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NOTA A CASSAZIONE CIVILE, sez. II, 19 agosto 2011, n

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NOTA A CASSAZIONE CIVILE, sez. II, 19 agosto 2011, n. 17427 Il danno alla salute, che ha portata tendenzialmente omnicomprensiva, può essere determinato in via equitativa dal Giudice, purché siano indicati in modo preciso i criteri per il suo calcolo.

A cura di Salvatore Magra

Esposizione della vicenda

Una società immobiliare viene in primo grado condannata al risarcimento dei danni, per immissioni eccedenti l’ordinaria tollerabilità, conseguenti a lavori di ristrutturazione, eseguiti al secondo piano di un edificio condominiale. Il Tribunale di Milano determina la condanna in euro 35.000 In secondo grado la condanna viene ridotta a 23.000 euro, in parziale riforma della sentenza impugnata, ritenendo provato l’evento dannoso, in ragione della durata eccessiva dei lavori e per la carenza di organizzazione dei medesimi e procedendo a una liquidazione equitativa del pregiudizio..

La Cassazione, nella sentenza in commento, pur non ritenendo non indispensabile in ogni caso il ricorso ad accertamenti medico-legali, per la determinazione del danno biologico, censura la decisione della Corte d’Appello, per non aver indicato in modo preciso i criteri adoperati, per la suddetta liquidazione in via equitativa, per evitare che la decisione diventi meramente arbitraria, senza alcuna possibilità di controllo, non tenendo conto della circostanza che gli attori hanno iniziato ad abitare il fabbricato in tempi diversi e, in ogni caso, non prendendo in considerazione la presenza di una diversità intrinseca del pregiudizio, subìto da questi, anche per il diverso periodo di tempo, durante il quale ciascuno ha abitato il proprio appartamento.

Sotto altro aspetto, la sentenza della Corte d’Appello considera condominiale il sottosuolo al di sotto dell’area superficiaria, ritenendo legittima l’escavazione effettuata all’interno del locale, di proprietà degli attori, in quanto poco profonda e non invasiva (sotto tale aspetto, in secondo grado viene riformata la sentenza di primo grado). La Cassazione ritiene, invece, che, proprio perché il sottosuolo va considerato parte comune, il singolo condomino non può procedere a scavi, per ampliare i locali di sua proprietà, o per ricavarne altri, senza il consenso di tutti i condomini, ameno che non emerga nel caso concreto un titolo contrario, che renda non condominiale il sottosuolo.

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Per queste ragioni, la cassazione, nella sentenza in commento, cassa con rinvio la sentenza di secondo grado impugnata

Le immissioni e l’art. 844 cod. civ.

La sentenza in commento, partendo dall’analisi di una vicenda d’immissioni eccedenti l’ordinaria tollerabilità, ai sensi dell’art. 844 cod.

civ., si occupa della distinzione fra le caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, rilevando come il pregiudizio patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, nel senso che il medesimo presuppone la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. Cass. 500- 1999, che ha introdotto il principio dell’autonoma risarcibilità del pregiudizio a un interesse legittimo; cfr. anche Cass. SS.UU. 26972-2008, sulla quale v. infra).

Già con la sentenza n. 8420 del 2006, la Cassazione ha affermato che l’art.

844, proprio perché prescrive che, in materia d’immissioni, il Giudice è tenuto a contemperare le esigenze della proprietà e quelle della produzione, prevede come essenziale e prioritaria la protezione del diritto alla salute.

Tale sentenza ha previsto il principio generale, applicato alla fattispecie concreta oggetto della pronuncia adesso citata, secondo cui, anche se un’attività economica sia iniziata prima dell’edificazione di un immobile limitrofo, la medesima può legittimamente venir interrotta dall’Autorità giudiziaria, ove non si siano approntati degli strumenti, al fine di proteggere adeguatamente la salute degli abitanti della costruzione confinante.

L’azione, esperita dal proprietario del fondo danneggiato, da immissioni moleste, rientra fra le azioni reali e ha natura negatoria, avendo la funzione di far valere l’illegittimità delle immissioni moleste e di imporre l’adozione di opportune misure e rimedi, per proteggere l’integrità psico-fisica dei soggetti danneggiati (Cass. SS.UU. n. 10186-1998).

