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385/2020 Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra

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385

marzo 2020

Agostino Pirella.

Il sapere di uno psichiatra

a cura di Massimo Bucciantini e Mario Colucci

Premessa [M.B., M.C.] 3

Massimo Bucciantini La voce di uno psichiatra.

I taccuini di Agostino Pirella 4

MATERIALI 10

Agostino Pirella Taccuini goriziani (1967) 13 Agostino Pirella Il giovane Basaglia e la critica

della scienza (1980) 24

Agostino Pirella L’inesauribile estensione

e la linea “forte” (1986) 41 Cronologia, a cura di Lucilla Gigli

e Marica Setaro 60

Mario Colucci Gli ultimi figli di Pirella 68 Pierangelo Di Vittorio Psichiatria italiana

e pulsione di sapere. Le tensioni di Pirella 82 Marica Setaro Diario teorico di uno psichiatra.

Un profilo di Agostino Pirella 106 PIRELLA LECTURE

Vittorio Lingiardi Ritrovare il senso

della diagnosi 132

INTERVENTI

Marco Russo La condizione eccentrica.

Una costellazione copernicana 151 Paolo Fabbri Identità: l’enunciazione collettiva 169

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951

direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

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collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

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Finito di stampare nel febbraio 2020

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Premessa

I l focus su Agostino Pirella che questo nu- mero di “aut aut” ospita prende spunto dal- la prima Lezione Pirella tenuta ad Arezzo da Vittorio Lingiardi il 16 maggio 2019. Le Lezioni, con cadenza annuale, sono nate per valorizzare la figura di Pirella e hanno lo scopo di approfondire l’universo della psichicità nella sua dimen- sione storica e culturale.

Accanto al saggio di Lingiardi, i contributi di Massimo Buc- ciantini, Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio e Marica Setaro tracciano un profilo finora poco noto dello psichiatra emiliano.

Indagare sulla sua formazione ed esaminare le connessioni con la stagione e le persone che lo videro, con Basaglia e altri, protago- nista serve ad aggiungere un ulteriore tassello alla scrittura del- la storia postmanicomiale. Infine ci è parso utile inserire una se- zione di alcuni suoi materiali inediti o scritti poco noti e fornire una cronologia biografica di Pirella, curata da Lucilla Gigli e Ma- rica Setaro.

Buona lettura. [M.B., M.C.]

(4)

La voce di uno psichiatra.

I taccuini di Agostino Pirella

MASSIMO BUCCIANTINI

1. Personalmente non ho mai conosciu- to Agostino Pirella. Anche se il suo no- me, fin da quando ho iniziato il mio inse- gnamento ad Arezzo, mi è subito divenuto familiare. E non pote- va essere altrimenti, visto che il Dipartimento è situato nei locali dell’ex ospedale psichiatrico. Ciononostante, fino a qualche anno fa, non mi sono mai occupato di questioni che avessero a che fa- re con la malattia mentale, la psichiatria, le pratiche di esclusione e di emarginazione sociale. Ho cominciato a interessarmene dopo aver incrociato Franco Basaglia in un mio lavoro su Primo Levi, in cui ho affrontato la questione della “fortuna” e la circolazione di Se questo è un uomo negli ambienti non letterari italiani.

1

E da allora è stato un tema che non ho mai smesso di coltivare.

Quando Martino, il figlio di Agostino, accettò la proposta di donare le carte e la biblioteca del padre al Dipartimento di Arez- zo, tutti noi accogliemmo la notizia con entusiasmo. E la prima cosa che subito mi colpì curiosando tra i materiali del suo archi- vio furono le centinaia e centinaia di block notes, agende, rubri- che, taccuini di ogni forma e specie che spuntavano fuori ogni volta che aprivamo un faldone.

2

La seconda fu la sua scrittura: ni-

Massimo Bucciantini insegna Storia della scienza all’Università di Siena.

1. Cfr. M. Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Einaudi, Torino 2011 (Lezioni Primo Levi), pp. 53-98.

2. Questo materiale è stato provvisoriamente inventariato nell’Archivio Agostino Pi- rella (AAP) sotto la serie Agende, quaderni, rubriche, taccuini, scatole 1-6.

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tidissima, come lo è il tratto nei disegni a china o a matita che so- prattutto negli anni cinquanta si trovano sparsi tra le sue carte.

Una passione che aveva in comune con il fratello Emanuele. Di- segni a volte ironici, quasi delle vignette, a volte pieni di angoscia.

Che si intrecciano a versi poetici, di cui sono disseminati i suoi quaderni di appunti.

Pirella ne cominciava uno ogni qualvolta iniziava un viaggio o la lettura di un libro o quando partecipava a convegni e riunio- ni, oppure semplicemente, quando in maniera del tutto estempo- ranea, decideva di “fermare” i suoi pensieri. E poi, spesso dopo poche pagine, li abbandonava, per iniziarne subito dopo un al- tro. L’archivio ne conserva circa cinquecento e contengono una miniera di spunti e considerazioni di ogni tipo, dalla politica al- la letteratura, dalla musica alla filosofia, dal teatro al cinema all’e- pistemologia, ma soprattutto sono riflessioni sul suo lavoro di psi- chiatra, su quello che lui chiamava il problema psichiatrico. Uno zibaldone di pensieri, in certi casi espressi in forma aforistica, po- lemici e pungenti, intramezzati da continue scalette di interventi e di progetti, e che vengono ad aggiungersi alla parte più propria- mente scientifica del suo lascito.

Ed è appunto dei suoi taccuini che qui vorrei brevemente par- lare, provando a dare un’idea, per quanto parzialissima, del loro significato all’interno del rapporto vita-forme in Pirella.

2. Come ha osservato Merleau-Ponty, “è certo che la vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano”.

3

Quei tac- cuini rappresentano il ponte che lega la vita all’opera di Agostino Pirella. Un ponte in cui ci sono tante uscite e diramazioni, linee di forza abbozzate e bruscamente spezzate, che hanno il merito di restituirci, pur nella loro incompiutezza, la multiforme stratifica- zione del suo pensiero e la molteplicità dei suoi interessi culturali.

Pirella era un divoratore di libri, di ogni genere di libri che a prima vista non ti aspetti. A cominciare dalla quantità di libri, in

3. M. Merleau-Ponty, “Il dubbio di Cezanne” (1945), in Senso e non senso, introduzio- ne di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1962, p. 39.

