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Presentazione Non ho conosciuto Padre Gerlando Re. Ho solo il ricordo sbiadito di ciò che, bambino, sentivo di lui, dopo quel tragico 18 giugno 1949,

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Presentazione

Non ho conosciuto Padre Gerlando Re. Ho solo il ricordo sbiadito di ciò che, bambino, sentivo di lui, dopo quel tragico 18 giugno 1949, dal ciancianese Mons. Luigi Abella, parroco del mio paese d'origine. Più tardi, emozionandomi, ne lessi e rilessi il profilo in un prezioso e bel libro che Mons. Domenico De Gregorio dedica ad alcuni dei sacerdoti che hanno onorato il presbiterio agrigentino con la santità della vita, innervata di zelo apostolico, cultura e sorprendente varietà di carismi. Devo l'onore di stendere questa pagina all'amabilità generosa del fratello, dott. Salvatore Re, che ringrazio di cuore per l'amicizia di cui mi gratifica e, molto di più, perché dedica mente e cuore con tenacia, diligenza e intelligenza ammirevoli, a tenere desta la memoria del Fratello martire del ministero sacerdotale.

Non ho conosciuto Don Re e nulla so delle sue attitudini musicali e canore; pure, quando si parla di lui,"sento" la sua voce che, con sicura dolcezza, sovrasta il silenzio e l'afa di giugno, cantando:

"O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia,

a te anela la mia carne,

come terra deserta, arida, senz'acqua.

Così nel santuario ti ho cercato,

per contemplare la tua potenza e la tua gloria.

Poiché la tua grazia vale più della vita,

le mie labbra diranno la tua lode"(Sai 62,2-4).

Che dire di Padre Re?

Non occorrono molte parole perché, per lui, parla il sangue versato nella tensione spirituale che lo spinge a correre accanto alle vittime, forse, della miseria, certo, di un'assurda sbandata del cervello.

Ed egli accorre perché, assegnato come pastore, vuole essere pastore buono dietro "il Buon Pastore" e, come lui, offre la vita per le pecore (Cfr Gv 10,11).

Sangue versato!

Scrivo queste due parole e un brivido mi scuote.

Esse hanno sapore rude, acre, bruciante e ... dolce.

Rude, acre, bruciante e dolce: c'è bisogno di spiegazioni?

Il gusto rude delle cose serie, costose.

L'odore acre dei comportamenti che non cercano e non attendono applausi.

La falcata bruciante dei giorni decisivi che esigendo e tagliando, verificano e segnano.

Il colore ed il calore dolce della vita che nasce a patto che il chicco muoia; perché chi ama la propria vita finisce per perderla e chi accetta di perderla la ritrova.

Si fa presto a riandare con la memoria e ad indicare e fissare sulla carta una data: 18 giugno 1949.

E però fuorviante pensare che tutto sia accaduto quel giorno, così, per caso. Per il sadico intrecciarsi dei fili di un destino cieco.

Il vecchio adagio per il quale, in natura, non c'è posto per i procedimenti saltellanti, vale pure per la vita dello spirito.

Quel 18 giugno è in un itinerario e lo conclude.

Sembra avere come motore la casualità e come meta il selciato assolato, la polvere spazzata dallo scirocco.

(2)

Il caso, però, non esiste e perfino i capelli del nostro capo sono tutti contati (Mt 10,30) da Dio che, stendendo la

mano e afferrando per i capelli, può sollevare fra terra e cielo e condurre (cfr (Ez 8,3).

Il caso non esiste, la polvere è la verità dell'uomo e il Vangelo è il motore. Il Vangelo è Gesù Pastore buono.

Buono, non perché noi, così, convenzionalmente, lo indichiamo e neppure perché lui così si è definito, ma perché egli, diversamente dai mercenari d'ogni fatta, ama, conosce, cerca, nutre, guida, salva le sue pecorelle.

Ai suoi aveva detto "fate questo in memoria di me".

"Questo", che cosa?

Un rito? Una bella celebrazione con corredo di melodie gloriose, di parati onusti di trini e merletti svolazzanti? Un appuntamento per riassaporare il passato con la magia

della nostalgia che tutto idealizza, rende bello, splendido, desiderabile?

Non è serio.

La fede vera ha esigenze altre.

Dice il Signore: "Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero? Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori, agnelli e capri io non gradisco.

Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?

Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità.

Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi.

Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto.

Le vostre mani grondano sangue.

Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista.

Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova" (Is 1,11-16).

"Questo", allora, che cosa?

"Questo" che ho fatto io.

"Questo", dare la vita, marcire in terra, come grano che, marcendo e donandosi, dona di vivere e vive.

