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Osservazioni a “seconda lettura” sul d.m. 20 luglio 2012 n.140 - Judicium

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1 VITO AMENDOLAGINE

Osservazioni a “seconda lettura” sul d.m. 20 luglio 2012 n.140

Sommario. 1. Sul “contratto di patrocinio” tra l’avvocato ed il cliente. - 2. Ancora sulla registrazione del “contratto di patrocinio”. - 3. I nuovi criteri di liquidazione stabiliti dal d.m.

n.140/2012 (dis)incentivano il ricorso all’uso della risorsa giudiziaria? - 4. L’applicazione dei parametri stabiliti dal d.m. n.140/2012 ad atti ed attività relative ai giudizi non ancora definiti da una pronuncia (cd. “lavori in corso”). - 5. Clausole vessatorie inserite nel “contratto di patrocinio”. - 6. Liquidazione a carico del cliente “distinta” dalle spese della “sola” parte soccombente? - 7.

L’orientamento di un giudice di merito sulla portata applicativa del d.m. n.140/2012.

1. Sul “contratto di patrocinio” tra l’avvocato ed il cliente.

Nelle osservazioni a prima lettura sul decreto ministeriale n.140/2012, regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell'art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27 si erano già evidenziate alcune possibili storture alle quali potrebbe andare incontro la predisposizione dell’accordo cliente-avvocato (cd. contratto di patrocinio). Nella presente dissertazione, si tendono a porre in risalto le ulteriori problematiche che si ritiene possano insorgere, inevitabilmente – rectius, fisiologicamente – dando così luogo alla creazione di nuove ed imprevedibili forme di contenzioso civile ulteriore ed a margine di quello “principale” attivato in nome, per conto e nell’interesse di una parte.

Una prima questione attiene alla stessa predisposizione del contratto di patrocinio in forma di scrittura privata ed in quanto tale, priva del requisito della “data certa” valevole erga omnes.

Ebbene, quid juris nel caso della morte della parte – avvocato o cliente – circa la sua opponibilità ai rispettivi eredi?

Una cosa è la sottoscrizione sottostante alla data in cui è conferito il mandato difensivo di cui l’avvocato certifica ai sensi dell’artt. 83 c.p.c. l’autenticità versandolo negli atti di causa, ben altra il contenuto di un accordo o contratto di diritto privato redatto in forma di scrittura privata che, ove non registrato o non versato tempestivamente negli atti del giudizio, rimane un documento formato privatamente, a cui non potrà riconoscersi la data certa quanto alla sua formazione e, quindi, la relativa opponibilità nei confronti degli eredi di una delle parti.

La suddetta questione è destinata a trovare una sua autonoma rilevanza e valutazione laddove il contenuto economico dell’accordo intercoso privatamente tra l’avvocato ed il cliente diverga sensibilmente dall’importo oggetto della successiva liquidazione giudiziale del compenso disposto dal giudice, potendo gli eredi dell’una o dell’altra parte avere interesse a contestare la “genuina”

formazione del suddetto documento in data anteriore alla morte del cliente o dell’avvocato.

E qui trova ingresso altra non meno importante problematica, inerente l’efficacia della regolamentazione economica all’interno del rapporto già instauratosi tra l’avvocato ed il cliente. In particolare, cosa accade se il contratto di patrocinio – contenente la determinazione del compenso – non venga tempestivamente prodotto in giudizio, e, di conseguenza il giudice proceda ad una minore liquidazione del compenso alla parte vittoriosa? Quest’ultima – ove l’avvocato intenda ugualmente esigere dal proprio cliente la differenza del maggior importo non riconosciuto dal giudice nell’emettere la relativa pronuncia, a tal fine avvalendosi dell’accordo raggiunto in

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2 precedenza (mesi od anni addietro a seconda della durata del processo) potrà rifiutarsi di adempiere, rilevando ad hoc la responsabilità dell’avvocato nel non averlo tempestivamente prodotto in giudizio? Infatti la parte risultata essere vittoriosa nel processo civile potrebbe sottrarsi al pagamento del residuo importo dovuto al proprio avvocato a titolo di compenso eccependo al proprio difensore la mancata osservanza del puntuale rispetto dell’onere di produzione dell’accordo citato nella causa a cui lo stesso si riferisce. In tale ipotesi, il cliente potrebbe lamentare infatti il

“danno” costituito dalla differenza della liquidazione operata dal giudice come se l’accordo non esistesse (ad esempio € 10.000,00) e quello previsto nel contratto notevolmente maggiore (ad esempio € 15.000,00) che ove costretto a corrispondere ugualmente al proprio difensore, rimarrebbe definitivamente a suo carico non potendola certo ripetere autonomamente e distintamente dalla

