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«dimostrando di essere più imbecille della sua sorella ritardata.» concluse una voce che fece trasalire Larica. La somma sacerdotessa sembrava un

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Academic year: 2022

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Cap. 21

Larica aprì gli occhi tutto d’un tratto. Di solito non aveva il sonno pesante, ma la sera prima aveva tirato fin troppo tardi con l’interrogatorio al tempio…

L’elfa scura ci mise un attimo a riprendersi dal torpore e a ricordare. Non ebbe neppure bisogno di guardarsi in giro ed inquadrare l’arredamento sobrio e la finestra senza tende per avere ben presente che aveva appena trascorso la prima notte della sua vita nella foresteria di un tempio di Es’el.

Era una consapevolezza che, a modo suo, dava i brividi.

«Signorina Larica, sarebbe meglio che si svegliasse…» la chiamò la reverenda Alysse bussando con una certa urgenza. Nonostante fosse delle sue parti la sacerdotessa era molto più educata della media dei preti dracifori: bussava invece di aprire la porta e buttarti giù dal letto.

Larica strisciò fuori dal materasso, starnutì, si stropicciò gli occhi ed arpionò il vestito che la sera prima aveva faticato ad appendere alla sedia.

«Entri pure.» fece.

«Sarà meglio che esca lei. Ary… la somma sacerdotessa… vuole che la accompagni nella città degli elfi, ed ha abbastanza fretta.»

L’elfa scura entrò nel vestito con una velocità che non aveva mai tentato prima, senza accertarsi che non ci fossero pieghe indesiderate e senza troppo riguardo per trine e bottoni.

La sera prima la somma sacerdotessa aveva fatto alcuni discorsi generici, di quelli che ci si aspettava da una donna che ricopriva la sua carica, ma per lo più aveva ascoltato. Larica aveva persino pensato, in certi momenti, che la reverenda madre non capisse un accidenti di quello che lei stava dicendo.

Poi l’aveva guardata negli occhi ed aveva compreso che in realtà non le era sfuggito niente.

Adesso, come ciliegina sulla torta, si aggiungeva un certo nervosismo nella voce della reverenda Alysse, che pure doveva essere parecchio legata alla somma sacerdotessa… tanto che nella fretta l’aveva chiamata per nome invece che per titolo davanti ad un’estranea.

L’anziana sacerdotessa finì per aprire la porta.

«Mi dispiace, ma dovrà saltare la colazione.» fece, piacevolmente sorpresa dalla fretta con cui l’elfa scura si era vestita «Abbiamo riflettuto sulla storia che ci ha raccontato, e ora che la decisione è stata presa dobbiamo metterla in atto al più presto.»

«Ma… perché dovrei accompagnare la somma sacerdotessa? Mi sfugge…»

«Perché c’entra anche lei, dopotutto. Non siamo contenti del fatto che loro l’abbiano presa a calci come se fosse stata colpa sua se il figlio viziato di una famiglia ricca si è messo in guai da cui avrebbe dovuto tenersi lontano…»

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«… dimostrando di essere più imbecille della sua sorella ritardata.» concluse una voce che fece trasalire Larica.

La somma sacerdotessa sembrava un’altra persona rispetto alla sera prima: il suo sguardo tagliava come la lama di ossidiana di un coltello da caccia ledoniano, e dal suo corpo magro trasudava un’energia che pareva essere comparsa durante la notte.

«Davvero, Alysse… questi bastardi non vogliono farci crepare in pace, eh?» concluse amaramente la donna dalla lunga treccia, poi afferrò Larica per un braccio e se la trascinò via. Aveva una forza da uomo, pensò l’elfa scura, oppure era semplicemente una donna robusta arrabbiata come una tigre a cui qualche incauto ha appena pestato la coda.

«Sai andare a cavallo?» chiese la sacerdotessa dopo essersi trascinata la preda designata per un paio di lunghi corridoi.

«Mah… sarei un’elfa scura…» rispose Larica.

«Quindi è un no.»

«Un paio di volte ci ho provato, ma preferisco la bicicletta.»