(6)

Materiali

La bibliografia di Agostino Pirella, lungo tutta la sua carriera, testimonia di un lavoro di scrittura prevalentemente collettivo. Si tratta di contributi, interventi, progetti editoriali, articoli, capitoli di libri, spesso scritti a più mani o dibattuti a convegni e seminari, che sono la cifra specifica dei metodi di elaborazione di un’esperienza passata alla storia come un’utopia possibile e realizzabile: quella della chiusura definitiva dei manicomi e dell’“invenzione”

di una nuova salute mentale in Italia. La riflessione di Pirella, mai separata dalla

storicizzazione del paradigma psichiatrico e del

suo rovesciamento, ha declinato le sue esperienze

di de-istituzionalizzazione compiute a Gorizia,

Arezzo e Torino con la necessità di ridiscutere

lo statuto epistemologico della psichiatria. In

questo senso, aver scelto di pubblicare il lungo

articolo dedicato a Basaglia nel 1980, dopo la

sua prematura scomparsa, non è solo indice di

un sodalizio affettivo e intellettuale, ma è anche

la messa a fuoco di questioni teoriche cruciali

che rimanevano tutte da affrontare nel rapporto

critico con la scienza. Sei anni più tardi, Pirella

interveniva alle giornate di studio organizzate

(7)

in Campania da Psichiatria democratica e tracciava un bilancio di quanto era avvenuto in quegli anni difficili. Denunciava con forza le spinte conservatrici contro l’applicazione della legge 180 e i pericoli di deriva politico-sociale presenti nel paese, non nascondendo i rischi di erosione e di tenuta di un movimento costretto a esercitare una “inesauribile” resistenza. Ma non dimentica Pirella, con una sottile analisi critica, che la priorità rimaneva un’immensa riflessione e costruzione teorica. Come Adorno concepiva come possibile, dopo il nazismo, solo una filosofia che fosse in grado di “pensare in modo che Auschwitz non si ripeta”, così – continua Pirella – “noi dobbiamo estendere questo impegno che, notiamolo, non è nell’agire, ma nel pensare al manicomio”.

Vengono inoltre pubblicati qui, per la prima

volta, alcuni taccuini manoscritti relativi al

periodo goriziano. Dopo aver lasciato, nel

1965, la direzione del manicomio di Mantova

per raggiungere Basaglia a Gorizia, Pirella

diviene, nel 1967, primario del reparto C, uno

degli ultimi reparti a essere aperto, frontiera

reietta della malattia istituzionale prodotta

dall’internamento manicomiale. Si tratta di

annotazioni giornaliere, descrizioni e racconti

relativi alla vita di reparto, ma anche riflessioni

sulla fatica e sul rischio di fallimento sempre

incombente. Sono pagine intense, con le quali

l’“osservatore” Pirella fa toccare con mano i

meccanismi incistati di dominio e autoritarismo

presenti in un reparto di internamento per

cosiddetti “cronici”. Leggendole, ci sentiamo

improvvisamente calati dentro a quelle mura. La

sofferenza e le tensioni sono tangibili, e con esse

(8)

a emergere con forza è la necessità di ripensare i modi di costruire da zero le relazioni e i ruoli di infermieri, medici e degenti. L’esercizio della libertà e dell’autonomia dimenticate o mai agite mostra qui tutte le sue contraddizioni. Il contesto non tace rotture, conflitti, violenze che spesso ricadono sull’ultimo anello della catena umana del reparto, per il quale Pirella usa un termine che richiama un immaginario inumano.

Gli ultimi fra gli ultimi del reparto C, quelli che più di tutti avevano subìto gli effetti violenti dell’istituzione totale manicomiale, finivano per avere come aguzzini gli stessi compagni di sventura, così come i “musulmani” – così li chiama Pirella – raggiungevano l’ultimo stadio nei campi di sterminio di leviana memoria.

La pratica quotidiana della discussione e della decisione comune, pur vivendo di arretramenti e passi in avanti, di incertezze e conflittualità, guadagna piano piano il suo spazio di libertà.

Il 14 luglio 1967 diventa così la Bastiglia del

reparto C, la piccola rivoluzione di un reparto

finalmente aperto per ricominciare a diventare

uomini e cittadini. [M.S.]

(9)

Taccuini goriziani (1967)

AGOSTINO PIRELLA

7 marzo 1967

Il reparto è organizzato in un modo estremamente rigido, su base autoritario-coercitiva, non paternalistica.

Al mio ingresso mi sono trovato di fronte a una prima questio- ne che ha dato uno “spaccato” della vita istituzionale di notevo- le interesse.

Un paziente, Manfredi, aveva percosso con una scodella, un altro paziente. Richiesta di chiarimenti: gli infermieri non dicono nulla (e poi se ne saprà il perché), Slavich dice: “Manfredi è un re”. Un ras, dico io. Il giorno dopo Manfredi colpisce ancora. Po- co di più si viene a sapere: Manfredi si oppone a coloro che en- trano in refettorio e “disturbano”, ad esempio afferrano (o hanno solo l’intenzione, secondo Manfredi, di afferrare?) il pane o altri cibi. Nuova indulgenza degli infermieri. Alla riunione di repar- to Manfredi svolge una dura requisitoria contro a) i pazienti che si introducono nel refettorio approfittando delle porte aperte; b) contro l’infermiere Andrian, reo di aver “deciso” l’apertura del- le porte del refettorio. L’infermiere Costa, presente alla riunione, non dice nulla. Di fronte a questi fatti, propongo (e naturalmen- te si decide) che si discuterà la cosa alla riunione degli infermie- ri. Costa però, dopo, alla fine della riunione di reparto, si lamenta

Trascrizione da taccuini manoscritti del periodo goriziano, Archivio Agostino Pirella, bu- sta 159, fasc. 1 (dicitura “Testi miei”),a cura di Marica Setaro, con la revisione di Lucilla Gigli. I lavori di inventariazione dell’Archivio Pirella sono attualmente in corso; le segna- ture delle buste sono dunque provvisorie. Lucilla Gigli e Beatrice Biagioli, archiviste, si oc- cupano del riordino e dell’inventariazione.

(10)

perché la decisione di aprire le porte del refettorio era stata pre- sa in sua assenza, e si dimostra implicitamente contrario. Giove- dì si discute, ma non si ottiene nulla. Costa e Pinceti si oppongo- no a un’apertura totale (che anche io però non ho per ora motivo di caldeggiare) fattisi forti dell’opposizione “concreta” di Manfre- di. Andrian tenta di argomentare, ma non riesce a convincere, so- prattutto non riesce a presentare un’alternativa ai pugni di Man- fredi. La situazione sembra cioè tale per cui un’iniziativa appa- rentemente innocente come questa non può essere realizzata per- ché c’è una volontà precisa di opposizione, e i fautori non san- no su cosa (o su chi) contare per risolvere il nuovo inconveniente.

C’è in questa “impasse” un primo insegnamento fondamentale.

In un reparto chiuso a clima fortemente autoritario e coercitivo chi paga di più sono i pazienti regrediti (specie gli schizo) e ogni tentativo unilaterale e non coordinato di invertire il segno del- la coercizione fa scattare meccanismi (di difesa-offesa) che men- tre tendono a perpetuare lo stato rigido preesistente, scaricano di nuovo sui regrediti le tensioni e le aggressività. Più semplice- mente: l’apertura delle porte del refettorio voleva offrire a tut- ti i pazienti un’opportunità di libertà di movimento. Questo fat- to avrebbe limitato il privilegio di Manfredi (e in parte di altri) e forse messo in crisi alcuni infermieri “dominanti”. Il meccanismo di repressione ha nuovamente scaricato sui regrediti l’aggressivi- tà derivante da frustrazione. Sembra cioè che qualunque iniziati- va venga presa nel reparto, tendente a sollevare il peso della op- pressione torni a scaricarsi sui deboli. A questo punto il problema è di preparare il personale a modificare profondamente il proprio atteggiamento verso i pazienti.

