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Roma, 18 maggio 2021, ore 14:30 Corte di Cassazione - Aula virtuale Teams

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Roma, 18 maggio 2021, ore 14:30

Corte di Cassazione - Aula virtuale Teams

IL DIRITTO PENALE FALLIMENTARE E IL NUOVO CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA

REPORT a cura di

Andrea Nocera, magistrato dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione dott.sse Roberta Strano, Laura Cacopardi e dott.re Teodorino Campofredano

(in tirocinio presso la Corte di cassazione)

In data 18 maggio, ha avuto luogo il corso organizzato dalla Struttura della formazione decentrata della Corte di Cassazione, composta dai Consiglieri Alessandra Bassi, Antonio Corbo e Gianluigi Pratola, dal titolo "Il diritto penale fallimentare e il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.

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Interventi introduttivi.

I lavori sono stati introdotti dal dott. Antonio Corbo, consigliere della Corte di cassazione e componente della struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione, il quale, dopo i saluti iniziali, ha subito posto l’attenzione sul tema centrale dell’incontro: la riforma introdotta con il Codice della crisi d’impresa e le inevitabili incidenze che avrà sulla materia del diritto penale fallimentare.

Si tratta di una riforma dalla complessa gestazione, approvata con un decreto legislativo che risale al 12 gennaio 2019, e la cui entrata in vigore, per effetto delle proroghe che si sono succedute, è attualmente fissata al 1° settembre 2021.

Quanto alla parte specificamente penalistica, per quanto originariamente previsto dalla legge delega, la riforma non avrebbe dovuto incidere direttamente sulle fattispecie incriminatrici, salvo che per le disposizioni di coordinamento. L’unica previsione direttamente incidente sul campo del diritto penale era quella relativa alla introduzione di una causa di non punibilità per l’ipotesi in cui le condotte abbiano cagionato un danno di speciale tenuità (un istituto, quindi, innovativo rispetto all’assetto normativo precedente che contemplava solo un’ipotesi di circostanza attenuante ad effetto speciale). La Legge delegata prevedeva, inoltre, una regolamentazione specifica dei rapporti, sempre molto controversi, tra liquidazione giudiziale (istituto che subentra al fallimento) e le misure cautelari adottate nel corso del procedimento penale. Su questo spettro di interventi previsto dalla legge delega, il legislatore delegato è, però, intervenuto con una disciplina di dettaglio al fine di assicurare un coordinamento tra gli istituti complessivamente rivisti dal codice della crisi d’impresa e la disciplina penalistica, ponendo una complessa questione sotto il profilo del rispetto della delega.

Si è posta, sul piano sistematico, l’esigenza di coordinare le fattispecie storicamente previste nell’ambito del diritto fallimentare (in primis la disciplina della bancarotta) con la nuova regolamentazione del regime della crisi d’impresa. Il nuovo codice della crisi di impresa si muove in una prospettiva nettamente diversa rispetto al passato, in quanto guarda all’impresa come ad una realtà che va conservata il più possibile: il principio cardine è quello della conservazione dell’impresa, più che della sua liquidazione, ed è attuato attraverso una serie di istituti di nuova introduzione, quali, ad esempio, le procedure di allerta, le procedure di composizione assistita della crisi, la disciplina organica del sistema dei gruppi d’impresa.

Si pone, dunque, un doppio problema: da un lato, la verifica delle singole fattispecie incriminatrici, come coordinate dal legislatore delegato, nell’ottica di un eventuale vizio di eccesso di delega e, dall’altro lato, il coordinamento generale delle classiche fattispecie con la nuova

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complessiva disciplina della crisi d’impresa, in tutte le sue notevoli sfaccettature e novità.

Quest’ultima ha, ovviamente, importanti ripercussioni anche sul piano del diritto penale tributario, con particolar riferimento alle fattispecie di omesso versamento di ritenute e di omesso versamento di IVA.

La parola è poi passata a tre illustrissimi ospiti che hanno portato i loro saluti ai relatori e a tutti i partecipanti all’evento.

In primis, è intervenuto il dott. Pietro Curzio, Primo Presidente della Corte di Cassazione, il quale, dopo aver ringraziato gli organizzatori del seminario, ha sottolineato l’importanza di creare dei

“ponti” tra il settore civile ed il settore penale dell’ordinamento. La distinzione e gli specialismi delle discipline hanno, naturalmente, un loro senso quando si arriva ad un alto livello di approfondimento e, tuttavia, questo specialismo genera separatezza, quando, invece, il diritto è circolare.

Il Primo Presidente ha, quindi, lodato iniziative culturali come quella odierna in cui si studiano i nessi tra le varie discipline che analizzano, sotto diverse angolazioni, uno stesso fenomeno.

La riforma delle procedure concorsuali presenta diverse disorganicità e necessiterà pertanto di un complesso lavoro di raccordo da parte della giurisprudenza, lavoro non semplice poiché il diritto penale non ammette ermeneutica creativa. Sarà compito dell’interprete valutare i riflessi penalistici del cambiamento e, inevitabilmente, rapportare le fattispecie ai nuovi istituti concorsuali. Necessario sarà, a tal fine, uno studio approfondito e un continuo scambio di punti di vista tra professionalità diverse.

È, successivamente intervenuto, il dott. Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale, condividendo l’ultima riflessione espressa dal Primo Presidente, ha sottolineato come il nuovo Codice della crisi d’impresa imponga una trasformazione del ruolo del Pubblico Ministero.

In realtà, già nel 2019, la Procura Generale aveva avviato un lavoro di coordinamento con le principali Procure della Repubblica e di Corte d’Appello, con l’obiettivo di individuare un’uniforme modalità di svolgimento di questo ruolo che, in sostanza, dovrebbe essere finalizzato a supportare quella che è la finalità della riforma: vale a dire, anticipazione dell’intervento nella fase della crisi per sostenere l’impresa in difficoltà e aiutarla a sanare la sua situazione, piuttosto che mirare agli aspetti punitivi e repressivi. Tali iniziative, pubblicate anche sul sito istituzionale della Procura Generale, hanno portato, durante la pandemia, all’instaurazione di un dialogo con tutti i principali “attori”

coinvolti nella risoluzione della crisi: dalle Camere di Commercio alla Banca d’Italia, dalla Guardia di Finanza agli uffici di Procura, passando per vari altri interlocutori istituzionali.

Attualmente è costituito un gruppo di lavoro, non aperto a soggetti esterni, finalizzato a garantire un corretto ed omogeneo atteggiamento delle Procure della Repubblica, superando quello che è l’attuale approccio pan-penalistico. Non si tratta certo di un lavoro facile, ma – nell’opinione del Procuratore Salvi – assolutamente necessario, a maggior ragione nei prossimi mesi, quando verranno al pettine tutti i nodi della crisi pandemica.

A chiudere questo iniziale giro di saluti è stato il dott. Raffaele Piccirillo, Capo di gabinetto del Ministero della giustizia, il quale ha portato il saluto e il ringraziamento della Ministra Prof.ssa Marta Cartabia e ha sottolineato il notevole rilievo di questo incontro, nell’ottica di possibili interventi del ministero proprio su questa materia. Non a caso è stata costituita una commissione ministeriale per occuparsi del Codice della crisi d’impresa, avente una missione piuttosto articolata:

in primis dovrà valutare l’opportunità di differire l’entrata in vigore di alcune norme del Codice, in secondo luogo dovrà proporre eventuali interventi correttivi dello stesso Codice ed, infine, dovrà preoccuparsi di integrare la Direttiva del Parlamento europeo n. 1023/2019 (riguardante, principalmente, i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione, le interdizioni) e di concepire eventuali proposte di modifica temporanea (direttamente collegate al mutamento del quadro economico per effetto della pandemia).