“controparte” nonostante quest’ultima sia rimasta soccombente nello stesso giudizio. Appare altresì evidente poi come tale rischio sia tutt’altro che remoto ove si consideri che in base all’art. 1 comma 6 del d.m. n.140/2012, l'assenza di prova del preventivo di massima di cui all'art. 9, comma 4, terzo periodo, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell'organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso. Altro genere di problema deriva poi dalla stessa necessità di prevedere gli atti e l’attività futura in relazione ai quali poter idealmente “parametrare” il compenso, suddividendolo per fasi, ed opportunamente modulandolo in relazione all’impegno che – per quanto possa essere dato prevedere - il professionista dovrà profondere nel corso dell’intero giudizio. Appare evidente che a parità di valore e fase, il grado d’impegno ed attenzione del professionista possa essere notevolmente differente a seconda della singola controversia. Ad esempio, una fase istruttoria particolarmente articolata, in cui debba procedersi ad escutere molti testimoni, assumere vari interrogatori formali, c.t.u., integrazione o rinnovazione di c.t.u., assunzione ed esame di una mole considerevole di documenti, istanze di condanna ex art. 186 c.p.c., istanze cautelari in corso di causa, etc., non potrà essere valutata – a parità di valore – con un’istruttoria inerente ad una causa più tranquilla, anche dal punto di vista della stessa “litigiosità” delle parti in relazione al bene della vita oggetto della contesa giudiziaria. Lo stesso dicasi per la fase preliminare ed antecedente di

“studio” della controversia. E’ chiaro il riferimento alla singola controversia in cui, oltre alle circostanze fattuali concretamente ricorrenti è la stessa materia oggetto di causa a richiedere una particolare attenzione da parte dell’avvocato in misura significativamente superiore alla media diligenza qualificata normalmente esigibile ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2 e 1375 c.c. per il corretto svolgimento dell’incarico professionale conferito dal cliente.

Ciò potrebbe derivare ad esempio, anche da variabili indipendenti dal processo in sé considerato quale mero perpetuarsi occasionale di un “rito”, come in effetti sembrano suggerire il numero delle parti, la necessità o meno di integrare il contraddittorio, lo spiegare domanda od eccezione riconvenzionale, ovvero per effetto della prima reconventio reconventionis, procedimenti incidentali al processo principale, quali la querela di falso, etc. A ben vedere, come può l’avvocato prevedere con un’apprezzabile, ed almeno sotto l’aspetto che qui maggiormente interessa, invidiabile grado di certezza esprimibile ex ante – non avendo la sfera di cristallo di cui evidentemente altri qualificati soggetti dispongono – il futuro evolversi del processo civile che lo riguarda come difensore in relazione alla singola controversia per cui dovrà essere attivato il relativo giudizio? Una possibile risposta potrebbe essere quella che risiede nella “dilatazione” del concetto di “economia processuale” applicato alla figura professionale dell’avvocato che dovrà fare di “necessità virtù” nell’impegnarsi al massimo per ottenere il risultato prefiguratosi dal cliente con il minimo sforzo costituito dal prudente e certosino “dosaggio” riferito ai singoli atti ed attività che unitariamente considerati, si vorrebbero essere direttamente riconducibili all’ottimale uso della risorsa giudiziaria attivata nell’interesse del cliente. L’unico punto “dolente” di una tale visione

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3 potrebbe eventualmente consistere nell’imprevedibile “decorso” della moltitudine di variabili indipendenti che anch’esse unitariamente considerate, rappresentano una sorta di antitesi del principio di economia processuale di cui si è detto innanzi, la cui sintesi è l’alea che normalmente, piaccia o non piaccia, a vario titolo è presente in qualunque giudizio civile, a sua volta governato da un sistema giurisdizionale che quanto all’applicazione giurisprudenziale del diritto non conosce il principio riassumibile nello stare decisis proprio dei paesi di common law, ovvero della vincolatività del “precedente giudiziario”. Non a caso è proprio l’alea il principale ostacolo alla trasformazione dell’obbligazione di “mezzi” di regola assunta dal professionista in obbligazione di

“risultato”. E’ vero che il grado di aleatorietà presente in una determinata controversia civile, quanto alla ricerca della positiva soluzione della stessa, può essere più meno abilmente definito con l’uso della diligenza che è normale attendersi dall’esperienza maturata dall’avvocato, ma è pur sempre vero che non può mai essere eliminato del tutto, salvo per coloro che, come si è accennato innanzi, forse dispongono di una straordinaria panoramica su quello che potrà essere il futuro svolgimento dei fatti di causa, soltanto in tal modo potendone conoscere l’esito finale fra quelli di segno diverso, sul piano della probabilità, più o meno possibili, con largo anticipo. Del resto, se così non fosse, mutatis mutandis nessuno si azzarderebbe ad impegnarsi evocando in giudizio la propria controparte se prima ancora di attivare tale giudizio, il suo avvocato già ne conosce in anticipo l’esito negativo!

