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(1)

CAPITOLO 1

APPLICAZIONE DEL METODO DEI MOMENTI

ALLA RISOLUZIONE DELLA EFIE

1.1 FORMULAZIONE GENERALE DEL METODO DEI MOMENTI

Il Metodo dei Momenti (Method of Moments), che nel seguito indicheremo con MoM, è un algoritmo numerico che consente la risoluzione in forma approssimata di una qualunque equazione differenziale.

Con tale algoritmo, in particolare, è possibile ridurre equazioni funzionali in equazioni matriciali, permettendo di ottenere la soluzione tramite una semplice inversione della matrice risolvente.

Consideriamo due spazi vettoriali V e W, e due vettori f e g tali che

fV e g∈W; consideriamo inoltre un’applicazione lineare L:V W tale che:

(2)

L(f)=g . (1.1) Supponiamo ora che siano g noto (eccitazione) e f incognito ( l’incognita del nostro problema).

Data una base completa {fn} dello spazio V, possiamo proiettare f su tale base e scrivere:

f =

n n

f

n

) (

1.2

)

dove i coefficienti αn sono le coordinate di f rispetto a {fn}: il problema si riduce quindi alla ricerca degli αn.

Poiché in generale la base {fn} avrà infiniti elementi, dobbiamo introdurre una prima approssimazione considerando solo un numero finito N di funzioni di base, e ottenendo così:

f ≅

=

N

n 1 n

f

n

) ; (

1.3

)

gli αn , n=1,..N, rappresentano le coordinate nel sottospazio V’, generato dalla base {fn} , dell’elemento approssimato f*. Quest’ultimo è tale che il vettore errore {f-f*} ha norma minima, ossia {f-f*}

N n 1=

⊥ V’ (il metodo dei momenti è infatti noto anche come metodo dei minimi quadrati).

Sostituendo la (1.3) nella (1.1), e tenendo conto della linearità dell’operatore L, otteniamo:

(3)

=

N

n 1 n

L(f

n

)] ≅g

(1.4)

Introduciamo adesso la seconda approssimazione: definiamo un set limitato di funzioni w1,..., wN, dette funzioni peso, ed effettuiamo il prodotto interno1 tra ciascuna funzione del set e la (1.4). Otteniamo un sistema del tipo:

>

<

>

<

>

<

=

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

g

w

g

w

g

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

N N N N N N N

,

...

,

,

...

)

(

,

...

)

(

,

)

(

,

...

...

...

...

...

...

)

(

,

)

(

,

)

(

,

...

)

(

,

)

(

,

2 1 2 1 2 1 2 2 1 2 1 2 1 1 1

α

α

α

Se la matrice risulta non singolare, può essere invertita, ottenendo quindi il vettore (

α

1

, α

2

,

...,

α

N ); da esso si risale, tramite la (1.3), ad una

approssimazione di f. (1.5)

(4)

1.2 FUNZIONI PESO

La scelta degli insiemi di funzioni {fn} e {wn 1N= m} è di

fondamentale importanza. Essi influenzano infatti sia l’attendibilità dei risultati ottenuti, sia l’onere computazionale per il calcolatore.

N m 1=

Consideriamo innanzitutto le funzioni peso. Esse dovranno essere linearmente indipendenti, e tali da poter descrivere facilmente la funzione

g. Poiché tale scelta influenza la complessità di calcolo dei prodotti interni

nella (1.5), si dovrà cercare un compromesso tra accuratezza della soluzione e onere computazionale. Quale sia la scelta migliore per le funzioni peso è un argomento trattato da varie teorie; solitamente viene scelta una tra le seguenti opzioni:

1)

w

m

=

δ

(

x

x

m

,

y

y

m

)

, 2)

w

m

=

f

n.

La scelta 1), chiamata metodo del Point Matching consiste semplicemente nell’imporre che la (1.1) sia verificata in un numero finito di punti del dominio di interesse. E’ evidente che per ottenere una soluzione sufficientemente accurata, si dovrà scegliere con cura il numero di punti. La scelta 2) è invece nota come metodo di Galerkin e consiste appunto nello scegliere le funzioni peso uguali alle funzioni base.

Poiché il metodo utilizzato nella trattazione è quello di Galerkin, la nostra attenzione sarà ora concentrata sulla scelta delle funzioni base.