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Va precisato che la disciplina delle immissioni (art. 844 c. civ.) attiene alla tutela di un interesse privatistico e, pertanto resta distinta dalla disciplina pubblicistica, concernente l’inquinamento acustico, elettromagnetico, da elettrosmog, etc, che riguarda la protezione di un interesse collettivo di più ampio respiro.

Non può negarsi, tuttavia, che possa emergere un’interferenza quanto meno relativa fra la disciplina civilistica sulle immissioni e quella pubblicistica sull’inquinamento, anche se non può apoditticamente affermarsi che, ove siano superati i limiti pubblicistici del tasso d’inquinamento, ciò comporti sicuramente la presenza d’immissioni, che si collochino oltre la normale tollerabilità; parimenti, il rispetto dei limiti del tasso d’inquinamento può coesistere con una violazione dell’art. 844 c.civ.. Coerente con tale posizione è ad esempio la decisione della Cassazione n. 1418 del 25 gennaio 2006, secondo cui “In materia d’immissioni, mentre è illecito il superamento dei livelli di accettabilità, stabiliti dai regolamenti, che, disciplinando le attività produttive, fissano, nell’interesse della collettività, lr modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l’eventuale rispetto degli stessi non può far considerare senz’altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dell’art. 844 c.civ.”.

In materia d’immissioni, appare rilevante la seguente massima: “Il risarcimento del danno esistenziale, riconducibile alla lesione di valori costituzionalmente garantiti, quali i diritti fondamentali della persona, non può fondarsi su considerazioni che, sia pure basate sulla comune esperienza, si limitino ad un aspetto interiore della persona lesa, occorrendo la prova dell’incidenza, in concreto, della lesione di valori fondamentali dell’individuo sulle attività realizzatrici del soggetto danneggiato, con conseguente alterazione, di contenuto apprezzabile, della

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personalità del soggetto, sia sotto il profilo personale che relazionale, quindi “esterno”, quale conseguenza del fatto illecito altrui.

Anche se la lesione, è “in re ipsa”, non ne può discendere, quale corollario, come già evidenziato, che il danno debba essere risarcito senza che incomba sul danneggiato l’onere quantomeno di allegare circostanze concrete che ne consentano la prova, anche presuntiva, della sua esistenza, costituendo la lesione di valori costituzionali un semplice indizio, sia pure di valenza pregnante, dell’esistenza del danno che, tuttavia, dovrà essere provato facendo ricorso ai principi generali in tema di onere della prova.

È necessario, in altri termini, fornire la prova testimoniale, documentale o presuntiva che dimostri i “concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato evidenziandosi la possibilità di far ricorso, in tema di danno esistenziale, anche alla prova per presunzione, “mezzo di prova non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella cerchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva” (Cass., 12.6.2006,n.

13546).

Spetterà, pertanto, al danneggiato allegare precise circostanze, di valenza pregnante, atte a formare il convincimento, anche presuntivo, da parte del giudice, delle rilevanza ai fini della lesione della sfera esistenziale, in base a presunzioni semplici, sia pure “iuris tantum”, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico del danneggiante che deve provare, nella fattispecie, che le immissioni, ancorché illecite, non abbiano determinato conseguenze pregnanti nella sfera soggettiva dei danneggiati. (App. Milano, II Sezione civile, 29 Gennaio 2007)”.

Orbene, partendo dalla premessa per cui il danno esistenziale va

“inglobato” all’interno del danno biologico, da intendere in senso omnicomprensivo, si può affermare che la sopra citata posizione giurisprudenziale è coerente con l’orientamento della sentenza in

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commento, la quale afferma “ non potersi accogliere la tesi, che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di danno-evento, ovvero che il danno sia in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso, non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”.

Emerge, in definitiva, la necessità di non rendere automatica la configurazione del pregiudizio da immissioni, ma di verificare con sufficiente rigore la sussistenza del pregiudizio medesimo, al fine di diversificare la protezione quando il danno sia di intensità diversa, in relazione alle vittime delle immissioni.