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Il dott. Piccirillo ha, poi, rimarcato una serie di aspetti problematici che si profilano all’orizzonte dell’entrata in vigore del nuovo Codice, causati da una serie di interventi “randomici” sul piano del processo penale, come, ad esempio, la riappropriazione da parte del legislatore del tema del traffico delle precedenze tra il sequestro penale e lo spossessamento conseguente al fallimento e la legalizzazione del tema della legittimazione del curatore a contrastare il sequestro penale. Al netto di tali aspetti, ciò che può lasciare insoddisfatti è il fatto di avere un sistema di incriminazioni, che è ancora quello del 1942, concepito intorno al baricentro della legislazione fallimentare dell’epoca, fondata sulla liquidazione del patrimonio del debitore e sull’espulsione radicale e definitiva dell’impresa dal mercato, a fronte di un Codice che vuole, al contrario, privilegiare e incoraggiare la riorganizzazione, il recupero e, dunque, la conservazione dell’impresa in crisi o insolvente.

La parola è, poi, passata al Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione Margherita Cassano, chiamata a presiedere i lavori, la quale ha ribadito la necessità di anticipare e di provare a risolvere tutti quei profili problematici che scaturiranno dal 1° settembre 2021, data di entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

L’urgenza di una revisione del sistema delle incriminazioni, ancorato alla legge fallimentare che cesserà il suo ciclo di vita nei prossimi mesi, è ancor più accentuata dalla riforma, considerato che il D. Lgs. n. 14 del 2019 ha spostato il fulcro della disciplina normativa sugli strumenti tesi a prevenire l’aggravamento della crisi d’impresa e a garantirne la sopravvivenza delle aziende, con conseguente progressiva marginalizzazione della nozione di concorsualità. L’art. 25 del Codice della crisi prevede, ad esempio, misure premiali di carattere penale dall’ampio spettro applicativo nel caso in cui l’imprenditore attivi tempestivamente le iniziative tese a prevenire l’aggravamento della crisi; tale articolo implica, dunque, una necessaria rimodulazione della risposta punitiva.

La Presidente Cassano ha, dunque, sottolineato l’obiettivo dei prossimi mesi sarà quello prevenire uno scollamento tra il nuovo Codice della crisi e l’anacronistico sistema penale. In mancanza di doverose riforme, due sono i rischi: l’ineffettività del presidio punitivo e il fallimento delle nuove misure in tema di crisi di impresa. Ad avviso del Presidente Aggiunto è, pertanto, assolutamente fondamentale intervenire per tempo attraverso necessari interventi normativi, evitando, così, ruoli di supplenza della magistratura, suscettibili di creare derive pericolose in campo penale.

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Il decreto delegato ed i problematici “adattamenti” delle fattispecie incriminatrici.

Renato Bricchetti, Presidente di Sezione della Corte di cassazione

Conclusisi gli interventi introduttivi, ha preso la parola il Presidente di Sezione della Corte di cassazione Renato Bricchetti, il quale ha focalizzato la propria relazione sui rapporti tra le disposizioni penali, sostanziali e processuali, della normativa fallimentare e le modifiche introdotte dal nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (hinc, CCII) di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14.

Il relatore ha premesso che le disposizioni penali della legge fallimentare continuano a costituire il cuore del diritto penale dell’economia.

Ma esse sono nate per servire un sistema che mirava essenzialmente gli interessi patrimoniali dei creditori dell’impresa espulsa dal mercato perché insolvente e dichiarata fallita, sistema soppiantato dall’idea che crisi e insolvenza devono essere portate alla luce subito e gestite, in una logica di risanamento, per quanto possibile, dell’impresa.

La risposta penale, anche processuale, va, dunque, necessariamente ripensata.

Così come occorrerà portare la riflessione su alcune stravaganze del sistema attuale: ad es., la sentenza dichiarativa di fallimento ritenuta al tempo stesso condizione obiettiva “estrinseca” di punibilità e momento “consumativo” della bancarotta; l’inquadramento nel sistema della bancarotta

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con evento (dissesto), della bancarotta da reato societario, concepita, senza alcuna plausibile ragione, come norma speciale rispetto alla bancarotta per dolo od operazioni dolose.

Ma nulla finora si è mosso – osserva il relatore.

La legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 non contiene previsioni dedicate alle disposizioni penali.

Il legislatore delegante ha solo affermato un “principio generale” di «continuità delle fattispecie criminose» (art. 2, comma 1, lett. a).

La sensazione è quella del déjà-vu, non come apparenza del vissuto ma come realtà, dato che lo stesso immobilismo si verificò anche con la riforma del 2005-2006.

Nulla è previsto neppure nella legge 8 marzo 2019, n. 20, delega al Governo per l’adozione di disposizioni integrative e correttive, dovendo la stessa essere attuata (art. 1) «nel rispetto dei principi e criteri direttivi» dell’originaria legge delega.

Il relatore è, poi, passato ad esaminare le disposizioni del decreto attuativo della delega, il d.lgs.

12 gennaio 2019, n. 14, «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza».

Le disposizioni penali sono state essenzialmente collocate negli artt. 322-347. Altre disposizioni penali sono contenute nell’art. 25 (misure premiali) e negli artt. 317-321 (misure cautelari reali) del Codice.

La relazione illustrativa del Codice conferma che «la legge delega esclude […] la bancarotta dal campo di intervento del decreto attuativo» e che «manca ogni indicazione volta alla riformulazione delle disposizioni incriminatrici della legge fallimentare»; afferma, inoltre, che le «norme riproducono sul piano delle condotte incriminate le corrispondenti previsioni della legge fallimentare». Ma non è del tutto vero.

Sono, invero, state introdotte modificazioni sia delle disposizioni in materia di bancarotta, sia, soprattutto, delle disposizioni relative ad altri reati previsti dalla legge fall. Pochi sono gli interventi sulla bancarotta e neppure di particolare interesse.

L’esordio non è – secondo il relatore - dei migliori.

Un titolo del Codice (il IX) è dedicato alle “disposizioni penali”. Ma l’intitolazione del capo I è

«Reati commessi dall’imprenditore in liquidazione giudiziale». Non più, dunque, reati commessi dal “fallito”, parola che includeva l’imprenditore soggetto al fallimento e il socio illimitatamente responsabile delle s.n.c. e delle s.a.s. (art. 222 legge fall.). L’intitolazione del capo è disallineata rispetto all’art. 349 che prevede che “nelle disposizioni normative vigenti” il termine «fallito» sia sostituito con l’espressione «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» non con le parole

“imprenditore in liquidazione giudiziale” (tale non è, infatti, il socio illimitatamente responsabile di una s.n.c. o il socio accomandatario di una s.a.s.).

L’art. 349 – precisa il relatore - conclude “con salvezza della continuità delle fattispecie” e la relazione illustrativa si “allarga”: «è garantita di fatto continuità normativa» non contenendo la delega disposizioni che autorizzino «modifiche di natura sostanziale al trattamento penale riservato alle condotte di bancarotta e alle altre condotte contemplate oggi dal titolo sesto della legge fallimentare. La clausola di salvezza è apposta all’art. 349, vale a dire ad una disposizione che si limita a mettere in fila la sostituzione del lessico: da fallimento, procedura fallimentare, fallito ed espressioni derivate a liquidazione giudiziale, procedura di liquidazione giudiziale, debitore assoggettato a liquidazione giudiziale ed espressioni derivate. La clausola non vincola certo l’interprete che dovesse trovarsi al cospetto di fenomeni di discontinuità (abolizione di incriminazioni preesistenti o nuove incriminazioni).

Passando all’esame del capo I del Codice «Reati commessi dall’imprenditore in liquidazione giudiziale», occupato dagli articoli che vanno dal 322 al 328, il relatore ha osservato che essi riproducono, con qualche ritocco, gli artt. 216-222 legge fall.

