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CAPITOLO 1 NOZIONE. Treccani giurisprudenza, in Diritto & Pratica del Lavoro n.14/

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S O M M A R I O

Capitolo 1... 2

NOZIONE... 2

Capitolo 2... 4

REQUISITI DI VALIDITA’... 4

2.1. La forma ... 4

2.2. Limiti temporali ... 5

2.3. Limiti di oggetto... 6

2.4. Limiti territoriali ... 14

2.5. Onerosità ... 15

2.5.1. Modalità di corresponsione ... 17

Capitolo 3... 21

PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’ ... 21

Capitolo 4... 24

MOMENTO DELLA STIPULAZIONE DEL PATTO ... 24

Capitolo 5... 26

L’INADEMPIMENTO DEL LAVORATORE ... 26

5.1. L’inibizione dell’attività lavorativa... 26

5.2. Misure di coercizione indiretta...34

5.3. Penale ... 29

Capitolo 6... 34

RECESSO DEL DATORE DI LAVORO ... 34

6.1. Congruità del corrispettivo... 36

6.2. Diritto alla programmazione della futura attività lavorativa ... 37

6.3. Fidelizzazione del lavoratore ... 38

6.4. Patto di opzione... 41

bibliografia ... 43

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CAPITOLO 1 NOZIONE

Con l’espressione «patto di non concorrenza» sono individuate in diritto del lavoro quelle pattuizioni, intercorrenti tra datore e dipendente, con le quali si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto (art. 2125 c.c.). La funzione normativa del patto di non concorrenza (o, meglio, di vietata concorrenza) viene generalmente individuata nell’esigenza di trovare un equo bilanciamento tra due ordini di contrapposti interessi: «da un lato, quelli del datore aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio immateriale nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica amministrativa, metodi e processi di lavoro ecc.) ed esterni (avviamento, clientela ecc.); dall’altro, quelli del lavoratore sicuramente messi in gioco da una restrizione convenzionale (della successiva attività lavorativa) destinata a comprimere gli spazi di ricerca di una nuova occupazione e di piena estrinsecazione delle proprie attitudini professionali»1 e che hanno ad oggetto la contro prestazione dovuta dal datore di lavoro, ossia il compenso in denaro.«Si tratta, evidentemente, di un patto teso a salvaguardare l’imprenditore contro atti di concorrenza che, provenendo dall’ex dipendente, a conoscenza di dati relativi all’impresa, potrebbero rivelarsi più pregiudizievoli di quelli posti in essere da un altro imprenditore. Si parla infatti di concorrenza differenziale».2 In tal modo, «il datore di lavoro si assicura, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, la tutela

1 FULVIO BIANCHI D’URSO, Concorrenza, Patto di non concorrenza, in Enciclopedia giuridica Treccani 1988-1

2 ROSANNA BARCHI, Il patto di non concorrenza: gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Diritto & Pratica del Lavoro n.14/2001-899

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che in costanza di collaborazione lavorativa è apprestata dall’art. 2105 c.c., che vieta al dipendente di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore».3La regolamentazione normativa di questo tipo di pattuizioni, diffusamente presente anche negli altri Paesi, viene disciplinata nel nostro ordinamento con l’art. 2125 del codice civile del 1942. Non manca invero un antecedente storico: tale può essere considerato l’art.8 del r.d.l. 13 novembre 1924, n.1825, sull’impiego privato, il quale peraltro trattava congiuntamente le materie ora disciplinate dagli artt. 2105 e 2125 c.c. La previsione di limiti alla stipulazione di clausole di vietata concorrenza operava tuttavia solo con riguardo agli impiegati, anche se era dibattuto in giurisprudenza il divieto della stipulazione di tali convenzioni con gli operai. La prevalente dottrina e la giurisprudenza hanno solitamente individuato nell’art. 2125 del codice civile una norma di carattere speciale riconducibile pur sempre alla disciplina generale dell’art. 2596 c.c.

nonostante la dislocazione materiale dei due articoli nel testo del codice (il primo nel titolo «del lavoro nell’impresa», il secondo in quello «della disciplina della concorrenza e dei consorzi», del libro quinto). Il rapporto di genere a specie ricostruito dalle due norme (che varrebbe quanto meno a trarre dalla seconda i principi generali nel cui ambito può trovare applicazione la prima) non viene riconosciuto da tutti: taluni, infatti, contestano la stretta interdipendenza, ponendo l’accento sull’autonomia della norma lavoristica l’inapplicabilità dei principî e criteri enunciati nell’art. 2596 c.c.

3 MAURIZIO TATARELLI, Il patto di non concorrenza: contenuto e sanzioni, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro 2002-147

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CAPITOLO 2

REQUISITI DI VALIDITA’

2.1. La forma

Il primo requisito di validità del patto di non concorrenza è costituito dalla forma che l’art. 2125 c.c. impone a pena di nullità. Si tratta, pertanto, di forma scritta ad substantiam.

Questo, in deroga al principio della libertà delle forme vigente nel nostro ordinamento, in quanto solo per alcuni atti è richiesto espressamente l’obbligo di forma scritta. In questa maniera si intende richiamare l’attenzione del lavoratore sull’importanza dell’impegno che si assume.

L’obbligo di forma può essere rispettato attraverso la predisposizione di un patto autonomo, ovvero, il patto di non concorrenza può essere inserito nel contratto di lavoro attraverso un’apposita clausola.

In tale ipotesi, «non appare necessaria la specifica approvazione della clausola ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., in quanto certamente non trattasi di clausola vessatoria, anche per la tassatività delle ipotesi previste dalla disposizione sopra richiamata».4 La giurisprudenza ha ritenuto ammissibile il ricorso all’interpretazione integrativa per ricostruire il contenuto di un patto espresso in forma lacunosa e inadeguata.5

In questo caso si rende opportuna una verifica della fattispecie specifica fatta in sede di giudizio. Secondo alcuni infatti, non è ammessa l’interpretazione integrativa in tutti i casi nei quali il patto presenta

4 ROSANNA BARCHI, Il patto di non concorrenza: gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Diritto & Pratica del Lavoro n.14/2001-899

5 Cass., 22 luglio 1978, n. 3687, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1979-651

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eccessivi margini di genericità, tanto da non consentire una sia pur minimale consapevolezza degli obblighi assunti da parte del lavoratore.

2.2. Limiti temporali

A tutela del dipendente viene imposto dall’art. 2125 c.c. l’obbligo dell’individuazione di un termine alla durata della pattuizione in esame, il quale viene considerato un elemento essenziale del patto. Per altro verso il giudizio di essenzialità è avvalorato dai principî che regolamentano la disciplina delle obbligazioni negative, in quanto il comportamento omissivo deve protrarsi per tutto il periodo pattiziamente stabilito (o legislativamente fissato).

Il legislatore ha stabilito la durata massima del patto (cinque anni per i dirigenti e tre anni negli altri casi) con una differenziazione giustificata dalla maggiore pericolo concorrenziale che può derivare dal dirigente.

La previsione di una durata inferiore o superiore ai termini massimi legislativamente sanciti non offre spunti di particolare rilievo. Nel primo caso il rapporto cessa allo spirare del termine convenuto e nel secondo si assiste ad una sostituzione automatica della clausola ad opera della norma di legge. Nell’ipotesi che non venga precisata l’estensione temporale del vincolo obbligatorio affiora il quesito se la lacuna sia eliminabile attraverso il ricorso alla tecnica dell’integrazione contrattuale ex art. 1374 c.c. o se invece la carenza produca la nullità dell’intera pattuizione. Verso la prima ipotesi sembra orientarsi la giurisprudenza6 che in tale ipotesi ritiene applicabile il capoverso dell’art. 2125 c.c.; verso l’ipotesi di nullità si è indirizzata un’autorevole opinione; «la ratio, ispirata ad una adeguata tutela

6 Cass., 22 luglio 1978, n. 3687

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del lavoratore e rafforzata dai principî costituzionali, nonché la lettera dell’art. 2125 c.c. inducono a preferire la soluzione restrittiva: l’esplicita affermazione testuale che il vincolo va contenuto «entro determinati limiti di …tempo» e che solo la pattuizione di una durata maggiore rispetto al massimo legale implica l’intervento riduttivo della norma, rende avvertiti come il requisito temporale rappresenti un dato essenziale, in difetto del quale il patto resta travolto dalla nullità canonizzata nell’art. 2125 c.c».7

2.3. Limiti di oggetto

Per quanto concerne i limiti di estensione oggettiva del patto di non concorrenza, è sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità che lo stesso

«possa riguardare qualsiasi attività lavorativa concorrente con quella del precedente datore di lavoro e non debba limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, sempre che l’ampiezza del divieto non comprima eccessivamente l’esplicazione della professionalità e la capacità reddituale del lavoratore».8

Il problema dell’individuazione delle attività che possono essere definite concorrenziali nei confronti dell’ex datore di lavoro e che quindi possono costituire oggetto del patto di non concorrenza può essere affrontato sotto due diverse ottiche: un aspetto qualitativo per la valutazione delle attività effettivamente idonee ad arrecare un danno alll’impresa e limitabili con un patto di non concorrenza, ed un aspetto quantitativo che tiene conto dell’ampiezza dell’oggetto.

