corretta tale ricostruzione, ci si deve domandare se l’Italia non abbia in verità perso in questi anni un’occasione, forse unica, per riprendere con vigore il progetto di riformare le Nazioni Unite e per contribuire in tal modo a disegnare una nuova architettura internazionale che garantistica gli interessi complessivi della comunità internazionale»35.

Quello su cui l’Italia dovrebbe interrogarsi, in realtà, non vale solo per il nostro Paese, ma per tutti quelli che aderiscono ad organizzazioni sovranazionali. E cioè: gli interessi nazionali in materia di politica estera che confini hanno? Qual è il limite oltre cui non sconfinare? Unilateralismo, multilateralismo, rafforzamento delle organizzazioni regionali sono le diverse possibilità e strumenti tra cui scegliere. E l’Italia, come ogni altro Stato, dovrebbe indicare quale strada percorrere senza inciampare tra ambiguità ed incertezze, come quelle su menzionate.

Perché, più le Nazioni Unite si mostreranno deboli e disunite, più crescerà la tentazione dei singoli Stati di decidere da sé e risolvere

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autonomamente le possibili controversie. Quanto più l’ONU, perciò, riuscirà a mantenere una linea di condotta unitaria al suo interno, tanto più ne beneficeranno la pace e la concordia internazionali: è questo, del resto, lo scopo con cui si diede vita all’ Organizzazione delle Nazioni Unite. In tal senso, ritengo che una riforma del Consiglio di Sicurezza risulti indispensabile per cominciare a regolamentare rapporti di forza, che fino ad ora sono rimasti immutati. Così se anche la «politica del sedere»36 fosse un parametro veritiero, il nostro Paese potrebbe considerarsi tutto sommato soddisfatto, dato il ruolo che all’interno del progetto di riforma ha rivestito negli anni il gruppo Uniting for consensus. In realtà, è noto ormai che «la credibilità e la forza di uno Stato sono misurati non dal numero di trattati internazionali ratificati o di istituzioni presidiate, bensì dal ruolo effettivo svolto all’interno dei singoli organismi e dalla coerenza tra l’azione a livello internazionale e a livello interno»37.

Da questo punto di vista, l’Italia ha un vantaggio rispetto ad altri Paesi, europei e non: per la sua storia, per le sue radici nazionali, il Belpaese non teme cessioni di sovranità: che siano le Nazioni Unite o l’Unione Europea, l’Italia, in conformità al già ricordato articolo 11 della Carta Costituzionale, non ha paura di cedere un piccolo “pezzo” di sovranità, in cambio di importanti benefici. Questa è una carta che potrebbe senza dubbio giocare a favore dello Stivale nell’iter che, si spera, porterà prima o poi alla riforma del Consiglio di Sicurezza. Rendere le Nazioni Unite l’esempio migliore di un modello di multilateralismo efficiente, perciò, dovrebbe rientrare tra gli obiettivi prioritari dell’Italia. Perché il

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L’espressione «politica del sedere» fu utilizzata dall’ambasciatore italiano Pietro Quaroni (1891-1971) per indicare la volontà di sedere nel numero più ampio di organismi internazionali, dimostrando così l’importanza e l’autorevolezza del Paese nello scenario internazionale.

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dibattito sulla composizione del Consiglio di Sicurezza e delle norme che ne regolamentano il suo funzionamento è, a ben vedere, non solo questione che riguardi l’incolumità collettiva e l’efficienza dell’Organismo stesso, ma anche un aspetto per misurare e valutare l’influenza di un Paese. In tal senso, la posizione dell’Italia, ha oscillato tra una velleitaria aspirazione ad un seggio permanente e una più realistica richiesta di creare membri semipermanenti.

In conclusione, bisogna ricordare che: «contro la buona riuscita di un processo di riforma del Consiglio di Sicurezza in senso euro-unitario, giocano almeno due elementi: 1) l’ampliamento del Consiglio a nuovi membri permanenti darà vita a un Consiglio ancora più rigido; 2) l’ottenimento di un seggio permanente da parte della Germania neutralizzerà l’interesse di un altro grande Stato ad appoggiare la creazione del seggio unico europeo. Dunque, la formulazione di proposte pro-UE dovrà puntare proprio sul rischio di perdere l’occasione dell’istituzione di un seggio unico, con la sottesa finalità di osteggiare le ambizioni di altri Stati ad ottenere un seggio permanente. In ogni caso il peso dell’Unione Europea in seno al Consiglio di Sicurezza è destinato a crescere, se si considera che il trattato di Lisbona ha previsto la creazione della figura dell’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza comune, con il compito di guidare la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione e di contribuire con le sue proposte all’elaborazione di detta politica»38.