Nel comma 4 dell’art. 322 del Codice, che prevede le pene accessorie della bancarotta fraudolenta, il legislatore delegato si è uniformato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 216, comma 4, legge fall. Alla pronuncia della Corte costituzionale è, poi, seguita, come noto, una decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che ha statuito che «le pene

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accessorie previste dall’art. 216, nel testo riformulato dalla sentenza 5 dicembre 2018, n. 222 della Corte Costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.»; non sono, dunque, riconducibili alle pene di durata non espressamente determinata di cui all’art.

37 c.p., con conseguente commisurazione della stessa a quella della pena principale irrogata.

L’art. 324 del Codice modifica l’art. 217-bis legge fall. Non si tratta, però, di mutamenti sostanziali, ma di interventi formali o di adattamenti alle nuove sistemazioni codicistiche delle disposizioni.

Il relatore ha inteso precisare, peraltro, che era stata eccentrica l’introduzione del riferimento alla legge 27 gennaio 2012, n. 3, dedicata alla composizione della crisi da sovraindebitamento, in una disposizione come quella contenuta nell’art. 217-bis legge fall., che ha una funzione delimitatrice del fatto della bancarotta preferenziale e di alcuni fatti di bancarotta semplice patrimoniale. Il sovraindebitato non risponde, invero, di detti reati, ma dei reati previsti dall’art. 16 della legge medesima.

Nondimeno, il Codice ha riproposto la disposizione, limitandosi a sostituire il riferimento ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di accordo di composizione della crisi omologato ai sensi dell’art. 12 della legge del 2012 con quelli compiuti in esecuzione di un concordato minore omologato ai sensi dell’art. 80 del Codice.

Il relatore è, quindi, passato ad esaminare il capo II del Codice, “Reati commessi da persone diverse dall’imprenditore in liquidazione giudiziale”, premettendo la già svolta considerazione secondo cui la parola “fallito” andava sostituita con l’espressione «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale».

Gli artt. 329-340 del Codice ripropongono le disposizioni degli artt. 223-235 legge fall.

L’art. 223 legge fall., dedicato ai fatti di bancarotta fraudolenta in caso di fallimento di una società, trova ora allocazione nell’art. 329 del Codice.

Unico rilievo: nel comma 2, n. 2, dell’art. 329 (che prevede la causazione con dolo o per effetto di operazioni dolose) la parola “dissesto” ha sostituito la parola “fallimento”.

Nulla di eversivo – ha osservato il relatore – pur non potendosi negare che il legislatore delegato, nel sostituire “fallimento” con “dissesto”, si è discostato volutamente dalla legge delega secondo la quale la parola “fallimento” dovrebbe essere nel Codice sostituita dall’espressione “liquidazione giudiziale”. Se il delegato avesse seguito il delegante, ora l’evento della fattispecie sarebbe la dichiarazione giudiziale di liquidazione, che presuppone, peraltro, l’insolvenza non il dissesto (e che, secondo le ultime tendenze in tema di sentenza dichiarativa del fallimento, dovrebbe essere una condizione obiettiva di punibilità).

In ogni caso – ha affermato il relatore - sarebbe stato opportuno chiarire cosa si debba intendere per dissesto.

Il Codice (art. 2, comma 1) ha definito la crisi («stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate»); ha definito l’insolvenza («stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni») ma non ha pendato di definire il dissesto.

Eppure il termine “dissesto” è presente non solo nella disposizione in esame (anche l’art. 223, secondo comma, n. 1 lo prevede per identificare l’evento del reato) ma in numerose altre, come, ad es., nelle disposizioni della bancarotta semplice (artt. 323 e 330 del Codice; 217 e 224 legge fall.), della ricettazione prefallimentare (distrazione senza concorso con l’imprenditore: art. 338, comma 2, n. 2 del Codice; art. 232, comma 2, n. 2, legge fall.) e, soprattutto, del ricorso abusivo al credito (art. 325 del Codice e art. 218 legge fall.) in cui il dissesto è espressamente distinto, quale oggetto della dissimulazione, dallo stato di insolvenza, distinzione che lascerebbe intendere non trattarsi di sinonimi.

Dovrebbe comunque valere la nozione ormai affermatasi in giurisprudenza che vede nel dissesto lo squilibrio tra attività e passività, inteso come dato quantitativo graduabile e quindi anche

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“aggravabile”, che non necessariamente sfocia nella sentenza dichiarativa del fallimento.

Una nozione che dà risalto al fatto che il dissesto è cosa diversa dall’insolvenza proprio perché consiste in una situazione, in cui il passivo sovrasta l’attivo, che non è richiesta per aversi insolvenza. E la dichiarazione di fallimento presuppone l’insolvenza non il dissesto, che, di regola, finisce comunque in fallimento, a meno di accadimenti favorevoli.

Insomma, l’impresa può essere insolvente e fallire senza essere “dissestata”, come nel caso in cui l’attivo superi il passivo ma non sia facilmente liquidabile per far fronte alle obbligazioni.

Passando al capo III, il relatore ha osservato che in esso, dedicato alle “Disposizioni applicabili nel caso di concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani attestati e liquidazione coatta amministrativa”, gli artt. 341, 342 e 343 del Codice subentreranno agli artt. 236, 236-bis e 237 legge fall.

Il comma 3 dell’art. 341 del Codice è in parte diverso rispetto al terzo comma dell’art. 236 legge fall. Prevede che, nel caso di accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa o di convenzione di moratoria, nonché nel caso di omologa di accordi di ristrutturazione ai sensi dell’art. 48, comma 5, si applichino le disposizioni previste al comma 2, lett. a), b) e d).

Il comma 3 dell’art. 236 legge fall., introdotto dall’art. 10 del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, prevede invece che nel caso di accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o di convenzione di moratoria, si applichino le disposizioni previste dal secondo comma, numeri 1), 2) e 4).

Come si vede nell’art. 341, comma 3, del Codice non vi è più traccia degli “accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari” ma si parla di “accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa”.

Si è, inoltre, previsto il caso di omologa di accordi di ristrutturazione ai sensi dell’art. 48, comma 5, del Codice.

Tuttavia, la rubrica dell’art. 341 è rimasta identica a quella dell’art. 236, vale a dire

“Concordato preventivo e accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria”.

Per farla breve, ha concluso il relatore: sono state introdotte due nuove incriminazioni.

In particolare, si ha una nuova incriminazione, rispetto all’art. 236 legge fall., nel caso degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa “generalizzata” (di cui all’art. 61, commi da 1 a 4, del Codice) e nel caso dell’art. 48, comma 5, che prevede che, a differenza di quanto accade oggi, gli accordi di ristrutturazione e il concordato preventivo possono essere omologati anche se l’Amministrazione Finanziaria o gli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie non vi aderiscono, se l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle maggioranze previste per gli accordi “ordinari” (ex art. 57, comma 1) o “agevolati” (ex art. 60, comma 1), ovvero per il concordato preventivo (ex art. 109, comma 1), se la proposta di soddisfacimento è comunque più conveniente rispetto a quanto la stessa otterrebbe in sede di liquidazione giudiziale; in altre parole, in sede di omologazione l’Amministrazione e gli enti gestori possono essere vincolati dagli stessi e dunque subire falcidie/moratorie, anche se non vi hanno aderito, se il loro voto è decisivo ai fini del raggiungimento della maggioranza necessaria per l’accordo.

Queste nuove incriminazioni non fanno altro che acuire il problema da più parti sollevato dell’ingiustificata equiparazione della correlazione tra bancarotta e procedure concorsuali in genere, che presuppongono la crisi dell’imprenditore e che in sostanza mirano a risolverla, alla correlazione tra bancarotta e fallimento (nel Codice, liquidazione) fondato sull’insolvenza;

equiparazione che non favorisce certo l’accesso a dette procedure.