7 FULVIO BIANCHI D’URSO, Concorrenza, Patto di non concorrenza, in Enciclopedia giuridica Treccani 1988-3

8 Cass. 3 dicembre 2001, n.15253, in Not. Giur. Lav., 2002, 243

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Le attività lavorative facenti parte dell’oggetto vengono quindi individuate attraverso la valutazione della potenzialità lesiva delle stesse in relazione al bene tutelato dal patto di non concorrenza.

La Corte di Cassazione ha colto tale bene nell’interesse dell’impresa:

in particolare, «colpisce l’attenzione con la quale, soprattutto negli ultimi anni, la Corte di cassazione ha richiamato tale interesse, quasi a voler sottolineare la peculiarità di una norma, l’art. 2125, che si pone come un’eccezione nell’ambito di un complesso di norme poste a tutela degli interessi del lavoratore».9

E’ stato sottolineato in molte pronunce, che il patto di non concorrenza e la limitazione contrattuale dell’attività professionale trovano la loro ratio nell’esigenza di tutelare «la capacità concorrenziale dell’impresa» e «la posizione dell’impresa sul mercato», qualora il lavoratore, cessato il rapporto, utilizzi in una successiva attività svolta per un’altra impresa quelle «conoscenze tecniche e commerciali acquisite grazie al rapporto lavorativo».

La dottrina sostiene che tali informazioni attengono al c.d. «know how», vale a dire al patrimonio immateriale dell’impresa.

La circoscrizione dell’interesse della parte datoriale tutelato dal patto di non concorrenza può fungere da criterio per l’individuazione delle attività censurabili e, sulla base di tale considerazione, la Corte di Cassazione ha riproposto e superato la distinzione tra mansioni dirigenziali o di alto livello e mansioni non intellettuali o esecutive che aveva posto con

9 DEL BORRELLO GILDA, Note in tema di patto di non concorrenza, Cass. 19 aprile 2002 n.

5691, in Giust. Civ., 2003, I, 1078

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la sentenza del 2001.10 Tale pronuncia precisava che il divieto legislativo di concorrenza vigente durante il rapporto di lavoro, e prolungabile in seguito con un patto di non concorrenza, dev’essere riferito a prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, esercitate dai lavoratori appartenenti alla categoria impiegatizia più altamente qualificata, l’unica che, secondo la Suprema Corte e parte della giurisprudenza di merito11 consente di porre in essere quella concorrenza più intensa che il legislatore ha inteso reprimere.

Con la sentenza del 200212 questa impostazione è superata da un’interpretazione più ampia e flessibile secondo la quale «il disposto dell’art. 2125 c.c. deve trovare applicazione non solo per i dipendenti che svolgono mansioni direttive o di alto livello, ma anche per tutti coloro che siano impiegati in compiti non intellettuali, e finanche di natura esecutiva, sempre però che operino in settori in cui l’imprenditore, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio».

Prendendo atto di tale orientamento, la semplice incorporazione del lavoratore nell’organizzazione produttiva, costituendo occasione per acquisire delle conoscenze e delle informazioni esclusive dell’impresa, diventa un presupposto sufficiente per ritenere l’ex dipendente pericoloso e che quindi possa potenzialmente ledere gli interessi dell’impresa stessa. Di conseguenza anche un semplice commesso (che potrebbe conoscere tecniche di vendita e metodi di marketing esclusivi dell’impresa, misure commerciali particolari, l’elenco dei clienti), o l’addetto a funzioni

10 Cass. 19 dicembre 2001 n. 16026, in Mass. Giur. Lav., 2002, I, 272

11 Pret. Milano 4 aprile 1984, in Lavoro 80, 1984, 883

12 Cass. 19 aprile 2002, n. 5691, in Gius. Civ., 2003, I, 1077

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meramente esecutive, potrà essere vincolato da un patto di non concorrenza.

Questa presa di posizione influenzerà quindi la giurisprudenza di merito in quanto è suo il compito di valutare la fattispecie specifica e di individuare il tipo di rapporto che intercorre tra il dipendente e l’organizzazione, deducendo le attività che devono rientrare all’interno del divieto.

Si può discutere se possa trovare applicazione l’art. 2125 c.c. per un patto di concorrenza avente ad oggetto mansioni considerabili non pericolose: posto che tale patto, secondo la Cassazione, la dottrina e la giurisprudenza, è un atto di autonomia contrattuale, un contratto sinallagmatico a prestazione corrispettive avente ad oggetto lo scambio tra l’obbligo di non fare concorrenza ed un compenso per il vantaggio conseguito, un contratto di tale natura potrebbe essere privo della causa del patto di non concorrenza, in quanto viene a mancare l’interesse sostanziale di una delle parti, l’imprenditore, ovvero potrebbe configurarsi l’ipotesi disciplinata dall’art. 1344 c.c. (contratto in frode alla legge) nel caso in cui il patto tenda ad eludere norma imperative, nascondendo, nella veste formale di un patto di non concorrenza, la causa reale che sta alla base della sottoscrizione del patto.

La Cassazione ha posto le basi per un rafforzamento della tutela dell’imprenditore specificando che la violazione del divieto di concorrenza possa avvenire anche solo con lo svolgimento di una attività che si limiti a concretizzare il pericolo per l’imprenditore: il pericolo, secondo la Corte, è considerato come un danno in re ipsa, indipendente dalla consistenza qualitativa e quantitativa.13 Più volte la Cassazione è intervenuta per

13 Cass. 23 aprile 1997 n. 3528, in Mass. Giur. Lav., 1997, I, 377

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puntualizzare questa posizione ed è stata seguita anche dalla giurisprudenza di merito14: si è specificato che acquistano rilevanza anche la mera potenzialità del danno legata al semplice avvio di atti lesivi, la mera preordinazione di un’attività contraria, il mero predisporre situazioni di possibile conflitto con l’interesse dell’impresa.

L’aspetto quantitativo tiene conto dell’ampiezza dell’oggetto del patto e quindi specularmente dell’entità della limitazione che lo stesso può porre a carico della futura attività lavorativa del dipendente. In altre parole si tratta della questione relativa alla possibilità per il patto di non concorrenza di inibire al lavoratore qualsiasi tipo di attività lavorativa.

L’orientamento costante della Cassazione, seguito dalla giurisprudenza di merito, accoglie una nozione ampia dei limiti dell’oggetto in quanto ammette l’inibizione di qualsiasi tipo di mansioni ed atti sia dell’attività lavorativa svolta durante la vigenza del rapporto, sia di attività estranee al patrimonio professionale del lavoratore, non praticate direttamente dal lavoratore durante il rapporto, ma esercitate comunque nell’ambito dell’impresa. L’unico limite che la giurisprudenza pone alla validità del patto consiste nella garanzia della permanenza di concrete possibilità di lavoro, da valutarsi caso per caso in riferimento alle capacità professionali del lavoratore.15 Da ciò si deduce l’illegittimità di qualsiasi inibizione totale dell’attività del lavoratore.

Affiorano quindi dei valori costituzionalmente tutelati e degli interessi facenti capo al lavoratore che bilanciano quelli imputabili al datore di lavoro.

