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I limiti dell’assicuratore sociale

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I limiti dell’assicuratore sociale

E’ ipotesi piuttosto frequente che in presenza di lesioni di estrema gravità il danneggiato possa fruire delle prestazioni dell’INAIL, dell’INPS oppure di analogo ente straniero, con la conseguente necessità di tenere nel debito conto (in sede di risarcimento) i diritti di questi ultimi.

Prima di considerare gli effetti del recente (invero non recentissimo) orientamento assunto dalla giurisprudenza in ordine al limite quantitativo che l’assicuratore sociale incontra quando agisce in via di surroga o di regresso ai sensi degli artt. 1916 del codice civile, 11 d.p.r. 1124/65 e 14 legge 222/84 per il recupero di quanto corrisposto all’infortunato a titolo di risarcimento ovvero di indennizzo - oggi non più individuato nel solo ammontare complessivo del risarcimento dovuto al leso o ai suoi aventi causa - sembra opportuno ripercorrere brevemente l’excursus dal quale esso ha tratto origine.

Già nel 1989 cadeva un importante privilegio dell’INAIL: quello di ottenere in prededuzione il rimborso delle prestazioni erogate.

Con sentenza N° 319/89 il giudice delle leggi sanciva infatti l’incostituzionalità - in relazione all’art. 38, comma secondo, della carta fondamentale - dell’art. 28, commi secondo, terzo e quarto della legge 990/69 “nella parte in cui non esclude che gli enti gestori delle assicurazioni sociali possano esercitare l’azione surrogatoria con pregiudizio del diritto dell’assistito al risarcimento dei danni alla persona non altrimenti risarciti”.

Nel luglio 1991 la Corte Costituzionale dichiarava (con sentenza 356/91) l’illegittimità dell’art.

1916 del codice civile nella parte in cui tale norma consentiva all’assicuratore di avvalersi, nell’esercizio della facoltà di surrogazione verso i terzi responsabili, delle somme dagli stessi dovute all’assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico “anche quando non formi oggetto della copertura assicurativa”.

Nel dicembre 1991 la stessa Corte (con sentenza 485/91) dichiarava l’incostituzionalità dell’art.

10, sesto e settimo comma, del d.p.r. 1124/65, nella parte in cui prevedeva che il lavoratore informato o i suoi aventi causa avessero diritto - nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l’evento è derivato - al risarcimento del danno biologico “non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica solo se e nella misura in cui il danno risarcibile complessivamente considerato superi l’ammontare delle indennità corrisposte dall’INAIL” e dichiarava, altresì, l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, primo e secondo comma, del medesimo d.p.r. 1124/65 “nella parte in cui consente all’INAIL di avvalersi - nell’esercizio del diritto di regresso conto le persone civilmente responsabili - anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non correlato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica”.

Circa il danno morale ogni dubbio - quanto al limite dell’azione di rivalsa o di regresso degli assicuratori sociali - già risolto dalle magistrature di merito e di legittimità risulta definitivamente eliminato dalla Corte Costituzionale con sentenza N° 37 del 7/17 febbraio 1994. Attraverso tale pronuncia la Corte ha ritenuta superata e non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, sesto e settimo comma, nonché dell’art. 11, primo e secondo comma, del d.p.r. 1124/65 - con riferimento agli articoli 2, 32 e 38 della carta fondamentale - in aderenza all’indirizzo (per la verità sino a quel momento decisamente minoritario) espresso dalla Cassazione in ordine al diritto di surroga o di regresso che “non può, in generale, essere esteso al danno non coperto da garanzia assicurativa ad in particolare non può essere esteso al danno morale previsto dall’art. 2059 del codice civile, quando tale danno sia estraneo al rischio assicurato”.

Si tratta - in buona sostanza - del recepimento del principio cosiddetto delle “pretese congruenti”, regula iuris già operante a livello legislativo nella maggior parte degli ordinamenti

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stranieri ed, in parte, già acquisito dalla giurisprudenza di merito oltre che oggetto di una (isolata) pronuncia della Suprema Corte nel 1979.

Tale principio sulla congruenza delle voci di danno (ai fini della surrogazione o del regresso) applicato coerentemente porta alla esclusione dalla rivalsa dei tipi di pregiudizio non compresi nella assicurazione benché derivanti da un sinistro coperto da garanzia ed inclusi nel debito di responsabilità del terzo che dallo stesso evento sorge.

Ad analogo risultato si deve giungere nell’ipotesi - contraria - ove il danno sia coperto dalla garanzia ma non sia risarcibile alla stregua dei criteri individuati dalle regole della responsabilità civile.