A proposito di ciò, ho notato che il paziente Ivano trascinava l’arto inferiore destro, come fosse paretico. Ho detto ciò all’in- fermiere di turno, il quale mi ha detto che si trattava di una si- mulazione. A comprova di ciò ha invitato il paziente a saltare, iterativamente, sempre più forte, promettendogli una Coca Cola.

Era incredibile vedere questo paziente ridotto a marionetta rot- ta nelle mani dell’uomo deputato dalla società a “custodirlo” e a

“curarlo”.

(11)

Il giovane Basaglia e la critica della scienza (1980)

AGOSTINO PIRELLA

I mprovvisamente, mentre cerco di dare ordi- ne a questo scritto, scopro quanto è difficile scrivere su Franco Basaglia. Per me, almeno, poiché sono ancora dentro a emozioni e vissuti legati alla vicenda biografica del grande amico, mentre complesse e non risolte resta- no le questioni dell’oggi, anche teoriche e di linea. Poi c’è questo impegno sulla gestione pratica e organizzativa delle nuove norme che decretano la fine dell’assistenza manicomiale, così poco valu- tate dai conservatori e così ancora poco capite da certi altri am- bienti da aprire pericolosi varchi alla restaurazione dell’antica vio- lenza e alla sfacciata disapplicazione della legge. In questi varchi si affacciano le risorse abili di nuovi eserciti o di tecnici vari, che ri- petono all’infinito i gesti noti del mercato diffuso della cura.

La crisi si esprime anche in questo, che per sopravvivere la ri- forma ha bisogno di non avere troppi nemici, ma d’altra parte, se cerca alleati nei nuovi tecnocrati, si consegna a una ripetizio- ne di ipotesi già fallite altrove. E basti pensare alla Francia, piena di orgoglio analitico, farmacologico, behaviouristico, e così via, ma tanto psichiatrizzante e repressiva (120.000 internati psichia- trici, numero crescente di bambini in trattamento, tasso di invali- dazione psichiatrica in aumento) da consigliare il nuovo ministro della Sanità, Ralite, di insediare una commissione per la revisione

Il testo è apparso inizialmente sulla rivista “Sapere”, 851, 1982, pp. 4-9. Abbiamo inserito tra parentesi quadre i riferimenti bibliografici aggiornati.

(12)

dell’esistente. Poco prima della sua scomparsa, già a Roma, Basa- glia era consapevole di tutta questa pesante complessità, e a cer- te mie posizioni depressive rispondeva con la decisa scelta di im- mergersi, di scavare, di lavorare con tenacia per il lungo periodo.

Allora da qui bisogna partire, e mi viene in mente un’immagine del periodo immediatamente precedente la riforma, l’immagine della nave che affonda e delle palafitte.

1

Franco, nel dibattito di quegli anni, in cui si preparava un bi- lancio dei dieci anni della Istituzione negata (1968-78) evocava la complessità della situazione con l’immagine del “mare tumultuo- so in cui noi dobbiamo affrontare la vita, non la malattia o la salu- te”. “Il problema attuale – continua – è che ci troviamo nella stes- sa situazione di Cortez dopo aver bruciato le navi; non abbiamo alcun ponte alle spalle per riprendere a veleggiare sicuri nel ma- re.” Un pur attento interlocutore (Taverna) fraintendeva: “Allora la nave va alla deriva” chiedeva. E Basaglia: “Non c’è più la na- ve, è affondata. Questo è il problema”. Bisogna ricostruirla? Basa- glia: “No. Naturalmente il problema è: cosa facciamo? Dopo dieci anni abbiamo affondato la nave ma adesso ci sono tante altre na- vi che veleggiano per l’oceano piene di pazzi o di emarginati o di dissidenti. Tentando di fondare una cultura diversa abbiamo crea- to una situazione in cui queste navi sono impazzite ancora di più.

Ora noi siamo in acqua e cerchiamo di costruire qualcosa di nuo- vo”. Taverna: “Forse una piccola barca?”. Pirella: “Diciamo che è il momento delle palafitte, che sono le prime abitazioni dell’uomo, insieme alle caverne”. E Basaglia: “Siamo in una situazione abba- stanza singolare, perché mentre noi cerchiamo di costruire le pa- lafitte, che non tengono perché ce le buttano giù continuamente, gli altri cominciano a fabbricare altre navi molto più efficienti. È

1. “Il manicomio è un aspetto parziale, distaccato, cristallizzato, nel quale puoi anche fare un certo discorso, puoi al limite svuotarlo e immettere la popolazione nel territorio, senza che questo incida in modo rilevante nella problematica della violenza, dell’anormali- tà in generale […]. In una metropoli […] le contraddizioni si verificano in modo tanto dif- ficilmente controllabile che non ha senso parlare, come ad Arezzo o Trieste, di psichiatria perché è un altro il problema da affrontare di cui quello del manicomio è parte” (F. Basa- glia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Savelli, Roma 1978, p.

89 [ried. Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 80-81]).

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L’inesauribile estensione e la linea

“forte” (1986)

AGOSTINO PIRELLA

C onfesso di non essere responsabile del ti- tolo che gli organizzatori hanno dato a questa relazione conclusiva, anche se il suo carattere un po’ ironico e spero provocatorio mi è piaciuto;

credo che si possa dire che funziona, agisce ed evoca. Nella sto- ria, breve, di Psichiatria democratica – che noi sentiamo tuttavia pesante e difficile – la nota dell’inesauribile e dell’estensione l’ab- biamo avvertita, anzi giocata spesso con puntigliosità e rigore, di- stinguendo, precisando, contrapponendo, rischiando anche di es- sere fraintesi e falsati.

1

Per esempio, se io dovessi qui, a fronte di questo importante lavoro organizzativo dei compagni del Comita- to regionale campano (e vorrei ricordare, oltre a Sergio Piro, To- nino Oddati e Vito D’Anza e tutti gli altri a cui indirizzo un ca- loroso applauso) a conclusione di queste giornate in cui decine di interventi, di proposte, di studio (come giustamente le abbiamo chiamate); insomma se dovessi elencare le disinformazioni, le vo- lute distorsioni, le disinvolte affermazioni di chi – lontano da noi – non si è documentato, di chi non ha ritenuto di leggere, dico

Pubblicato inizialmente in V. D’Anza, A. Oddati (a cura di), Scienza operatività didattica.

Atti delle giornate nazionali di studio di Psichiatria democratica, Eboli 21-23 marzo 1986, Edizioni 10/17, Salerno 1988, pp. 183-202. Sono stati aggiornati, tra parentesi quadre, i ri- ferimenti bibliografici.