14 Trib. Lecco 29 marzo 1991, in Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, 644

15 Cass. 24 agosto 1990 n. 8641

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La Cassazione e la giurisprudenza di merito hanno precisato che «le attività inibite devono rispondere ad un generale e flessibile requisito di idoneità ad integrare concorrenza, ma non possono comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non salvaguardino un margine di attività sufficiente per il soddisfacimento di esigenze di vita, devono essere valutate in rapporto alla professionalità acquisita dal lavoratore, e il patto di non concorrenza è valido se risulta contenuto in limiti di oggetto, tempo e luogo tali da consentire al prestatore di lavoro un margine di attività, non coperta dal vincolo, che gli assicuri un guadagno idoneo ad appagare le esigenze di vita proprie e della propria famiglia e tale da non compromettere la potenzialità reddituale».16

Sulla base di tali considerazioni, è da ritenersi nullo un patto di non concorrenza che inibisce del tutto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa dietro corresponsione di un compenso insufficiente a garantire le esigenze di vita. Deve essere però valutato, il caso di un patto che dietro la previsione di un’inibizione totale dell’attività lavorativa preveda la corresponsione di un guadagno sufficiente, pari alla retribuzione percepita durante il rapporto di lavoro. Il quesito non trova un’interpretazione unanime e le opinioni in merito si suddividono in due orientamenti distinti; chi ritiene che la professionalità sia un bene del lavoratore, funzionale alla possibilità di procurarsi un guadagno, e chi ritiene indispensabile il mantenimento dell’integrità professionale del lavoratore.

Alla base della prima tesi vi è una definizione di «professionalità» che la individua come un bene strumentale al conseguimento di un guadagno, e

16 Cass. 26 novembre 1994 n. 10062

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il patto potrebbe essere lecito solo se lasciasse al lavoratore un margine di spazio per consentirgli di estrinsecare la sua professionalità svolgendo un’attività lavorativa che gli consenta di soddisfare le esigenze di vita.

Assumendo questa teoria, e affiancandole le posizioni della giurisprudenza che precisa che l’ammontare del compenso dev’essere inversamente proporzionale alla riduzione delle capacità di guadagno ed aumentare progressivamente con la riduzione di quelle possibilità, e che il patto deve comunque consentire al lavoratore di procurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita, non sorgerebbero ostacoli alla configurazione di un patto che inibisce del tutto l’attività e ne commisura il massimo compenso (retribuzione corrispondente all’attività lavorativa).

Alla base della seconda interpretazione vi è una diversa definizione di

«professionalità» che la individua come un bene autonomo, componente del patrimonio individuale della persona, veicolo di esplicazione della personalità del lavoratore; quindi non può essa essere considerata solamente un mezzo volto al conseguimento di un guadagno e deve essere perciò tutelato dall’ordinamento vietando le pattuizioni che riducano, oltre determinati limiti, la sua estrinsecazione.

Le risposte al quesito sono quindi essenzialmente due: la prima interpretazione ammette la legittimità del patto a seguito di un compenso adeguato all’inibizione totale dell’attività lavorativa comprensiva di un risarcimento del danno alla professionalità; la seconda considera invece illegittima la fattispecie, indipendentemente dall’adeguatezza del corrispettivo.

La giurisprudenza di merito e della Cassazione anche se ammettono che la professionalità è correlata alla produzione di un guadagno

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sufficiente,17 e la Cassazione ha precisato18 che nel patto di non concorrenza la parti possono «liberamente concordare un qualsiasi vantaggio economico per il lavoratore» aderiscono a questa seconda posizione e, quindi, sembra deducibile l’esclusione della tesi dell’ammissibilità di un patto che impedisca totalmente l’esercizio della professionalità dietro corresponsione di una somma pari all’intera retribuzione.

La motivazione principale di tale orientamento è la necessità di una tutela dei principi costituzionali del lavoro, che non verrebbero rispettati dalla fattispecie in esame: nessun compenso, per quanto elevato, può rendere valida la temporanea rinuncia del dipendente ad ogni concreta possibilità di lavoro, ostandovi le libertà di lavoro e di iniziativa economica sancite dagli artt. 4 e 41 Cost.

Tale orientamento viene valorizzato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità che definiscono il danno alla professionalità, come un pregiudizio connesso al mancato svolgimento del lavoro e delle proprie mansioni e consistente nel decremento o nel mancato incremento delle conoscenze teoriche, delle capacità pratiche, delle esperienze e delle specifiche abilità che si acquisiscono mediante lo svolgimento dell’attività lavorativa.19 Alla posizione della Suprema Corte si affianca la dottrina, che partendo dal concetto che il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione per il lavoratore della propria personalità, individua in capo allo stesso il diritto ad esprimere la propria professionalità. L’inibizione totale dell’attività lavorativa viene quindi intesa dalla dottrina come un danno per il dipendente in quanto ne lede la

17 Cassazione 3 dicembre 2001 n. 15253, in Dir. Prat. Lav., 2002, 1321

18 Cassazione 30 luglio 1987 n. 6618

19 Pretura di Milano 21 gennaio 1992, in Riv. Crit. Dir. Lav., 1992, 417

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personalità, l’immagine e la dignità.

A giudizio di chi scrive deve essere riconosciuto al lavoratore la propria autonomia contrattuale, disponendo della sua professionalità e della sua persona, potendo decidere autonomamente di farne oggetto di un patto che ne comprime l’esternazione e che ne potrebbe ledere l’integrità a favore di un corrispettivo in denaro.

«In ragione della rilevanza interpretativa della questione e la sostenibilità di argomentazioni diverse, non si può far altro che evidenziare che la risoluzione del quesito dipende dal giudizio di merito sul valore che dovrebbe prevalere tra garanzia del guadagno sufficiente e tutela della professionalità del lavoratore.»20

«La determinazione del limite di oggetto, per essere validamente effettuata, va considerata in relazione al limite geografico, anch’esso previsto dal testo dell’art. 2125 c.c., poiché solo una valutazione combinata dei due aspetti permette in concreto di stabilire se vi sia o no una possibilità di nuovo impiego per il lavoratore.»21 E’ evidente, allora, che ogni singolo patto di non concorrenza esige un esame a sé stante.

2.4. Limiti territoriali

Strettamente legato al limite dell’oggetto è quello del territorio.

Anche per tale vincolo dottrina e giurisprudenza ribadiscono il principio più sopra esposto: non vi deve essere una eccessiva compressione della libertà di lavoro del dipendente, per altro costituzionalmente garantita.

20 DEL BORRELLO GILDA, Note in tema di patto di non concorrenza, Cass. 19 aprile 2002 n.

5691, in Giust. Civ., 2003, I, 1083

21 PAOLUCCI NADIA, Osservazioni in tema di patto di non concorrenza, Pret. Milano 22 febbraio 1999, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, 329

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Secondo la dottrina, il patto dovrebbe essere stipulato con riferimento alla zona di interesse dell’impresa e, tuttavia, in forza del principio di cui sopra, sarebbe invalido allorché si riferisse all’intero territorio nazionale, in considerazione delle dimensioni nazionali o sovra nazionali dell’impresa datrice di lavoro.

La giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, non appare della stessa opinione.

E’ stato più volte affermato, infatti, che il patto di non concorrenza è valido, per imprese di dimensione e importanza nazionale, anche se esteso all’intero territorio dello Stato ovvero in tutta la Cee.22 Il limite resta comunque sempre lo stesso: l’individuazione del territorio, pur dovendo rispondere alle esigenze di tutela del datore di lavoro, non può comunque essere tale da pregiudicare le possibilità di lavoro e di guadagno del dipendente. C’è chi ha sostenuto, a tale proposito, come assuma una importanza preponderante il rapporto di inversa proporzionalità tra i due limiti, territoriale e di oggetto, di talchè tanto più esteso sarebbe il primo, tanto meno potrebbe esserlo il secondo, e viceversa.

2.5. Onerosità

Solitamente si afferma che il patto di non concorrenza costituisce un contratto oneroso a prestazioni corrispettive. L’affermazione si può condividere in quanto la formula dell’art. 2125 c.c. prevede un corrispettivo in favore del lavoratore vincolato all’obbligazione omissiva. Resta inteso che l’obbligazione onerosa deve bilanciare quella omissiva e quindi il corrispettivo deve subire un giudizio di proporzionalità in relazione al

22 Pret. Milano, 16 dicembre 1992, in Dir. prat. Lav., 1993, 27, 1849.

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sacrificio imposto al dipendente. Elementi chiave a definire l’adeguatezza del corrispettivo sono i limiti spaziali, temporali, e contenutistici del patto, che devono essere valutati nella fattispecie specifica e che influenzano la misura del compenso secondo un criterio direttamente proporzionale alla loro ampiezza.