Il relatore ha, quindi, portato l’attenzione sui reati diversi dalla bancarotta.

L’art. 342 del Codice – ha osservato - prende il posto dell’art. 236-bis.

Immutata la rubrica (Falso in attestazioni e relazioni), nell’art. 342 del Codice cambia in parte il testo del primo comma.

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Sono state dal Codice introdotte nuove relazioni o attestazioni, la cui falsità integra il reato in esame. E ciò benché la legge delega – come si è detto – nulla prevedesse in proposito.

In particolare, integrano nuove incriminazioni i richiami dell’art. 342 del Codice all’art. 88, commi 1 e 2, che riguarda, in particolare, nell’ambito del concordato preventivo, l’attestazione del professionista relativa ai crediti tributari e contributivi nella transazione fiscale. Questa attestazione non era prevista, come possibile oggetto di falsità, nell’art. 236-bis legge fall., né d’altra parte l’art.

186-ter legge fall. richiede attestazioni nella transazione fiscale; all’art. 90, comma 5, che riguarda l’attestazione necessaria per rendere inammissibili le proposte di concordato concorrenti (il professionista attesta che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il trenta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o il venti per cento nel caso in cui il debitore abbia richiesto l’apertura del procedimento di allerta o utilmente avviato la composizione assistita della crisi). L’art. 163, comma 5, legge fall. prevede questa attestazione, ma l’art. 236-bis legge fall.

non contiene un richiamo a detto articolo; all’art. 58, commi 1 e 2, che riguarda le modifiche sostanziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, ante (comma 1) e post (comma 2) omologa, che richiedono il rinnovo dell’attestazione. Questo tipo di attestazione non è contemplato dalla legge fall.

e non è, quindi, oggetto materiale delle falsità punite dall’art. 236-bis legge fall.; all’art. 100, comma 2, che riguarda l’autorizzazione, nel concordato, al pagamento di rate di mutuo con garanzia sui beni aziendali (deroga al principio per cui i debiti si intendono scaduti ed esigibili alla data di presentazione della domanda di concordato). Il professionista attesta che il credito garantito potrebbe essere soddisfatto integralmente con il ricavato della liquidazione del bene effettuata a valore di mercato e che il rimborso delle rate a scadere non lede i diritti degli altri creditori. L’attestazione non è prevista nell’art. 236-bis legge fall.

Su queste nuove fattispecie pende, inevitabile, un dubbio di legittimità costituzionale, data l’assenza di delega, sempre che non si ritenga sufficiente (ma sembra improbabile) l’art. 1, comma 2, della legge delega che stabilisce che nell’esercizio della delega il Governo «cura altresì il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, in modo di renderle ad essi conformi …».

È, poi, immediatamente percepibile la modificazione consistente nelle parole “in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati” aggiunte, nell’art. 342 del Codice, dopo l’aggettivo “rilevanti”.

Il testo dell’art. 236-bis legge fall. Prevedeva, attraverso i richiami, come alternative veridicità dei dati e fattibilità del piano.

Nei giudizi prognostici di fattibilità/attuabilità, la prova della falsità si sarebbe fondata su giustificazioni manifestamente irragionevoli o su affermazioni che, in un contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, contraddicevano i medesimi.

L’art. 236-bis mostrava, dunque, di ritenere che anche i giudizi di valore, qual è il giudizio di fattibilità/attuabilità (in sostanza un giudizio ex ante sulla probabilità di successo del piano), possono essere non veritieri.

Ma, come si è detto, nell’art. 342 del Codice, dopo l’aggettivo “rilevanti”, sono state aggiunte le parole “in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.

Si tratta di parole che incidono sul fatto tipico, riducendo l’area di penale rilevanza e quindi determinando una parziale abolitio criminis.

Il fatto tipico del reato è stato limitato alla sola veridicità dei dati, con implicita esclusione della valutazione di fattibilità, benché nella Relazione illustrativa (p. 239) si affermi che il nuovo art. 342

“riproduca sostanzialmente sul punto il contenuto del vigente art. 236-bis” legge fall.

Si apre, comunque, anche qui il dubbio sulla legittimità costituzionale, di questa operazione normativa non prevista dalla delega.

Ultima considerazione del relatore: un caso di abolitio criminis si rinveniva nell’art. 343 del Codice. Nel dettare disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa l’art. 343 aveva riprodotto

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soltanto il primo e il secondo comma dell’art. 237 legge fall. Non anche il terzo comma che, aggiunto dall’art. 100, comma 2, del d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180, stabiliva che «Nel caso di risoluzione, si applicano al commissario speciale di cui all’articolo 37 del decreto di recepimento della direttiva 2014/59/UE e alle persone che lo coadiuvano nell’amministrazione della procedura le disposizioni degli articoli 228, 229 e 230».

Di questa direttiva vi era traccia solo nell’art. 297 del Codice.

L’errore è stato corretto dal legislatore che ha sostituito l’art. 343 del Codice, così aggiungendovi il seguente comma 3: «Nel caso di risoluzione, si applicano al commissario speciale di cui all’articolo 37 del decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180, e alle persone che lo coadiuvano nell’amministrazione della procedura le disposizioni degli articoli 334, 335 e 336».

La Nuova disciplina della crisi d’impresa e il sistema del diritto penale fallimentare.

- Marco Gambardella, Professore di diritto penale dell’Università “la Sapienza” di Roma”.

L’intervento del prof. Gambardella è stato incentrato sul sistema del diritto penale fallimentare alla luce della nuova disciplina della crisi d’impresa.

Il relatore ha preso le mosse dalla considerazione che il sistema penale fallimentare è asimmetrico rispetto alla porzione civilistica della legge fallimentare rilevando che, tale divergenza, è destinata ad aumentare con l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa ove l’insolvenza non configura più il baricentro del sistema.

Il diritto penale fallimentare è rimasto sostanzialmente immutato fin dal Codice di commercio Napoleonico di inizio ‘800, ove si rinvengono le medesime matrici delle attuali fattispecie di bancarotta. Le uniche modifiche apportate, risalenti ai primi anni del XXI secolo, hanno cercato di adeguare la parte penalistica alle novità introdotte dalle disposizioni civilistiche della legge fallimentare, prevedendo casi di esenzione in materia di bancarotta, adeguando le norme incriminatrici alle disposizioni in materia di concordato ed introducendo la fattispecie incriminatrice della falsità in relazioni e attestazioni.

La Commissione Rodorf, del resto, non ha affrontato la riforma delle incriminazioni in materia di bancarotta e tale mancanza è stata causa della asimmetria createsi tra la disciplina civilista della crisi d’impresa ed il diritto penale delle procedure concorsuali. Le ragioni di tale esclusione sono da rinvenirsi nel timore che la riforma delle fattispecie incriminatrici di bancarotta avrebbe rischiato di bloccare l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa, a causa degli effetti potenzialmente abrogativi delle fattispecie penali pregresse.

Vi è, infatti, un’espressa volontà del legislatore di mantenere immodificate le incriminazioni, esplicitata dall’art. 2 lett. a) della legge delega, in cui si prevede la continuità delle fattispecie criminose. Tale formula è stata traslata, rimanendo quasi invariata, nell’art. 349 del Codice della crisi col fine, dunque, di escludere aprioristicamente qualsiasi esito abrogativo della riforma (il lessico è tratto dalla teoria tedesca della “Kontinuität des Unrechtstyps”).

Al contempo, sorge l’esigenza di seguire la strada interpretativa ponendo in relazione comparativa le fattispecie di reato della legge fallimentare e le nuove ipotesi incriminatrici previste dal Codice della crisi d’impresa, al fine di verificare se dal punto di vista strutturale vi siano variazioni che possano portare ad esiti abolitivi o meno.

