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1.1.Unacomparazionetematica 1.Introduzione

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Academic year: 2021

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1. Introduzione

1.1. Una comparazione tematica

Scopo di questo lavoro è proporre una comparazione a livello tematico tra l’Odissea e il poema I Lusiadi, cui dà vita, nel 1572, Luìs Vaz de Camões, il maggiore scrittore di lingua portoghese.

Dopo questo primo capitolo introduttivo, l’esposizione si focalizzerà sulla relazione che sussiste tra la cultura portoghese e quella classica.

Nel secondo capitolo verrà introdotta l’episteme storica e culturale entro cui si situa il secolo de I

Lusiadi: il secolo delle scoperte, delle Gesta Dei por Lusos, che vede assurgere ad eroe primario un Ulisse

nuovo, dantesco, che con il suo “fatti non foste a viver come bruti”1 spinge a seguire nuove rotte e diviene -diremmo oggi, idolo, di naviganti e navigatori.

Saranno poi analizzate, nel terzo capitolo, le relazioni mitologiche e filologiche che sussistono tra Ulisse e la città di Lisbona. Tali relazioni affondano le proprie radici nella mitologia e senza dubbio hanno contribuito a fare dei portoghesi un popolo di 1Dante Alighieri, Inferno, XXVI, 118.

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navigatori, di scopritori, che sono riusciti a rendere il Portogallo “un Regno solo fatto di mille Imperi”2.

Poi verrà introdotta, nel quarto capitolo, una sinossi del poema di Camões, funzionale all’indagine comparatistica.

Al di là della grande differenza che separa l’Odissea e I Lusiadi, sono tuttavia evidenti certe analogie di temi, strutture, personaggi che le accomunano.

Scrivere un poema epico nel XVI secolo non può esimersi da un passaggio obbligato: la conoscenza ed il confronto con gli archetipi greci e latini. Nel caso del poema camoniano non si può parlare di riscrittura

tout court: la narrazione non è una sola e semplice

imitazione o traduzione, ma in essa c’è sempre una gran parte di invenzione, creazione propria, rifondazione di temi, intrecci e atmosfere.

Dopo aver individuato riprese, riformulazioni e novità prenderà avvio lo sviluppo delle correlazioni individuate: nel quinto capitolo verrà analizzato il transito marittimo ed il suo fine, nel sesto capitolo il ruolo degli dei, nel settimo la struttura delle narrazioni e degli espedienti tecnici messi in opera per

2 Castro, Gabriel Pereira de, Ulyssea, ou Lysboa edificada, Lisboa, 1636, disponibile in versione digitale:

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strutturarle (mise en abyme, flashback e

flashforward).

Per quel che concerne i personaggi, verranno commentate, nell’ottavo capitolo, le analogie tra i giganti che vivono nei due poemi: Polifemo e Adamastor, mentre nel nono saranno discusse le catabasi, le profezie ivi contenute e le loro funzioni.

Nel decimo ed ultimo capitolo, infine, verranno riconsiderate tutte le occorrenze analizzate e, alla luce delle infinite possibilità di interpretazione che la letteratura paventa, si proverà a dare una lettura unitaria di questo lavoro.

I paragrafi che compongono questa introduzione vogliono presentare in maniera schematica alcune caratteristiche generali che determinano in maniera efficace la localizzazione spazio – temporale dei poemi oggetto d’indagine. A seguire vengono dunque presentate, nel paragrafo 1.2, le peculiarità che fanno de Lusiadi un poema epico. Per avvalorare maggiormente questa affermazione, nel sottoparagrafo 1.2.1 viene considerato il retroterra simbolico che accomuna tutti i poemi epici; la possibilità di rintracciarlo anche nel poema camoniano fa sì che quest’ultimo possa rientrare a pieno titolo in questa categoria.

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Vengono in seguito analizzate, in 1.3, le condizioni culturali e sociali che danno vita ad un poema epico. Si nota infatti, per quanto concerne tale occorrenza, una ripetitività di condizioni entro cui vengono alla luce opere che rientrano nello statuto epico. In 1.3.1, la presentazione del cronotopo de I

Lusiadi permette di avvalorare queste affermazioni.

Nel paragrafo 1.4, infine, viene presentata la componente più innovativa del poema camoniano. In essa può essere notata una riformulazione di contenuti che permette di considerare l’opera di Camões non una semplice riscrittura ma una originale creazione.

1.2 L’epica de “I Lusiadi”

Nell’introdurre lo statuto epico del poema camoniano, vanno considerate non solo le radici profonde che legano quest’opera cinquecentesca all’epica classica, ma anche le variazioni sul tema che permettono al poema di rispecchiare in pieno la propria epoca.

