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Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 14 marzo 2017 Achbita Discriminazione sul luogo di lavoro, velo.

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Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 14 marzo 2017 Achbita – Discriminazione sul luogo di lavoro, velo.

Libertà di religione e velo: ordinamento italiano e spunti comparatistici

Sia il nostro ordinamento nazionale che le fonti europee e internazionali hanno da tempo apprestato una tutela particolarmente pregnante alla libertà religiosa e alla relativa modalità di esercizio da parte dei singoli individui. L’approccio adottato dall’ordinamento italiano nei confronti della libertà religiosa e, in generale, dell’appartenenza alle varie confessioni dei cittadini, può definirsi alquanto garantista. Sotto il profilo pubblicistico, l’ordinamento giuridico italiano non si limita infatti a proteggere le varie confessioni in maniera generale e indiscriminata, ma tende ad esaltarne le differenze e le peculiarità, a differenza, per esempio, del modello francese di laicité che si basa sull’idea dell’indifferenza, definita come "neutralità", delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso.

Concentrandosi su quello che è l’ambito dell’approfondimento, in coerenza con la politica di neutralità perseguita, si può notare come già dal 2010 il Governo francese abbia approvato una legge di proibizione del velo islamico in tutti i luoghi pubblici del territorio nazionale. Ma la Francia non è l’unico Paese ad avere emesso divieti di questo tipo: nel 2013 il Canton Ticino, con votazione popolare, ha proibito in luoghi pubblici la copertura del capo e la dissimulazione del volto, l’Austria nel 2017 ha proibito burqa e niqab con multa di 150 euro in caso di infrazione, e Belgio, Olanda e Germania vietano l’uso del velo integrale alle funzionarie pubbliche.

In Italia attualmente non esiste una legge che di fatto vieti l’utilizzo del velo in qualunque forma e questo parrebbe confermare l’approccio garantista adottato dal nostro ordinamento. Ciò però non significa che siano totalmente assenti riferimenti normativi che possano deporre a favore di una chiusura nei confronti del velo islamico o che siano mancati dibattiti con opinioni fortemente discordanti sul tema. Il principale riferimento normativo è rappresentato dall’art.5 della legge n. 152 del 1975 (modificata da ultimo nel 2005), il quale prescrive: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. [...]”. Perno centrale del dibattito interpretativo è senza dubbio la clausola «senza giustificato motivo»: per alcuni l’uso del velo va consentito, poiché motivato da un sentimento religioso e non dalla volontà di occultare la propria identità; altri non reputano corretto considerare «giustificato motivo» costumi contrari alla legge ed estranei alle consuetudini locali. Un’altra norma a cui si fa spesso riferimento è l’art. 85 del Regio Decreto n. 773 del 1931 (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza): “È vietato comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da € 10,00 a € 103,00. È vietato l'uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l'osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall'autorità locale di pubblica sicurezza con apposito manifesto. Il contravventore e chi, invitato, non si toglie la maschera, è punito con la sanzione amministrativa da € 10,00 a € 103,00”.

Tuttavia, in mancanza di una legge esplicita sul tema, una sentenza del Consiglio di Stato (Il Consiglio di Stato nella sentenza 3076/2008 ha affermato che «Il citato art. 5 [della legge del 1975] consente nel nostro ordinamento che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali», accettando quindi la motivazione religiosa come elemento elusivo del divieto.) e altri casi giudiziari sembrano mostrare che il velo islamico non sia di fatto proibito dalla legge italiana. Ciò nonostante, non sono mancanti i tentativi di regolamentazione di una tale proibizione con l’avanzamento di disegni di legge volti a introdurre sanzioni pecuniarie o ricadute penali per chi, rispettivamente, indossi o costringa ad indossare indumenti che occultano il viso, tentando quindi di ricondurre il nostro Paese ad un modello di ispirazione francese.