2. Ancora sulla registrazione del “contratto di patrocinio”

L’accordo fondato su una scrittura privata avente un chiaro contenuto economico-patrimoniale, intercorsa tra l’avvocato ed il proprio cliente, se privo di data certa abbiamo già visto nel precedente paragrafo quali problemi potrebbe generare, ma quid juris nel caso della sua omessa registrazione? Ad oggi, non si hanno indicazioni circa l’esistenza concreta di tale obbligo, ma supponiamo che lo stesso debba ritenersi esistente almeno sino a quando non si avrà un chiaro segnale ufficiale in senso contrario, quid juris per quanto attiene alle possibili conseguenze, oltre che alle stesse modalità e tempi di attuazione, derivanti dal suo mancato rispetto sul piano sanzionatorio a carico delle singole parti interessate?

3. I nuovi criteri di liquidazione stabiliti dal d.m. n.140/2012 (dis)incentivano il ricorso all’uso della risorsa giudiziaria?

Il d.m. 20 luglio 2012, n.140 nell’individuare il compenso dell’avvocato in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, si avvale di nuovi criteri di liquidazione, prendendo a modello per stabilire l’unitarietà del compenso il solo onorario essendo stati soppressi quelli che un tempi si chiamavano “diritti” di procuratore, che quindi in passato il difensore si vedeva riconoscere per tutta una serie di atti ed attività professionali espletate in favore del proprio cliente, in occasione di un giudizio ed al di fuori dello stesso (attività stragiudiziale). Poichè attualmente, in assenza di un contratto scritto, l’avvocato dovrà contare su un compenso ridotto per effetto del taglio dei citati

“diritti” di procuratore, quid juris per quanto attiene all’irrinunciabile necessità di preservare un’adeguato livello qualitativo della prestazione resa in favore del cliente, in misura non inferiore a quella normalmente esigibile ex art. 1176 comma 2 c.c., la cui graduale elevazione pure si imporrà in presenza di particolari atti e condizioni durante il processo, il cui concreto avverarsi non è affatto possibile prevedere a priori, men che mai con certezza? Basti pensare a cosa potrebbe accadere se al fine di dimostrare o negare un determinato fatto, per mere ragioni di economia, anche processuale, dovendosi “contenere” gli stessi tempi del giudizio e, quindi, il numero delle udienze utili per rispettare il “calendario del processo” ed evitare di incorrere nell’applicazione dell’indennizzo