I Lusiadi rispettano lo statuto epico innanzitutto

nell’essere in sommo grado “oggettivi”, dato che il poeta riesce ad esaltare un’impresa eroica e nazionale: poema nazionale, anche nel senso che ha

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per pubblico un’intera nazione; poema epico in cui quell’indispensabile mediazione che in altri casi è offerta dalla proiezione nella lontananza temporale, origine di fantasticheria, è data in questo caso dalla proiezione nella lontananza spaziale. L’Oriente mitico oggetto di fantasticherie sognanti, ipotetica sede di magiche leggende, diffonde un’aura esotica che pervade l’intero poema, donandogli quella fatata sospensione tra realtà e mito, imprescindibile locazione di eroiche avventure.

È vano nascondere le estreme difficoltà di gradimento, e perfino di comprensione, cui vanno incontro I Lusiadi presso i posteri e presso gli stranieri, là dove manca cioè la recente memoria degli avvenimenti cantati: Camões, d’altro canto, a causa di una vita fatta di sventure e abbandono, conferma il

nemo propheta in patria tanto caro alla saggezza

popolare: è come se corresse l’obbligo di far luce su tanta armonia letteraria spesso – e a torto - poco conosciuta e divulgata.

Camões canta il viaggio di Gama considerandolo molto più di un avvenimento concluso: quel viaggio rappresenta il culmine non solo delle esplorazioni della costa africana occidentale, iniziate con il vigoroso impulso dell’Infante Dom Henrique, ma della

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storia stessa del Portogallo che con tali esplorazioni si identifica a partire dal 1415.

L’essenza ultima del poema non è però solo questa. Sul piano simbolico cui, continuamente, la realtà ascende e si intreccia nel poema, ciò significa anche, con eloquente vigore, lo sforzo dell’Uomo nella lotta imperterrita per affermare e imporre la propria intelligenza, in una attitudine di cosciente orgoglio del proprio valore.

1.2.1 Il retroterra simbolico

Un altro elemento che dimostra lo statuto epico de I Lusiadi è costituito dalla simbologia. Si è discusso a lungo, infatti, sulla natura simbolica del viaggio che viene rappresentato nei poemi epici. Un poema epico tende spesso a significare un percorso spirituale, un viaggio iniziatico di un eroe. Esiste uno schema di base soggiacente tutti i viaggi iniziatici, a loro volta sublimazione di formule cristallizzate nei riti di passaggio. Questo schema definisce i tre momenti fondamentali della chiamata, del viaggio propriamente detto e del ritorno.

Dopo aver ricevuto la chiamata all’avventura (e rifiutarla implicherebbe l’inizio di un processo inverso di autodistruzione), l’eroe si separa dalla familiarità

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della comunità cui appartiene e parte per il mondo sconosciuto.

Egli incontra lì forze favolose che lo aiutano e poteri occulti che lo ostacolano, che può o non può riconoscere come tali, ma i cui effetti inevitabilmente sente.

Affinché la sua avventura divenga una vera iniziazione, l’eroe dovrà riuscire a prendere consapevolezza della propria identità personale, superare gli ostacoli che passo dopo passo gli si presentano fino a che, giunto alla prova decisiva, dovrà confrontarsi con l’avversità; dalle sue capacità dipende la rinnovata continuità della comunità di cui è rappresentante e personificazione.

Temprato dagli eventi, egli affronta temerariamente la sfida e, riuscendo nella prova, meriterà l’apoteosi che consacra il suo trionfo e che simbolizza in sé l’immortalità collettiva che ha conquistato.

Per questa ragione è sempre necessario che l’eroe ritorni e si reintegri nella comunità da cui è partito, in modo da assicurare, dentro di essa, la circolazione dell’energia spirituale rigenerante che la sua avventura ha liberato. Di contro, dal punto di vista della comunità, il ritorno dell’eroe costituisce

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l’obiettivo e l’unica giustificazione della sua lunga assenza.

Sul piano simbolico un’epopea diviene dunque una stilizzazione di un processo di crescita e maturazione interiore, non solo di un uomo, ma anche di un popolo. L’autocontrollo, l’equilibrio e la capacità decisionale si pongono come elementi acquisiti non solo dal singolo, ma dall’intera collettività che interagisce con lui.

1.3 Il cronotopo dell’epica

Nel riflettere sulla capacità di autoanalisi di una comunità, è interessante notare come l’epica letteraria, a giudicare dalle sue migliori produzioni, non sbocci mai nei tempi d’oro di una nazione, ma nel momento del suo declino. In questi momenti si analizza il recente passato con il bagaglio di successi che esso porta con sé e ci si interroga sulla loro capacità di persistere; si analizza la loro forza, si soppesa la loro importanza, ci si batte affinché abbiano una continuità. Un tale impegno pertiene ai poeti che scrivono come nel bel mezzo di una grande lotta, con risultati parziali deboli e affari futuri incerti.