L’ultimo tentativo diretto a proibire l’utilizzo del velo nei luoghi pubblici è risalente al 2018 e nel testo del ddl si legge: "La presente proposta di legge mira a introdurre nel nostro ordinamento giuridico un divieto esplicito a indossare in luogo pubblico o aperto al pubblico, indumenti atti a celare il volto, non soltanto per motivi di ordine pubblico e sicurezza, ma anche come nel caso del burqa e del niqab, in quanto considerati atteggiamenti inconciliabili con i princìpi fondamentali della Costituzione, primo fra tutti il rispetto della dignità della donna".

Per quanto concerne la sfera privata, le concezioni dei due Paesi (Italia e Francia, per portare avanti il parallelismo) tendono a convergere. Il principio di laicità dominante in Francia relativamente alla sfera pubblica, nel privato lascia spazio, come in Italia, al principio di libertà di religione e conseguente divieto di discriminazione, nonostante, come vedremo, la Corte di giustizia dell’Unione Europea abbia lasciato uno spiraglio per l’allentamento di queste prescrizioni.

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Libertà religiosa nei principi costituzionali

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, tra i principi cristallizzati nella Costituzione volti a tutelare la libertà religiosa, possiamo ricordare l’art. 19, Cost., secondo il quale è garantita ad ogni soggetto la possibilità di “professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”; gli artt. 7 (con riferimento alla religione cattolica) e 8 Cost. (limitatamente all’ipotesi di intese tra le confessioni e lo Stato italiano); in senso ampio, il generale principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, tra le altre ipotesi, sull’orientamento religioso di un soggetto.

Licenziamento discriminatorio e conseguenze

Muovendo dal piano costituzionale, centrale per la tutela della libertà religiosa sul luogo di lavoro è lo Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970), il quale all’articolo 15 prevede la sanzione dell’assoluta nullità di qualsiasi atto o patto diretto a “licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti… a causa della sua affiliazione o attività sindacale” e, in forza dell’intervento legislativo di cui all’art. 4, comma 1, D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (che ha aggiunto un ulteriore comma all’articolo citato), la stessa sanzione si applica altresì “ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

Nel caso in cui il giudice accerti che il licenziamento sia avvenuto in ragione dell’appartenenza religiosa del lavoratore, viene in rilievo l’art. 3, legge 11 maggio 1990, n. 108, secondo il quale è prescritto che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è nullo “indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze prescritte”

dall’articolo 18 Statuto dei lavoratori, ovvero la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

Giurisprudenza interna: Corte d’Appello di Milano, sentenza 4 maggio 2016

Prima di affrontare quelle che sono le due sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che hanno maggiormente inciso, data la loro portata innovativa, sulla discriminazione sul luogo di lavoro a causa del velo, è interessante analizzare come anche la nostra giurisprudenza interna si sia confrontata in merito con la normativa comunitaria e la soluzione alla quale essa è pervenuta.

Il caso che si prenderà come esempio è relativo a Sara Mahmoud, italiana, studentessa universitaria figlia di genitori egiziani, la quale ha impugnato dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano l’ordinanza con cui il Tribunale di Lodi ha rigettato il ricorso da lei stessa promosso nei confronti della società E. E. Srl per far accertare il carattere discriminatorio della condotta che la società resistente ha tenuto in fase di selezione di candidate hostess (selezione che la società E.E. srl ha tenuto per conto di un suo cliente, la società A. srl), escludendo da tale selezione la Mahmoud perché non avrebbe dato la sua disponibilità di lavorare senza velo.

Mentre il primo giudice ha ritenuto che la condotta della società appellata non potesse costituire né una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, par. 2 lettera a) D. Lgs. 216/2003 né una discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 2, par. 2 lettera b) D. Lgs. 216/2003, La Corte d’Appello di Milano non ha condiviso tale impostazione in quanto ha ritenuto che il comportamento adottato dalla società E.E. srl abbia concretamente determinato in capo alla ricorrente una “esclusione o restrizione” ai sensi dell’articolo 43 T.U. Immigrazione, che tale comportamento sia discriminatorio a prescindere dalla volontà o meno di discriminare (volontà che la società E.E. srl ha asserito di non aver avuto) e che abbia violato la parità di trattamento che, ai sensi dell’art. 3 comma 1 del D. Lgs 261/2003, deve sussistere anche nel contesto di “accesso all’occupazione e al lavoro, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”.