Sembra allinearsi a detta regola l’affermazione secondo la quale il corrispettivo è congruo qualora sia proporzionato alla differenza tra la quantità e qualità del lavoro che il prestatore di lavoro può ancora liberamente esplicare in quanto non coperto dal divieto di concorrenza e quello che avrebbe potuto svolgere se il patto non fosse stato stipulato.23

Secondo una interpretazione giurisprudenziale non recente,24 la natura indennitaria del compenso trova conferma nel rilievo che il corrispettivo assolve una funzione compensativa della restrizione imposta al dipendente e non della diminuzione di guadagno costituente soltanto un dato meramente eventuale; derivandone altrimenti la inammissibile conseguenza di legittimare la decurtazione o l’esclusione del compenso nell’ipotesi di una nuova occupazione più lucrosa o di espletamento di una attività autonoma, magari a carattere imprenditoriale, da parte dell’ex dipendente. Secondo invece un opinione dottrinale ormai affermata, e parte della giurisprudenza, il compenso deve essere si commisurato al sacrificio imposto al lavoratore, ma dovrà considerare anche i minori guadagni che egli, presumibilmente, potrà realizzare e le eventuali maggiori spese cui andrà incontro, eventualmente per cambiare luogo o per riconvertirsi ad occupazioni nuove.

Si è comunque affermato che il legislatore, con riferimento al

23 T. Milano, 20 giugno 1974, GADI, 1974, n. 576/4

24 Pret. Milano, 10 novembre 1977, in Orient. Giur. Lav., 1978, 131

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compenso, ha inteso riconoscere ampia autonomia negoziale alle parti, con ciò sensibilmente limitando «i poteri invasivi del giudice, che non può spingersi sino a sostituire le proprie valutazioni di opportunità a quelle effettuate dalle parti», salvo il caso di pattuizione del corrispettivo per un ammontare simbolico o, comunque, macroscopicamente sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno;25 a detta ipotesi la giurisprudenza, secondo un orientamento ormai consolidato, riferisce la previsione di nullità posta dall’art. 2125 c.c.26

2.5.1. Modalità di corresponsione

Quanto alle modalità di corresponsione del corrispettivo, esse possono essere di tre tipi.

COMPENSO PERIODICO

La tipologia certamente più utilizzata è quella della corresponsione di un compenso periodico, di solito inserito in busta paga, per tutta la durata del rapporto o, comunque, dal momento della conclusione del patto.

Tale modalità, che era stata in un primo tempo ritenuta invalida da una parte della dottrina, ma che ora è concordemente ammessa, non manca tuttavia di creare una serie di problemi, in relazione alla congruità del compenso, ovvero in sede di giudizio, in caso di controversia tra le parti, tanto che si è arrivati addirittura a sconsigliarne l’adozione. Infatti, come nell’ipotesi in cui, ad esempio, il rapporto di lavoro venga a cessare poco

25 Pret. Milano, 22 febbraio 1999, in Or. Giur. Lav., 1999, I, 156.

26 Cass., 14 maggio 1998, n. 4891.

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tempo dopo la stipulazione del patto stesso il compenso erogato periodicamente potrebbe, al momento dell’estinzione del rapporto, essere considerato incongruo rispetto al sacrificio richiesto al dipendente. Oppure, il lavoratore che abbia interesse a liberarsi del patto, potrebbe riuscire a dimostrare in giudizio che il compenso erogato in busta paga costituiva «un corrispettivo volto in realtà a compensare non l’astensione della futura concorrenza ma le prestazioni già rese dal lavoratore, in tal modo venendo ad eludere norme imperative attinenti alla tutela del rapporto di lavoro in tutta la sua ampiezza…».27 Con la conseguente applicazione dell’art. 1344 c.c. (Contratto in frode alla legge) e, pertanto, dell’art. 1418 c.c., che sancisce la nullità del contratto, in ipotesi, fra l’altro, di illiceità della causa.

«In tal caso non è neppure possibile ottenere la ripetizione delle somme erogate a titolo di compenso per il patto di non concorrenza, ripetizione che invece appare ammissibile nelle altre ipotesi di nullità del patto».28

Il dipendente, poi, sempre allo scopo di liberarsi dal vincolo che il predetto patto comporta, potrebbe sostenere anche la simulazione, soprattutto in mancanza di un reale interesse del datore di lavoro alla stipulazione del patto stesso. Inoltre, la corresponsione di un compenso periodico in corso di rapporto appare più onerosa per il datore di lavoro, in quanto, secondo l’opinione dominante, tali somme sono soggette a contribuzione previdenziale, dal momento che, come afferma la Suprema Corte esse costituiscono retribuzione, come ogni erogazione effettuata dal datore di lavoro in dipendenza e, più precisamente, in occasione del

27 Cassazione 26 ottobre 1982, n. 5617 in Riv. It. Dir. Lav., 1983, II, 642

28 ROSANNA BARCHI, Il patto di non concorrenza: gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Diritto & Pratica del Lavoro n.14/2001-902

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rapporto di lavoro. 29

Gli inconvenienti sopra accennati non sembrano però tali da sconsigliare tassativamente il ricorso a tale modalità di pagamento.

Per quanto concerne la congruità del compenso, in ipotesi di cessazione del rapporto a breve distanza di tempo dalla stipulazione del patto di non concorrenza, il problema può essere risolto prevedendo, ad esempio, la corresponsione di un importo minimo, con conseguente eventuale conguaglio da versarsi al momento dell’estinzione del rapporto di lavoro, ovvero alla scadenza del termine di durata del patto stesso. Del resto, anche in ipotesi di previsione di una somma una tantum, tale compenso potrebbe apparire incongruo al momento dell’estinzione del rapporto di lavoro, se concordato anni prima.

Anche in questo caso, pertanto, sarà opportuno prevedere un correttivo, al fine di evitare un’eventuale controversia col lavoratore che abbia interesse, più che a percepire la somma pattuita, a liberarsi del vincolo dettato dal patto stesso. Il compenso, ad esempio, potrebbe essere calcolato con riferimento alla retribuzione percepita dal dipendente al momento della cessazione del rapporto.

Quanto poi al fatto che le somme erogate al lavoratore nel corso del rapporto siano assoggettate a contribuzione previdenziale, se esso comporta un onere per il datore di lavoro, per contro costituisce anche un vantaggio per il dipendente, del quale dovrà tenersi conto nella valutazione della congruità del compenso.

29 Cassazione 4 aprile 1991, n.3507

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COMPENSO ALLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

La seconda modalità di pagamento è costituita dalla corresponsione di una somma al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero alla fine del periodo di durata del patto di non concorrenza.

In tal caso, il compenso, se non è esente dal pericolo di essere considerato incongruo, come più sopra accennato, non è soggetto a contribuzione previdenziale ma solo a tassazione separata.

COMPENSO PERIODICO DALLA DATA DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Infine, ma tale modalità è poco frequente, il compenso può essere liquidato periodicamente, con decorrenza dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Quest’ultima forma comporta un indubbio vantaggio per il datore di lavoro: gli consente, infatti, di tutelarsi immediatamente in ipotesi di violazione dell’obbligo di non concorrenza, sospendendo il pagamento delle somme non ancora erogate.

Allo stesso modo, al datore di lavoro sarà consentito non corrispondere il compenso, il cui pagamento sia stato pattuito al termine del periodo di vigenza del vincolo, allorché nel frattempo si sia verificato l’inadempimento della controparte.

In caso di corresponsione del compenso nel corso del rapporto di lavoro, ovvero al momento della estinzione del medesimo, invece, il datore di lavoro dovrà chiedere giudizialmente la restituzione di quanto pagato, con tutti i conseguenti problemi.