1. Basti per tutti il lungo e incredibile fraintendimento da parte di Giovanni Jervis, il cui ultimo contributo è apparso su “Mondo Operaio”, maggio 1986, L’antipsichiatria fra innovazione e settarismo, già presentato al convegno “Psichiatria a confronto”, Roma, giu- gno 1985.

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leggere letteralmente per esempio ciò che ha lasciato scritto Fran- co Basaglia, non basterebbe il tempo, e francamente me ne manca la voglia. Basti citare i recenti scritti di Jones e Poletti sul “British Journal of Psychiatry”, che rendono bene il clima di voluta osti- lità che certa psichiatria ufficiale inglese dimostra verso il nostro lavoro (e di cui ha parlato ieri Shula Ramon),

2

o la ancora più re- cente distorsione indecente della verità sull’esperienza della rifor- ma a Trieste, operata dalla trasmissione televisiva di Valerio Riva, per avvertire quanto inesauribile deve essere la nostra pazienza e la nostra capacità di fronteggiare le contraddizioni, che appunto non sono solo quelle portate dai pazienti o dalla concreta, dura realtà del servizio. Ma allora “inesauribile” significa forse instan- cabile capacità di difesa e di risposta? Non è solo così. Si tratta di un’estensione inesauribile nel senso che copre aree attive e propo- sitive, capacità di fare domande e di costruire proposte, e non so- lo risposte alle altrui contestazioni.

Ma così è anche per questioni ormai “storiche”, su cui si eser- citano periodicamente tutti coloro che intendono prendere le di- stanze dal movimento che, unico al mondo, è riuscito a ottene- re che più nessun paziente sia ricoverato in manicomio e che, per converso, siano programmati servizi per le risposte territoriali.

E, badate, questa presa di distanza significa soprattutto voglia di voltare pagina, di mettere la sordina o addirittura di denigrare, tutto quanto è stato non solo realizzato, ma elaborato, pensato, prodotto in questi ultimi vent’anni.

Come se fosse possibile agire con cinica disinvoltura e preten- dere di restare dentro un’ipotesi di trasformazione e di riforma, non dico di radicale liberazione e di rivolta contro ogni ingiusti- zia, contro ogni forma di oppressione e di discriminazione di ce- to, di censo, di classe, di sesso, di razza. Perché io credo che, al di là delle differenze, è questo che ci ha sempre caratterizzato. Cer- tamente, le forme che ha assunto la nostra iniziativa sono state as-

2. K. Jones, A. Poletti, Understanding the Italian Experience, “British Journal of Psy- chiatry”, 146, 1985; S. Ramon, Understanding the Italian Experience, “British Journal of Psychiatry”, 147, 1985; K. Jones, A. Poletti, The Italian Experience Reconsidered, “British Journal of Psychiatry”, 148, 1986.

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Cronologia

a cura di LUCILLA GIGLI e MARICA SETARO

1930: Agostino Pirella nasce a Reggio Emilia il 21 settembre da Demetrio e Maria Masini. In casa e fra gli amici più stretti è co- nosciuto con il nomignolo di Orio (diminutivo di Gregorio, nome del nonno materno, a cui era molto legato). È primogenito di tre figli, Giuseppina (Giuse) ed Emanuele (Nele), quest’ultimo nato nel 1940 e diventato presto un famoso pubblicitario.

1948: si iscrive alla Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Parma.

1954: si laurea discutendo la tesi Psicoterapia di gruppo con il pro- fessor Fabio Visintini, direttore della Clinica di malattie nervose e mentali. Nello stesso anno e nella stessa clinica universitaria, si iscrive alla scuola di specializzazione.

1955: conosce Franco Basaglia, in occasione di una riunione della Società italiana di psichiatria, sezione veneto-emiliana. Il 1° ago- sto 1955 viene assunto come medico supplente presso l’ospedale neuropsichiatrico di Mantova. Sempre nello stesso anno fonda la rivista “Criteri. Rivista bimestrale di cultura” (pubblicata dal 1955 al 1960) di cui è direttore. Della redazione fanno parte Alessandro Badiali, Mario Baroni, Gianna Bigi, Massimo Pauri e Domenico Righetti.

Il 1° agosto inizia anche il lavoro come medico supplente pres-

so l’ospedale neuropsichiatrico di Mantova.

(16)

1956: sposa Gianna Bigi, insegnante di Lettere, militante prima nel

PSIUP

, poi consigliera comunale del

PCI

al Comune di Gorizia (1975-1985). Pirella pubblica i primi lavori per la rivista scientifica

“Neurone”, tra cui Contributo alla psicopatologia della comunica- zione umana. Collabora con la rivista culturale “Il Verri”, recensen- do Hommage à Eugène Minkowski in “L’évolution psychiatrique”.

Partecipa e vince il concorso come medico assistente di ruolo all’ospedale neuropsichiatrico di Mantova.

1957: consegue il diploma di specializzazione. Con Franco Basa- glia, Bruno Callieri, Sergio Piro, Francesco Corrao e altri tentano a Parma di istituire una Società di psicopatologia, ma pressioni accademiche li fanno desistere dall’iniziativa.

1959: partecipa al

XXVII

Congresso nazionale della Società italiana di psichiatria a Genova con due comunicazioni, Nozioni di simbolo in psicopatologia e Possibilità pratiche e teoriche della tecnica di

“Discussione di gruppo” in ospedale psichiatrico.

1961: diventa primario dell’istituto psichiatrico mantovano e in questo periodo inizia la pratica psicoterapeutica frequentando il Centro di psicoterapia di Milano diretto da Pier Francesco Galli.

Invitato da Elio Vittorini, partecipa al numero del “Menabò”

su Industria e letteratura pubblicando l’articolo Comunicazione letteraria e organizzazione industriale. Esce inoltre per la rivista

“Rendiconti” il saggio Fenomenologia e scienza. Husserl, Merleau- Ponty, Paci.

1962: a novembre nasce il figlio Martino.

1963: è relatore, con Gillo Dorfles, al convegno fiorentino su Arte e comunicazione organizzato dal Gruppo 70. Tema della sua rela- zione è la psicopatologia dell’espressione e della comunicazione.

1965: si trasferisce a Gorizia presso l’ospedale psichiatrico diretto

da Franco Basaglia e diviene medico primario del reparto osser-

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Gli ultimi figli di Pirella

MARIO COLUCCI

V enezia, 1977, casa di Franco e Franca Ba- saglia: pochi mesi prima del Réseau in- ternazionale di Trieste,

1

Salvatore Taver- na, un giornalista che ha attraversato l’esperienza del disagio, spe- rimentando di persona le durezze e le contraddizioni della psi- chiatria, intervista la celebre coppia. L’altro interlocutore è Ago- stino Pirella. Ne viene fuori un documento

2

di grande interesse sulle trasformazioni in corso, un anno prima dell’approvazione della legge 180. L’incipit è illuminante: i Basaglia e Pirella ci ten- gono a puntualizzare subito che con quest’intervista non inten- dono riproporre nessun ruolo legato alla loro professionalità.