Confortata ancora una volta dall’interpretazione di Finizio, credo di poter affermare che se anche la riforma del Consiglio di Sicurezza sta a cuore evidentemente soprattutto all’ONU, essa è affare che coinvolge anche l’Unione Europea, sul cui assetto un nuovo tavolo con neo membri

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permanenti peserebbe e non poco. «L’applicazione della proposta del 3+2 ad esempio o del Modello proposto dall’High Level Panel e poi da Kofi Annan, porrebbero una pietra tombale su qualsiasi velleità europea di giungere ad una politica estera unitaria, di cui la presenza sopranazionale dell’UE al Consiglio di Sicurezza costituisce corollario fondamentale. Se in particolare la Germania, come la proposta lascia intendere, entrasse in qualità di membro permanente, ne uscirebbero rafforzate le spinte centrifughe che già oggi rendono oltremodo tortuoso ogni piccolo passo verso l’unità politica: non solo perché verrebbe probabilmente rafforzato il nazionalismo tedesco, ma che perché aumenterebbero i risentimenti politici all’interno dell’Unione, specie da parte di quei Paesi, come l’Italia ma anche la Spagna, che avrebbero potuto pretendere (e almeno nel caso dell’Italia, lo hanno preteso) pari privilegio. Il seggio tedesco si aggiungerebbe a quelli di Francia e Gran Bretagna, istituzionalizzando il direttorio a tre che già di fatto caratterizza la politica estera europea e chiudendo, insieme ai membri europei non permanenti eletti dall’Assemblea generale, ogni spazio di rappresentanza unitaria dell’UE nel Consiglio di Sicurezza. Una sorte non dissimile toccherebbe all’Unione nel caso in cui altre proposte stato-centriche trovassero applicazione: sia l’istituzione di membri semi-permanenti come previsto dalla proposta italiana sia il Modello B proposto dall’High Level Panel e da Kofi Annan provocherebbero competizioni e risentimento tra Paesi europei»39.

L’Unione Europea, inoltre, pur essendo un’organizzazione internazionale e pur non essendo perciò uno Stato classico a tutti gli effetti, presenta, come già ribadito, numerosi elementi di statualità, cosa che le ha permesso di sviluppare una propria identità internazionale e di una propria soggettività politica, che essa esercita in diverse organizzazioni come ad

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esempio la FAO o l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, proprio perché non è uno Stato nel senso letterale del termine è, come già precedentemente affermato, sguarnita di una politica estera comune ed unitaria. L’Unione Europea, perciò, lo ribadiamo, non è ammessa a pieno titolo alle Nazioni Unite e non è rappresentata all’interno del Consiglio di Sicurezza, al cui tavolo siedono, però, Gran Bretagna e Francia, membri dell’UE. Proprio al fine di introdurre delle prescrizioni per quei Paesi che occupano un seggio al Consiglio di Sicurezza e in qualità di membri permanenti e di membri non permanenti, è stato stilato il trattato di Amsterdam40, il cui articolo 19 recita: «Gli Stati membri che sono anche membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si concerteranno e terranno pienamente informati gli altri Stati membri. Gli Stati membri che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza assicureranno, nell’esercizio delle loro funzioni, la difesa delle posizioni e dell’intereresse dell’unione, fatte salve le responsabilità che loro incombono in forza delle disposizioni della carta delle Nazioni Unite». Il trattato di Amsterdam, dunque, non impone ai Paesi Europei un obbligo di rappresentanza nei confronti dell’Unione Europea, prescrivendo, invece, di difendere eventuali posizioni comuni e naturalmente gli interessi dell’Unione, a patto che essi non cozzino con le responsabilità che derivano dalla presenza all’interno del Consiglio di Sicurezza. Come fa notare Finizio, Francia e Gran Bretagna hanno dato dell’articolo in questione sempre una lettura ambivalente, volta da una parte a minimizzare gli obblighi e dall’altra a sottolineare i diritti: le due Nazioni, infatti, si sono sempre limitate a rispondere alle domande loro rivolte ai meetings dei capi dell’Unione Europea a New York. La situazione è migliora da quando nel 2001 è sono

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Il trattato di Amsterdam è stato stipulato il 2 ottobre 1997 dagli allora quindici membri dell’Unione Europea. È entrato in vigore il 1° maggio 1999.

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stati istituiti dei “briefing art. 19” tenuti con cadenza settimanale dalla Presidenza del Consiglio UE, in cui il rappresentante di un membro europea del Consiglio di Sicurezza relaziona ai colleghi degli altri membri dell’unione europea sulle principali questioni e decisioni relative al Consiglio.

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