D. Lgs. 216/2003 - Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parita' di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro

Art. 2 - Nozione di discriminazione

1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della

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religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:

a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;

b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

2. È fatto salvo il disposto dell'articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

4. L'ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell'handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale è considerata una discriminazione ai sensi del comma 1.

D. Lgs. 216/2003 - Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parita' di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro

Art. 3 – Ambito di applicazione

1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:

a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;

[…]

2. […]

3. Nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell'àmbito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima.

TU IMMIGRAZIONE (D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) Art. 43 - Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

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2. In ogni caso compie un atto di discriminazione:

a) [...];

b) […];

c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

d) [...]

e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre l977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

3. […]

Muovendo dunque dai tre rilievi precedenti, la Corte è giunta alla conclusione che il comportamento tenuto dalla società E. E. srl sia stato un comportamento avente i caratteri della discriminazione diretta in quanto “è noto che l’utilizzo di un criterio intimamente collegato con quello vietato costituisca, per giurisprudenza comunitaria, discriminazione diretta”. La Corte dunque ha concluso che, essendo lo hijab (il velo indossato dalla ricorrente) un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro per ciò solo costituisca discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.

Il nodo della questione è identificato allora, anticipando poi il fulcro di quella che sarà la sentenza Bougnaoui del 2014, nell’articolo 4 della Direttiva 2000/78/CE, recepito nel nostro ordinamento dal sopra citato articolo 3, comma 3 D. Lgs 216/2003.

La Corte quindi ha dovuto in questo caso accertare se il non indossare il velo fosse un requisito “essenziale e determinante della prestazione”, il che avrebbe escluso che la disparità di trattamento subita dalla ricorrente integrasse un atto di discriminazione.

In realtà nel caso di specie la Corte ha concluso asserendo la mancanza di sussistenza di una tale causa di giustificazione del comportamento tenuto dalla società appellata e condannando dunque quest’ultima al risarcimento del danno non patrimoniale.

Giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

Analizzando la problematica dal punto di vista della giurisprudenza comunitaria, le due pronunce più rilevanti in merito alla discriminazione sul luogo di lavoro a causa di abbigliamenti religiosamente connotati sono le sentenze della Corte di Giustizia C-157/1515 e C-188/1516, rese entrambe il 14 marzo 2017, che esaminano due fattispecie di licenziamento causato dal rifiuto della dipendente di fede musulmana di non indossare il velo islamico (non integrale) sul luogo di lavoro. La problematica sollevata in entrambi i casi è quella della compatibilità dell’operato dell’azienda con le esigenze di non discriminazione tutelate dal diritto dell’Unione Europea ed in particolare con la Direttiva 2000/78/CE. Si tratta di due sentenze gemelle perché, con identica composizione della Grande Sezione e stesso Relatore, il Giudice F. Biltgen, la Corte di Giustizia ha affermato il medesimo principio. Tuttavia, la diversità delle fattispecie fattuali sottostanti i due giudizi impone un esame separato delle due pronunce.

Il caso Achbita ( C-157/15 )

Il 12 febbraio 2003, la sig.ra Samira Achbita, di fede musulmana, ha iniziato a lavorare per conto della G4S, impresa privata che fornisce servizi di ricevimento e accoglienza a clienti sia del settore pubblico che del settore privato, in qualità di receptionist. All’epoca presso la G4S veniva applicata una regola non scritta in

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virtù della quale i dipendenti non potevano indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

In seguito ad un comunicato della signora Achbita recante l’intenzione di voler indossare in futuro il velo islamico durante l’orario di lavoro, la direzione della G4S ha comunicato alla sig.ra Achbita che ciò non sarebbe stato tollerato in quanto indossare in modo visibile segni politici, filosofici o religiosi sarebbe stato contrario alla neutralità cui si atteneva l’impresa.