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CAPITOLO 3

PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’

Alla lettura dell’art. 2125 c.c. deve essere affiancata una valutazione indirizzata a stabilire la legittimità dello stesso nei confronti dei principi espressi nella carta costituzionale. Ad una prima verifica, il testo della norma civilistica pare contrastante con alcuni principi, quali la libertà di lavoro (ex art. 4 Cost.) e la libertà di iniziativa economica (ex art. 41 Cost.), in quanto legittima la possibilità di restringere convenzionalmente tali libertà pur ponendo determinati limiti. In un primo momento la giurisprudenza ha risolto tale problema attribuendo alla volontà delle parti la disponibilità di tali diritti, invece che alla legge tesa a tutelare il lavoratore attraverso la limitazione dell’operatività del patto.

In questo contesto sono venute a formarsi due diverse opinioni riconducibili alla dottrina: la prima teoria parte dall’assunto che qualsiasi diritto di libertà va contemperato con altre posizioni giuridiche parimenti meritevoli di tutela costituzionale; nel caso specifico viene individuata nella libertà di iniziativa economica, concepita come libertà di permanenza sul mercato, la protezione da accordare al lavoratore. Inoltre, facendo riferimento al carattere temporaneo della pattuizione e agli altri limiti previsti dalla norma lavoristica, tale teoria ritiene che venga garantito un sufficiente margine di esplicazione della libertà di lavoro, rispettando così il diritto al lavoro. «Il discorso si sposta allora sul piano applicativo e lungo questa linea riacquistano valore i principî costituzionali capaci di invalidare – in un rigoroso giudizio da formularsi di volta in volta – le ipotesi interpretative dell’art. 2125 c.c. che avallano esasperate compressioni della

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libertà di lavoro e della libertà di iniziativa economica (di cui è pure titolare l’ex dipendente che intende svolgere un’attività imprenditoriale).»30

Così il Tribunale di Milano 20/06/1974, GADI, 1974, n. 578/5 ha ritenuto che non sussiste contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost. perché l’art.

2125 può essere interpretato in modo che il lavoratore, senza vedere pregiudicata gravemente la sua futura ed eventuale capacità di guadagno, può ricavare un vantaggio economico immediato dalle sue potenziali attitudini e cognizione specifiche. In altra sentenza che reca la stessa data (GADI, 1974, n. 576/1) è stata respinta la pretesa contrarietà dell’art. 2125 con l’art. 4 Cost., affermando che quest’ultimo non rende illegittimo qualsiasi limite posto dall’autonomia contrattuale al diritto del lavoro e con l’art. 36 Cost., in quanto l’art. 2125 prevede che il compenso sia proporzionato alla limitazione dell’attività lavorativa. Del pari il Tribunale di Milano 27/09/1971, GADI, 1972, n. 33/1 ha argomentato del fatto che il patto in esame non elimina completamente la capacità lavorativa del prestatore di lavoro ed è comunque ricollegabile ad un obbligo assunto da un soggetto nell’ambito della propria autonomia contrattuale per respingere la tesi di un contrasto dell’art. 2125 con gli artt. 4, 35 e 41 Cost.

Un secondo orientamento contesta la costituzionalità dell’art. 2125 c.c., ponendo l’accento sul problema che sorge con la possibilità che il lavoratore si obblighi a non impiegarsi presso un concorrente dell’imprenditore o a non concorrere con lui in prima persona, nel momento di massimo squilibrio tra i poteri contrattuali delle parti, opprimendo così la libertà di scelta del lavoratore come attributo essenziale della persona,

30 FULVIO BIANCHI D’URSO, Concorrenza, Patto di non concorrenza, in Enciclopedia giuridica Treccani 1988-1

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avallando l’ipotesi di una probabile incostituzionalità della norma. Il dubbio è rafforzato dalla teoria, sostenuta in dottrina, che il patto di non concorrenza incide sullo stesso potere di dimissioni, nella misura in cui costituisce un energico incentivo a procrastinarne l’esercizio.

«Una diversa conclusione, invece, parrebbe imporsi se per «attività del prestatore di lavoro» (art. 2125 I comma c.c.) si potesse o si dovesse intendere soltanto l’avvio di nuovi processi produttivi e, in particolare, la costituzione di un’impresa destinata a competere con quella in cui il prestatore è impiegato. Sul profilo della scelta professionale, infatti, si sovrappone qui e viene in primo piano fino ad occupare tutto il quadro, il profilo dell’iniziativa economica: ossia di un valore che, avendo prevalente segno patrimoniale, inerisce alla personalità del singolo in modo assai meno diretto ed è quindi relativamente disponibile».31

31 MANCINI F., in Comm. Cost. Branca, sub art. 4, 1975

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CAPITOLO 4

MOMENTO DELLA STIPULAZIONE DEL PATTO

Rilevante è, altresì, il momento della stipulazione dell’accordo.

Dottrina e giurisprudenza concordano sul fatto che il patto possa essere sottoscritto in qualsiasi momento del rapporto di lavoro e così al momento dell’assunzione ovvero nel corso del rapporto stesso, mentre si hanno opinioni discordanti sull’applicazione dell’art. 2125 c.c. nel caso il patto sia stipulato al momento dell’estinzione del contratto di lavoro, ovvero dopo la cessazione del medesimo. Secondo un primo orientamento, in tal caso non potrebbe più applicarsi l’art. 2125 c.c.: l’accordo dovrebbe essere regolato invece dall’art. 2596, che disciplina il patto di non concorrenza tra imprenditori. Infatti, il testo della norma, che parla di prestatore di lavoro, sembra presupporre la necessità che il patto di cui all’art. 2125 c.c. sia stipulato in corso di rapporto. A tale orientamento si contrappone quello che ritiene sempre applicabile la norma lavoristica, in qualunque momento l’accordo venga sottoscritto. Per un orientamento intermedio si sono invece espresse le Sezioni Unite della Cassazione32, le quali hanno affermato che l’art. 2125 è applicabile al patto concluso dopo la cessazione del rapporto di lavoro solo quando esso sia stipulato in sede di definizione di un conflitto di interessi ancora pendente, relativo al precorso rapporto, con ciò confermando in sostanza che, al di fuori di tale ipotesi, al patto di non concorrenza sottoscritto posteriormente all’estinzione del

32 Cass., S.U. 10 aprile 1965, n. 630, in Dir. Lav., 1966, II, 31

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rapporto di lavoro è applicabile l’art. 2596 c.c.

Il problema assume ulteriore rilevanza in relazione alla prestazione del datore di lavoro: infatti, il testo dell’art. 2596 c.c. non prevede, in capo alla parte datoriale, alcuna obbligazione onerosa, legittimando così, a differenza della norma lavoristica, pattuizioni che non prevedono in favore del lavoratore la corresponsione di un compenso in denaro. Nel caso pratico esso più facilmente sarà sottoscritto al momento dell’assunzione (il patto di non concorrenza, infatti, è frequentemente contenuto nella lettera di assunzione o, comunque, costituisce una clausola del contratto individuale di lavoro), potendo in tal caso il datore di lavoro porlo come condizione del rapporto di lavoro che si sta per instaurare, ovvero in corso di rapporto in cambio di avanzamenti di carriera.

L’ipotesi, invece, della conclusione del patto di non concorrenza al momento della cessazione del rapporto di lavoro o, addirittura, in seguito, è alquanto remota, se non, appunto, in sede transattiva per la definizione di una controversia in atto tra le parti. In tale ipotesi, infatti, il lavoratore non avrà generalmente interesse, salvo che in casi particolari, a sottoscrivere un patto limitativo della sua futura attività lavorativa.