3

“Io credo”, dice Pirella, “che siamo intervistati più per le nostre espe- rienze che per il fatto che siamo specialisti in psichiatria”;

4

ma, aggiunge, abbiamo percorso un itinerario “in cui abbiamo so- stanzialmente demolito il mito dello psichiatra come decifratore del senso.”

5

In altri termini, sente da subito il bisogno di scrol- larsi di dosso quell’immagine ingombrante dell’esperto che vuole

1. Il Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria nasce a Bruxelles nel 1975, promosso da operatori psichiatrici e non, provenienti da vari paesi, che lavorano per una critica all’ideologia e alle istituzioni psichiatriche, per un’alternativa alla politica del setto- re e per un’aggregazione e coordinamento degli utenti. L’anno dopo il Réseau si tiene a Pa- rigi, quindi a Trieste, e in seguito negli Stati Uniti e in Messico.

2. F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Raffael- lo Cortina, Milano 20082.

3. Ivi, p. 17.

4. Ibidem.

5. Ibidem.

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sciogliere l’enigma della follia, immagine già descritta da Michel Foucault e che risale a Pinel, il quale voleva fare del manicomio il luogo di rivelazione della verità del folle. “E forse noi siamo stati gli ultimi figli di questa ipotesi affascinante…”, conclude Pirella.

6

Gli ultimi figli. “Perché gli ultimi figli? Dopo che verrà?”, in- calza Taverna. Non si sa bene, risponde Pirella, comunque noi psichiatri “non siamo più gli esperti della follia”.

7

Pirella e i Ba- saglia sentono di dover rinunciare all’eredità di una tradizione di pensiero e di ricerca, iniziata con un’apparente liberazione (Pinel in Francia, Tuke e Conolly in Gran Bretagna), ma ambiguamen- te sospesa tra scienza positiva e filantropia

8

e oggi “costretta den- tro una griglia istituzionale e legislativa di custodia, di controllo e normalizzazione”.

9

Se agli inizi del loro impegno, sull’onda del- la passione fenomenologica, avevano immaginato di poter “porta- re alle ultime conseguenze la comprensione della follia”,

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succes- sivamente, l’impatto con la realtà del manicomio aveva vanifica- to le loro illusioni: avevano dovuto mettere tra parentesi la malat- tia, più che interpretarla, e avvicinarsi agli internati, uno per uno.

Non saranno loro gli ultimi figli di Pinel. Altri, negli anni che se- guiranno fino ai giorni nostri, armati di velleità scientifiche più spregiudicate, verranno ad accreditarsi come tali.

In altri termini, viene ribadita l’irreversibilità di una scelta ri- spetto alla quale non si può più tornare indietro: scelta doloro- sa, addirittura “schiacciante”,

11

perché non si tratta solo di mette-

6. Ibidem.

7. Ivi, p. 18.

8. Scrive Pirella: “Secondo Michel Foucault, tra i due avvenimenti: 1657 (creazione dell’ospedale generale e ‘grande internamento’ dei poveri) e 1794 (‘scena primaria’ della li- berazione dalle catene dei ricoverati di Bicêtre) passa qualcosa di ambiguo che non si ri- solve con le verità positive della scienza e della filantropia”. A. Pirella, “Michel Foucault in Italia, o la critica della psichiatria”, in Il problema psichiatrico, Centro di Documentazio- ne, Pistoia 1999, p. 116.

9. Id., “Dentro la crisi della psichiatria”, in Il problema psichiatrico, cit., p. 42.

10. F. Basaglia et al., La nave che affonda, cit., p. 18.

11. Si rimanda all’espressione che Marica Setaro nel suo intervento pubblicato in que- sto fascicolo riprende da un manoscritto dell’Archivio Pirella, a proposito della contraddi- zione inerente all’elaborazione intellettuale, sia sforzo per sopportare il lavoro quotidiano di psichiatra manicomiale, sia velo nell’azione di trasformazione dell’esistente. Cfr. M. Se- taro, Diario teorico di uno psichiatra, infra.

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Psichiatria italiana e pulsione di sapere. Le tensioni di Pirella

PIERANGELO DI VITTORIO

L a cornice problematica all’interno della quale situerò Agostino Pirella, e il mio in- contro con lui, è il rapporto tra teoria e pras- si. La formula è molto schematica: tale rapporto può, infatti, de- clinarsi in modi diversi e abbracciare un campo ampio e articola- to. In tal senso, esso designa piuttosto una “costellazione” di cop- pie e di nessi: sapere e potere, epistemologia e militantismo, ricerca e pratiche ecc. In secondo luogo, si tratta di una formula “datata”, enunciata cioè negli stessi termini in cui avrebbero potuto espri- mersi persone come Pirella o Franco Basaglia. Questo significa che il rapporto tra teoria e prassi sarà qui considerato sotto una parti- colare angolatura: da un lato, il momento storico in cui fu perce- pito come un “problema” incandescente e trasversale; dall’altro, la specifica realtà delle esperienze di trasformazione della psichiatria in Italia. Mi riferisco al periodo che va dall’arrivo di Basaglia all’o- spedale psichiatrico di Gorizia, nel 1961, alla legge 180 del 1978.

All’incirca un ventennio, durante il quale si è prodotta una sospen- sione abissale delle evidenze che strutturavano lo spazio scientifico, giuridico e istituzionale della psichiatria. Per i protagonisti di quella stagione di cambiamenti radicali, il problema del rapporto tra teo- ria e prassi si è presentato all’interno di un’esperienza così vertigi- nosa, intensa e totalizzante, da autorizzarci a definirla “traumatica”.

Il gioco delle ricezioni

La prima data da ricordare è il 2001, anno di pubblicazione della

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monografia su Franco Basaglia.

1

Nonostante appartenessimo a una generazione che non aveva conosciuto Basaglia, né la fase immediatamente successiva alla legge 180, il nostro lavoro fu ac- colto con grande favore, talvolta persino in maniera entusiastica, soprattutto dagli esponenti della vecchia guardia di Gorizia (al punto da meritarsi l’etichetta di libro “goriziano”). Perché? La mia sensazione è che il nostro libro – prima ricostruzione organica dell’esperienza di Basaglia – li abbia in qualche modo “risarciti” di qualcosa. E questo evidentemente presuppone che essi dovessero sentirsi in qualche modo “defraudati” di qualcosa.