Il 29 maggio 2006, il comitato aziendale della G4S ha approvato una modifica del regolamento interno, entrata in vigore il 13 giugno 2006, in forza della quale «è fatto divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi».

Il 12 giugno 2006, a causa del perdurare della volontà manifestata dalla sig.ra Achbita di indossare il velo islamico sul suo luogo di lavoro, la medesima è stata licenziata ricevendo il pagamento di una indennità di licenziamento.

In risposta al licenziamento, la sig.ra Achbita ha proposto ricorso dinnanzi al Tribunale del lavoro di Anversa (Belgio) e, in seguito al rigetto di quest’ultimo, dinnanzi alla Corte d’Appello del lavoro di Anversa. Tale appello è stato respinto per il motivo che il licenziamento non poteva essere considerato ingiustificato in quanto il divieto generale di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non comportava una discriminazione diretta e non risultava evidente alcuna discriminazione indiretta o violazione della libertà individuale o della libertà di religione. Secondo la Corte, La disposizione del regolamento interno avrebbe infatti portata generale costituendo divieto per tutti i dipendenti e non soltanto in relazione a segni visibili legati a convinzioni religiose, ma anche legati a convinzioni filosofiche o politiche. La Corte ha respinto dunque l’argomento secondo il quale il divieto costituirebbe di per sé una discriminazione diretta della sig.ra Achbita quale credente.

Ricorrendo dunque in Cassazione, la sig.ra Achbita ha sostienuto in particolare che, nel ritenere che la convinzione religiosa su cui si fonda il divieto adottato dalla G4S costituisca un criterio neutro e nel non affermare che tale divieto costituisca una disparità di trattamento tra i lavoratori che indossano un velo islamico e quelli che non lo indossano, per il motivo che detto divieto non riguarda una convinzione religiosa determinata e che si rivolge a tutti i lavoratori, la Corte d’appello del lavoro di Anversa abbia travisato le nozioni di «discriminazione diretta» e di «discriminazione indiretta» ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78.

In tali condizioni, la Corte di cassazione del Belgio ha deciso di sospendere il procedimento e di proporre alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale:

«Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto per una donna musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro non configura una discriminazione diretta qualora la regola vigente presso il datore di lavoro vieti a tutti i dipendenti

di indossare sul luogo di lavoro segni esteriori di convinzioni politiche, filosofiche e religiose».

DIRETTIVA COMUNITARIA 2000/78 Articolo 2 - Nozione di discriminazione

La direttiva comunitaria 2000/78 stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e si pone come obiettivo quello di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.” (Articolo 1).

Una volta definito il principio di “parità di trattamento” come l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1, la presente direttiva chiarisce (articolo 2, paragrafo 2, lettera a e b ) cosa debba intendersi nello specifico per discriminazione:

a) DIRETTA: “sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui

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all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”.

b) INDIRETTA: “sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione,un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideo-logia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone a meno che:

i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari [...]”

Prima di analizzare quelle che sono le conclusioni cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è giunta in merito al caso Achbita, è opportuno esaminare anche l’ulteriore caso sul quale la Corte si è contestualmente pronunciata in modo da poter confrontare e rapportare le due decisioni.

Il caso Bougnaoui ( C-188/15) :

Contestualmente al caso belga Achbita, sempre il 14 marzo 2017, la Grande Sezione della Corte si è pronunciata anche in merito ad un altro caso, questa volta francese, di discriminazione religiosa a causa dell’utilizzo del velo islamico sul luogo di lavoro.

In questo secondo caso (C. giust., grande sez., 14 marzo 2017, causa C-188/15, Bougnaoui e Addh c.