Il principio in parola può - inoltre - condurre alla riduzione del diritto di surrogazione o di regresso che deve essere fatto valere per una somma inferiore all’indennità versata (nell’ambito di pretese congruenti) quando la valutazione del danno secondo il rapporto assicurativo risulti più alta di quella della corrispondente voce inclusa nel debito di responsabilità o riguardi un periodo di tempo più ampio rispetto a quello che possa venire preso in considerazione nel rapporto di responsabilità civile. Senza, peraltro, che l’assicurazione si trasformi in uno strumento di arricchimento dell’assicurato e tanto meno in una duplicazione del risarcimento concesso al danneggiato stante il fatto che la responsabilità del terzo - negoziale o aquiliana - incontra determinati limiti nell’ordine giuridico.

Applicando rigorosamente il principio dell’identità delle poste di danno anche in questa seconda ipotesi la parte dell’indennità che supera il corrispondente credito di risarcimento deve restare definitivamente all’assicurato (che, in tal modo, viene indennizzato anche per quei danni che la responsabilità civile non consente di riparare).

In concreto - per tornare alla surroga o rivalsa sul danno alla salute - vi sono magistrature che tendono a contenerne la misura entro limiti percentuali, fra uno e due terzi dell’intero danno biologico (indicazione talvolta preceduta da affermazioni che una prudenziale valutazione richiederebbe approfondite indagini psicologiche e sociologiche “ed, in linea di principio, dovrebbe forse più correttamente risolversi di ciascun soggetto, presupponendo l’accertamento in concreto di quanta incidenza abbia nella vita di ogni individuo la sfera lavorativa e cioè quanto del proprio tempo e delle proprie energie questi dedichi alla attività lavorativa e quali soddisfazioni ne tragga”).

Ma vi è anche chi ritiene che l’assicuratore sociale non abbia diritto a ripetere dal terzo o dal datore di lavoro alcun importo, reputando discutibile che la capacità lavorativa generica protetta dalla copertura assicurativa INAIL ed INPS si la medesima da prendere in considerazione nella valutazione della menomazione all’integrità psicofisica del soggetto leso.

Diversa mi sembra - se ho ben compreso - la posizione della scienza medica, la quale ritiene di poter correttamente individuare le aree di sovrapposizione delle diverse componenti dannose.

Riassumendo si può concludere che, mentre surroghe e rivalse dell’assicuratore sociale operano senz’altro sulle voci di danno patrimoniale, per quanto concerne il danno biologico non vi sono - allo stato - certezze di sorta, tanto da fare apparire indispensabile un intervento legislativo sull’intero sistema della previdenza antinfortunistica.

Nel frattempo - come è stato esaurientemente posto in evidenza da uno degli autorevoli relatori di questo convegno nella sua ultima pubblicazione: La ripartizione tra INAIL e danneggiato delle somme dovute dal responsabile (e dal suo assicuratore) è oggettivamente difficoltosa - ove manchi l’accordo tra tutte le parti interessate - ed è preferibile che venga decisa dal Magistrato, giacché una imprecisa suddivisione finirebbe per ricadere sull’assicuratore del responsabile.

Quanto alla nuova interpretazione dell’art. 28 della Legge N° 990/69, la situazione non è meno complicata.

Dovendo applicare i principi affermati dalla Corte Costituzionale della sentenza N° 319/89 l’assicuratore del responsabile, dopo aver accertato l’insufficienza del massimale disponibile per tacitare danneggiato e assicuratore sociale, dovrebbe dapprima sincerarsi se il patrimonio del responsabile civile sia di consistenza tale da garantire il risarcimento dei danni non indennizzati (dall’assicuratore sociale) e non risarcibili per incapienza del massimale; in caso negativo, dovrà

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soddisfare il credito del danneggiato e poi rimettere, all’assicuratore sociale la somma residua. Il tutto, naturalmente, con il rispetto delle regole di cui alle sentenze N° 356/91 e N° 37/94 della Corte Costituzionale.

Come tutto ciò sia traducibile in pratica, è facile immaginare.

In ultima analisi: il debitore (nella fattispecie per lo più rappresentato da un’impresa assicuratrice) quand’anche animato dalle migliori intenzioni di soddisfare l’obbligazione risarcitoria derivante da sinistro con postumi di rilevante gravità - talvolta pericolosamente prossima al limite del “massimale” - viene oggi a trovarsi nella necessità, per evidenti ragioni tuzioristiche, di delegare alla magistratura la ripartizione delle somme contese tra infortunato ed assicuratore sociale.

Avv. Maurizio Curti Giurista, Torino

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