Bisogna dire che la nostra ricerca insiste molto sulla matrice

“filosofica” di Basaglia, provando in particolare a mostrare co- me la sua impostazione fenomenologica, piuttosto che dissolversi, si trasformi durante l’esperienza di Gorizia, aprendosi a un’ine- dita dimensione pratica e politica. Ora, l’ipotesi è che questa di- mensione “intellettuale”, per una serie di ragioni sulle quali non possiamo qui soffermarci,

2

si sia progressivamente eclissata, a fa- vore dell’affermarsi di un’identità di tipo pratico-militante. Do- po la legge 180, nessuno dei protagonisti delle lotte contro il ma- nicomio degli anni sessanta e settanta si sarebbe sognato di met- tere in discussione, o anche solo di relativizzare, tale dimensio- ne engagée. Il problema è che, assolutizzandosi, l’identità pratico- militante ha finito per semplificare un “profilo culturale” che era molto più articolato, dinamico, problematico, contraddittorio, in- timamente lacerato. Si ha quasi l’impressione che spesso i prota- gonisti della stagione trasformatrice si siano defraudati da soli, at- traverso una sorta di “automutilazione” o di “autocensura”, che li ha condotti a vivere le loro originarie (e inesauste) pulsioni di sa- pere con un po’ di senso di colpa, per non dire di vergogna.

Basaglia non era certo l’unico ad avere questo profilo cultura- le, nato dall’innesto di un impegno pratico-politico su una preco- ce curiosità intellettuale e un’accesa libido sciendi. Basti pensare a

1. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori, Milano 2001 (nuova edizione: alpha beta, Merano 2020, in corso di stampa).

2. A questo proposito, cfr. P. Di Vittorio, B. Cavagnero (a cura di), Dopo la legge 180.

Testimoni ed esperienze della salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano 2019.

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Diario teorico di uno psichiatra.

Un profilo di Agostino Pirella

MARICA SETARO

Non temere mai di dire cose insensate! Ma ascoltale bene quando le dici.

L. Wittgenstein, 1947

1. Un intellettuale prestato alla psichiatria:

la formazione

È il 16 gennaio 1996 quando Diego Giachetti incontra Agostino Pirella a Torino per un’intervista che esordisce così: “Vorrei co- minciare chiedendoti come hai incontrato la psichiatria nel corso della tua formazione umana e scolastica”. Schivo, poco incline a raccontare di sé e degli aspetti più intimi della sua vita, nella rispo- sta Pirella cede al ricordo, evocando un perturbamento familiare come stimolo necessario alle prime scelte di lettura:

La mia era una famiglia di grandi affetti, ma anche di grandi contrasti, mio padre era calabrese, mia madre emiliana con ve- nature femministe ante litteram che non sempre si conciliavano con la mentalità paterna, tipica dell’immaginario maschile di inizio secolo. Io ero il primogenito di tre figli e, all’interno dei contrasti familiari, assumevo a volte il ruolo di capro espiatorio,

Marica Setaro è assegnista di ricerca all’Università di Siena.

“Diario teorico di uno psichiatra”: così riporta il frontespizio di un quaderno ritrovato nell’archivio di Agostino Pirella. Tra parentesi l’autore aggiunge: “Titolo possibile di un li- bro”. Agende, taccuini, quaderni, notes e rubriche compongono una parte considerevole del materiale sciolto della documentazione Pirella, dagli anni cinquanta fino ai primi an- ni duemila. La serie annovera circa 500 unità, suddivisa in 6 scatole. Si tratta di annotazio- ni bibliografiche, commenti a libri, appunti di viaggio, interventi a convegni, pensieri in- timi, citazioni da letture, considerazioni sparse, in un arco temporale non sempre chiara- mente o esplicitamente indicato: Archivio Agostino Pirella (d’ora in poi AAP), scatole 1-6, Agende, quaderni, rubriche, taccuini. Ringrazio Lucilla Gigli e Beatrice Biagioli, responsa- bili del lavoro di riordino e di inventariazione delle carte Pirella presso la Biblioteca Uma- nistica di Arezzo (Università di Siena), per avermi supportato costantemente nella consul- tazione del materiale.

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ma mi ponevo anche dal punto di vista dell’osservatore che guarda al conflitto per capire cosa si possa fare per risolverlo.

[…] Questa esperienza personale si è poi nutrita di tutti quegli stimoli culturali che stavano diffondendosi […]. Mi riferisco alla pubblicazione dei libri di Freud, Jung, che letteralmente divoravo, dedicandomi, anche, allo studio della produzione culturale del cosiddetto “Circolo di Vienna”, Wittgenstein, la relativa “svolta linguistica” della filosofia.

1

La ritrosia, se non l’ostilità, verso l’autobiografismo

2

è una nota ricorrente che emerge già nello studente iscritto a Medicina, nei primi anni cinquanta, a Parma. Un aspetto caratteriale non privo di inquietudine per chi, appena diciottenne, assume severamente il compito della conoscenza come strumento critico di impegno civile e collettivo, all’indomani della guerra. Accanto alla precoce convinzione di diventare uno psichiatra, maturata negli anni del liceo dopo la “grande impressione” ricevuta dalla lettura di “Freud e di altri analisti”,

3

Orio

4

si nutre di interessi onnivori che spazia- no dalla politica al teatro, dalla letteratura all’arte, passando per la filosofia, la poesia, il disegno. Che non si tratti di divagazioni

1. La bozza dattiloscritta dell’intervista rinvenuta in archivio non reca titolo e rimase non pubblicata. Ringrazio lo storico Diego Giachetti che, contattato, me ne ha ricostruito il contesto. Il testo è conservato in AAP, busta 206, fasc. 5.

2. In un’intervista resa a Erica Gianone, sua allieva all’Università di Torino, dichiara:

“Sono sempre un po’ restio a parlare di autobiografia… sarà perché non ho fatto un’anali- si personale… La mia storia infatti ha per soggetto il noi: è la storia dei malati di mente, del problema della malattia mentale, dei manicomi insomma”, in AAP, busta 216, fasc. 4 “Arez- zo”, dattiloscritto del 16 novembre 1998.

3. “Inoltre ho letto molto precocemente Freud e gli altri analisti, nei testi disponibili subito dopo la guerra, prima ancora di iscrivermi alla Facoltà di medicina. Mi hanno fatto una grande impressione, e mi hanno aiutato a leggere i testi della clinica neurologica e psi- chiatrica con volontà di verifica”: manoscritto s.d. recante il titolo “Risposte alle doman- de di Prassi e Teoria”. La rivista, edita a Pisa tra il 1974 e il 1981, aveva sottoposto a Pirel- la un’intervista con ventitré domande. Il manoscritto rende conto delle risposte alle prime tre domande. Da una verifica degli indici della rivista, si desume che l’intervista non venne mai pubblicata; cfr. AAP, busta 216, fasc. 3.

4. È il nomignolo con cui veniva chiamato in famiglia; si tratta del diminutivo del no- me “Gregorio”, suo nonno materno. Orio compare anche come pseudonimo insieme a Pi- ragos, Amidella con cui sigla i disegni, le vignette, i bozzetti, molto presenti fra i taccuini e gli album di questo periodo. Un talento particolare che condivide con il fratello Emanuele, pubblicista di fama internazionale.