(5)

1.3 FUNZIONI DI BASE: MODELLIZZAZIONE DI RAO-GLISSON-WILTON

Poiché la scelta delle funzioni base determina l’approssimazione di f mediante la soluzione f*, si dovrà porre particolare attenzione a tale scelta: questa sarà guidata sia dall’esperienza che dal risultato che ci si attende. Le fn dovranno essere innanzitutto indipendenti, in quanto funzioni di base. Non è però necessariamente vero che debbano appartenere al dominio dell’operatore L(D): è possibile scegliere funzioni per le quali l’operatore non è definito: per l’applicabilità del metodo, è sufficiente che esistano e siano calcolabili i coefficienti <wm, L(fn)>.

Ciò è importante appunto nel caso di nostro interesse: L(D) risulta infatti essere un operatore integro-differenziale, e non potremmo applicarlo a funzioni semplici come quelle triangolari (per le quali non esistono derivate di ordine superiore al secondo).

Nel caso in cui le funzioni base siano definite solo su sottodomini del dominio di f, si assicura automaticamente l’indipendenza delle funzioni di base.

A questo scopo, dobbiamo innanzitutto discretizzare il dominio di interesse: ciò verrà effettuato tramite elementi piani, detti patch.

Tali elementi saranno di forma triangolare: questa scelta è dettata dalla considerazione che, dati tre punti appartenenti ad una superficie, è sempre possibile individuare un piano passante per essi (affermazione non verificata per un numero maggiore di punti).

L’unica restrizione imposta da questa modellizzazione è che non vi siano più di due patch connessi allo stesso spigolo.

(6)

Nell’effettuare la discretizzazione si deve tener conto del fatto che, per problemi di corretta interpolazione dell’incognita, gli spigoli degli elementi triangolari devono avere lunghezza non superiore ad un decimo della lunghezza d’onda relativa alla frequenza di lavoro.

Le funzioni di base definite sui sottodomini triangolari sono le cosiddette funzioni roof-top: dato lo spigolo n, necessariamente non di bordo, esso individuerà due triangoli T+ e T - , sui quali è definita la funzione base fn come:

altrove 0 ) ( 2 ) ( 2 ) ( n n ⎪ ⎪ ⎪ ⎩ ⎪ ⎪ ⎪ ⎨ ⎧ ∈ ∈ = − − + + + T r r ρ T r r ρ r f n n n n n n n A l A l (1.6) .

Nella precedente espressione si è indicato con:

ln la lunghezza del generico spigolo (necessariamente non di bordo); Tn+ e Tn- la faccia positiva e la faccia negativa connesse allo spigolo; An+ e An- l’area della faccia positiva e l’area di quella negativa; ρn+ il vettore che congiunge il vertice libero della faccia Tn+ con il

generico punto di essa;

ρn- il vettore che congiunge il generico punto della faccia Tn- con il suo vertice libero;

O l’origine del sistema di riferimento.

(7)

La funzione così definita è tale da assumere valore nullo sui vertici opposti allo spigolo n; si ha inoltre che la componente normale allo spigolo assume valore unitario su ogni punto dello spigolo stesso (si veda in proposito l’appendice A).

La modellizzazione tramite funzioni roof-top definite su domini triangolari è appunto quella considerata nel seguito della trattazione, ed è detta di Rao-Glisson-Wilton (RWG). r1 Tn- Tn+ O ρn-(r2) r2 ρn+(r1) ln

(8)

1.4 RISOLUZIONE DELLA EFIE NEL DOMINIO DELLA FREQUENZA TRAMITE IL METODO DEI MOMENTI

In generale, la risoluzione della EFIE (Electric Field Integral Equation) nel dominio della frequenza tramite il MoM consente di determinare il campo elettrico reirradiato da una superficie perfettamente conduttrice tramite la determinazione della densità di corrente elettrica J indotta dal campo incidente.

Una volta nota J possiamo risalire ai campi reirradiati tramite relazioni integrali.

Facciamo l’ipotesi di trovarci dinanzi a oggetti metallici perfettamente conduttori, eventualmente in un mezzo stratificato. Per tale ragione, in ogni punto della superficie metallica, la componente tangenziale del campo elettrico incidente dovrà essere uguale alla componente tangenziale del campo reirradiato:

Eitan(r) + Estan(r) = 0, (1.7)

Scrivendo il campo elettrico in funzione del potenziale vettore elettrico As e del potenziale scalare Φs si ha:

Es(r) = -jωAs(r) - ∇Φs(r), (1.8)

(9)

S S

( )

( ')G (R) S'

A M

d

µ

=

∫∫

A r

J r

(1.9) S M S 1 Φ ( ) G (R) S' ε q d

σ

=

∫∫

r (1.10)

dove è la funzione di Green per il potenziale vettore e è la funzione di Green per il potenziale scalare.