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4 riconosciuto alla parte per l’inosservanza della ragionevole durata del processo, dovesse limitarsi al minimo la proposizione di mezzi istruttori quale ad esempio l’audizione di testimoni, in numero sovrabbondante o perché ormai ritenuti pleonastici, come il deferimento di interrogatorio formale, od ancora, eccessivamente costosi (si pensi alla stessa possibilità di rinnovare una c.t.u.). I criteri dettati per la spending review ove applicati al processo civile non è detto che alla prova dei fatti si rivelino essere migliori del male che si propongono di curare, ossia la cronica lentezza della giustizia civile, additata dai mercati nell’attuale momento di crisi dell’economia, come vera e propria fonte disincentivante per tutti coloro che desiderano investire in Italia. Una causa civile curata male sebbene in tempi brevi o comunque apprezzabili, generando a sua volta ingiustizia, oltre a lasciare l’amaro in bocca a chi magari aveva davvero ragione e non è riuscito ad ottenerla per la troppa fretta, si presenta anche come fonte di ulteriore contenzioso tra le stesse parti, non soltanto in senso verticale (appello, cassazione) ma anche orizzontale (azioni giudiziarie autonome e parallele, ovvero incidentali, volte a conseguire beni della vita “contigui” rispetto a quello richiesto in via principale; ovvero a proporre nuove azioni legali di risposta o contrasto al di fuori dell’originario processo, sussistendone le relative condizioni; etc.). Si pensi ad un soggetto che ingiustamente si è visto rigettare la domanda per la superficialità nella conduzione della strategia processuale più adeguata e confacente in relazione alla singola controversia, da un lato, dovuta alla furia di terminare quanto prima il giudizio civile per rispettare i termini del calendario fissati a priori dal giudice, evitando di irritare quest’ultimo, ed in tal modo di contribuire ad influenzare negativamente il suo libero convincimento e dall’altro, al naturale “distacco” dell’avvocato dal considerare con particolare ed appropriata passione la stessa fattispecie, una volta maturata la consapevolezza di aver già espletato atti ed attività sufficienti per conseguire il compenso unitario previsto dai parametri del d.m. n.140/2012 con riferimento, appunto, allo svolgimento della singola fase processuale. Il rischio di un avvocato distratto quanto basta per assolvere con la dovuta diligenza professionale ad un’attività che assomiglia più ad una difesa d’ufficio più che di fiducia si appalesa quantomeno come tristemente concreto e pericoloso per gli stessi interessi del cliente, sia esso impresa o consumatore. In breve, è come se in campo medico, un chirurgo venisse pagato a tempo per compiere la propria opera, per cui resosi conto di stare per oltrepassare i limiti temporali concessi per legge, deve per forza ricucire in fretta e furia il paziente, incurante del fatto che una ferita cucita male oltre a provocare danni (e responsabilità) ulteriori, con gli stessi genera anche altro dolore ed insofferenza verso l’intero “sistema” al cui interno opera il professionista. Del resto, applicare i criteri della spending review al processo civile è facile, basta ignorarne, non importa se più o meno consapevolmente, tutti gli effetti negativi che eventualmente potrebbero conseguirne a vario titolo. Nel caso che ci occupa è un po’ come se qualcuno, in alto da qualche parte, avesse avuto l’idea di mandare un messaggio ad ogni avvocato, del tipo: sbrigati nel curare la causa, che, tanto, per la legge di mercato la determinazione dell’entità del compenso ha comunque un orizzonte assai limitato, a prescindere dal tempo e dall’attività professionale concretamente impiegati, dovendo risultare chiaro che una volta superato il limite indicato dal parametro di riferimento in relazione al valore della controversia, in difetto di accordo quello che viene in più è tutto gratis per il cliente.

4. Clausole vessatorie inserite nel “contratto di patrocinio”

Nel contratto di patrocinio potranno essere inserite clausola di vario genere, ma siamo sicuri che per la loro validità, alla stregua di quella che potrà essere l’interpretazione giurisprudenziale, basterà la semplice approvazione per iscritto del cliente ai sensi dell’art. 1341, comma 2 c.c.? Ad esempio, nello schema-tipo redatto dal Cnf si individuano clausole del tipo: <<il mancato pagamento degli acconti richiesti o la mancata rifusione delle spese anticipate dall’avvocato costituiscono causa di

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5 risoluzione del presente contratto>>, che sembra richiamare quanto enunciato dall’art. 1456 c.c. in tema di clausola risolutiva espressa ovvero altra del tipo <<il cliente è tenuto a corrispondere all’avvocato l’intero importo risultante dal presente contratto, indipendentemente dalla minore liquidazione giudiziale e dall’onere di refusione posto a carico della controparte>> ovvero che

<<ove l’importo liquidato giudizialmente sia superiore a quanto sopra pattuito, la differenza sarà riconosciuta a favore dell’avvocato>> (appare evidente come in tali ipotesi l’avvocato verrebbe ad incamerare un “profitto” o “guadagno” in termini di plusvalenza rispetto all’attività effettivamente esercitata, paragonabile in tutto e per tutto a quello di un’imprenditore commerciale), od ancora

<<l’avvocato potrà farsi versare direttamente dalla controparte le spese legali poste a carico di quest’ultima e a trattenerle a titolo di compensazione sino a soddisfazione del proprio credito>> (in quest’ultima ipotesi ventilando una sorta di diritto di “ritenzione impropria” del credito vantato dal professionista) oppure, <<in caso di rinuncia al mandato o di revoca o per altra causa estintiva, il cliente verserà quanto pattuito per l’attività fino a quel momento svolta>> (quindi ponendo sullo stesso piano gli effetti promananti dalla rinuncia o revoca del mandato contrariamente rispetto a quanto invece sancito sul punto dall’art. 2237 commi 1 e 2 c.c.) Magari di questo passo si potrebbero inserire anche ulteriori clausole volte a delimitare la responsabilità del professionista nel tentativo di fornire al medesimo un “ombrello” per ripararlo dalla “pioggia” di eventuali pronunce rese in primo o secondo grado ex art. 96 comma 3 c.p.c., ovvero ex art. 1176 comma 2 c.c.; ovvero a stabilire l’esclusività del foro di appartenenza del Consiglio dell’Ordine a cui l’avvocato è scritto, in spregio alla vigente normativa stabilità dal codice del consumo (avvalorata dall’interpretazione del giudice di legittimità) od ancora, nel caso di azione di responsabilità, a prevedere una sorta di beneficium excussionis a favore dell’avvocato esigibile nei confronti dell’assicuratore per la responsabilità civile professionale divenuta anch’essa obbligatoria. L’elenco potrebbe continuare, risultando piuttosto lungo, articolato e complesso l’insieme delle disposizioni convenzionali racchiuse tutte nel medesimo atto negoziale, ciò comportando, di per sé, anche una maggiore difficoltà sul piano dell’interpretazione in caso di un’eventuale disaccordo (sopravvenuto) su uno o più punti del contratto, e quindi, di possibile stimolo sul piano dell’eventuale contenzioso che potrebbe derivarne. Ed in ogni caso, siamo davvero sicuri che – in particolare quando si ha davanti un consumatore – la speciale tutela forte apprestata dal legislatore con il codice del consumo debba cedere il passo davanti alla semplice sottoscrizione delle suddette clausole attraverso un mero rinvio alle stesse contenute nella scrittura privata?