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Pirella Lecture

Ritrovare il senso della diagnosi

VITTORIO LINGIARDI

È un onore tenere la prima Lezione Agosti- no Pirella, un onore toccato dalla memo- ria. Pensare Pirella muove ricordi lontani che prendono forma viva in un’eredità assimilata nella pratica cli- nica quotidiana: l’ascolto della soggettività del paziente e il rico- noscimento della sua storia come ingredienti principali della psi- chiatria e della psicoterapia. Alzo gli occhi verso gli scaffali più alti della mia libreria e guardo i dorsi di alcuni volumi. Sono i li- bri-radici che hanno alimentato la mia scelta di studiare medici- na per dedicarmi alla psichiatria. Tra questi, un volume curato da Franco Basaglia nel 1968. Lo lessi, diciottenne, dieci anni dopo la sua pubblicazione, nell’anno cruciale 1978, imbattendomi per la prima volta nella scrittura nitida e colta di Pirella. Altri dieci anni e, nel 1988, conclusa la specializzazione, mi sentivo figlio di una psichiatria che, grazie alle idee e alle azioni di questi uomini e del movimento che attorno a loro si era raccolto, era stata bonifica- ta da retaggi autoritari e violenti. Tanto che oggi, nella locandina che annuncia la nostra giornata dedicata a Pirella, possiamo leg- gere queste sue parole: “Questo era il reparto agitati del manico- mio di Arezzo. Adesso è pieno di giovani studenti. Nessuno pote-

Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, insegna Psicologia dinamica all’Università La Sapienza di Roma.

La lezione, tenuta ad Arezzo il 16 maggio 2019, ha inaugurato il ciclo dedicato ad Agosti- no Pirella. Alcune parti di questo contributo sono rielaborate a partire da Lingiardi (2013) e Lingiardi (2018).

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va immaginare all’epoca che un posto di dolore e di violenza un giorno sarebbe diventato un luogo di cultura e di pace. Noi ci ab- biamo creduto e ci siamo riusciti”. La mia formazione è avvenuta a valle di queste conquiste.

Fantasma e tormento

Per la mia lezione ho scelto un tema controverso e poco amato dal movimento “antipsichiatrico” (doverose le virgolette). Vi parlerò infatti della diagnosi, della sua costruzione e del suo impiego in psichiatria e in psicoanalisi. Un tema che per molti aspetti diffe- renzia la mia esperienza da quella di chi mi ha preceduto e sancisce il cambiamento dei contesti clinici e culturali. In estrema sintesi si potrebbe dire che, con una parte della mia generazione, ho provato a restituire senso e sensibilità alla diagnosi e ai sistemi diagnostici, al tempo radicalmente e necessariamente messi in discussione.

“Le diagnosi psichiatriche”, scriveva Basaglia, “hanno assunto un valore ormai categoriale, nel senso che corrispondono a un etichettamento, oltre il quale non c’è più possibilità d’azione o di sbocco. Nel momento in cui lo psichiatra si trova faccia a faccia con il suo interlocutore (il ‘malato mentale’) sa di poter contare su un bagaglio di conoscenze tecniche con le quali – partendo dai sintomi – sarà in grado di ricostruire il fantasma di una malattia;

avendo, tuttavia, la netta percezione che – non appena ne avrà formulata la diagnosi – l’uomo sfuggirà ai suoi occhi, perché defi- nitivamente codificato in un ruolo che ne sancisce soprattutto un nuovo status sociale” (1967a, p. 381, corsivo mio).

Come molti psichiatri della mia età (sono del 1960), sono cre- sciuto in bilico tra l’attrazione per un antidiagnosticismo idiosin- cratico e tinto d’ideologia e l’illusione d’efficacia di una diagno- stica elencativa e pragmatica. Entrambe le posizioni sono noci- ve al paziente. Ho dedicato buona parte della mia attività accade- mica a cercare una terza posizione che fosse basata sulla diagnosi etimologicamente intesa come conoscenza. E, lo vedremo tra po- co, come tormento per il clinico.

L’occasione di questa lezione mi ha spinto a rileggere alcuni in-

terventi di Pirella. Sempre attento ai linguaggi parlati del pote-

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Interventi

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La condizione eccentrica.

Una costellazione copernicana

MARCO RUSSO

Talvolta si è tanto diversi da sé stessi quanto dagli altri.

La Rochefoucauld

1. Un mondo di mondi

Ci sono diversi modi per descrivere la condizione umana. Al- cuni risultano particolarmente efficaci perché colgono dei tratti antropologici o almeno quelli di un’epoca, riuscendo a collegare aspetti diversi, sintomi caratteristici, stati visibili o latenti. Il plesso metaforico-concettuale legato all’idea di “centro”, o meglio alla sua perdita,

1

potrebbe essere uno di questi modi. Cosa dunque intendiamo per eccentricità?

La condizione eccentrica è quella di un uomo, al contem- po, sempre al centro e sempre alla periferia di sé stesso, perfino quando il centro è quello primario della propria corporeità. Un uomo con molti centri di riferimento, che sono periferie di qual- cos’altro, in un universo di interazioni variabili. Una condizione certo non facile: i rovesciamenti posizionali e prospettici posso- no essere dissestanti e fatali; la disgregazione mentale e fisica co- stituisce un’incombente minaccia. Per questo l’eccentricità ha una pericolosa carica conflittuale. Tuttavia tale condizione offre an- che un forte potenziale cognitivo ed esistenziale, che apre a in- contri e scoperte inaspettate. La condizione eccentrica è dunque una situazione di confine tra piani differenti, che genera spesso

Marco Russo insegna Filosofia teoretica all’Università di Salerno.

1. Allusione al titolo celebre ed eloquente di H. Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti fi- gurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca (1948), Borla, Roma 1983.

Sempre dall’ambito figurativo viene un notevole studio che cerca di spiegare la forza psi- cologica e percettiva dell’idea di centro, cfr. R. Arnheim, Il potere del centro. Psicologia del- la composizione nelle arti visive (1982), Einaudi, Torino 1984.

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due tipologie di reazione difensiva: la semplificazione drastica, che riduce le differenze a dualismo, a distinzioni bipolari; oppu- re un pluralismo diffuso, dove le differenze si adattano e attuti- scono reciprocamente, secondo ricombinazioni continue. La pri- ma reazione può generare uno scontro frontale, anche distruttivo.

La seconda, un relativismo indifferente e volubile, con una sorta di malessere a bassa intensità ma dalle imprevedibili evoluzioni.

Sono due forme di riduzione estrema della complessità generata dalla condizione eccentrica, che ne accrescono i lati minacciosi e distruttivi. Il compito sarebbe dunque di attenuare questi rischi, cominciando a capirne gli elementi strutturali.

Da queste preliminari considerazioni si comprende quindi co- me l’eccentricità sia un modello antropologico particolarmen- te adatto a descrivere l’età moderna: quell’era copernicana che, mentre il tradizionale sfondo teologico e metafisico tramontava, vide l’uomo stagliarsi nella sua solitudine, costringendolo a fare i conti con sé stesso come mai prima era accaduto. Dopo quel- lo della circolarità, era cominciato il tempo dell’eccentricità.

