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Patto di non concorrenza: quando è valido?

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Patto di non concorrenza: quando è valido?

Autore: Redazione | 03/09/2021

Requisiti di validità del divieto di concorrenza tra datore di lavoro e dipendente alla cessazione del rapporto di lavoro dipendente.

Una recente ordinanza della Cassazione ha spiegato quando è valido il patto di non concorrenza tra datore di lavoro e dipendente [1].

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La pronuncia ripercorre quelli che sono i requisiti di validità di tale clausola che, a volte, ma non obbligatoriamente, viene inserita nel contratto di lavoro e che assume valore non appena il rapporto cessa, indipendentemente se per volontà del datore o del dipendente. Ma procediamo con ordine.

Come funziona il patto di non concorrenza

L’articolo 2105 del Codice civile vieta al lavoratore lo svolgimento di attività in concorrenza con il datore di lavoro durante il rapporto di lavoro.

Qualora il datore di lavoro sia interessato a limitare l’attività del lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, è necessario che le parti stipulino liberamente un accordo o patto: è appunto il patto di non concorrenza.

In proposito, l’articolo 2125 del Codice civile stabilisce quanto segue: «Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura indicata dal comma precedente».

Dal patto di non concorrenza scaturisce a carico del lavoratore l’obbligo di non trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore nel periodo successivo all’estinzione del rapporto.

Il patto può essere incluso nel contratto di lavoro ovvero può essere concluso durante il rapporto di lavoro; può, inoltre, essere stipulato anche dopo la cessazione del rapporto, sempreché sia riconducibile al rapporto stesso.

Recesso dal patto di non concorrenza

Il datore di lavoro non può recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza. Secondo la Cassazione [2], la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro costituisce una clausola nulla per contrasto con le norme imperative.

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Inoltre, non rileva che il recesso del patto di non concorrenza avvenga in costanza di rapporto di lavoro, cristallizzandosi i rispettivi obblighi al momento della sottoscrizione del patto, circostanza che impedisce al lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà; ciò, tuttavia, non può avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, corrispettivo che finirebbe per essere escluso qualora al datore venisse concesso di liberarsi dal vincolo in modo arbitrario.

Sorgendo l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sin dall’inizio del rapporto di lavoro, pertanto, non ha alcun valore la successiva rinuncia al patto stesso.

Requisiti di validità del patto di non concorrenza: il corrispettivo

Il patto di non concorrenza è valido innanzitutto solo a condizione che venga subordinato al pagamento di un compenso per la limitazione che ne deriva per il prestatore d’opera.

Il compenso previsto per l’astensione dalla concorrenza non deve essere né simbolico, né manifestamente iniquo, né sproporzionato, tenendo conto del sacrificio imposto al lavoratore e della riduzione delle sue capacità di guadagno e a prescindere sia dall’ipotetico valore di mercato del patto sia dall’utilità che lo stesso apporta al datore di lavoro.

Il compenso per il patto di non concorrenza può essere erogato durante il rapporto, alla sua conclusione, successivamente alla cessazione, in forma fissa o percentuale della retribuzione, purché sia congruo e proporzionato all’obbligo imposto, in relazione alla riduzione delle possibilità di guadagno.

Limiti al patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza deve contenere tre limiti:

di oggetto: il patto di non concorrenza può estendersi anche all’attività coincidente con quella praticata dall’azienda che sia concorrenziale ad essa e non solo alle mansioni del lavoratore, purché residui la possibilità di

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utilizzare le capacità professionali [3]; non può invece riguardare qualsiasi attività [4];

di luogo: è illegittimo il patto che estende il divieto di concorrenza a tutto il territorio nazionale [5]; al contrario, è legittimo limitare l’attività in tutto il territorio dell’Unione europea se in concreto il lavoratore conserva la possibilità di utilizzare la propria professionalità;

di tempo: il patto di non concorrenza non può durare più di 3 anni o, per i dirigenti, 5 anni.

In ogni caso, i limiti imposti dal patto devono essere tali da consentire al lavoratore nella sua successiva attività un guadagno idoneo ad appagare le esigenze del lavoratore e della sua famiglia [6].

Quando il patto di non concorrenza è valido?

Con la pronuncia citata in apertura la Cassazione è tornata sull’argomento specificando quando il patto di non concorrenza è valido e quando invece non lo è.

Partiamo subito dalla forma: il patto di non concorrenza deve essere per forza scritto. Non può quindi essere verbale.

Non è poi necessario che il patto si limiti a indicare le mansioni che il lavoratore ha espletato nel corso del rapporto cui si riferisce, ma è ben possibile che esso ricomprenda anche altre prestazioni lavorative che in qualche modo, tenendo conto dei diversi mercati e delle loro oggettive strutture, competano con le attività economiche che svolge il datore di lavoro. In altre parole, il patto può estendersi sino al punto di vietare lo svolgimento di qualsiasi mansione in mercati in cui convergono beni o servizi identici a quelli dell’impresa di appartenenza o che sono parimenti idonei a soddisfare le esigenze della medesima clientela.