Va, peraltro, rilevato che in altre occasioni la cassazione ha ritenuto presente in via presuntiva il danno alla salute da immissioni moleste, ove si fosse accertato il superamento della soglia della normale tollerabilità (cfr., per es. cass. 5844.2007); la questione, pertanto, non è pacifica all’interno della giurisprudenza di legittimità.

Il danno non patrimoniale è connotato da tipicità, in quanto si collega alla violazione di puntuali disposizioni legislative, a meno che non si rilevi la violazione di un diritto costituzionalmente protetto. Pertanto, esso ha un ambito meno ampio, rispetto al pregiudizio patrimoniale.

Evoluzione del concetto di danno biologico

Il c.d. “danno biologico” è stato ricostruito in passato dalla giurisprudenza (in particolare genovese e pisana; si veda, ad esempio, Trib. Genova, 25 maggio 1974, in Giur. It., 1975, I, 2, 53 ss.),come pregiudizio, consistente nella lesione dell’integrità psico-fisica in sé e per sé considerata, a prescindere dalla capacità di produrre reddito.

Il danno alla salute, peraltro, non è letto in modo univoco dagli interpreti;

una prima lettura del concetto reputa che il medesimo abbia pur sempre un collegamento con la sfera patrimoniale del soggetto, vittima del pregiudizio

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e questo percorso logico è compiuto, attraverso un’interpretazione estensiva del concetto di patrimonio, tale da far ricomprendere nella nozione la sfera personale del soggetto; un’altra interpretazione, invece, sgancia il pregiudizio alla salute dall’aspetto patrimoniale.

Secondo che il danno biologico sia letto come patrimoniale o non patrimoniale (ma non è mancata la tesi, che ha configurato l’esistenza di un

“tertium genus” di danno), il medesimo viene normativamente collegato all’art. 1223 cod. civ. e, probabilmente con una forzatura, si aggancia normativamente il medesimo alle componenti patrimoniali del danno emergente e del lucro cessante, oppure all’art. 2059 cod. civ., che disciplina il danno non patrimoniale.

Emerge il progressivo, condivisibile collegamento fra pregiudizio all’integrità psicofisica della persona e l’art. 32 Cost., come già riscontrabile nella sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 26 Luglio 1970, in cui si afferma che il diritto alla salute riguarda non solo la collettività, ma anche il singolo individuo.

Viene esplicitata la precettività dell’art. 32 Cost. anche nei rapporti intersoggettivi, contestualmente affermando la risarcibilità del pregiudizio all’integrità psico-fisica, quando la medesima si colleghi a una relazione interpersonale fra consociati. La sentenza adesso citata rappresenta un punto di partenza importante, per sollecitare l’attenzione sulle disposizioni costituzionali in materia, in modo da pervenire, attraverso l’interpretazione di esse, a un’oculata ricostruzione del dato normativo, desumibile dal codice civile. La menzionata sentenza della Consulta colloca il danno biologico, nell’ambito del danno non patrimoniale, in rapporto all’art. 2059 cod. civ., che, pertanto, è considerato disposizione, che attiene alla tutela di qualsivoglia pregiudizio reddituale, al di là del c.d. danno morale (pretium doloris).

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Già in questa fase s’ipotizza che il danno alla salute possa essere risarcito, mediante una valutazione equitativa (il profilo è rilevante, in rapporto alla sentenza in commento), con la sottolineatura dell’inconveniente che una valutazione siffatta possa portare a risultati paradossalmente “iniqui”, per l’inevitabile discrezionalità, attraverso cui viene effettuata la valutazione equitativa, da parte di soggetti giudicanti diverso, in rapporto a vicende, di volta in volta affini o differenti. Si avverte l’esigenza di collegare la valutazione equitativa a taluni punti di riferimento “tangibili”, in modo da attenuarne la discrezionalità, anche per evitare il sempre possibile pericolo che la medesima trascenda in arbitrium merum. A tali fini si adottano diversi parametri, quali il triplo della pensione sociale (giurisprudenza pisana), o il risarcimento per punto d’invalidità (giurisprudenza genovese) La nota lettura del danno biologico come violazione congiunta dell’art.