«Se vedessero arrivare mio figlio in bicicletta avremmo perso tutto l’elemento “autorità”. D’altra parte sarebbe lo stesso se arrivassimo a piedi. Non volevo usare la magia, non è che mi piaccia tanto… ALYSSE!»

Larica si rammaricò che quel primo vero ruggito della tigre fosse stato emesso proprio nel suo sensibilissimo orecchio sinistro e si preparò ad essere trascinata a mò di valigia in una direzione che non poteva più essere il cortile esterno dove adesso i cavalli avrebbero potuto fare comodamente colazione.

<Beati loro, peraltro.> si disse l’elfa scura, anche se non era la colazione quello che invidiava.

Si era sentita molto sicura, la sera prima, che la sua parte fosse finita. Aveva avvertito Madro, peraltro inutilmente, che ci poteva essere un investigatore privato in giro per Naktor, aveva comunicato alle autorità di Roskovia che c’erano dei seri problemi nella città degli elfi e li aveva convinti a prendere in mano la situazione di Mizar in modo che Lupetta non venisse coinvolta e saltassero fuori eventuali appunti di Yelami. Un ottimo lavoro nell’ombra, una delazione da perfetta spia. Il suo primo maestro tanto ben ammanigliato con le cosche sarebbe stato fiero di lei.

Nessuno, aveva pensato, si sarebbe preso la briga di coinvolgerla. Era un’estranea, era un’elfa scura, era una ragazzina poco più che ventenne arrivata dalla Bolgia del Caos.

Adesso, però, era tutto scombinato. La ragazzina estranea che lavorava nell’ombra come ogni brava piccola spia delle cosche si trovava ad essere trascinata sotto i fari dell’ufficialità da una mano dalla quale non poteva divincolarsi.

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Larica non sapeva cosa fosse passato per la testa alla somma sacerdotessa di quel tempio del cavolo sperduto fra la giungla e una gran bella cittadina turistica, ma non le piaceva per niente.

«Signora, però perché vuole usare la magia se non le piace?» tentò l’elfa scura, considerato che per liberarsi dall’incombenza di doversi presentare dagli elfi al seguito di un’allegra compagnia di templari il calcio in uno stinco al loro capo era fuori discussione «So dov’è la città degli elfi… voi potete andare a cavallo e poi io vi raggiungo…»

La somma sacerdotessa si fermò, e Larica le rivolse uno sguardo con i suoi migliori occhioni blu.

Come immaginare che una tale dolce bambolina sarebbe riuscita a perdere deliberatamente la strada per arrivare, al limite, a lavoro finito?

«No.»

Evidentemente la somma sacerdotessa doveva aver immaginato. Oppure era il classico tipo che decideva una cosa e non se ne allontanava di un millimetro neppure se le atterrava un drago sul bordo della vasca da bagno. Larica immaginò una scena del suo passato che doveva per forza comprendere il padre di suo figlio che scappava a gambe levate e con le mani nei capelli.

«Ma…» azzardò Larica.

Inutile mettersi a discutere con un prete dei rischi della magia. Se lei si fosse teletrasportata dopo aver studiato l’incantesimo con tutte le precauzioni e l’attenzione del caso si sarebbe come minimo rimaterializzata in una concimaia o a due metri dal suolo con tanto di atterraggio sul fondoschiena e sequenza interminabile di bestemmie che avrebbero fatto invidia a Nick. Loro avrebbero fatto una breve cerimonia, senza nessuna attenzione e nessun fronzolo, e tutto sarebbe andato benissimo.

Erano semplicemente, disgustosamente, templari all’inseguimento della giustizia.

«In quanti pensate di andare?»

«Hai paura degli elfi?» La somma sacerdotessa si grattò la nuca con la mano che non stava trattenendo la sua preda. In fondo non era neppure una cattiva donna. Era solo un capo dei templari, e non lo era diventata per caso. «Non preoccuparti, non sono più quelli di un tempo.»