Micropole SA) la controversia è scaturita dal fatto che una lavoratrice, di fede musulmana, ingegnere progettista, era stata licenziata essendosi rifiutata di togliere il velo islamico quando svolgeva la propria attività lavorativa a contatto diretto con i clienti dell’impresa della quale era dipendente che ne avevano fatto espressa richiesta. Il licenziamento, impugnato come discriminatorio, è stato ritenuto legittimo nei due gradi del giudizio di merito in quanto lo stesso non era dovuto ad una discriminazione derivante dalle convinzioni religiose della lavoratrice, ma risultava giustificato da una restrizione legittima derivante dagli interessi dell’impresa, mentre il fatto di indossare il velo islamico da parte di una dipendente di un’impresa privata, a stretto contatto con la clientela, pregiudicherebbe i diritti e le convinzioni di terzi, o la sensibilità della clientela di una società commerciale. Nel senso opposto la lavoratrice ha sostenuto, anche nel giudizio di cassazione, che il desiderio di un cliente che le prestazioni non vengano svolte da una dipendente che indossa il velo islamico non rappresenta un criterio efficace o legittimo, estraneo a qualsiasi discriminazione, tale da giustificare la prevalenza degli interessi economici o commerciali di detta società sulla libertà fondamentale di religione di un lavoratore dipendente.

Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione francese ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debbano essere interpretate nel senso che, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, il desiderio di un cliente di una società di consulenza informatica che i servizi informatici di quest’ultima

non siano più garantiti da una dipendente, ingegnere progettista, che indossa un velo islamico costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività

lavorativa».

DIRETTIVA COMUNITARIA 2000/78 Articolo 4 paragrafo 1 - Requisiti per lo svolgimento dell'attività lavorativa

1. Fatto salvo l'articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a una qualunque dei motivi di cui all'articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa,purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.

[...]

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Decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea a confronto

Innanzitutto, in ambedue le pronunce, la Corte intende chiarire il significato adottato dal legislatore comunitario in merito al termine “religione”, dal momento che l’articolo 1 della Direttiva non ne fornisce alcuna definizione. E’ opportuno ritenere che il legislatore comunitario faccia riferimento al significato di

“religione” impiegato sia nella CEDU (articolo 9) sia nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (articolo 10) “cosicché si deve interpretare la nozione di «religione» di cui all’articolo 1 di tale Direttiva nel senso che essa comprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni, sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa” (sentenza Achbita, punto 28; sentenza Bougnaoui, punto 30).

CEDU Articolo 9 - Libertà di pensiero, di coscienza e di religione

“Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.”

CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UE Articolo 10 - Libertà di pensiero, di coscienza e di religione

“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti.

[…]”

Una volta chiarito a cosa debba farsi riferimento quando si discute sul concetto di “religione”, la Corte affronta rispettivamente le due problematiche ad essa sottoposte.

Per quanto riguarda il Caso Achbita, La Cassazione belga ha sollevato alla Corte la questione pregiudiziale solo sotto il profilo della discriminazione diretta. La Grande Sezione della Corte ha osservato che nel caso di specie non risulta che nell’applicazione della norma interna nei confronti della signora Achbita ci sia stata una disparità di trattamento rispetto a qualsiasi altro dipendente e pertanto esclude che si possa trattare di una forma di discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a) della Direttiva Comunitaria 2000/78, confermando dunque l’indirizzo già intrapreso dalla Corte d’Appello di Anversa.

Tuttavia, la Grande Sezione non ha escluso che la norma interna in questione possa rappresentare per il giudice del rinvio una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b) della sopra citata Direttiva Comunitaria, questo però solo dimostrando che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia. Tutto ciò, però, non costituirebbe una discriminazione indiretta se fosse giustificato da una finalità legittima del datore di lavoro, come il perseguimento di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e se i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità fossero appropriati e necessari (art. 2, par.2, lettera b), punto i)) circostanza, questa, che spetterebbe al giudice del rinvio verificare.