A corollario di tali osservazioni, si evidenzia la necessità di verificare la costituzionalità delle modifiche, seppur indirette o occulte, del sistema di incriminazione che verranno introdotte con il nuovo Codice della crisi di impresa, e ciò a fronte di una legge delega che non prevedeva modifiche in ambito penale.

Tenuto conto delle evidenziate criticità, resta immutata l’esigenza di confrontare le fattispecie astratte di reato che si susseguono nel tempo, in successione cronologica. A tal proposito, un primo appiglio interpretativo si rinviene nella sentenza Cass. pen., Sez. 5 n. 4772 del 10/12/2019, dep.

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04/07/2020, Mattiazzo, che, seppur poco motivata sul punto, ha affermato che sussiste perfetta continuità normativa tra le nuove norme penali del Codice della crisi e le previgenti norme penali fallimentari.

Da una analisi comparativa tra le fattispecie incriminatrici in successione cronologica emergono profili di forte criticità.

Un primo profilo investe i soggetti attivi dei reati di bancarotta. L’art. 2 lett. d) CCII, riferendosi alla figura di “imprenditore minore”, ha sostituito la precedente di “imprenditore sotto soglia”, non assoggettabile a fallimento, di cui all’art. 1 della legge fallimentare.

Tale sostituzione lessicale fa sorgere l’esigenza di un coordinamento della suddetta modifica con l’incriminazione di falso in bilancio per fatti di lieve entità di cui all’art. 2621-bis, comma 2, cod.

civ., non modificato dalla riforma, che fa ancora riferimento alla legge fallimentare.

Un ulteriore aspetto di criticità riguarda la parziale definizione, all’interno del Codice della crisi, degli elementi costitutivi della fattispecie penale relativi agli stati patologici dell’impresa, ossia alla graduazione della crisi d’impresa. Tali stati patologici si esplicano nei concetti di insolvenza, di dissesto, di stato di crisi, in quello di “default” e di sovraindebitamento, ai quali si deve aggiungere, da ultimo, il requisito dell’impresa in difficoltà.

Sul punto, si osserva che il Codice della crisi definisce il concetto di crisi e di insolvenza ma non quello di dissesto. A tal proposito, si evidenzia l’importanza del concetto di dissesto quale requisito strutturale del reato di bancarotta, che deve essere distinto da quello di insolvenza, giacché il reato di bancarotta e i reati societari utilizzano i due termini in modo non omogeneo.

Il dissesto e l’insolvenza configurano forme graduabili di gravità progressiva nella quale il dissesto viene prima dell’insolvenza. Lo stesso concetto di dissesto, inoltre, si presta ad essere in sé graduabile, così come evidenziato dalla giurisprudenza e dalla fattispecie di reato di bancarotta semplice, che prevede tra gli elementi oggettivi l’“aggravamento del dissesto”.

Si sottolinea come si configuri un eccesso di delega da parte del legislatore in relazione all’art.

223, comma 2, l. fall. A riguardo, infatti, è stato sostituito il termine di fallimento con il termine dissesto (anche se, sulla base dell’art. 349 CCII, esso avrebbe dovuto essere sostituito con il termine di liquidazione giudiziale) con la conseguenza di far anticipare la soglia di rilevanza penale. In tema, e per ovviare a tale conseguenza, si è evidenziata la possibilità di sostituire il termine di dissesto con quello di insolvenza.

Si pone l’accento, inoltre, sul concetto di stato di crisi, quale requisito per accedere al concordato preventivo. Appare chiaro che il binomio insolvenza-stato di crisi aveva una sua ragion d’essere nella legge fallimentare, laddove ai sensi dell’art. 160 l. fall. la crisi inglobava l’insolvenza.

Nel codice della crisi, invece, i due concetti rappresentano stati patologici differenti in cui la crisi è prodromica alla insolvenza. A riguardo, il decreto correttivo n. 147 del 2020 ha modificato l’art. 2 ed il concetto di crisi, definendolo come squilibrio economico finanziario, ma ciò fa sorgere profili di illegittimità costituzionale della norma per irragionevolezza, in quanto il Codice equipara da un punto di vista sanzionatorio la bancarotta da concordato preventivo (insolvenza) alla bancarotta da liquidazione giudiziale (crisi) nonostante, dunque, la diversità ed autonomia dei due concetti.

Sussistono ulteriori profili di possibile eccesso di delega del legislatore. Il primo è relativo alla modifica estensiva, realizzata in assenza di delega, della configurazione di reato relativa alla convenzione di moratoria ed agli accordi di ristrutturazione.

Il secondo, sottolineato anche dall’intervento del Consigliere Bricchetti, ha riguardato il reato di falso in attestazioni e relazioni, sul quale però, il legislatore ha operato correttamente. Attualmente la legge fallimentare prevede che il professionista debba procedere ad una doppia attestazione relativa sia alla veridicità dei dati aziendali presentati, sia alla fattibilità economica dei piani. Tali elementi pur non essendo ricompresi esplicitamente nell’art. 236-bis della legge fallimentare sono da esso richiamati implicitamente in quanto contenuti nella parte civilistica della legge stessa. Fatte tali premesse, dunque, deve ritenersi corretto l’intervento del legislatore che, riferendosi alle sole attestazioni sulla veridicità dei dati contenuti nel piano, ha operato una parziale abolito criminis. Si

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evidenzia, infatti, che la fattibilità economica del piano presentato dall’imprenditore è un enunciato di tipo valutativo e, in quanto tale, non sottoponibile al giudizio di veridicità (falso in valutazione).

Da ultimo, occorre analizzare la nuova causa di non punibilità e le misure premiali, collegate al sistema delle allerte ed implicanti una ipotesi di danno di speciale tenuità. Si paventa il rischio di rileggere le figure di reato di bancarotta di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. come reati di danno e non di pericolo.

In definitiva, con l’entrata in vigore del Codice, ai sensi dell’art. 389, comma 3, CCII si avrà un sistema a “doppio binario” in quanto le incriminazioni della legge fallimentare resteranno contestabili per le condotte che si avvalgono della legge stessa ossia per i fallimenti pendenti. Di qui l’auspicio di un arricchimento della disciplina transitoria ai fini di evitare profili di incostituzionalità per irragionevolezza e mancata applicazione retroattiva della legge penale più favorevole.

- Luca Pistorelli, Consigliere della Corte di cassazione.

L’intervento del Cons. Luca Pistorelli è stato incentrato sul completamento della visione sull’impatto penalistico della riforma del Codice della crisi.

Sul tema, il relatore ha osservato che i potenziali eccessi di delega evidenziati dagli interventi precedenti riguardano, in realtà, norme scarsamente applicate. I concordati preventivi, in particolare, sono lontani dalla verifica giudiziaria penalistica, salvo che sfocino in fallimenti. L’asimmetria tra la crisi, quale presupposto di accesso al concordato preventivo, e l’insolvenza, quale presupposto di accesso alla liquidazione giudiziale (fallimento), si traduce raramente nella pratica come lesione delle posizioni individuali.

A fronte della oramai chiara intenzione del legislatore di non intervenire sulle norme penali fallimentari si evidenzia l’anacronismo di una tale scelta. L’origine storica della legge fallimentare, che trova la sua collocazione nel dopoguerra, giustificava i chiari intenti repressivi che caratterizzano tali norme, ma che risultano oramai legati ad un contesto economico profondamento diverso da quella odierno.

Su tali premesse, pertanto, è maturata una forte aspettativa di una effettiva e seria riforma dello statuto penale fallimentare che, ad oggi, riveste i connotati d’urgenza.