A

G Gq

Tenendo conto dell’equazione di continuità della corrente:

∇⋅ J = -jωσ (1.11) la (1.10) può essere riscritta come:

S M S

1

( ')

Φ ( )

G (R) S'

ε

ω

q

d

j

∇ ⋅

= −

∫∫

J r

r

(1.12) dove:

S’ è la superficie esterna del corpo;

R=||r-r’|| è la distanza tra il punto d’osservazione r ed il punto sorgente r’∈S’;

εM è la costante dielettrica del mezzo esterno; µM è la costante magnetica del mezzo esterno; σ è la densità di carica superficiale [C/m2].

(10)

Sostituendo opportunamente la (1.9) e (1.12) nella (1.8) si ottiene una equazione integrale definita sui punti della superficie dell’oggetto metallico, che lega la densità di corrente al campo elettrico incidente:

tan M S tan

1

( ')

( )

G

S

G (R) S'

ε

ω

i A q M xx S

j

d

d

j

ωµ

∇ ⋅

= −

+ ∇

∫∫

∫∫

J r

E

r

J

(1.13)

La (1.13) prende il nome di Equazione Integrale del Campo Elettrico ( EFIE, ossia Electric Field Integral Equation ) e la sua soluzione permette la determinazione delle densità di corrente e del campi elettrico e magnetico irradiati o reirradiati in ogni punto dello spazio.

Grazie alla linearità dell’operatore, possiamo applicare il metodo dei momenti. Proiettando la nostra incognita J(r) su di un set di N funzioni di base, definite sulla superficie S, otteniamo:

J(r)=

Ι

=

N n 1

n f n (r) (1.14)

e le nostre incognite sono ora i coefficienti Ιn, relativi alle densità di corrente incognite associate a ciascuno spigolo non di bordo (questo perché le funzioni di base sono definite solo su spigoli non di bordo).

(11)

Per snellire la notazione abbiamo utilizzato il segno di uguaglianza, pur trattandosi in realtà di una approssimazione, almeno nel caso generale. Sostituendo la (1.14) nella (1.13) si trova:

tan tan( ) jω ( ) ( )⎟ ⎠ ⎞ ⎜ ⎝ ⎛ Φ = −

n n n n n n i r I A r I r E (1.15)

dove An (r) e Φn (r) sono esprimibili come:

M S

µ

( )

( ')G (R) S'

A n

=

∫∫

n

d

A r

f r

(1.16) M S

( ')

1

Φ ( )

G (R) S'

4πε

ω

q n n

j

d

∇ ⋅

= −

∫∫

f r

r

(1.17)

Supponiamo ora di utilizzare il metodo di Galerkin, ossia scegliamo le funzioni peso wm uguali alle funzioni di base, e di definire il prodotto interno come:

<h(r), k(r)> = ∫∫s h(r’) · k(r’) dS’. (1.18)

Effettuando il prodotto interno tra ogni funzione peso e i due membri della (1.15) si ottiene:

(12)

( )

( )

(

ω

)

S'

)

(

S'

)

(

)

(

S tan S tan

∫∫

∫∫

d

=

I

j

+

Φ

d

n n n n m m i

r'

w

r'

w

r'

A

r'

r'

E

(1.19)

Ipotizziamo infine di modellizzare la superficie secondo piastre piane triangolari, e di definire funzioni di base del tipo RWG con espressione data dalla (1.6); sotto tali ipotesi si può scrivere:

>

,

<

+

>

<

=

>

<

Ε

i

,

f

m

j

ω

A

,

f

m

Φ

f

m (1.20)

Svolgendo i prodotti scalari e tenendo conto che valgono le relazioni:

Φ∇ ⋅ − = > , Φ ∇ < S S mdS m f f 2 (1.21)

altrove

0

)

(

1

)

(

m m

=

±

=

− − + + ± ± ±

r

T

T

r

r

f

m m m m m m m m m

A

l

A

l

f

ρ

ρ

ρ

si ottiene l’espressione della EFIE in forma numerica mostrata di seguito:

⎥ ⎦ ⎤ ⎢ ⎣ ⎡ ⋅ + ⋅ = ⎥ ⎦ ⎤ ⎢ ⎣ ⎡ Φ − Φ − ⎥ ⎦ ⎤ ⎢ ⎣ ⎡ ⋅ + ⋅ − − + + − = + = − − = + + =

I I 2 2 2 I 2 I ω 1 1 1 1 c m m c m m m mn N n n mn N n n m c m mn N n n c m mn N n n m l l l j A ρ A ρ E ρ E ρ (1.22) con m,n=1..N

(13)

±

I coefficienti integrali della (1.22) sono pari a: M , (1.23) T T ( ')G (R ) S' -n n A mn

µ

n m d + ± ∪ =

∫∫

A f r M T T

1 1

Φ

( ')G (R ) S'

ω ε

-n n q mn n m

d

j

+ ± ± ∪

= −

∫∫

∇ ⋅

f r

, (1.24)

E

±m

=

E

i

(

r

mc±

)

, (1.25)

dove si è indicato con R±m la distanza:

m = rm± −r' , (1.26)

essendo r’ il generico punto sorgente e il generico punto di osservazione.