Don Re aveva interiorizzato che il sacrificio che Cristo Signore ha fatto di sé sulla croce, dal sacerdote esige, oltre che la sobria solennità nella rituale ripresentazione del Mistero con la celebrazione della Messa, la coerenza della vita e, più ancora, il dono della propria vita, secondo quanto insegna Paolo: "Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.

Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per potere discernere la volontà di Dio, ciò che è buono a lui gradito e perfetto" (Rm 12,1-4).

Don Gerlando aveva capito bene che a Cristo che dà se stesso, nel segno del pane e del vino, è meschino rispondere con la sola ripetizione del solo rito.

Sangue e carne esigono sangue e carne.

Ed egli dà sangue e carne, sul serio. In concreto, quel giorno, lì, nella polvere della via Bondì, oggi Via Don Gerlando Re, a Cianciana.

A Dio, certo, ma nei fratelli!

(3)

"Cosa darò al Signore per tutto quello che egli mi ha dato?" Aveva ripetuto infinite volte, dal 12 dell'altro giugno, quello del 1941, quello dell'ordinazione sacerdotale.

Altrettante volte aveva ripetuto e fatto sua la risposta:

"Prenderò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore".

Prenderò il calice del sangue: quello del Calvario e quello suo.

Invocherò il Nome. Il Nome Santo.

Il Nome che le potenze celesti pronunziano adoranti e balbettando:

Haghios-Santo!

Atanatos-Immortale!

Ischyros-Forte!

Come il Venerdì Santo. Quel giorno, il segno scomparirà per lasciare il campo alla realtà.

E lui, generoso, non si ferma e si china su chi perdeva il sangue.

Su chi lo faceva perdere... fino a perderlo egli stesso, con il Maestro e Signore in un Venerdì Santo, nuovo e palpitante di attualità e verità.

Don Gerlando aveva sortito da natura, le testimonianze di quelli che l'hanno conosciuto concordano, un buon carattere, era nato in famiglia profondamente religiosa, era stato alla scuola d'ottimi maestri negli anni del Seminario.

Aveva sentito, creduto, assimilato che in principio era la Parola e la Parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi.

Egli sapeva che la Parola interpella, orienta, plasma,

consola e... interrompe, coinvolge, sconcerta, contesta. Docile, si era lasciato interpellare, orientare, plasmare, consolare e coinvolgere mentre sarebbe bastato 'farsi i fatti propri' per non rischiare, per non essere coinvolto e interrotto.

Sapeva che se è proprio della persona saggia parlare in coerenza col pensare, è proprio del credente accordare la mente alla Parola.

La mente: la persona nella sua interezza di corpo e spirito, intelligenza ed affetti, riflessione e capacità manuali.

La Parola: quella che "zittisce chiacchiere mie", come sperimentava e cantava, in quegli stessi anni, Clemente Rebora.

La Parola fuoco che fonde.

La Parola maglio che sbriciola pure il granito.

La Parola spada a doppio taglio che penetra nell'intimo, fino al punto di giuntura tra anima e corpo. E quel giorno alla Parola che lo interrompeva e sconcertava rispose

"Eccomi!".

Con l'entusiasmo gioioso del giorno dell'ordinazione sacerdotale lì nel duomo di Agrigento, insieme ai confratelli quell'anno particolarmente numerosi.

Insieme ai martiri di ieri e d'oggi cantò: "loderanno il Signore quanti lo cercano"

(Sai 21,27).

E la sua donazione e la sua capacità di gustare, desiderare e vibrare dinanzi al gratuito, accettata, confermata, esaltata nello spargimento del sangue, lo fecero modello esemplare del gregge del Signore.

Come gli Apostoli, che andavano lieti di avere subito carcere e flagelli per l'Amato.

Come Ignazio d’Antiochia, che implorava i già influenti cristiani di Roma, che, per favore, intercedendo per lui, non facessero sfumare l'opportunità d'essere frumento per Cristo triturato dai denti delle bestie.

(4)

Come Giovanni Nepomuceno, il martire dell'inviolabilità del sacramento della Penitenza.

Come Giordano Ansatone e Francesco Spoto gli altri due figli di Agrigento, cantori di Cristo, con la vita, nel remoto Giappone e nel lontano Congo.

Come Tommaso Becket, Paolo Miki, Maria Goretti, Mighel Augustin Pro, Clementina Anuarite, Massimiliano Kolbe, Eugenio Bossilkov, Luigi Stepinac, Oskar Romero, Mesina, Morosini, Gianna Beretta Molla, che hanno rinnovato le gesta che noi, talvolta almeno, pensiamo esagerate da pii estensori di memorie, di Giustino, Sisto, Felicita e Perpetua, Agnese ed Emerenziana, Policarpo, Lucia, Agata.