2043 c. civ. e dell’art. 32 Cost. è dovuta alla fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 184 del 30 Giugno 1986. Il danno alla salute viene sganciato dalla tutela, offerta dall’art. 2059 c. civ, e fatto rientrare nella previsione del principio del neminem laedere, di cui all’art. 2043 c. civ.. Il pregiudizio biologico è interpretato come “danno evento” e, pertanto, viene incorporato nella nozione di “danno ingiusto”, di cui all’art. 2043, risarcibile automaticamente, ove si riscontri una violazione dell’art. 32 Cost., riguardante il diritto alla salute della collettività e del singolo.

La portata della sentenza 184 della Consulta è probabilmente ridimensionata dalla circostanza che la medesima è costruita, così come si presenta, soprattutto al fine di “salvare” l’art. 2059 c,civ., come si desume da questo passo della decisione (la quale è una sentenza interpretativa di rigetto proprio della censura di costituzionalità, mossa all’art. 2059 c.civ.):

se nell'ordinamento non esistessero altre norme o non fossero rinvenibili altri principi relativi al danno biologico e, pertanto, quest'ultimo fosse risarcibile solo ai sensi dell'art. 2059 c.c. e cioè, salve pochissime altre

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ipotesi, soltanto nel caso che il fatto costituisca (anche) reato e relativamente ai soli (conseguenti) danni morali subiettivi, si porrebbe certamente il problema della costituzionalità dell'art. 2059 c.c.”.

In un momento successivo, si contesta la configurabilità del danno biologico come danno-evento, per considerare il medesimo come danno- conseguenza, così come impostata nella sentenza 186 e già la sentenza Cass. 3 luglio 2001 n. 9009 riconduce il danno alla salute nel disposto dell’art. 2059 c,.civ., così come confermato dalle note sentenze “gemelle”

delle Sezioni Unite Cass. 31 maggio 2003 n. 8827 e 8828. L’art. 2059 viene interpretato estensivamente e, in particolare, si afferma che

“(…)Venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l’art. 2059 del codice del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p. (ma v. anche l’art. 89 c.p.c.), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.”

Pertanto, ogni volta che si leda una disposizione costituzionale, ivi compreso l’art. 32 Cost., ove questa violazione si traduca in un pregiudizio a un diritto inviolabile dell’uomo, ciò implica la presenza di un danno da risarcire, anche in assenza della configurabilità di un reato penale, ai sensi dell’art. 185 c.p.. Le sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite della Cassazione riconducono il danno alla salute nell’ambito del danno non patrimoniale, attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c. civ., ricomprendendo nella nozione più ampia di danno non patrimoniale anche quello morale ed esistenziale. Si suole affermare che con le sentenze del 2003 la Cassazione crea un sistema “bipolare”,

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fondato sulla dicotomia danno patrimoniale (da collegare all’art. 2043 c.

civ.) e danno non patrimoniale (da collegare all’art. 2059).

Il senso precipuo delle sentenze gemelle del 2003 è avallato anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza 11 Luglio 2003, n. 233, nel tentativo di rendere indenne l’art. 2059 da censure d’incostituzionalità (si rilevi come l’intento essenziale sia affine a quello, che ha dato origine alla sentenza 184-1986, ma come l’approdo interpretativo, relativo all’art. 2059 sia ben diverso, a seguito dell’assetto giurisprudenziale, venutosi a creare dopo la svolta del 2003, nel senso che adesso il danno non patrimoniale viene nuovamente ricondotto all’interno dell’art. 2059).

Il permanere delle incertezze sul danno biologico, anche dopo la sopra sintetizzata vicenda giurisprudenziale, spinge il Legislatore a incorporare e definire il medesimo nel c.d. “Codice delle Assicurazioni private” (artt. 138 e 139 Decreto 209-2005), in cui il danno alla salute è identificato (e la definizione può considerarsi rilevante anche per materie diverse da quella assicurativa, come affermato anche nella sentenza in commento) nella lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona.

E’ importante rilevare come presupposto, per potersi esprimere in termini di danno biologico, secondo la legge, è rappresentato dalla circostanza che la lesione della salute deve essere suscettibile di accertamento medico- legale e deve esplicare un concreto pregiudizio sulla quotidianità e sulla vita relazionale del danneggiato, a prescindere da ripercussioni sulla capacità di produrre reddito. Viene, pertanto, sganciata la protezione del pregiudizio biologico dall’aspetto meramente economico-patrimoniale e riconfermata l’idea della non patrimonialità del diritto alla salute.