La sua urgenza è tra l’altro resa evidente dall’inadeguatezza delle severe cornici edittali previste per le incriminazioni di più ampia applicazione – bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale – che accomunano fattispecie tipologiche assai eterogenee, con la conseguenza che l’imprenditore di piccole dimensioni viene sostanzialmente equiparato nella risposta sanzionatorio all’amministratore di un grande gruppo. A ciò si aggiunge, nella prassi applicativa, un aspetto di arbitrarietà nella commisurazione delle pene da parte dei singoli tribunali, in quanto in realtà di piccole dimensioni, siti in territori con scarsa vocazione imprenditoriale e saltuaria applicazione delle norme penali fallimentari, vi è una indubbia tendenza alla comminatoria di pene elevate, mentre in ambiti maggiormente dimensionati e con più strutturata abitudine alla tematica, i giudici ricorrono ad un uso molto più misurato della leva sanzionatoria.

E’ poi inutile nascondere che le fattispecie di bancarotta presentano molteplici aspetti di frizione con i principi costituzionali in materia penale, in parte, forse, ineliminabili stante la loro struttura retrospettiva, che lega l’intervento punitivo all’instaurazione della concorsualità e non già alla mera consumazione delle condotte tipizzate dalle norme incriminatrici, autorizzando, dunque, uno sguardo a ritroso sull’intera attività pregressa dell’imprenditore.

Nondimeno, vanno evidenziati aspetti positivi del Codice della crisi, che riguardano, paradossalmente, le norme non penali, già entrate in vigore, e nella specie le modifiche apportate agli artt. 2086 e 2476 del codice civile.

A riguardo, l’art. 2086 cod. civ. è stato ampliato e, nella nuova versione, impone all’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva di istituire un assetto organizzativo atto a monitorare e superare l’insorgere della crisi. Nonostante l’apparente neutralità dell’impatto della nuova

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formulazione della disposizione sotto il profilo penale, la norma può ora costituire un importante riferimento per la valutazione del dolo dei reati di bancarotta.

Inoltre, l’art. 2476 cod. civ. cristallizza il bene giuridico della bancarotta patrimoniale in quanto fonda la responsabilità dell’amministratore verso i creditori sociali per la mancata conservazione dell’integrità del patrimonio. Ne deriva che il punto di partenza delle incriminazioni dei reati di bancarotta patrimoniale si identifica nella lesione dell’integrità patrimoniale in quanto garanzia dei creditori.

Un ulteriore aspetto di novità degno di attenzione riguarda l’unica modifica penalistica autorizzata dalla legge delega, relativa alle misure premiali, in funzione di incentivazione dell’imprenditore in difficoltà al ricorso alle misure di composizione della crisi, con la prospettiva di minori debiti nel lungo periodo e di un più veloce recupero della continuità aziendale.

Deve peraltro porsi l’accento sull’ambiguità della formulazione dell’art. 25, co. 2 CCII – ed a monte della stessa legge delega – nelle parti dedicate alle misure premiali penali (causa di non punibilità e attenuanti) sia in riferimento alla loro applicabilità a tutti i reati fallimentari, sia per quanto riguarda i presupposti per la loro operatività.

Alla luce della interpretazione letterale, la norma sembra ad esempio indicare che della causa di non punibilità e della attenuante possa avvalersi sia l’imprenditore che si rivolge tempestivamente all’OCRI, sia quello che presenta domanda di accesso ad una delle procedure di insolvenza, tra le quali è compresa anche la liquidazione giudiziale. Ne deriva che l’autofallimento, sempre a tenore letterale della norma, sembra poter essere presupposto per l’operatività della causa di non punibilità e della attenuante speciale, il che consentirebbe abusi di facile previsione.

Nondimeno, quanto agli orizzonti operativi della prima, deve osservarsi che la causa di non punibilità per speciale tenuità del danno non sembra destinata ad incidere massicciamente, memori dell’interpretazione restrittiva che l’attenuante speciale di cui all’art. 219 l. fall. ha avuto fino ad ora in sede applicativa.

Maggior rilievo assume l’attenuante legata alla tempestiva attivazione di una delle procedure di insolvenza tra le quali, come detto, sembra rientrare la liquidazione giudiziale, sebbene di essa non si faccia singolarmente menzione nella relazione preliminare. Si tratta di attenuante ad effetto speciale, perché abbatte il limite edittale della metà, portandolo nel minimo ad un anno e mezzo di reclusione.

La configurabilità dell’attenuante è condizionata a due presupposti: che il valore dell’attivo per soddisfare i creditori garantisca la soddisfazione di almeno un quinto dei debiti chirografari e che il danno provocato dal reato non sia superiore a due milioni di euro.

Valori di riferimento che evidenziano una criticità in quanto non sembrano tenere conto del fenomeno della fraudolenta programmazione dei fallimenti “predatori” e che, consentendo un agevole accesso all’istituto ad una vasta platea di imputati di bancarotta, rischia di depotenziare la risposta penale e, soprattutto, la tutela dei creditori più deboli.

Da ultimo, si pone l’accento sulla tempestività dell’accesso alle procedure di insolvenza, condizione comune sia alla causa di non punibilità sia all’attenuante speciale. A riguardo, l’art. 24 detta le regole tecniche della tempestività che, se da un lato tolgono discrezionalità al giudice, evitando il rischio di decisioni arbitrarie, dall’altro hanno un impatto negativo sulla celebrazione dei processi, ove si consideri che le condizioni alternative su scadenza dei debiti e ammontare degli stessi, comportano evidenti difficoltà di accertamento da parte del giudice. A ciò si aggiunge la difficoltà di reperimento dei dati da parte del curatore e l’effettiva possibilità della non veridicità degli stessi.

Inoltre, l’art. 24 co. 2 CCII prevede la possibilità che il debitore richieda al presidente dell’OCRI di attestare la tempestività della sua domanda, ma tale previsione pone ulteriori interrogativi e perplessità applicative, poiché ci si chiede se il rilascio della certificazione impedisca o renda superfluo un ulteriore approfondimento giudiziale.

Il rapporto tra la nuova disciplina della crisi d’impresa e il diritto penale tributario Alessandro Andronio, consigliere della Corte di cassazione

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È seguito, poi, l’intervento del Consigliere della Terza Sezione Penale della Corte di cassazione, Alessandro Andronio, la cui relazione è stata incentrata sui rapporti tra il nuovo Codice della crisi di impresa (CCII) e il diritto penale tributario.

Il tema è affrontato partendo dall’osservazione di un radicale mutamento di prospettiva del diritto delle procedure concorsuali: il legislatore, già prima del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, si è orientato verso la conservazione dell’impresa in crisi, superando la precedente ottica liquidatorio- sanzionatoria.

Tuttavia, questo mutamento non tocca il rapporto tra i reati tributari – in particolare quelli di omesso versamento di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 – e le situazioni di crisi che non sfociano nell’apertura di una procedura concorsuale.

Il Codice della crisi non stabilisce espressamente gli effetti, sui reati tributari, degli accordi di ristrutturazione dei debiti, che possono essere adottati anche nell’ambito del concordato preventivo e che sono omologabili a prescindere dall’adesione dell’Amministrazione Finanziaria, nonostante il suo voto, nel caso particolare, sia decisivo ai fini del raggiungimento delle maggioranze prescritte dalla legge. Si tratta di un meccanismo di collaborazione fra Amministrazione Finanziaria e imprenditore-contribuente, finalizzato a far emergere anticipatamente la crisi e a prevenirne gli effetti, che però non incide sulla disciplina dei reati tributari.

Fatta questa premessa, in primo luogo, bisogna ricordare che, da tempo, dottrina e giurisprudenza sottolineano la specialità dell’obbligazione tributaria rispetto alle altre obbligazioni civilistiche. Alla medesima affermazione è giunta, da ultimo, la Corte costituzionale (sentenza n. 90 del 26 aprile 2018), che si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dell’art. 173, comma 13, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art. 15, comma 2, del d.lgs.