5. L’applicazione dei parametri stabiliti dal d.m. n.140/2012 ad atti ed attività relative ai giudizi non ancora definiti da una pronuncia (cd. “lavori in corso”)

Nelle precedenti osservazioni a prima lettura al d.m. 20 luglio 2012, n.140 si era sollevato il problema di diritto riguardante l’applicabilità dei nuovi parametri a situazioni pregresse non definite da una pronuncia giudiziale. In particolare, si era paventata l’ipotesi della sostanziale mancanza di riferimenti legislativi per quanto concerne la disciplina dei compensi all’avvocato per l’attività professionale nella fase stragiudiziale e giudiziale non definite con l’emanazione di un provvedimento del giudice, sia pure depositato a cavallo tra il vecchio (tariffe forensi) ed il nuovo sistema (parametri). Quanto all’attività stragiudiziale dell’avvocato, si era preso come semplice esempio, quella inerente la predisposizione e notifica dell’atto di precetto, ovvero, quella prestata dall’avvocato in qualità di patrocinatore del proprio assistito nel procedimento di mediazione disciplinato dal d.lgs. n.28/2010 ovvero nella medesima qualità in occasione di procedimenti arbitrali anch’essi non definiti con l’emanazione di un lodo, ad esempio per l’intervenuta composizione amichevole della controversia inter partes, od ancora, in occasione della semplice attività di “consulenza” prestata in favore del proprio cliente, anche mediante la redazione di veri e

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6 propri “pareri”. Quanto all’attività svolta dall’avvocato si era paventata l’ipotesi del giudizio iniziato e poi abbandonato, magari per sospensione, interruzione od estinzione del processo nei casi consentiti dalla legge, ovvero per intervenuta transazione della lite, e quindi, estinto senza un formale provvedimento del giudice contenente anche una liquidazione del compenso all’avvocato.

Recentemente, sulla quaestio inerente la possibile risoluzione al problema concernente l’applicazione medio tempore vale a dire nel periodo a cavallo tra la fine del periodo di vigenza delle tariffe forensi e quello sopravvenuto dei parametri di cui al d.m. n.140/2012 sono intervenute le Sezioni unite – Cass. S.U. 12 ottobre 2012, cron.17406, Pres. Preden, est. Rordorf – che hanno sancito il principio in base al quale le disposizioni contenute nel detto decreto ministeriale sono destinate a trovare applicazione anche quando la liquidazione (del compenso all’avvocato) sia operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all’entrata in vigore del medesimo decreto.

Nello statuire detto principio, i giudici di legittimità osservano come per ragioni di ordine sistematico, che tenga conto di un’interpretazione il più possibile coerente con i principi generali cui è ispirato l’ordinamento (italiano) l’art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n.140 che ha dato attuazione alla prescrizione contenuta nell’art. 9, comma 2 del d.l. 24 gennaio 2012, n.1, conv. dalla l. 24 marzo 2012, n.271 <<debba essere letta nel senso che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate>>. Nel far ciò, la Cassazione muove dal presupposto che <<vero è che il terzo comma del citato art. 9 del d.l. n.1/12 stabilisce che le abrogate tariffe continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, siano all’entrata in vigore del decreto ministeriale contemplato nel comma precedente; ma da ciò si può trarre argomento per sostenere che sono quelle tariffe – e non i parametri introdotti dal nuovo decreto – a dover trovare ancora applicazione qualora la prestazione professionale di cui si tratta si sia completamente esaurite sotto il vigore delle precedenti tariffe>>. E fin qui, nulla da obiettare, se non la semplice considerazione che resta totalmente eluso l’esame della problematica evidenziata nel testo del presente elaborato ed in quello precedente: nel periodo intercorrente tra la fine del periodo di