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CAPITOLO 5

L’INADEMPIMENTO DEL LAVORATORE

La violazione del patto di non concorrenza, da parte del lavoratore, costituisce inadempimento contrattuale, ed il datore di lavoro potrà certamente chiedere, ai sensi dell’art. 1453 comma 1 c.c. la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni che dimostri di avere subito. Poiché spesso, nel caso pratico, la prova in merito appare piuttosto difficile da fornire, solitamente viene inserita nel patto di non concorrenza una clausola penale, ai sensi dell’art. 1382 c.c., la quale richiede per la sua applicabilità, solo l’accertamento dell’inadempimento e non la prova dell’esistenza dei danni. In tal caso, il datore di lavoro, provato in giudizio l’inadempimento, avrà senz’altro diritto al pagamento della penale. Il lavoratore è, inoltre, tenuto a restituire le somme percepite in esecuzione del patto, in quanto a seguito dell’inadempimento è venuta meno la causa del pagamento.33

5.1. L’inibizione dell’attività lavorativa

In questo contesto emerge la questione della previsione, a favore del datore di lavoro, anche di una tutela d’urgenza attraverso l’inibizione al lavoratore della sua nuova attività. Il legislatore non ha espressamente previsto la sanzione dell’inibitoria in caso di inadempimento del patto di non concorrenza; l’ha prevista, invece, nel caso di concorrenza sleale tra imprenditori ex art. 2599 c.c., ma tale disciplina non può essere estesa alla norma lavoristica in quanto il campo di applicazione delle due norme è differente e inoltre non viene fatto alcun richiamo all’art. 2125 c.c. Ciò non

33 Pret. Montebelluna 31 marzo 1989.

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significa, che nella fattispecie debbano ritenersi ammissibili solo provvedimenti risarcitori, destinati a realizzare l’interesse del creditore attraverso il recupero dell’utilità economica pregiudicata dalla violazione dell’interesse leso; a norma dell’art. 1453 c.c., il datore di lavoro può chiedere in giudizio l’adempimento dell’obbligazione da parte del lavoratore e, nel caso la richiesta venga accettata dal giudice, dovrebbe comportare necessariamente l’inibizione della continuazione dell’attività, costituendo la persistenza di un fatto illecito. E’ da dire però che la lettera dell’art. 1453 c.c. non fa riferimento espresso né alle obbligazioni omissive, né al rimedio dell’inibitoria, ma è una norma generale che displina i contratti ad esecuzione continuata.

La soluzione potrebbe essere prospettata, allora, dall’individuazione nel nostro ordinamento di una azione inibitoria da applicare in via generale e, di conseguenza, nella fattispecie in esame a tutela del datore di lavoro.

Sotto questo punto di vista, l’ordinamento fornisce importanti esempi, anche di recente introduzione, di azioni di condanna ad obblighi negativi non eseguibili coattivamente che impongono, cioè, doveri di astensione riferiti a prestazioni richiedenti la cooperazione dell’obbligato; essi evidenziano il ricorso sempre più frequente del legislatore alla tutela inibitoria, sviluppando così l’opinione di chi ritiene necessaria l’introduzione nel nostro sistema giuridico di un principio generale di applicazione del rimedio inibitorio. In particolare, l’azione inibitoria, ampiamente utilizzata per la tutela dei diritti dei lavoratori (art. 28 st. lav., art. 4, l. 10 aprile 1991, n. 125), è stata introdotta per la tutela dei consumatori dall’art. 1469 sexies c.c. e dall’art. 3, l.30 luglio 1998, n. 281, e secondo parte della dottrina può essere sempre concessa a chi vuol far

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valere l’altrui inadempimento.34 L’applicazione della tutela inibitoria al lavoratore inadempiente dell’obbligo di non concorrenza, riscontra rilevanti problemi nella fase esecutiva dell’ordine del giudice. Dal momento che l’obbligazione del lavoratore ha per oggetto una prestazione omissiva infungibile, il provvedimento inibitorio può trovare attuazione solamente se il lavoratore conforma il proprio comportamento all’ordine del giudice.

Emerge quindi il problema dell’attuazione coattiva dell’inibitoria, accentuato anche dall’impossibilità per il giudice di emanare delle misure di coercizione indiretta, ipotesi prevista nel nostro ordinamento solo per taluni casi specifici.

Altri problemi inerenti a questo tipo di provvedimento sorgono in relazione agli interessi di terzi che hanno concluso in buona fede il rapporto di lavoro con l’inadempiente, e che vantano nei confronti di quest’ultimo un diritto che contraddice quello oggetto della tutela cautelare. Conseguenza dell’inibizione è, infatti, l’impossibilità per il nuovo datore di lavoro di disporre delle prestazioni oggetto del contratto e di interferire con il diritto facente capo al primo datore di lavoro. Rientra nella normalità della casistica il fatto che provvedimenti aventi un contenuto ripristinatorio creino, nei confronti del soggetto passivo dello stesso, problemi con terzi, e la lesione dei loro diritti, mettendo in prim’ordine il diritto facente capo al primo datore di lavoro. Inoltre il provvedimento non i cui diritti siano lesi dall’attuazione della misura giudiziale. E’ da dire che il provvedimento non produce effetti diretti nei confronti dei rapporti con il terzo; la pronuncia non ha dunque natura c.d. di «tutela reale», non producendo effetti costitutivi, direttamente ed autoritativamente incidenti sui rapporti privati:

34 PIETROBON, «illecito e fatto illecito, inibitoria e risarcimento» Padova 1998, 141.

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non viene infatti posto nel nulla il contratto stipulato tra il lavoratore e il nuovo datore di lavoro in violazione del patto di non concorrenza, bensi viene ordinata l’esecuzione del patto di non concorrenza, in forma di cessazione del comportamento integrante l’inadempimento.35

«D’altra parte la lesione dei diritti del terzo costituisce effetto indiretto inidoneo a legittimare il persistere della condotta illecita e l’impossibilità di emettere il provvedimento destinato a farla cessare. Infine è da rilevare che la causa esclusiva del danno arrecato al terzo è costituita dall’eliminazione della situazione antigiuridica determinata dall’inadempimento, cioè da un comportamento comunque da ascrivere all’inadempiente, che, pur consapevole dell’impegno assunto, ne ha contratto altro incompatibile con il precedente, per cui è pienamente giustificato l’obbligo risarcitorio inter partes, mentre non lo sarebbe la menomazione dei diritti del contraente estraneo al rapporto con il terzo.»36

5.2. Misure di coercizione indiretta

La tutela inibitoria offerta al datore di lavoro, dimostra di avere un punto debole, che contraddistingue tutti i provvedimenti di tale natura aventi ad oggetto un obbligo di fare infungibile, che si trova nell’insuscettibilità dell’ordine del giudice di essere oggetto di esecuzione forzata.

Il Tribunale di Bologna in una ordinanza apprezzabile quanto singolare,37 si distingue nettamente rispetto alle precedenti pronunce per

35 Pret. Milano, 22 febbraio 1999, in Riv. It. Dir. lav., 2000, II, 329.

36 MAURIZIO TATARELLI, Il patto di non concorrenza: contenuto e sanzioni, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro 2002-151

37 Tribunale di Bologna 29 gennaio 2002, Soc. Datalogic c. Moroni in Lavoro giur., 2003, 1153

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quanto concerne l’accoglimento dell’istanza della società ricorrente di porsi a carico del prestatore di lavoro, per l’ipotesi di mancata ottemperanza all’ordine di cessazione dell’attività vietata, una somma per ogni mese di ritardo nell’adempimento. Il provvedimento introduce così una misura di coercizione indiretta all’inibitoria dell’attività illegittima.

L’ordinanza in esame ha il pregio di attribuire al provvedimento inibitorio potere coercitivo, ma fa emergere problemi in relazione alla legittimità della stessa.

«Non può, a tale riguardo, non osservarsi come il giudice, seppure nell’ambito dell’ampio potere attribuitogli dall’art. 700 c.p.c., che non individua un provvedimento tipico e lascia alla discrezionalità del giudicante l’individuazione delle misure più idonee ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito, non possa emanare in via cautelare provvedimenti che non siano poi adottabili in sede di cognizione».38 In quest’ottica il nostro ordinamento non prevede il potere, in capo al giudice, di emanare provvedimenti sanzionatori nei confronti dell’inadempiente che non siano previsti dalla legge, ovvero da obblighi pattiziamente assunti dalle parti; potere che, invece, sembra essere utilizzato dal giudice, nel caso in esame, nel momento in cui obbliga il dipendente al pagamento di una somma in denaro nel caso in cui non si adeguasse al provvedimento inibitorio che gli ordina di cessare il rapporto con l’impresa concorrente.

A differenza degli ordinamenti degli altri paesi, si pensi all’astrainte39

38 DANIELA TURELLO, Patto di non concorrenza e misure di coercizione indiretta, in Lavoro giur., 2003, 1156

39 Che consiste in una condanna al pagamento di una somma di denaro, pronunciata su istanza e a favore del creditore, per ogni giorno di ritardo nell’adempimento dell’ordine del giudice.