Partendo da questa definizione, gli interpreti elaborano una componente

“statica” del danno biologico, che riguarda la lesione psico-fisica, considerata da un punto di vista medico e una componente “dinamica”

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dello stesso, che afferisce alle conseguenze della menomazione sopravvenuta sull’attività della vittima del pregiudizio. Il danno alla salute ingloba, nel tempo, talune ipotesi di pregiudizio, dapprima considerate autonomamente (danno alla vita di relazione, danno alla sfera sessuale, etc.;

in giurisprudenza aderiscono a tale impostazione C. civ. 8.6.2007, n.

13391; C. civ., 12.1.1999, n.256).

Con la sentenza 26972-2008, le Sezioni Unite della Cassazione ritornano su danno non patrimoniale, con una decisione (avallata dalla sentenza in commento) secondo la quale Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. Non può, dunque, farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno esistenziale", perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità.

Viene contestualmente attribuita portata omnicomprensiva al danno biologico, anche in tal caso secondo un orientamento condiviso dalla sentenza in commento, ove la sentenza delle Sezioni Unite del 2008 è espressamente citata, anche a partire dalla generale definizione, che di questo pregiudizio è data nel Codice delle Assicurazioni private. La sentenza 26972 riprende e avalla l’impostazione delle sentenze gemelle del 2003, ma rifiuta un’autonoma nozione di danno esistenziale e di danno morale soggettivo, in quanto occorre pur sempre far riferimento ai diritti costituzionalmente tutelati, a partire dall’art. 2 Cost., con un’interpretazione, che dia spazio anche a diritti “innominati”, vale a dire non previsti espressamente nella Costituzione, ma desumibile da un’oculata interpretazione della medesima, con conseguente rifiuto della teoria del

“numero chiuso” dei diritti inviolabili dell’uomo. Viene ribadita in questa pronuncia delle Sezioni Unite il dissenso verso la tendenza a prevedere il risarcimento dei danni “bagatellari”, che implicano un pregiudizio

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trascurabile per i singoli. In quest’ottica, le Sezioni Unite affermano che “Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza”.

“Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.”).

Emerge, come rileva la sentenza della Cassazione in commento, una tendenziale portata “globale” del danno biologico, che ricomprende i pregiudizi di natura “esistenziali”, considerabili come mere “voci”, da racchiudere nella omnicomprensiva nozione di danno alla salute, con esclusione di quei pregiudizi, quali disappunti, ansie, i quali non arrivano alla soglia del pregiudizio economicamente risarcibile. E’ nota, su questo aspetto, la tendenza, emersa in passato, specialmente nell’ambito della giurisprudenza dei Giudici di Pace, a reputare risarcibili anche pregiudizi obiettivamente futili, quali, ad esempio il fastidio, causato da un taglio di capelli, non effettuato in conformità al gusto del Cliente. Tale tendenza, avallata da taluni interpreti, viene nella sentenza in commento respinta dalla Cassazione (conformemente alla decisione delle Sezioni Unite del 2008 citata), la quale ritiene del tutto immaginaria la presenza, nel nostro ordinamento di un diritto alla qualità della vita o allo stato di benessere.

La sentenza in commento rileva come appaia necessario che il Giudice in motivazione indichi gli elementi di fatto e i criteri, adottati in concreto, per

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liquidare il pregiudizio alla salute, quando non si sia proceduto a un rigoroso accertamento medico-legale, ma si adoperi lo strumento della valutazione equitativa, per ovviare al rischio di arbitrarietà nella traduzione in termini monetari del pregiudizio. Ove si intenda attribuire al danno biologico natura compensativa, è necessario che il medesimo sia personalizzato, anche quando si utilizzi lo strumento dell’equità.