“ultrattività” (peraltro soltanto parziale, riguardando unicamente l’attività giudiziale) del periodo di vigenza delle tariffe forensi e quello segnato dall’entrata in vigore dei nuovi parametri introdotti dal citato d.m. n.140/2012, come si regolamenta la definizione del compenso all’avvocato per l’attività professionale espletata dal medesimo in favore del proprio cliente in sede stragiudiziale e giudiziale, senza che sia intervenuto medio tempore, un provvedimento di liquidazione del giudice? Inoltre, quid juris nello stesso periodo temporale, per quanto concerne il compenso spettante all’avvocato, riguardante l’attività prestata dal medesimo in ambito stragiudiziale, nel citato periodo in cui le stesse tariffe forensi continuano sì ad applicarsi in base al disposto di cui all’art. 9 comma 2 del d.l.

n.1/2012 ma alla sola attività giudiziale? La Cassazione conclude la propria disamina eludendo totalmente tale problematica, limitandosi a precisare che (giustamente) non possa essere accolta l’opposta tesi di chi con riferimento a prestazioni professionali iniziate prima dell’entrata in vigore del d.m. n.140/2012 ma ancora in corso, ritiene che il giudice debba liquidare il compenso segmentando le prestazioni rese dall’avvocato nei singoli atti compiuti in causa oppure distinguendo tra loro le diverse fasi in cui le stesse prestazioni sono state eseguite dal medesimo difensore, in tal modo frazionandone la relativa liquidazione, applicando per la parte di competenza le tariffe e per quella residua i parametri introdotti dal d.m. n.140/2012. Nel far ciò, i giudici di legittimità invocano la nozione di corrispettivo unitario che ha riguardo all’opera professionale complessivamente prestata (dall’avvocato), dilatandone però la relativa interpretazione sino ad

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7 estenderla – rispetto a quanto invece enunciato testualmente nel d.m. n.140/2012 – quanto all’unificazione di diritti ed onorari nella nuova accezione omnicomprensiva di compenso anche all’implicazione dell’adozione del medesimo principio alla liquidazione – (rectius, al momento di liquidazione) di quest’ultimo. Ora si protrebbe obiettare in forma di obiter – vale a dire, limitatamente a quest’ultimo assunto dei giudici di legittimità – che le disposizioni contenute nel d.m. n.140/2012, trattandosi di una fonte secondaria nella produzione del diritto, ed in quanto tale, non equiparabile ad una disposizione legislativa di rango primario, da ciò potendo conseguire ovvie ed ulteriori considerazioni su tale punto specificamente considerato, non statuiscono alcunchè in punto di diritto squisitamente processuale, ma unicamente sul piano del diritto sostanziale (liquidazione del compenso all’avvocato), per tale ragione, risultando una chiara forzatura l’interpretazione di una norma di rango secondario di natura sostanziale a regolatrice di questioni di diritto temporale sul piano squisitamente processuale. Ma come si è detto innanzi, il vero problema da risolvere resta un altro: tutto ciò vale per le attività giudiziali conclamate da un provvedimento reso dal giudice, sia pure relativamente ad atti ed attività (giudiziali) svolte a cavallo tra la vecchia e la nuova disciplina di regolamentazione del compenso dell’avvocato, e per le altre attività stragiudiziali od anche giudiziali compiute nello stesso periodo temporale preso come punto di riferimento senza che sia intervenuto un provvedimento di liquidazione del giudice? Un esempio al fine di rendere più intellegibile la questione esposta: 10 distinte cause vengono attivate anni prima dell’entrata in vigore del d.m. n.140/2012 e risultano ancora pendenti a tale data. Le parti si accordano per definire il contenzioso abbandonando i relativi giudizi, senza he vi sia quindi un provvedimento del giudice competente di ciascuna causa. Come si liquida il compenso all’avvocato della singola parte in assenza di una statuizione in merito? Non certo applicando le tariffe forensi, essendo le stesse ormai definitivamente abrogate, ed essendo cessato il periodo di parziale ultrattività; ma neanche mediante ricorso ai parametri del d.m. n.140/2012 in quanto quest’ultimi oltre a riferirsi all’attività giudiziale presuppongono che la liquidazione avvenga attraverso l’emanazione di una pronuncia ad hoc da parte del giudice della causa. Lo stesso problema si pone in termini analoghi anche per le attività stragiudiziali dove al posto delle cause troviamo altri procedimenti di natura non contenziosa od alternativi alla giurisdizione.