18 dicembre 1997, n. 472, nella parte in cui prevedono, in caso di scissione parziale di una società, la responsabilità̀ solidale e illimitata della società beneficiaria per i debiti tributari riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto e che ciascuna società beneficiaria sia obbligata in solido al pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione per le violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto.

La ratio decidendi della pronuncia è legata proprio alla marcata connotazione di specialità dell’obbligazione tributaria rispetto alle altre obbligazioni, in ragione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. I crediti tributari vanno ad alimentare la finanza pubblica e l’art.

81 Cost., come riformato nel 2012 in attuazione degli obblighi comunitari, fa riferimento al principio di equilibrio di bilancio, il cui rispetto è assicurato dall’adempimento delle obbligazioni tributarie.

Ulteriore indice di tale specialità si rinviene nell’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000 (“Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”), il quale, a fronte di condotte analoghe a quelle che giustificherebbero l’ordinaria azione revocatoria di cui all’art. 2901 c.c., commina invece rilevanti sanzioni penali, qualora il debitore agisca dolosamente al fine di pregiudicare la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni tributarie.

Si evidenzia, inoltre, le peculiarità del diritto tributario, per la “specialità” del giudice cui sono devolute le controversie inerenti ai tributi, per il sistema della riscossione fiscale, differente dall’ordinaria esecuzione forzata, e delle garanzie che assistono l’obbligazione tributaria, come i diversi privilegi generali sui mobili.

La Corte di cassazione, per affermare la specialità dell’obbligazione tributaria, ha fatto perno sulla stessa esistenza del d.lgs. 74 del 2000 e, in particolare, sulle fattispecie di omesso versamento di cui agli artt. 10-bis e 10-ter. Il mancato adempimento dell’obbligazione tributaria, a prescindere dalla frode del contribuente e caratterizzato soltanto dal necessario superamento di una soglia legale di punibilità, è presidiato da una sanzione penale, a differenza dell’inadempimento delle obbligazioni diverse da quelle tributarie.

Passando ad esaminare le singole disposizioni incriminatrici, si ricorda che l’art. 10-ter non prevede alcuna sanzione penale per gli omessi versamenti periodici dell’Iva. Il termine che rileva ai fini penali è quello per il versamento dell’Iva annuale, che coincide con la scadenza prevista per il

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versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo: è in questo momento che bisogna valutare l’omissione penalmente rilevante, identificandosi con il momento consumativo del reato.

Ciò comporta che l’inadempimento degli obblighi di versamento periodico assume rilevanza penale solo a distanza di tempo, sia rispetto alla presentazione della dichiarazione annuale Iva, sia rispetto agli stessi termini stabiliti per i versamenti periodici da effettuare durante il periodo di imposta. In questo lasso di tempo può maturare o protrarsi la crisi di liquidità dell’impresa, situazione ben più grave della semplice carenza di liquidità temporanea, rimediabile, per esempio, attraverso il ricorso a finanziamenti bancari. Alla luce delle disposizioni del Codice della crisi, inoltre, possono intervenire le segnalazioni della crisi di impresa da parte delle amministrazioni pubbliche, tra cui quella finanziaria.

La struttura dei reati tributari in esame è stata ben delineata dalle sentenze delle Sezioni Unite penali (Sez. U, n. 37424 del 12 settembre 2013, Romano, Rv. 255757-01 e n. 37425 del 12 settembre 2013, Favellato), che fanno perno sul disvalore ulteriore rappresentato dal fatto che, non solo vi è un inadempimento delle obbligazioni tributarie periodiche nel corso del periodo di imposta di riferimento, ma anche inadempimento alla scadenza annuale, di molto successiva rispetto alle scadenze periodiche, la quale si colloca alla fine del periodo di imposta successivo. Non vi è coincidenza, dunque, tra l’inadempimento agli effetti fiscali, sanzionato dalla disciplina amministrativa, e l’inadempimento “annuale” penalmente sanzionato.

La giurisprudenza della Corte, in questo quadro, ha valorizzato il principio di annualità della contabilità, che dovrebbe imporre all’imprenditore di organizzare su base annuale le risorse disponibili, accantonando le somme necessarie per far fronte alle obbligazioni Iva che egli ha riscosso dall’acquirente del bene o del servizio.

La dottrina, tuttavia, ha criticato questa soluzione. L’incasso dell’Iva da parte del contribuente- imprenditore comporta un ingresso di denaro nel patrimonio del contribuente, con conseguente confusione delle somme, le quali sono detenute dal contribuente a titolo proprio, non a titolo dello Stato. Inoltre, non ci sono norme che impongono l’accantonamento periodico e le somme da versare a titolo Iva potrebbero non essere state effettivamente percepite dal contribuente imprenditore, pur essendo sorto l’obbligo di versarle a seguito di emissione della fattura. Se ne desume che l’esclusivo momento da prendere in considerazione è quello della scadenza dell’obbligo rilevante ai fini penali, non le scadenze precedenti.

A proposito dei criteri da utilizzare per la valutazione della configurabilità dell’elemento soggettivo e delle circostanze scriminanti della forza maggiore e dello stato di necessità, sempre alla luce del principio di annualità, la giurisprudenza di legittimità predica un giudizio complessivo sul comportamento del contribuente nel corso del periodo di imposta, non potendosi invocare la crisi di liquidità solo alla scadenza del termine di pagamento del tributo. Evidentemente, non può escludersi che, in astratto, siano possibili casi di assenza del dolo o di assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria, purché siano assolti gli oneri di allegazione probatoria relativamente alla non imputabilità al debitore della crisi di impresa che ha coinvolto l’azienda. In sintesi, non può giustificarsi l’inadempimento dell’obbligazione tributaria con una sopravvenuta crisi di liquidità, ma occorre fornire la prova che non sia possibile reperire in altro modo le risorse necessarie.

È stato più volte affrontato l’aspetto dell’inadempimento di obbligazioni tributarie per l’esigenza di adempiere obbligazioni diverse e necessarie alla prosecuzione dell’impresa (come il pagamento dei dipendenti o dei fornitori): tale esigenza non configura, a detta della giurisprudenza, la stato di necessità, né esclude il dolo per il reato di omesso versamento, anzi diventa la prova inequivocabile dell’elemento soggettivo, poiché il debitore sceglie consapevolmente di pagare altri creditori e di non adempiere l’obbligazione tributaria.

Infine, con riguardo alla forza maggiore, secondo la giurisprudenza essa rileva come causa esclusiva dell’evento e mai come causa concorrente, poiché sussiste nei soli casi in cui la realizzazione dell’evento o la consumazione della condotta sono dovute all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, ma non quando egli si trovi già di per sé in una condizione di illegittimità. Preme rilevare come questi criteri generali trovano e troveranno

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applicazione anche in relazione all’inadempimento delle obbligazioni tributarie che intervengono durante la situazione di emergenza da Covid-19, dal momento che il legislatore non è intervenuto su questo specifico tema con delle norme ad hoc.

Passando ad esaminare i rapporti tra le fattispecie tributarie di omesso versamento e il reato di bancarotta preferenziale, si può notare un’apparente apertura da parte della Corte di cassazione (Sez.

3, n. 5921 del 29 ottobre 2014, dep. 10/02/2015, Galeano, Rv. 262411 - 01) che ha ritenuto non sussistente l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, in capo al liquidatore di società che, a fronte di istanza di fallimento già presentata anteriormente alla scadenza del termine per il pagamento dell’imposta, ometta di adempiere l’obbligazione tributaria nel legittimo convincimento, erroneo quanto alla circostanza fattuale del non ancora intervenuto fallimento, che il versamento violi la regola della par condicio creditorum di cui agli artt. 51 e 52 della legge fallimentare ed integri, a determinate condizioni, il reato di bancarotta preferenziale.