Ciò nonostante, il patto di non concorrenza non può estendersi sino al punto di compromettere qualsivoglia potenzialità reddituale del lavoratore, comprimendo ogni esplicazione della sua concreta professionalità.

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Note

[1] Cass. sent. n. 23418/2021. [2] Cass. ord. n. 23723/21 [3] Cass. n. 10062 del 26.11.1994 [4] Trib. Milano 5.9.1990. [5] Trib. Milano 18.11.1992 [6] Cass.

24.8.1990, n. 8641.

Sentenza

Cass. civ., sez. lavoro, ord., 1° settembre 2021, n. 23723 Presidente Balestrieri – Relatore Cinque Rilevato in fatto che: 1. Con la sentenza n. 936 del

2016 la Corte di appello di Bologna ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Reggio Emilia il 7.4.2015 con la quale era stata respinta la domanda proposta da C.C. , nei confronti di Adecco Italia spa di cui era stata dipendente dal

3.4.2000 fino al 31.3.2011 allorquando era stata dimessa, diretta ad ottenere la somma di Euro 40.246,31 quale compenso dovuto per la clausola del patto di non

concorrenza per i due anni successivi alla cessazione del rapporto, pattuita al momento della assunzione. 2. La Corte di merito ha rilevato, sul presupposto del chiaro tenore letterale della clausola in oggetto, che il patto de quo era sottoposto

ad una condizione potestativa a favore di parte datoriale, che si era riservata, al momento della risoluzione del rapporto, di decidere se avvalersene o meno e che una siffatta clausola era stata ritenuta nulla, per contrasto con norme imperative,

in sede di legittimità. Tuttavia, la Corte territoriale ha sottolineato che, nella fattispecie, il contrasto con le norme imperative non era ravvisabile perché il datore di lavoro aveva esercitato il diritto di recesso ben sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro per cui la lavoratrice non aveva subito alcun sacrificio, in relazione alla facoltà di riorganizzare il proprio futuro lavorativo e da indennizzare con la indennità pretesa. 3. Avverso la decisione di seconde cure ha

proposto ricorso per cassazione C.C. affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso Adecco Italia spa. 4. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte. 5. Le

parti hanno depositato memorie. Considerato in diritto che: 1. I motivi possono essere così sintetizzati. 2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi

dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2125 c.c., dell'art. 1344c.c., dell'art. 1373 c.c., in ordine alla nullità della clausola di recesso

unilaterale, nonché all'illegittimità del recesso intimatole da Adecco Italia spa.

Deduce, in particolare, l'erroneità in punto di riconosciuta validità del recesso unilaterale dal patto di non concorrenza operato dal datore di lavoro in corso di rapporto di lavoro, in palese contrasto e difformità dai principi normativi imperativi,

anche univocamente richiamati nella giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità. 3. Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la

violazione nonché falsa applicazione dell'art. 1373 c.c., comma 3, dell'art.

1362c.c., dell'art. 2125 c.c., circa l'illegittimità del recesso intimato in corso di rapporto di lavoro. Si sostiene l'erroneità della sentenza in punto di riconosciuta

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validità del recesso unilaterale del patto di non concorrenza operato dal datore di lavoro in corso di rapporto di lavoro, mediante un improprio richiamato principio di

diritto, anche contrastante con una diversa previsione contrattuale specifica ovvero con la prevista forma scritta ex lege. 4. Il ricorso è fondato e va accolto in

parte qua. 5. I due motivi, per la loro interferenza, devono essere scrutinati congiuntamente e in relazione ad essi vanno richiamati i precedenti di questa Corte di legittimità pronunciati in analoghe vicende (Cass. n. 10536 del 2020; Cass.

n. 10535 del 2020; Cass. n. 3 del 2018), cui questo Collegio ritiene di dare seguito.

6. Invero, è stato affermato che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per

contrasto con norme imperative; inoltre, è stato altresì precisato, sempre con la richiamata giurisprudenza di legittimità, che il fatto che, nella fattispecie, il recesso

del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa

parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell'art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l'obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finerebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex

post dal vincolo (cfr. Cass. n. 3 del 2018). 7. Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l'assunto della Corte territoriale secondo cui,

la circostanza che il recesso fosse avvenuto in costanza di rapporto di lavoro, addirittura diversi anni prima (oltre sei) dallo scioglimento dello stesso, non concretizzava alcuna compressione della libertà del lavoratore di progettare il

proprio futuro lavorativo. 8. Pertanto, premesso che l'obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall'inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 8715

del 2017), tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola nulla,

tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in

virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale (Cass. n. 3 del 2018). 9. La trattazione di ogni altra doglianza resta assorbita. 10. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere accolto in parte qua, con la cassazione della gravata sentenza e il

rinvio alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame attenendosi ai principi di legittimità sopra esposti e provvederà, altresì, alle determinazioni sulle spese anche del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso in parte qua; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di

provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

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