<Certo… tutti tranne una.> pensò Larica mentre la sacerdotessa finiva di trascinarla nella stanza in cui si sarebbe consumato il teletrasporto nella versione dei templari.

Una cafonata. Madro non avrebbe saputo descrivere in altro modo quello che era appena stato portato a termine dai templari. Erano scomparsi in un istante dal complesso disegno inciso in una luminosa stanza del tempio ed erano apparsi con millimetrica precisione in mezzo al Consiglio

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Cittadino degli elfi di Roskovia, inondando la radura con un’esplosione di luce e scintille che ricordavano tanto le fiamme della degna ira del giusto.

<Oh, merda…> aveva pensato Larica ancor prima di inquadrare le facce di tutti gli astanti.

Il figlio della somma sacerdotessa coordinò le operazioni con qualche gesto secco e rapido, sicuramente già deciso a tavolino, e sei templari molto imponenti e robusti presero posto in mezzo agli scranni e ai tronchi ben ripuliti, piazzandosi in punti che dire strategici era poco.

Larica spostò rapidamente lo sguardo sulla prima persona conosciuta che individuò. Lupetta non era del tutto stupita, e sembrava lievemente sollevata. Gatta, accanto a lei, era balzata su come se qualcuno le avesse fatto appena notare che si era seduta su uno scorpione, e Larica ebbe appena il tempo di catturare un balenio del suo sguardo e della sua espressione prima che la somma sacerdotessa si piazzasse fra loro e le coprisse la visuale.

«Allora, che si fa?!» sbottò la donna. La sua lunga treccia scura oscillò come un serpente su un albero proprio davanti al naso di Larica. «Si prendono decisioni del cavolo senza consultare proprio nessuno?! Cosa pensate di fare, ad essere più monarchici della Celeste Regina del Sisshan?!»

Eshar fece un passo indietro e andò a piazzarsi accanto ai genitori di Mizar. Larica si voltò e notò che il padre era diventato verde come un ramarro, mentre la madre stava raggiungendo lo stesso tono di bianco che caratterizzava le lapidi di marmo dei defunti sindaci di Yor.

«Un uccellino mi ha detto che in futuro pensavate di proibire ai ragazzi della città degli elfi di andare a una scuola di magia…» La somma sacerdotessa si tolse da davanti a Larica e l’elfa scura si sentì trafiggere da una raffica di frecce avvelenate. Fortunatamente, pensò, erano in tempi civili e si trattava solo di frecce virtuali e non fisiche come accadeva qualche secolo prima.

«E per cosa avreste preso questa decisione?» continuò a inveire la sacerdotessa «Tra parentesi se fossi stata io a prospettare, anche ipoteticamente, una cosa del genere, avreste fatto un putiferio mostruoso, mi avreste dato del mostro, dell’inquisitrice, dell’assassina… neanche se i vostri figli li avessi bruciati su una catasta di legna impeciata!»

In effetti, si concesse il lusso di pensare Larica, la signora non aveva torto.

«E tutto questo… perché?» La somma sacerdotessa saettò di fronte al più folto gruppetto di anziani.

«Perché due vostri stupidi concittadini non hanno saputo educare il loro figlio?!»

Se un mostro della giungla si fosse materializzato ruggendo nel mezzo alla situazione non vi sarebbe stata una reazione più agghiacciata.

«Joril…» Evidentemente “Ary” doveva conoscere la madre di Mizar da tempo, oltre a non apprezzarla. «Mi hai sempre fatto pena, ho cercato di aiutarti, ho fatto tutto il possibile per darti una mano con quello che è successo…»

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L’arcano fu svelato in meno di un attimo, ed era la cosa più logica del mondo: Ary era una sacerdotessa, Joril aveva dei figli malati. Non era così difficile capire come dovevano essersi conosciute.

«Ho potuto fare ben poco per voi, certo…» La voce della somma sacerdotessa si addolcì per un attimo, e Larica sentì il sangue batterle nelle orecchie. Quella donna doveva essersi fatta un discreto mazzo per aiutare la famiglia di Mizar, e lei era andata a scoperchiare proprio il più grosso vespaio di tutta Roskovia. Non aveva idea che potesse esserci un legame del genere, certo… non tutti i preti erano carogne come quelli di Yor… ma avrebbe potuto anche vagamente immaginarselo.