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prevista dal sistema giuridico francese, all’istituto del contempt of court40 rinvenibile nei paesi di common law e alla sanzione pecuniaria prevista dal diritto tedesco,41 non è legittimato nel nostro paese l’utilizzo da parte del giudice di misure di coercizione indiretta all’adempimento di un obbligo infungibile a tutela sia del diritto del creditore, sia del potere giudiziario.

Tale previsione è, infatti, nel nostro sistema giuridico ricollegata a specifiche disposizioni legislative, disciplinanti casi particolari.

Al riguardo possono richiamarsi le disposizioni dettate in materia di marchi registrati e di brevetti per invenzioni industriali, nonché la norma di cui all’art. 18, ult. Comma, Stat. Lav., che stabilisce che il datore di lavoro che non ottemperi all’ordine di reintegrazione del sindacalista (dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali) debba versare al Fondo adeguamento pensioni una somma per ogni giorno di ritardo nell’adempimento.

In tali casi le misure coercitive indirette hanno natura di sanzioni civili vere e proprie.

Misure coercitive indirette, seppure di carattere penale, sono inoltre previste dall’art. 28, comma quarto, Stat. Lav., che dispone che il datore di lavoro che non ottempera all’ordine di cessazione del comportamento antisindacale è punito ai sensi dell’art. 650 c.p., nonché dall’art. 15, l. n.

903/1977, sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, che rinvia parimenti all’art. 650 c.p. in caso di mancata esecuzione dell’ordine di cessazione del comportamento discriminatorio.

40 Al quale consegue l’irrogazione di pene pecuniarie (ammenda, sequestro, cauzione) e anche detentive.

41 Devoluta, sempre su istanza di parte, allo Stato, anziché al creditore, e avente, pertanto, natura meramente sanzionatoria e non risarcitoria.

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Al di fuori di alcune ipotesi disciplinate dal legislatore, il nostro ordinamento non prevede, però, allo stato attuale misure di coercizione indiretta degli obblighi di fare infungibili sebbene la dottrina segnali la necessità di una riforma nel senso di una estensione della tutela coercitiva indiretta onde ottenere una tutela effettiva del creditore per l’attuazione degli obblighi non suscettibili di esecuzione diretta.

A giudizio di chi scrive, non è possibile condividere la soluzione prospettata dal Giudice del Tribunale di Bologna nell’ordinanza in commento, in quanto non legittimata da alcuna normativa vigente, pur dovendosi ritenere apprezzabile l’intento dallo stesso perseguito; concorde con l’opinione della dottrina per quanto riguarda l’esigenza di una riforma che, uniformandosi ai sistemi giuridici dei paesi esteri, riesca ad investire il giudice di un effettivo potere coercitivo, in grado di tutelare efficacemente il creditore.

5.3. Penale

Compatibile con l’art. 2125 è stata ritenuta la previsione di una penale per il caso di inadempimento del lavoratore, purchè il suo ammontare sia proporzionato all’interesse che il datore di lavoro aveva all’adempimento al momento della stipulazione del patto, con possibile applicazione dell’art.

1384 per ridurla.42

Va comunque precisato che non è ammesso, ex art. 1383 c.c., il cumulo dell’azione inibitoria e della penale nel suo intero ammontare.

Il divieto del cumulo dei due rimedi impedisce che il creditore ottenga dall’inadempimento del suo debitore un vantaggio superiore a quello che avrebbe ottenuto se al contratto fosse stata data regolare esecuzione. Il c.d.

42 Tribunale di Milano 20/06/74, GADI, 1974, n. 578/6

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divieto di cumulo opera dunque quando sia possibile l’integrale soddisfacimento dell’obbligazione. Diversamente, se l’obbligazione ha come oggetto una prestazione omissiva, l’inadempimento si realizza nell’istante stesso del compimento del primo atto commissivo e questo impedisce che il creditore possa ottenere dal suo debitore l’adempimento integrale.

In simili ipotesi, il creditore, il quale faccia valere il suo interesse ad ottenere, se pure tardivamente, la prestazione negoziale, ha diritto a ricevere sia l’adempimento, ormai inevitabilmente parziale, sia il diritto al pagamento della penale, ridotta in misura tale da bilanciare l’entità del pregiudizio subito a seguito del parziale e tardivo adempimento ( ex art.

1384 c.c.).

Il principio è applicabile soprattutto in materia di mancato rispetto di accordi di durata, qual è il patto di non concorrenza.

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CAPITOLO 6

RECESSO DEL DATORE DI LAVORO

Sulle clausole che attribuiscono alla parte datoriale la possibilità di recesso dal patto di non concorrenza si è espressa la Corte di Cassazione, che in alcune recenti sentenze si è pronunciata in difesa del lavoratore tutelando il suo diritto alla futura programmazione economica; queste sentenze43 sono degne di nota, in quanto mettono in luce una rivalutazione delle motivazioni che, negli anni passati, fecero propendere la stessa Suprema Corte ad orientamenti opposti sull’argomento.

Le sentenze in commento affermano la nullità della clausola che attribuisce al datore di lavoro la facoltà di recedere dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto.

Nelle motivazioni la corte spiega che l’art. 1373 c.c., che si potrebbe applicare in via generale ai contratti ad esecuzione continuata, si pone in contrasto con l’art. 2125 c.c., il quale, essendo una norma di carattere speciale, è la fonte principale che disciplina il patto di non concorrenza. In particolare il contrasto sorge riguardo al termine della pattuizione, che secondo la lettera dell’art. 2125 c.c. deve essere determinato precedentemente e deve avere una durata certa; non è possibile perciò applicare alcuna normativa, ovvero alcuna clausola assunta dalle parti, che infici la certezza di tale termine, da cui ne deriva l’inapplicabilità dell’art.

1373 c.c. alla fattispecie in commento e la nullità di ogni clausola stipulata in senso contrario.

43 Cass. 13 giugno 2003, n. 9491 e Cass. 16 agosto 2004, n. 15952

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La soluzione adottata dalla sentenza in commento, supera il precedente, e ormai risalente, orientamento giurisprudenziale che era giunto ad affermare la validità del recesso datoriale dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto di lavoro.44 Da un lato, si erano ritenuti pienamente operanti i principî generali di cui all’art. 1373 c.c.; dall’altro, si era affermato che dall’attribuzione di tale potere al datore di lavoro non conseguiva una indeterminabilità del corrispettivo pattuito, in considerazione dell’ampio margine riconosciuto sul punto all’autonomia individuale dall’art. 2125 c.c.

Così si deve concludere che «l’art. 2125 c.c., nell’imporre che il patto di non concorrenza sia determinato nel tempo, preclude al datore di lavoro la possibilità di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo e di vanificare, conseguentemente, la previsione della fissazione di un termine certo. In tale prospettiva, deve giungersi ad affermare l’illegittimità di tutte quelle clausole contrattuali che rimettono la definizione temporale del patto di non concorrenza ad elementi certi nell’an ma incerti nel quando, nonché al verificarsi di condizioni risolutive potestative, a cui viene assimilata dalla giurisprudenza la facoltà di recesso, trattandosi di situazioni tra loro accomunate dall’oggettiva incertezza, al momento della stipulazione, della durata del vincolo».45

44 Cass. 10 aprile 1978, n.1686, in Or. Giur. Lav. 1978, 999

45 MASSIMO LANOTTE, Patto di non concorrenza e nullità della clausola di recesso, Mass.

Giur. Lav. 2005, 45

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6.1. Congruità del corrispettivo

E’ stata sollevata, da un’interpretazione giurisprudenziale,46 l’ipotesi di violazione del principio di corrispettività delle obbligazioni all’esercizio datoriale del potere di recesso. Invero, quest’ultimo incide solamente sulla durata del vincolo, determinandone una riduzione temporale. Non può invece, rinvenirsi alcuna correlazione diretta tra esercizio del recesso e violazione del principio di corrispettività. In prima battuta, si può affermare che il recesso non altera necessariamente l’equilibrio tra prestazione e controprestazione, tutelato dal legislatore con la previsione, tra i requisiti di legittimità del patto, di un corrispettivo.