Da questo presupposto si comprende la censura mossa dalla Cassazione alla Corte d’Appello, ritenendo il Giudice di legittimità che, nel secondo grado di giudizio, non si sia proceduto a una indagine sull’effettiva esistenza ed entità del danno subìto, non potendosi reputare, secondo la Cassazione, il semplice turbamento della tranquillità familiare un valore costituzionalmente protetto

Può riflettersi, in ogni modo, sull’esistenza di una gradazione dell’intensità di un turbamento alla tranquillità familiare. Ciò ha rilievo anche nel caso concreto, in quanto la Cassazione censura la condotta della Corte d’appello, nella parte in cui la medesima ha quantificato allo stesso modo il pregiudizio, causato dai lavori ai vari attori, sotto il profilo dell’esistenza d’immissioni, eccedenti l’ordinaria tollerabilità, quando la medesima Corte avrebbe dovuto diversificare l’indagine, tenendo conto della circostanza che i medesimi attori hanno iniziato ad abitare nel fabbricato in tempi diversi e hanno abitudini di vita differenti. Tali presupposti rendono arbitraria, ove non adeguatamente motivata, la presunzione che l’effettuazione di lavori particolarmente rumorosi provochi in soggetti diversi, un pregiudizio, economicamente quantificabile in modo identico.

Nella nostra vicenda, la Corte d’Appello ha proceduto a ridurre l’importo, dapprima liquidato dal Tribunale, affermando che gli attori, per i propri impegni professionali, trascorrevano un rilevante lasso di tempo fuori casa.

Sarebbe stata opportuna una maggiore precisazione di tale circostanza.

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La decisione della Corte d’appello appare, secondo la Cassazione, censurabile, in quanto confonde la lesività dell’evento (immissioni, oltre l’ordinaria tollerabilità) con la prova del medesimo, attraverso un’adesione alla tesi, già sostenuta dal Tribunale in primo grado, secondo cui, in ipotesi d’immissioni, il danno è in re ipsa. L’interpretazione dell’art. 1226, riguardante la valutazione del danno secondo equità, condotta dalla Cassazione, attraverso un esame degli atti processuali, implica, invece, che occorra provare in modo sufficientemente rigoroso il pregiudizio all’integrità psico-fisica (e ciò anche in caso d’immissioni ex art. 844 cod.

civ.). Nella nostra ipotesi, si sarebbe dovuto considerare anche la diversità del periodo di tempo, durante il quale ciascun attore ha dovuto subìre le immissioni. In definitiva, la Corte d’appello, nella sua decisione, non ha proceduto a illustrare in modo esauriente le ragioni, che hanno indotto il medesimo Giudice a procedere a una riduzione della quantificazione del pregiudizio, originariamente individuato dal Tribunale, e i criteri, adoperati, per effettuare la valutazione equitativa. L’esigenza di una compiuta indicazione dei criteri emerge nella nostra vicenda in modo ancora più intenso, proprio per la non quantificabilità, in questa specifica ipotesi del pregiudizio, attraverso un accertamento medico-legale.

Va, in ogni modo, rilevato come alcuni anni orsono la Corte di cassazione abbia sostenuto che l’unico maniera per quantificare danno biologico e morale è il ricorso alla valutazione equitativa del giudice, perché tali pregiudizi sono di natura non patrimoniale. (Cassazione Sentenza 11 gennaio 2007, n. 394), con possibilità, per il Giudice, di usare, nella quantificazione, criteri standardizzati, quali le tabelle, presenti presso gli uffici giudiziari, o il valore medio del punto d’invalidità.

Secondo la Cassazione, Sezione lavoro 8 marzo 2011, n. 5437 nel quantificare il danno biologico, il giudice non può limitarsi a richiamare il criterio dell'equità e ad individuare una somma in modo apodittico, come si

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è fatto nel caso in esame: infatti, il medesimo deve giungere alla determinazione, mediante una valutazione medico legale. La via più naturale è, appunto, quella di svolgere una consulenza medico legale, ma il Giudice può anche effettuare direttamente tale valutazione, a condizione che basi la sua scelta su di un fondamento medico legale.

L’interprete, pertanto percepisce una significativa oscillazione giurisprudenziale, quanto alla questione se il danno biologico possa o no essere quantificato mediante valutazione equitativa. Ciò suggerisce notevole cautela riguardo all’utilizzo in concreto dello strumento dell’equità e l’indicazione esauriente dei criteri utilizzati, con una opportuna personalizzazione del computo del pregiudizio alla salute..

Avv Salvatore Magra

Pubblicato il 20 ottobre 2011

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