±

m

r

Gli apici c+ e c- indicano rispettivamente i baricentri dei triangoli T+ e T-, come mostrato in figura 1.2 in una coppia di generici patch triangolari. E’ stato quindi ottenuto un sistema lineare di N equazioni in N incognite, nella forma:

Z

I

=

V

(1.27) dove:

¾ I è un vettore di dimensione N i cui elementi sono le incognite {In}.

(14)

¾ V

¾ V è un vettore di dimensione N, legato al campo incidente, i cui elementi hanno espressione:

⎟⎟

⎜⎜

+

=

+ + − −

2

2

V

c m m c m m m m

l

ρ

E

ρ

E

(1.28) ρnc+ ρn c-½ (ρnc++ ρnc-) rnc+ rn

c-¾

Z

è infine una matrice NxN i cui elementi valgono:

(

Φ

Φ

+

=

+ + − − + − mn mn c m mn c m mn m mn

l

j

2

2

ω

Z

A

ρ

A

ρ

)

. (1.29)

Fig. 1.2: Funzione roof-top nel baricentro del dominio triangolare

ln

Tn Tn+

(15)

Nel paragrafo successivo vedremo come sia possibile, calcolando opportunamente i termini del vettore V, analizzare un’antenna radiante.

1.5 ANALISI DI ANTENNE IN TRASMISSIONE TRAMITE IL METODO DEI MOMENTI

Per utilizzare il MoM per l’analisi di antenne in trasmissione, il problema che ci troviamo ad affrontare è quello di modellizzare l’alimentazione.

Il modello più diffuso, e di più immeditata implementazione, per la modellizzazione della sorgente è quello conosciuto come “delta gap

model”, che illustriamo di seguito [6].

Consideriamo per semplicità un’antenna filare, con centro posto sull’origine, i cui due elementi siano rappresentati tramite due cilindri con gli assi posti sull’asse z e distanziati di una quantità δ; supponiamo che tale antenna sia alimentata tramite un generatore ideale di tensione VA alla frequenza di lavoro f. La situazione è mostrata nella figura seguente:

(16)

Fig. 1.3: Modello cilindrico di antenna filare

x δ a z VA VA

Possiamo supporre che nel gap fra le due sezioni dell’antenna sia presente un campo elettrico costante diretto lungo l’asse z:

E

=

V

δ

A

z

ˆ

(1.30) come mostrato in figura 1.4.

Per δ tendente a zero si ottiene un campo infinito, localizzato sui punti dell’antenna con coordinata z nulla:

E

(r

)

=

V

0 altrove.

antenna

r

ˆ

(z)

A

δ

z

(1.31)

(17)

Fig. 1.4: Campo elettrico nel gap

Dunque, la prima approssimazione che facciamo è quella di considerare il gap tendente a zero, ossia di non avere soluzione di continuità fra le due parti dell’antenna

Supponiamo adesso di discretizzare la superficie dell’antenna con elementi triangolari, come visto nei paragrafi precedenti, avendo l’accortezza di far sì che non vi siano elementi triangolari a cavallo della giunzione fra le due parti dell’antenna, ottenendo così la situazione mostrata in figura 1.5:

δ

E

(18)

Se analizziamo la (1.28), che per comodità riportiamo di seguito:

⎟⎟

⎜⎜

+

=

+ + − −

2

2

V

c m m c m m m m

l

ρ

E

ρ

E

ci accorgeremo che, per la particolare espressione del campo elettrico da noi imposta, saranno diversi da zero quegli elementi di V corrispondenti a spigoli che si trovano sulla giunzione fra le due sezioni.

In realtà l’espressione del campo elettrico data in [6] mal si adatta al calcolo del generico termine per l’implementazione del MoM qui analizzata: questo perché in letteratura tale termine viene solitamente calcolato considerando il campo elettrico nel punto medio dello spigolo m-esimo. Dovremo quindi apportare una modifica nel campo imposto dalla sorgente .

m

V

Consideriamo adesso il generico spigolo k appartenente alla giunzione: sia lk la sua lunghezza, e Tk+ e Tk- gli elementi triangolari ad esso collegati, come riportato in figura 1.6.