Come i missionari e le missionarie che non fuggono dinanzi ad ebola e al machete, alla fame, alla guerra e alla calunnia e allo stillicidio del grigiore della quotidiana ordinarietà.

Quanti l'hanno avvicinato, negli anni della formazione in Seminario e nei pochi anni del ministero, concordano nel riconoscergli carisma nel lavoro a favore delle giovani generazioni. Egli, invece di stare a piangere nel ricordo degli improbabili bei tempi andati e perché "il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo" (Os 11,7), si propone ai giovani modello, non parolaio ma fattivo, nell'ascolto di Gesù che dice "due in altum!" (Le 5,4) riprendete il largo, non desistete, ricominciate ancora e sempre. E addita le vette dove si respira aria pura e si danza la vita e la gioia senza limiti perché slegata dai beni che temono ladri e tignola; ed è seguito dai poveri, dagli assetati di giustizia, dai puri, dagli operatori di pace, dai perseguitati e calunniati che sono miriadi di miriadi d'ogni popolo, tempo e luogo, d'ogni età e ceto e condizione.

Quando si parla di Don Re, viene fuori il suo indugiare nella preghiera:

La preghiera ossia l'incontro del mistero di Dio e del mistero dell'uomo.

L'incontro di Dio che si intrattiene con la sua creatura amorosamente prevenendola.

Chi può entrarvi e leggervi?

E quanti interrogativi... perché Dio non ha fermato la mano assassina?

E perché proprio lui, buono, disponibile, che avrebbe potuto fare tanto bene?

Ancora?

E qual è la ragione per la quale... perché...?

Quando pregate, non suonate la tromba davanti a voi, non moltiplicate vanamente le parole, sarete perdonati se e nella misura del perdono che date a chi vi avesse offeso (Cfr Mt 6,7-15).

"Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione? Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono?" (Le 11,9).

Verrebbe da annotare l'incongruenza: chiedete e otterrete, un padre umano non delude la richiesta del figlio, tanto più il Padre celeste darà secondo la richiesta, ci si aspetterebbe e, invece, darà lo Spirito Santo. Epperò forse, qui è tutto: noi abbiamo un bel chiedere, ma chi conosce le nostre necessità, quelle vere, è il Padre che ci ha prodigiosamente tessuto nel seno materno (Cfr Sai 138,11).

Fortunati noi se entriamo col Dono dei doni che è lo Spirito Santo, nel suo piano d'amore.

(5)

Quello che Gesù ha detto e fatto non tutto è arrivato a noi nella narrazione dei quattro evangelisti, per due ragioni.

La prima: se le cose fatte da Gesù "fossero scritte una per una, penso che il mondo intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere" (Gv 21,25).

La seconda: ogni credente è chiamato a scrivere un suo vangelo, con la vita che, animata da fede operosa, speranza costante nella vita eterna e carità impegnata (Cfr Tss 1,3), iscrive tra i discepoli di Gesù di Nazaret che, venuto per servire e non per essere servito, rivela il vero volto di Dio, ama i suoi sino alla fine e cioè fino al Golgota, insegna quel che veramente vale.

Gerlando Re, il sacerdote martire, "benché morto, parla ancora" (Eb 11,4), con il linguaggio del sangue, novello Abele. Il suo messaggio non scolora, la sua testimonianza, scritta com'è con il sangue, non teme il fluire delle mode, vale ancora oggi a fare sostare, a commuovere e a smuovere chi sia disposto ad entrare nella evangelica stanza segreta (Cfr Mt 6,6), nel cuore, dove l'uomo si trova solo con Dio, con se stesso, dove la parola "io" risuona in modo assolutamente originale, dove si prendono le decisioni.

Quelle vere, quelle che contano. Quelle che segnano la vita e le danno valore.

La diocesi di Patti nel settembre 2012, portati a termine progettazione ed esecuzione, è entrata in possesso della sua nuova Concattedrale dedicata ai Martiri del secolo XX.

Tutti i martiri del secolo XX. Il secolo della modernità, della scienza e della tecnica, dei nativi digitali, dei diritti universali dell'uomo, della democrazia, della meritoria irruzione dei senza nome sul palco della storia, è stato pure il secolo delle ideologie assassine che, anestetizzata la ragione, hanno generato, con i mostri, un numero di martiri maggiore di quelli degli altri 19 secoli dell'era cristiana messi insieme.

Al centro, in alto sul Crocifisso, il pittore ha posto un enorme telo arrotolato ad indicare che svelamento di Dio è Cristo sul patibolo osceno della croce.

"Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?" si chiede Isaia, A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto.

Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.

Fu eliminato dalla terra dei viventi, per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore (Cfr Is 53,1-10).

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Svelamento di Dio, sono i numerosissimi che in tutti i secoli, a tutte le latitudini, oggi non diversamente da ieri, hanno seguito Cristo fino all'effusione del sangue, i martiri.

Raffigurati lungo le pareti dell'aula, alcuni dei martiri sono riconoscibili per i tratti iconografici a tutti noti.

Altri, raffigurati ignudi, ricordano i martiri meno noti, quelli dei quali la furia omicida del tiranno ha disperso ogni memoria.

A spiegare il senso della vita donata dei martiri una serie di emblemi.

Mi sembrano particolarmente rispondenti alla testimonianza di Don Gerlando Re l'emblema del mantice da organo consapevole del fatto che può essere all'origine ad armonie solo perdendosi "Concino, dice, dum concido", quello del mannello di spighe che, piegate per l'abbondanza dei chicchi maturi, richiamano i martiri piegati dalle torture ma ricchi di grazia e di meriti e lo gnomone di una meridiana professa la sua assoluta dipendenza dal sole senza il quale a nulla serve, tace, non è in grado di adempiere la sua funzione di misurare lo scorrere delle ore.

Come il martire che, senza Dio, sole divino, nulla può dire, resta privo di senso.

Gli anni della preparazione al sacerdozio di Don Gerlando erano caratterizzati dalla possibilità per gli emergenti giovani talenti nel numeroso gruppo dei giovani seminaristi. Filosofi, pittori e oratori in erba non mancavano mai, come non mancavano poeti e musicisti pronti a lasciarsi ispirare dai grandi avvenimenti come dalla piccola cronaca.

A dilaniare la Spagna, impazza la Guerra Civile. Se, da una parte, essa scatena violenze, vendette, vigliaccheria e cattiverie d'ogni genere, dall'altra parte si rivela nuova occasione d'eroismo e martirio, quando non si erano ancora spenti gli echi provenienti dal Messico martire un decennio prima.

Un giovane musicista coetaneo di Don Gerlando fornisce di melodia i versi di un altrettanto giovane poeta agrigentino che, immedesimandosi in un martire del secolo, canta a Cristo:

Sangue del Primo Martire che i sacri altari imporpori, ostia del fallo mio, ostia d'amor placabile, io mi rivolgo a te.

Nel 1932 giunge ad Agrigento, come nuovo vescovo, il passionista Giovanni Battista Peruzzo.

Questi, arricchita la cappella del Seminario di stucchi, d'ammattonato marmoreo, di nuove panche, di dipinti, di melodioso organo a canne, pone sotto la mensa dell'altare le reliquie provenienti dalle catacombe romane. Il martire, senza nome, in onore del vescovo, viene "battezzato" col vezzeggiativo Nino tratto da Giovannino.»

Il piccolo martire anonimo deve testimoniare ai giovani la validità della parola del Maestro Divino: 'In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà' (Gv 12, 24-26).

E doveva, il piccolo Nino, insegnare a coloro che via via sarebbero diventati sacerdoti, che giudice unico, da cui cercare positiva valutazione, è il Signore! (ICor 4, 4).

In questo contesto, mentre un maturo cultore di lettere classiche si emoziona e canta a San Nino che la furia del tiranno travolge "ceu turbo nascentes rosas", un giovane poeta canta a San Nino, candido martire, e lo invoca: accogli il cantico del nostro cuore.

(7)

Ancor tra il turbine del nostro secolo, sii a noi presidio, la meta mostraci, tra i fulgor di tua gloria.

Immaginare Don Gerlando all'ombra della maestosa cattedrale normanna, affascinato dalle gesta dei martiri, desideroso di emularne l'invitta professione di fede, non è vano fantasticare.

Che Don Gerlando Re cantore di Dio, spiga dorata del suolo agrigentino e macinata nella calura estiva, divenuta pane candido degno di Cristo, indice puntato e testimone di Dio possa essere, se nel piano di Dio, riconosciuto, è il nostro desiderio.

Che il Padre possa trovarci fedeli nel poco, lieto di darci autorità su molto e di prendere parte alla sua gioia (cfr Mt 25,23), oltre che dono da accogliere, è impegno che si traduce nell'essere discepoli attenti e fattivi nell'ordinarietà, fatta forma alta della vita da battezzati. Sull'esempio di Don Gerlando Re e di coloro che, passati attraverso la grande tribolazione, hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello e, per questo, stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario (Ap 7,14-15).

Patti, 28 gennaio 2013

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