6. Liquidazione a carico del cliente “distinta” dalle spese della “sola” parte soccombente?

Il Tribunale di Bari, in data 5 ottobre 2012, ha emanato una circolare presidenziale, con la quale in ordine alla liquidazione nei giudizi da definire, delle spese della parte soccombente (liquidazione distinta da quella delle spese a carico del cliente) osserva che il compenso va determinato in base ai parametri introdotti dal d.m. n.140/2012 secondo il principio generale tempus regit actum, intendendosi per atto il provvedimento del giudice che fissa la liquidazione finale del compenso defensionale, secondo la chiara, inequivoca previsione dell’art. 41 dello stesso decreto ministeriale.

La circolare – che ovviamente non ha alcun valore legislativo – oltre ad aver anticipato di alcuni giorni la pronuncia emessa dalle Sezioni unite – cfr. Cass. S.U. 12 ottobre 2012, cron.17406 – quanto alla liquidazione nei giudizi da definire delle spese della parte soccombente, precisando non solo che dal punto di vista temporale, il compenso dell’avvocato va determinato in base ai parametri introdotti dal d.m. n.140/2012 secondo il principio generale tempus regit actum, ma che per atto deve intendersi il provvedimento del giudice che fissa la liquidazione finale del compenso defensionale, con ciò confermando i rilievi esposti nel testo delle presenti osservazioni che una liquidazione giudiziale è pur sempre necessaria al fine di stabilire l’applicazione dei parametri del d.m. n.140/2012 anche con riferimento all’attività pregressa espletata dall’avvocato in favore del proprio cliente, al fine di poterne quantificare il relativo compenso. Ciò ovviamente, vale anche per quanto concerne la liquidazione delle spese all’avvocato della parte vittoriosa da porre a carico della

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8 parte soccombente. Tanto premesso, la citata circolare presidenziale del Tribunale di Bari pone l’ulteriore questione concernente la distinzione tra il compenso al difensore della parte vittoriosa nel processo e quello pattuito dall’avvocato nei confronti del cliente, che in ultima analisi riguarda anche il difensore della parte rimasta soccombente. Quid juris al riguardo sulla effettiva portata applicativa del d.m. n.140/2012? L’art. 1 del citato decreto sembrerebbe chiaro nel prevedere che per quanto attiene l’ambito di applicazione e regole generali, l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso all’avvocato applica, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, le disposizioni del presente decreto. L'organo giurisdizionale (adito dalla parte) puo' sempre applicare analogicamente le disposizioni del presente decreto ai casi non espressamente regolati dallo stesso.

Dall’esame della suddetta disposizione si evince quindi che:

a) la liquidazione del compenso all’avvocato è genericamente riferita alla figura di quest’ultimo, e, quindi, non appare legata esclusivamente alla logica fondata puramente e semplicemente sulla soccombenza della parte assistita nel processo, ben potendo riguardare anche il compenso comunque spettante al singolo avvocato costituito nel medesimo processo, dietro sua precisa richiesta in tal senso avanzata al giudice, eventualmente anche in base al contratto di patrocinio intercorso con il proprio cliente (laddove portato a conoscenza diretta del giudice, previa allegazione agli atti dello stesso giudizio);

b) la possibilità di applicare analogicamente le disposizioni del presente decreto ai casi non espressamente regolati dallo stesso è comunque rimessa all’organo giurisdizionale adito dalla parte, confermando che in difetto di un giudizio pendente, non esiste nel decreto una concreta regolamentazione del compenso per l’attività stragiudiziale dell’avvocato autonomamente ricavabile aliunde, senza che vi sia l’emanazione di un provvedimento giudiziale ad hoc, come peraltro si desume sebbene indirettamente, sempre su tale punto specificamente considerato, dal silenzio dell’art. 3 dello stesso d.m. n.140/2012.

7. L’orientamento di un giudice di merito sulla portata applicativa del d.m. n.140/2012 Secondo una pronuncia del Tribunale di Siena – 26 agosto 2012 - ai sensi dell'art. 41 del d.m.

n.140/2012, le disposizioni di quest’ultimo si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore. Ciò premesso, il giudice senese rileva come dall’impiego del termine “liquidazione” sia nell’art. 9, secondo comma d.l. n.1/2012, sia negli artt. 1, 4, 11, 3 e 6 del d.m. n.140/2012, questi ultimi due relativi a compensi forensi differenti da spese processuali, sia inoltre nelle ulteriori disposizioni regolamentari che, come l’art. 17 dello stesso decreto ministeriale si riferiscono a professioni non forensi, si evince che nel contesto normativo in esame il termine “liquidazione”

indica ogni determinazione da parte di un organo giurisdizionale di un compenso professionale.