«Non credo si potesse fare molto di più, in effetti. Ma speravo almeno di avervelo fatto accettare.»

Ary continuava a tenere la voce bassa. «Forse è stata colpa della mia superficialità…»

Larica fece un passo indietro.

«Ma non hai capito proprio un accidenti, ur grug’na!» finì la somma sacerdotessa con un’imprecazione da scaricatore di porto in lingua ledoniana. «Ti sei attaccata a tuo figlio come una sfottuta cozza, e l’hai viziato da fare schifo, brutta cretina! L’hai fatto diventare un bamboccio buono a niente, e non è colpa né di tua cugina né dell’Accademia di Naktor se tuo figlio è diventato un tale pezzo di merda da vendere Abigairv come se fosse un maiale da salsicce!»

A furia di indietreggiare Larica finì per urtare qualcuno, e dato che la persona le mise le mani sulle spalle lei capì ancor prima di voltarsi che si trattava di Lupetta.

«Certo che me lo potevi dire…» bisbigliò l’elfa scura, ma la matrona scosse la testa.

«Temo che sia andata come doveva andare.» rispose.

«Filosofia spicciola… queste ora fanno a ceffoni…»

Joril era ancora seduta sul tronco ripulito, e Larica notò che si torceva le mani ed aveva un cuscino sotto il sedere. Il padre di Mizar, invece, si era alzato in piedi, ma non diceva niente e non faceva una gran bella figura. Somigliava proprio a suo figlio, come due gocce d’acqua.

«Siete stati voi a rovinare vostro figlio!» concluse la somma sacerdotessa, ed i due sembrarono accusare il colpo.

«Però…» iniziò a frignare il padre «Voi non siete stati in grado di curare le bambine, e come vi permettete di farci la predica… è naturale che noi vogliamo bene a Mizar, e cosa volete fargli, voi?»

«Credi che ci tenga a vedere quel moccioso idiota di tuo figlio a marcire in una prigione occidentale?» ribatté la somma sacerdotessa «Io conosco Mizar, conosco voi e so benissimo di chi sono le colpe!»

«Cosa volete fare, allora?!» ruggì Gatta facendosi avanti. Era solo una questione di tempo, pensò Larica, e si era trattenuta fin troppo. «Metterlo nell’asilo infantile?!»

La somma sacerdotessa si voltò verso di lei e la fissò con un’occhiata gelida.

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«E tu piantala. Ora non sono più affari tuoi.»

Era drammaticamente vero, ma era una pessima idea dirlo in quel modo a una come Gatta.

Da quando Larica la conosceva la bionda aveva sempre avuto diversi problemi relazionali, ma con i preti e più in generale con le persone potenzialmente pericolose i problemi si acuivano ancora di più, arrivando a superare ampiamente le soglie dell'autolesionismo.

Gatta scattò in piedi e puntò un dito contro la somma sacerdotessa, non senza che un paio di templari alzassero rapidamente i tacchi per acchiapparla nel seppur remoto caso che da quel dito partisse qualcosa di un po' troppo irrispettoso, per esempio una palla di fuoco.

Ma da come l'elfa scura la conosceva, Gatta aveva ben poco bisogno di palle di fuoco quando tentava di incenerire qualcuno.

«Se questa cosa fosse successa in Occidente» ebbe la pessima idea di dire «non sarebbe stata conclusa così a tarallucci e vino. Ci sono templari seri, lì... »

Un paio di occhi verdi saettarono intorno, segno che cercava qualcuno su cui riversare un'altra caduta di stile.

«... non raccomandati che non sanno neanche andare in bicicletta. »

Eshar, e questo andava senza dubbio a suo onore, non accusò il colpo. Non rispose neppure, forse anche perché era sollevato dal fatto che la maga inviperita non avesse tentato nessun brutto trucchetto contro sua madre.