2

Po- sto nel mezzo di un mondo di mondi,

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il centro cosmico e sogget- tivo si tramutò in un incrocio, un punto di transizione tra innu- merevoli strade possibili provenienti da una indefinita quantità di punti. Un centro immaginario, sempre spostato. Se sostituia- mo al termine centro il termine fondamento, possiamo dire che, come alla prospettiva centrica è subentrata quella eccentrica, co-

2. Per secoli il cerchio è stato emblema di perfezione, grazie alla sua attitudine a uni- re successione e contemporaneità, eterno e tempo. Molti eventi essenziali della storia spiri- tuale moderna si possono comprendere come “atti di depotenziamento della metafisica del cerchio”, H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia (1960), Raffaello Cortina, Mila- no 2009, p. 154. L’eccentricità è un parametro geometrico che determina le trasformazio- ni del rapporto che c’è tra centro e circonferenza intesa come luogo dei punti equidistanti dal centro: maggiore è l’eccentricità, minore è la somiglianza della figura a una circonferen- za. Tali trasformazioni, studiate nella teoria delle coniche fin dall’antichità, generano le tre principali figure di ellisse, parabola e iperbole. Quando Keplero nel 1609 stabilì che i pia- neti hanno orbite ellittiche interruppe la millenaria concezione della perfezione ciclica, for- nendo ulteriori spinte per quella riflessione sul “decentramento” che sarebbe stata uno dei più influenti aspetti della svolta copernicana e di cui la stessa eccentricità antropologica è una variante.

3. È la mirabile formula di sapore bruniano usata da Kant nella sua Storia universale della natura e teoria del cielo (1755), Bulzoni, Roma 2009, p. 72.

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Identità: l’enunciazione collettiva

PAOLO FABBRI

Pour qu’une identité s’affirme il faut qu’elle ait surmonté l’épreuve de la durée et l’affrontement de l’autre.

J. Starobinski, Personne, masque, visage, 1976

1. La riflessione sull’identità, di cui si sotto- linea oggi l’indecisione e la crisi, si è con- centrata prevalentemente sull’Io, sull’i- stanza individuale dell’enunciazione e le sue diverse figure o ma- schere (Descombes). Una singolarità personale: l’Io nominativo e il Me accusativo; il Medesimo, cioè l’identità con sé stessi nel cor- so del tempo, e lo Stesso, che si differenzia dalle identità altrui (Ricœur).

Il singolo ha dovuto sempre confrontarsi con alter Ego, cioè con l’appartenenza

1

e la partecipazione a raggruppamenti più ampi e di diversa entità, a cui un individuo, durevolmente situato all’incro- cio delle classificazioni in cui è iscritto, può connettersi o sottopor- si, oppure sciogliersi o liberarsi.

2

È la vita sociale, intesa non come

Paolo Fabbri dirige il Centro internazionale di scienze semiotiche dell’Università di Urbino.

1. Per distinguere identità e appartenenza Michel Serres definisce l’identità nei diver- si campi: “Logico per il principio e la sua tautologia, l’invarianza temporale per contraddi- zioni; sociopolitico, nella critica del razzismo e il processo d’esclusione; biologico per il si- stema immunitario e la sua fluttuante eccezione uterina; psicologico, poiché definisce una libido dell’appartenenza; medita sullo spazio e sul tempo e identifica infine l’io in tre sta- ti: una plasticità vergine, un paesaggio complicato, delle trasformazioni vibranti tra una fa- se e l’altra”.

2. Per un’eloquente valutazione contemporanea dell’identità, cfr. Bauman: “Delle due l’una: o l’identità viene imposta da una posizione sociale che offre scarsa o nessuna pos- sibilità di scelta e dunque somiglia a una gabbia da cui si sogna di evadere […] o l’identi- tà è qualcosa da cercare, valutare, scegliere liberamente e possedere e dunque nel nostro universo dedito alla decostruzione dell’immortalità viene resa fragile e sfiduciata: la fragi- lità […] nega ai suoi possessori il minimo momento di requie e li spinge invece a oscillare

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generica interazione, ma come un campo relazionale e un poten- ziale dinamico di esplorazione creativa dei rapporti tra organismi che diventano in questo modo persone; l’Io si interdefinisce con il Tu, il quale si fonda sul Noi del mondo sociale coesistente e com- presente (Schütz).

3

Erving Goffman ha studiato i segni sociali del- la stigmatizzazione e tracciato l’esemplare analisi micro-sociologi- ca della Forma di vita negatrice dell’identità, attraverso le carriere morali e le strategie di occultazione o copertura, di accreditamento e di discredito sociale di minorati, devianti o emarginati.

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Le identità collettive si enunciano alla prima persona del plu- rale: una molteplicità internamente articolata nel senso e nel valo- re che va dal dispositivo acentrico (le “mute” di Deleuze e Guatta- ri), fino alle gerarchie più rigide e complesse (le Caste di Dumont) passando per l’articolata diversità equi-statutaria delle forme di vi- ta all’interno della semiosfera (Fontanille). I nomadi, per esempio, si muovono attraverso lo spazio-tempo, costruendo identità mo- mentanee (Giddens). Goffman ha studiato con acribia le situazio- ni, più o meno grammaticalizzate, a cui le diverse identità vengo- no appese, come indumenti a un portaabiti! Con cui si uniforma- no in divise collettive o tenute individuali di moda oppure si ma- scherano, in pace o in guerra, nel corso o di riti festosi – parate o carnevali – o di sagaci strategie di camouflage (Fabbri).

nevroticamente tra atteggiamenti aggressivi o depressivi. […] La vita è trasformata in una caccia interminabile e mai probabilmente appagante. […] Le persone tendono a vivere tutti gli scontri interpersonali e di gruppo come ‘conflitti di legittimazione personale’ […]

lottano per quello che sono piuttosto che per quel che vogliono”.

3. È l’esperienza antipredicativa che Alfred Schütz, il fenomenologo studioso di segni, definisce “atteggiamento verso il Tu”. Concetto limite (Husserl), il Tu è vissuto come il coe- sistere di una immediata datità. Quanto al Noi, si tratta di un’esperienza dell’Io fondata sul mondo ambiente in quanto parte del mondo sociale che ci è contemporaneo: “La fondamen- tale relazione del Noi mi è data col mio esser nato all’interno del mondo sociale ambiente”. Il mondo del Tu e quello correlato dell’Io si origina da quello del Noi, come esemplifica “la po- sizione e interpretazione di segni ai fini della comunicazione”. Per la psicologia, la percezio- ne di un Io indipendente dal Noi è possibile soltanto nell’allucinazione e nel sogno (Sacks).

4. Goffman ha ricostruito una politica connotativa dell’identità di cui ha individuato sommariamente i segni – occasionali, come punti, lapsus, o permanenti, come i “simboli di stigma” ecc., sottoposti a regimi pubblici di visibilità o intrusione. Ha proposto una ti- pologia transitiva – identità sociale, identità personale – o riflessiva – identità dell’Io o del sentito. Costrutti interattivi virtuali, socialmente significanti da realizzare attraverso tatti- che comunicative di allineamento o di passaggio.

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