Non vi è contraddizione tra l’inadempimento di un’obbligazione che integra il reato tributario, ma esclude la bancarotta preferenziale, e l’adempimento dell’obbligazione tributaria che esclude il reato di omesso versamento, ma configura il reato fallimentare. Infatti, l’art. 216, terzo comma, l. fall.

richiede il dolo specifico di favorire taluno dei creditori in danno di altri, elemento soggettivo che è escluso nel caso in cui l’adempimento sia rivolto allo Stato-Amministrazione Finanziaria e sia funzionale ad evitare la consumazione di una fattispecie penalmente rilevante.

Nell’ordinamento manca una norma che definisca i rapporti tra i reati tributari di omesso versamento e la procedura di concordato preventivo. In concreto, possono presentarsi tre distinte ipotesi. La prima è quella in cui il termine penalmente rilevante scade prima della presentazione della domanda di concordato. In questo caso, il reato sussiste sicuramente perché il necessario presupposto della non configurabilità dell’illecito è l’anteriorità del provvedimento di ammissione al concordato rispetto alla scadenza dell’obbligazione tributaria.

Il secondo caso si ha nelle ipotesi di mancato adempimento del debito tributario sorto prima dell’apertura della procedura concordataria, qualora, prima della scadenza del debito, sia intervenuto un provvedimento del tribunale che abbia vietato l’adempimento dei crediti tributari. In questo caso, si configura la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità (art. 51 cod. pen.). Il rilievo pubblicistico della procedura concorsuale prevale, in questo caso, sul rilievo, altrettanto pubblicistico, dell’adempimento dell’obbligazione tributaria.

Infine, il terzo caso, più problematico, nel quale ci si interroga sulla rilevanza della domanda di concordato preventivo, ai fini della sussistenza dei reati di omesso versamento, quando il termine penalmente rilevante venga a scadere dopo la presentazione della domanda di concordato, ma prima che il tribunale abbia adottato l’eventuale provvedimento che vieta il pagamento del debito erariale.

Sul punto si registrano due orientamenti: il primo, maggioritario, secondo cui la procedura di concordato scrimina i reati di omesso versamento, in relazione alla scadenza di questi obblighi nel periodo intercorrente tra la presentazione dell’istanza di ammissione al concordato (“in bianco” o con deposito del piano) e l’adozione del decreto di ammissione e apertura della procedura, solo se è intervenuto un provvedimento del tribunale che abbia vietato o non autorizzato il pagamento di questi debiti; in mancanza di queste condizioni, il mero decreto di ammissione al concordato non vale a scriminare retroattivamente gli omessi versamenti.

In particolare, si afferma che il pagamento del debito tributario trova fondamento negli artt. 161, settimo comma, e 167, l. fall.: non è vietato di per sé il compimento di atti straordinari, che, se compiuti senza autorizzazione giudiziale, non comportano la revoca della procedura. Il pagamento dell’Iva dopo l’apertura del concordato non può pregiudicare i creditori perché previene le sanzioni tributarie che contribuirebbero a depauperare ulteriormente il patrimonio del debitore.

L’orientamento contrapposto sostiene che il reato di cui all’art. 10-bis non è configurabile rispetto agli obblighi scaduti successivamente alla presentazione dell’istanza di ammissione al concordato, perché gli effetti dell’ammissione retroagiscono al momento di presentazione della domanda. Se il debitore è stato ammesso, prima della scadenza del debito tributario, alla procedura di concordato preventivo con pagamento dilazionato/parziale dell’imposta, l’inadempimento è

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scriminato. A favore di questa interpretazione si richiama l’art. 168 l. fall., sottolineando come il debitore rischia la revoca del concordato se adempie le obbligazioni pregresse. In realtà, la norma si riferisce all’impossibilità, per i creditori, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sul patrimonio del debitore che ha presentato ricorso per l’apertura del concordato preventivo.

È comunque preferibile la prima interpretazione, soprattutto per scongiurare il rischio di una utilizzazione strumentale della domanda di concordato al solo scopo di evitare la responsabilità penale per l’inadempimento fiscale.

In conclusione, bisogna analizzare i rapporti tra tali fattispecie di reato di omesso versamento e l’istituto della transazione fiscale. L’art. 182-ter l. fall., nella formulazione antecedente alla modifica del 2016, prevedeva che il debitore potesse proporre il pagamento parziale o dilazionato dei tributi amministrati dagli enti gestori di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’UE, potendo per questi proporsi soltanto la dilazione del pagamento. Era necessario, a tal fine, l’assenso delle amministrazioni finanziarie competenti (parere conforme della direzione regionale; atto del direttore dell’ufficio o atto del concessionario, a seconda che il tributo fosse già iscritto a ruolo o meno). In caso di inadempimento da parte del debitore, che non rispettava le scadenze fissate dal piano, la transazione era revocata.

Sul punto, sono intervenute alcune decisioni della Corte nelle quali si afferma che, al fine di escludere la responsabilità penale del debitore, il momento rilevante è quello dell’ammissione al concordato che, se intervenuta prima della scadenza del termine per il versamento delle imposte, oggetto di un piano di dilazione di pagamento, vale ad escludere la configurabilità dei relativi reati.

Con una diversa decisione, invece, la Corte, facendo riferimento al momento dell’omologa della transazione fiscale, ha affermato che il reato di omesso versamento di cui all’art. 10-bis ha carattere istantaneo, perfezionandosi alla scadenza del termine di legge, con la conseguenza che l’ammissione al concordato preventivo, in epoca successiva alla scadenza del debito erariale, non elide la responsabilità penale del rappresentante legale della società. Di conseguenza, la transazione fiscale omologata non estingue il reato già consumato se il termine per l’adempimento è scaduto prima dell’omologa. In questo caso, non sono neppure applicabili gli istituti premiali di cui agli artt. 12-bis e ss. del d.lgs. n. 74 del 2000.

Di contro, la transazione omologata in epoca anteriore alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta incide sugli elementi costitutivi del reato, in particolare sul termine di pagamento, che può essere dilazionato o frazionato, dell’obbligazione, sostituendone il relativo titolo:

esso non è più rappresentato dalla dichiarazione annuale di sostituto di imposta o dai certificati rilasciati ai sostituti, ma dalla transazione fiscale stessa. L’inadempimento della transazione ne comporta la revoca, ma non fa rivivere il reato.

Il quadro normativo è mutato con la riforma del 2016, a seguito della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea n. 546 del 7 aprile 2016, con l’introduzione della possibilità di falcidia dell’Iva, qualora l’imprenditore in stato di insolvenza attesti, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio fallimento.

A questa ha fatto seguito la sentenza Sez. 3, n. 39696 dell’8 giugno 2018, Grifi, Rv 273838-01 per la quale il momento rilevante al fine di escludere la responsabilità penale torna ad essere quello dell’ammissione al concordato. La vecchia giurisprudenza che fa perno sul momento dell’omologa deve essere abbandonata poiché si riferiva ad un regime normativo diverso da quello attuale. Tuttavia, questo mutamento di giurisprudenza muoverebbe da una visione parziale del problema dell’interferenza fra diritto penale tributario e procedure concorsuali, sottolineandosi come la novità della falcidia anche per l’Iva non sarebbe così rilevante ai fini che qui interessano.

È comunque fondamentale che intervenga il divieto di adempimento delle obbligazioni tributarie da parte del tribunale ovvero l’omologa, in presenza della quale soltanto si ha novazione dell’obbligazione tributaria originaria, altrimenti il reato deve essere considerato sussistente qualora le scadenze originariamente previste per il pagamento non siano state rispettate. Diversamente, qualora la novazione intervenga tra il momento della scadenza dell’obbligazione rilevante ai fini

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