«Mizar ha cercato di vendere Abigairv a Yelami Marizil, in fondo a tutto.» continuò Gatta ignorando a bella posta i due templari «E voi sapete chi era Yelami Marizil, e cosa faceva? Vi siete mai chiesti perché gli stessi maghi della sua accademia l'hanno impiccata come un'assassina da strada? Ve lo dirò... Yelami Marzil non era una scienziata. Era un rettile. Una driade dal sangue freddo per cui noi “mammiferi” non eravamo che animali inferiori di cui poter disporre come meglio preferiva.»

Per fortuna non c'era nessuna driade né loro più o meno diretti parenti. Forse solo Mongara sarebbe stata deliziata ed avrebbe risposto con una serie di battute sconclusionate e risate sguaiate. Larica non sapeva dire se Gatta stesse facendo un buon discorso in quel contesto oppure si stesse scavando la fossa come avrebbe fatto in molti altri posti del continente.

«Anche Mizar lo sapeva. E adesso volete trattarlo con riguardo, anziani del Consiglio? Volete riaccoglierlo nella vostra comunità, perché magari possa fare da maestro ai vostri bambini, perché trasmetta loro dei sani insegnamenti?»

La giovane maga sogghignò.

«Se mi chiedeste “ti piace l’idea che Roskovia non mandi più ragazzi alle Accademie dell’Arte?”

non credo che risponderei che la cosa mi piace, perché non sono esattamente luoghi di perdizione.

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Ma di sicuro non sono neanche un posto dove manderei ragazzi cresciuti senza una base morale che permetta loro di capire che vendere una povera invalida… sorella, cugina, perfetta estranea, gnoma delle paludi… perché una specie di scienziato ci faccia esperimenti da viva non è una cosa da farsi, neppure per fare la più brillante delle carriere. »

Il ragionamento di Gatta, per quanto moralmente ineccepibile, escludeva tre quarti degli elfi scuri, pensò Larica. Magari non avrebbero venduto la sorella, ma sulla cugina avrebbero potuto anche farci un pensierino.

«Molto strana, però, questa relatività morale in un posto tanto vicino a un rinomato tempio di Es’el, dio della giustizia…»

La somma sacerdotessa si spostò di qualche passo e si piazzò di fronte a Gatta.

«Vuoi il mio posto, bambolina?» ringhiò «Se ti piace tanto prenditelo, mi sarei anche rotta le scatole di farmi criticare da tutti, anche se piove… vieni pure, vieni a fare l’inquisitrice… vediamo un po’

quanto riusciresti a farla durare, questa città!»

«Voi avete cercato di addomesticarci, certo… perché vi facevano comodo gli elfi domestici vicino a quella bella cittadini piena di turisti e di gente che con i turisti faceva tanti bei soldi che elargiva anche al vostro tempio perché gli avevate addomesticato gli elfi… ancora una cinquantina d’anni e magari ci avreste anche fatto fare i fenomeni da baraccone… venghino, signori, venghino a vedere i feroci ledoniani… fate le facce cattive, ragazzi…»

Fra gli elfi iniziò a sollevarsi un certo brusio. Quelli del Consiglio erano troppo scaltri per dire qualsiasi cosa, ma i giovani stavano apprezzando le parole di Gatta.

All’improvviso, però, la giovane maga impallidì e crollò a terra in preda alle convulsioni.

«Porca miseria, un attacco epilettico!» urlò Lupetta scansando la somma sacerdotessa e precipitandosi a soccorrere la nipote «Era da un bel pezzo che non le venivano… Larica, presto, vieni a aiutarmi! Dobbiamo riportarla a casa e darle una medicina!»

L’elfa scura non aveva mai saputo che Gatta fosse epilettica o lo fosse mai stata, ma anche se tutto era molto sospetto era l’unica soluzione per evitare che i templari arrestassero lei invece che Mizar… e nel suo caso avrebbero forse anche buttato via la chiave.

E la cosa più drammatica era che Gatta aveva ragione.

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