Se indichiamo con il versore normale alla giunzione, questo corrisponde alla direzione del campo elettrico E generato dall’alimentazione (il verso della normale è scelto in modo da essere concorde con quello di E). Supporremo allora che il campo nei baricentri c

k+ ck- dei due triangoli valga:

E

E

d

n

ˆ

V

E A k k k

=

=

− + , (1.32)

(19)

dove con dE indichiamo il modulo della proiezione su del vettore che unisce i due baricentri, ossia:

ρκc+ ρκ c-vk

ck+ ck -Tk+ Tk

Fig. 1.6: Rappresentazione di una generica coppia di patch di sorgente

d

Ek

=

v ˆ

k

n

. (1.33)

Riassumendo, per analizzare un’antenna in trasmissione alimentata da un generatore VA, non faremo altro che sostituire il vettore V calcolato tramite la (1.28) con un nuovo vettore i cui termini sono non nulli solo in corrispondenza di spigoli di sorgente, ossia:

(1.34) 0 altrove.

giunzione

m

2

ˆ

d

V

2

ˆ

d

V

V

E E

⎟⎟

⎜⎜

+

=

+ cmm c m m m m

l

ρ

n

ρ

n

Vm =

(20)

Una volta ottenuto V, possiamo procedere al calcolo dei coefficienti delle densità di corrente tramite la (1.27): come già notato nel capitolo precedente, infatti, gli elementi della matrice Z dipendono solo dalla frequenza di lavoro e dalle caratteristiche fisiche e geometriche del corpo considerato, e rimangono dunque invariati.

1.6 IMPEDENZA D’INGRESSO

Vedremo adesso come sia possibile ricavare l’impedenza d’ingresso dell’antenna in esame relativamente alla zona di inserzione dell’alimentazione.

Sia f la frequenza di lavoro: se indichiamo con VA la tensione imposta dall’alimentazione, e con IA* il valore della corrente sull’antenna in corrispondenza dell’alimentazione stessa (inseriamo l’apice * per indicare che si tratta di una corrente, non di una densità di corrente), il valore dell’impedenza di ingresso alla frequenza f vale:

* A A in

I

V

Z

=

. (1.35)

(21)

Poiché VA è noto, dobbiamo calcolare il valore di IA*. A tal fine, osserviamo intanto come3 il generico coefficiente In nella (1.14):

J(r)=

Ι

=

N n 1

n

f

n

(r)

rappresenti la densità di corrente superficiale normale allo spigolo n-esimo. Dunque, ricordando la definizione delle funzioni di base data in (1.6), la corrente In* che scorre attraverso tale spigolo varrà:

n n , (1.36) * n

=

J

(

r

)

n

ˆ

dl

=

I

l

I

n l

dove è la normale allo spigolo diretta dall’elemento positivo a quello negativo. La situazione è riportata graficamente in figura 1.7.

ln

ρn -ρn+ Tn+ Tn

Fig. 1.7: Riferimenti geometrici per il calcolo della corrente attraverso l’edge n-esimo

Supponiamo ora di avere M spigoli di sorgente, e ipotizziamo per semplicità che siano gli spigoli s=1,...M; indichiamo con ls la lunghezza di

(22)

ogni spigolo. La corrente che scorre sull’antenna in corrispondenza dell’alimentazione vale allora:

=

=

M 1 s s * A

I

I

s

l

, (1.37)

e siamo adesso in grado di calcolare l’impedenza d’ingresso Zin .

Se sono presenti K alimentazioni diverse, possiamo indicare con V1...Vk le tensioni associate ad ogni alimentazione. L’impedenza d’ingresso rispetto alla generica sorgente j deve essere espressa nella forma:

* j j in

I

V

Z

=

(1.38) Vk=0

k≠j

dove abbiamo indicato con Ij* la corrente che fluisce esclusivamente attraverso gli spigoli appartenenti alla sorgente j; se ipotizziamo che tali spigoli siano individuati da sj=1...Mj, possiamo scrivere:

=

=

j j j M 1 s s * j

I

I

j s

l

. (1.39)

Figura

Fig. 1.1: Esempio di funzione roof-top per domini triangolari
Fig. 1.2: Funzione roof-top nel baricentro del dominio triangolare
Fig. 1.5: Mesh intorno alla giunzione

Riferimenti

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