La Corte ha chiarito che “la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa, deve essere considerata legittima” (Sent. Achbita, punto 37);

vietare simboli identitari è un criterio “idoneo ad assicurare la corretta applicazione di una politica di

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neutralità, a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico” (Sent.

Achbita, punto 40); infine il divieto può essere considerato necessario se interessi unicamente i dipendenti che hanno rapporti diretti e “visivi” con i clienti.

Ricapitolando, la Corte (Grande sezione) dichiara che:

“L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni

di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata

sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.

Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le

persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice

del rinvio verificare.”

Date tali considerazioni e data la mansione in concreto svolta dalla ricorrente (quella di receptionist), è presumibile che se fosse stata sottoposta alla Corte la questione pregiudiziale anche nei termini della discriminazione indiretta, questa avrebbe comunque escluso il verificarsi di un licenziamento illegittimo e discriminatorio, giustificando la normativa interna in forza del perseguimento coerente e sistematico di una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa.

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Nel caso della sig.ra Bougnaoui, essendo stato devoluto al cospetto della Corte solamente un dubbio interpretativo strettamente connesso all’art. 4 par. 1 della Direttiva 2000/78/CE e non, come nel caso Achbita, a un ricongiungimento specifico della normativa interna a una condotta discriminatoria diretta o indiretta ai sensi dell’articolo 2, par. 2, lettera a), la Corte, ha ipotizzato che: “se dovesse risultare, [...], che il licenziamento della sig.ra Bougnaoui si è basato sul mancato rispetto di una norma interna che era in vigore in detta impresa, la quale vieta di esibire qualunque segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, e che tale norma, in apparenza neutra, comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, come la sig.ra Bougnaoui, si dovrebbe concludere per l’esistenza di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della Direttiva 2000/78” (Sent. Bougnaoui, punto 32), pervenendo dunque alle medesime conclusioni raggiunte nel caso Achbita.

Al punto 34, la Corte invece dichiara che “nel caso in cui il licenziamento della sig.ra Bougnaoui non si basasse sull’esistenza di una norma interna quale prevista al punto 32 della presente sentenza, occorre esaminare, come richiede la questione posta dal giudice del rinvio, se la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi non siano più prestati da una dipendente che, come la sig.ra Bougnaoui, sia stata assegnata da tale datore di lavoro presso detto cliente e che indossi un velo islamico, costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.” (Sent. Bougnaoui, punto 34).

A tal proposito la Corte ha conseguentemente specificato che spetta agli Stati membri stabilire che una particolare differenza di trattamento basata su una delle caratteristiche di cui all’articolo 1 della Direttiva non rappresenta discriminazione se tale caratteristica rappresenta un requisito essenziale e determinante per l’attività lavorativa e se la finalità è legittima e proporzionata (Sent. Bougnaoui, punto 35). In questo caso ciò sarebbe stato attuato dalla Francia in forza dell’art. L. 1133-1 del codice del lavoro («Nessuno può imporre ai diritti delle persone o alle libertà individuali o collettive restrizioni che non siano giustificate dalla natura del compito da svolgere e proporzionate all’obiettivo perseguito»), ma “la nozione di requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa” a norma dell’art. 4, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78 deve rinviare a “un requisito oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata” (Sent. Bougnaoui, punto 39).

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Alla luce di ciò e alla luce del Considerando 23 della direttiva in questione (secondo il quale “In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all'età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato. Tali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione.”), la Corte giunge dunque alla conclusione che non indossare il velo da parte della dipendente non costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento della mansione lavorativa (nel caso di specie, la dipendente è ingegnere) oggettivamente determinato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa viene svolta, ma sarebbe in questo caso dettato solamente da considerazioni soggettive (quali gli interessi del datore di lavoro di tenere conto dei desideri particolari del cliente) le quali, pertanto, non possono giustificare il licenziamento comminato alla dipendente. La Corte (Grande sezione) pertanto dichiara che:

“L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di

lavoro, dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente

che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione.”