D’altra parte, la cessazione del vincolo libera il datore di lavoro dall’adempimento delle obbligazioni non ancora eseguite, in base al principio generale che regola il recesso dai contratti ad esecuzione continuata o periodica e di conseguenza potrebbe ridurre il guadagno del prestatore di lavoro per il vincolo assunto. Da questa considerazione si dovrebbe partire per valutare se il recesso causi la violazione del principio di corrispettività delle obbligazioni, tenendo in considerazione che sono previste diverse modalità di erogazione del corrispettivo.

Si può affermare, pertanto, che l’esercizio del potere di recesso non determina necessariamente uno squilibrio tra prestazione e controprestazione. Bisognerebbe valutare nel caso specifico, alla luce delle concordate modalità di attribuzione del compenso se alla cessazione del vincolo si possa riscontrare una disparità tra le prestazioni in oggetto tale da ledere il principio di corrispettività tutelato dall’art. 2125 c.c. Tale

46 Tribunale di Milano, 25 luglio 2000, n. 138

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valutazione non può essere limitata all’applicazione di criteri quantitativi ed aritmetici, mediante meccanismi che, ad esempio, equiparino percentualmente la riduzione della durata del patto con la riduzione del corrispettivo, ma soprattutto che il patto di non concorrenza vincola fin dalla cessazione del rapporto di lavoro e, probabilmente, fin dalla sottoscrizione del patto, le scelte del lavoratore. Di conseguenza dalla data del recesso, il datore di lavoro continuerà a trarre vantaggio delle scelte del lavoratore assunte in relazione al vincolo cui era sottoposto e in questo senso si potrebbe verificare una disparità nella corrispettività delle prestazioni.

In conclusione, non pare intrinseca nel potere di recesso la lesione del principio dim corrispettività delle obbligazioni, ma bisognerà fare una valutazione caso per caso.

6.2. Diritto alla programmazione della futura attività lavorativa

Seguendo l’iter decisionale delle sentenze in commento però, la preclusione del diritto di recesso al datore di lavoro, non deriva tanto dall’esposizione del lavoratore al rischio di non essere adeguatamente compensato, quanto perché la norma codicistica, impone che quest’ultimo

«abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero seriamente ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte».47 La ratio della norma è quella di garantire i diritti fondamentali del lavoratore, in particolare i valori costituzionalmente tutelati del diritto al lavoro ed alla libera iniziativa

47 Cass., 16 agosto 2004, n. 15952

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economica, i quali non possono essere compressi oltre determinati livelli minimi essenziali.

La norma, quindi, garantisce al lavoratore la durata del vincolo, al fine di consentire allo stesso la programmazione della sua futura attività lavorativa in relazione alla ridotta libertà d’impiego. Pertanto ogni pattuizione che attribuisca al datore di lavoro il potere di incidere sul termine del patto, deve ritenersi illegittima, anche qualora sia previsto specifico compenso.

Inoltre, secondo la corte, la situazione di precarietà sostanziale in cui verrebbe a trovarsi il lavoratore dopo la cessazione del rapporto, per essere

«costantemente soggetto alle determinazioni altrui», non può trovare adeguata compensazione né sul piano economico, né nell’utilità che pur sempre consegue alla liberazione dal vincolo.

6.3. Fidelizzazione del lavoratore

Secondo parte della dottrina, il patto di non concorrenza produce degli effetti già in corso di rapporto sulle determinazioni negoziali del lavoratore.

Secondo questo orientamento il patto, durante lo svolgimento del rapporto, non costituisce tanto un vincolo alla libertà di lavoro, quanto una limitazione sostanziale alla facoltà di dimissioni. Invero, «il lavoratore, sapendo di non poter svolgere dopo la cessazione del rapporto determinate attività lavorative è inevitabilmente privato della piena libertà di recedere dal rapporto di lavoro in essere. Di conseguenza, può affermarsi che il patto di non concorrenza può costituire anche uno strumento di fidelizzazione del dipendente». In questo modo, la tutela dell’impresa dalla concorrenza dell’ex dipendente opera su due piani distinti: da un lato, dopo la cessazione

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del rapporto del rapporto di lavoro, in via repressiva, mediante il divieto di svolgere attività concorrenziale; dall’altro in via preventiva, già in costanza di rapporto, incentivando la permanenza del lavoratore nell’impresa, proprio in ragione della futura limitazione della libertà di scegliere una nuova occupazione».48

Assume quindi rilevanza la questione della legittimità del recesso dal patto di non concorrenza entro la fine del rapporto di lavoro, che pur rispettando l’assunto della predeterminazione temporale del vincolo, garantendo al lavoratore la certezza della durata del vinvoloe sfuggendo così alle ipotesi di illegittimità che la giurisprudenza ha elaborato, pone comunque il lavoratore in una situazione di precarietà sostanziale, in quanto soggetto all’eventuale determinazione datoriale di recedere dal patto. Di conseguenza, il datore di lavoro potrebbe beneficiare dell’effetto fidelizzante del patto senza essere soggetto ad alcuna controprestazione.

A giudizio di chi scrive, è da affiancare l’orientamento della Corte di Cassazione, che indica l’incertezza della durata del patto, quale elemento essenziale per determinare la nullità delle clausole che attribuiscono alla parte datoriale il potere di recesso dal patto di non concorrenza. Invero, nelle motivazioni delle sentenze in commento, la Suprema Corte non fa riferimento né al principio di corrispettività delle obbligazioni, né al rischio di fidelizzazione del lavoratore provocata dal patto stesso.

E’ da dire, che l’adeguatezza del corrispettivo dovrebbe essere valutata con un giudizio di merito nella fattispecie specifica, in quanto, come sopra detto, il recesso del datore di lavoro non implica, nella

48 MASSIMO LANOTTE, Patto di non concorrenza e nullità della clausola di recesso, Mass.

Giur. Lav. 2005, 48

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generalità dei casi, una violazione del principio di corrispettività; per questo motivo non è possibile considerare quest’ultima, una motivazione che permetta di considerare nullo, in via generale, il recesso datoriale.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, non è da ritenere un elemento sostanziale, in quanto i limiti posti dall’art. 2125 c.c. (limite di tempo, di territorio e di oggetto) a tutela del diritto al lavoro, se rispettati, garantiscono al lavoratore delle prospettive di lavoro tali da rendere incontaminata la propria scelta sul se, e sul quando cessare il rapporto lavorativo.

D’altra parte, il recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza prima della cessazione del rapporto è da ritenere allo stesso modo lesivo per il prestatore di lavoro, in quanto non rispetta il diritto alla programmazione della futura attività lavorativa riconosciuto allo stesso lavoratore.

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6.4. Patto di opzione

Discussa in dottrina e in giurisprudenza è, inoltre l’ammissibilità di un patto di opzione ai sensi dell’art. 1331 c.c., che acceda al patto di non concorrenza, nonché del recesso unilaterale del datore di lavoro.

Quanto al patto di opzione, attraverso il quale il datore di lavoro si riserva, entro un termine prestabilito, la facoltà di accettare o meno il contenuto dell’obbligo assunto dal lavoratore, con la conseguenza che soltanto in caso di accettazione il patto di non concorrenza si perfezionerà a tutti gli effetti, secondo una parte della giurisprudenza,49 sarebbe inammissibile, in quanto anche qualora sia previsto un patto di opzione, il patto di non concorrenza limita comunque ed immediatamente le potenzialità personali di lavoro e di iniziativa economica, ben oltre il vincolo di subordinazione e di fedeltà tipica di ogni rapporto di lavoro. Tale orientamento ha precisato che il corrispettivo non può configurarsi esclusivamente come controprestazione del concreto rispetto da parte del dipendente, dopo la cessazione del rapporto, dell’impegno assunto, ma vale anche a compensare la perdita della possibilità di libera determinazione di se stesso che il dipendente ha subito fin dal momento della stipulazione del patto con il datore di lavoro. Dall’altro lato, l’orientamento giurisprudenziale prevalente sembra escludere una controprestazione onerosa per l’attribuzione al datore di lavoro della facoltà di rendere o meno operante il vincolo di non concorrenza. Così, con riferimento al patto di opzione, si afferma che la previsione di un compenso sarebbe privo di causa giuridica, in quanto, da un lato, estraneo al patto di non concorrenza, dall’altro non previsto dalla legge a favore del soggetto passivo

49 Pret. Bologna, 28 febbraio 1985, in Lav. ’80, 1985, 873.

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