Ne discende a maggior ragione, in via letterale ancor prima che logica e sistematica, che in tale nozione rientra anche la taxatio delle spese processuali a carico del soccombente, sicché i vigenti parametri si applicano alla liquidazione ex art. 91 c.p.c. cui deve farsi luogo nella presente sede.

In chiave teleologica tale esito esegetico risulta altresì più coerente, rispetto al criterio tempus regit actum, con il proposito semplificatorio perseguito dall’Esecutivo nell’attuazione della norma sostitutiva delle tariffe del sistema ordinistico di cui al d.l. n.1/2012 recante “disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”. Tale mens legis è esplicitata nella Relazione illustrativa del decreto ministeriale nell’ultimo capoverso inerente alla professione di Avvocato: “Conclusivamente va rimarcato poi che la ben maggiore semplificazione del sistema dei compensi così delineato determinerà un esponenziale incremento dell’agilità decisionale, per gli organi giurisdizionali, (anche) in sede di liquidazione delle spese all’esito del contenzioso.”.

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9 L’unitarietà della fonte normativa dei criteri di liquidazione meglio si adatta altresì all’intento di trasparenza e massima intelligibilità da parte del soggetto non tecnico (quale è, nell’id quod plerumque accidit, il cliente del professionista) che ha indotto a ritenere che ogni parcellizzazione liquidatoria fosse contraria allo spirito della riforma, così come palesato dall’art. 9, quarto comma d.l. n.1/2012 in tema di preventivo (cfr. Relazione illustrativa, p.8, per tale rilievo).

Né è a dirsi che l’abbandono della regola intertemporale tempus regit actum, che aveva improntato a sé la liquidazione dei diritti di procuratore al tempo dell’abrogazione del d.m. n. 585/1994 ad opera del d.m. n.127/2004, possa comportare una discontinuità interpretativa lesiva di affidamenti intangibili da parte del legislatore o del governo in sede regolamentare. È infatti ius receptum che, con l’eccezione dei rapporti che hanno avuto esaustiva esecuzione prima dell’entrata in vigore della modifica normativa, tale norma intertemporale non è indistintamente compatibile con qualsiasi componente del compenso professionale, ma soltanto con quelle computate in misura fissa in puntuale e immediata correlazione con attività istantaneamente individuabili nel tempo: “[i]l giudice, quando liquida le spese processuali e, in particolare, i diritti di procuratore e gli onorari dell'avvocato, deve tenere conto che i primi sono regolati dalla tariffa in vigore al momento del compimento dei singoli atti, mentre per i secondi vige la tariffa in vigore al momento in cui l'opera è portata a termine e, conseguentemente, nel caso di successione di tariffe, deve applicare quella sotto la cui vigenza la prestazione o l'attività difensiva si è esaurita” (Cass. 15 giugno 2001, n. 8160, Cass. 16 luglio 1997, n. 6482). Ciò premesso in termini generali, tratto distintivo e peculiare dell’odierna sopravvenienza normativa è l’introduzione di un nuovo sistema fondato sulla sostituzione di parametri elastici e discrezionalmente derogabili alle tariffe già vincolanti per l’organo giurisdizionale. Secondo il Tribunale di Siena tale innovazione concettuale importa, tra l’altro, il principio di unitarietà del compenso, che nella Relazione illustrativa, p.8, ha indotto a definire l’abolizione della distinzione tra diritti ed onorari come un necessario precipitato sia in termini di rottura con il sistema tariffario sia in termini sistematici. Ai presenti fini mette conto rilevare che tanto l’unitarietà del riferimento all’opera prestata quanto la flessibilità erano caratteri distintivi dell’onorario, così come ora lo sono dei parametri, sicché tali categorie presentano significativi profili di strutturale omogeneità reciproca; prova ne sia che il riferimento principale per il computo del parametro di ciascuna fase per il c.d. scaglione di riferimento è stato proprio l’onorario per le attività solitamente rientranti nella fase stessa, mentre del valore di costo dei previgenti diritti il Ministero ha tenuto conto in via integrativa, comunque per contribuire alla quantificazione della “componente “attuativa” piuttosto che propriamente “valutativa” dell’attività professionale”.

Pertanto, la più stretta analogia strutturale tra onorari e parametri – i quali disciplinano tanto le fasi cognitorie quanto quella esecutiva – ha per esito sistematico che per i secondi, così come si è sempre riconosciuto per i primi, la liquidazione non può che avvenire all’esito di una lettura complessiva e unitaria della prestazione professionale svolta, insuscettibile di frazionamenti tra diverse fasi processuali, tanto più sulla base del mero estrinseco dato della loro articolazione temporale in data (in tutto od in parte) anteriore o posteriore al 23 agosto 2012.

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