Conclusioni:

La giurisprudenza fin qui esaminata e in particolare le due sentenza gemelle della Corte di Giustizia dell’Unione Europea rappresentano sicuramente una svolta fondamentale per lo sviluppo delle normative nazionali in relazione alla tutela della libertà di manifestazione del proprio credo religioso.

Entrambe le pronunce della Corte di Giustizia hanno come elemento fondante del contenzioso l’esibizione del velo islamico durante l’attività lavorativa, ma le conclusioni a cui si giunge sono diametralmente opposte: la Corte di giustizia ritiene ammissibili le discriminazioni indirette giustificate oggettivamente da una finalità legittima, nella specie, fornire all’esterno un’immagine di neutralità che la signora Achbita, nel suo ruolo di receptionist, concorre a formare, ma ciò non vale per un’ingegnere progettista, la signora Bougnaoui, inviata a svolgere la sua attività presso un cliente che si era rivolto ad una impresa per ricevere determinate prestazioni che quest’ultima erogava, in quanto il suo abbigliamento non costituisce in questo caso “requisito essenziale e determinante” per lo svolgimento della mansione lavorativa.

La tematica in questione è particolarmente delicata, dovendo essere bilanciati sia la libertà d’impresa (anch’essa tutelata dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea all’articolo 16) che la libertà religiosa. Si tratta invero di un difficile equilibrio tra le esigenze dei lavoratori di esprimere anche in tale contesto la loro piena personalità e quelle del datore di lavoro, interessato a dare un’impronta personale alla propria azienda e a contenere il più possibile comportamenti che non si conformano alla “filosofia” datoriale.

La Corte, tramite queste sentenze, si pone l’obiettivo di delimitare il perimetro all’interno del quale gli Stati nazionali dovranno accertare la legittimità delle finalità e delle circostanze che eventualmente vietino l’utilizzo del velo (o di qualsiasi abbigliamento religiosamente connotato). La critica che si può tuttavia muovere è che, nel delineare questo perimetro e nel bilanciare i diritti tutelati, la Corte forse sembra privilegiare la politica aziendale di neutralità dell’impresa e, pur riconoscendo e promuovendo la libertà di abbigliamento e la libertà di religione, rende tali diritti delle variabili in dipendenza delle legislazioni nazionali e dei loro giudici.

Inoltre, ad una lettura superficiale potrebbe sembrare che basti l’introduzione di una regola che rinvii alla necessità di dimostrare la neutralità dell’azienda –presente nella prima, ma non nella seconda delle cause esaminate –per giustificare il divieto di indossare il velo e il licenziamento in caso di mancato rispetto dello stesso. Pur essendo chiaro che ciò non è sufficiente, ma occorre bilanciare i più interessi in gioco per poter giustificare la condotta datoriale, il problema si potrebbe porre in capo alla concezione di neutralità:

parlando la Corte ad una pluralità di Stati, ognuno di questi potrebbe avere un trascorso storico e costituzionale differente che si riverberebbe inevitabilmente su quella che è l’interpretazione di un concetto così dibattuto. Le sentenze in commento appaiono legate alle tradizioni e condizioni degli Stati in cui sono sorte le questioni e si potrebbero presentare delle difficoltà a un’applicazione generalizzata.

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Infine, la libertà dei singoli lavoratori non potrà ritenersi violata se tutti sono trattati allo stesso modo e se la disparità di trattamento è oggettivamente giustificata, ma si può rilevare come la neutralità dell’obbligo possa essere spesso solo apparente perché di fatto comporta un particolare svantaggio solo per le persone che aderiscono ad una religione che impone o consiglia un determinato abbigliamento.

In questo caso potrebbe essere considerata discriminatoria la stessa politica di neutralità voluta dall’azienda e giustificata dalla Corte.

Giulia Trevisan

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