L’Atene di Pericle, l’Inghilterra di Elisabetta, la Francia di Luigi XIV hanno infatti la loro letteratura,

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ma non hanno epica. Non guardano al passato ma al futuro, si soffermano sull’orgoglio e l’eccitazione per un brillante presente e lo vedono ricco di promesse per l’avvenire.

I poeti epici mostrano uno spirito diverso. Sono spesso malinconici e carichi di responsabilità.

Quando questi poeti proclamano la grandezza di un popolo, o di una causa, o di un sistema di valori, la loro lode fa pensare che non è più tutto così grande e glorioso come sembra. Se ciò accadesse solo in un caso, potremmo ascriverlo al temperamento del poeta e considerarlo nei termini di tale specifica occorrenza. Ma ciò capita in più di un caso e spinge verso altre conclusioni. Si è costretti a concludere che la piena forza dell’epica letteraria viene fuori sul limitare di alcuni processi storici e che i poeti tentano di tirare le somme su ciò che quei processi hanno significato.

Quelle gesta che si eternano in un libro possono

avere fama e funzioni imperiture.

1.3.1 Il cronotopo de “I Lusiadi”

Camões vive alla fine di grandi avventure e all’alba di grandi cambiamenti. Quando pubblica I

Lusiadi, nel 1572, lo sforzo prodigioso che i portoghesi hanno strenuamente compiuto per circa un

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secolo si è quasi esaurito. L’impero che l’autore aveva conosciuto con la propria esperienza sta per passare sotto il dominio spagnolo, e non raggiungerà mai più la propria iniziale eminenza, non realizzerà le speranze una volta riposte in tale sogno.

Il poeta sa quanto gli sforzi compiuti siano costati al Portogallo, vede il terrificante pericolo, ha cattivi presagi per il futuro. Così decide di cantare la grandezza della sua nazione e di coloro che l’hanno costruita.

Camões tratta il passato come un bagaglio di esempi e ispirazione per il futuro, e prova a risvegliare l’indolente Europa dei suoi giorni figurando in un potente lavoro le avventurose vicissitudini dei migliori portoghesi.

1.4 L’evoluzione di un mito

L’Odisseo omerico, mediato dall’Ulisse dantesco e da Dante relegato all’Inferno, può, con Vasco de Gama, risorgere a vita nuova; in Vasco de Gama si accomunano il multiforme ingegno e la speranza di seguire virtute e canoscenza, di conoscere nuovi mondi, di scoprire nuove rotte. Ma in lui vi è anche una nuova componente, strettamente moderna: l’abbandono del solipsismo eroico che si traduce in

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consapevolezza del gruppo, di essere una parte del tutto, una voce del coro. Solo con questa nuova possibilità è reale l’esito positivo di una spedizione, che riscatta l’aspirazione dei suoi predecessori, dimostrando che il perseguire le magnifiche sorti e

progressive, talvolta, conduce ad una possibile riuscita.

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2. Dalla follia di Ulisse alle gesta Dei

por Lusos: esegesi di una rivoluzione

mentale

2.1 Il Portogallo Rinascimentale

Non è semplice riuscire a comprendere pienamente l’ascesa e il declino dell’Impero coloniale portoghese rinascimentale. Esistono teorie religiose, finanziarie, geografiche che vengono proposte di volta in volta nell’intento di spiegare come una piccola nazione, improvvisamente, agli albori del Rinascimento, sia riuscita a esplorare e conquistare le rive dei mari più remoti. Perché poi, altrettanto subitaneamente, quest’età di energie ed entusiasmi sia scemata e il genio portoghese si sia incanalato nell’individualistica produzione e contemplazione lirica che lo contraddistingue oggigiorno è altro campo di congetture. Nessuna teoria, a tutt’oggi, è riuscita a spiegare questi fenomeni.

Il Portogallo detiene una posizione di preminenza nella storia delle scoperte geografiche grazie a tre grandi imprese: l’apertura delle rotte oceaniche verso Oriente, la colonizzazione del Brasile e la diffusione

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della cristianità in terre lontane, soprattutto ad opera dei Gesuiti. Tali imprese risultano ancora più notevoli se si considera che la popolazione del Portogallo ammontava a poco meno di due milioni di abitanti quando portava la propria bandiera, la croce di Cristo, in giro per il mondo.

L’arco cronologico preso in esame si estende dal XV secolo, quando il principe Enrico il Navigatore patrocina la prima caravella che salpa dal porto di Sagres, alla fine del XVI, quando il Portogallo cade sotto il dominio spagnolo e Inghilterra e Olanda iniziano a divenire le maggiori potenze marittime.

I portoghesi, indomiti marinai abituati ad una quotidiana lotta per la sopravvivenza contro l’oceano, dopo meno di un secolo di navigazioni riuscirono a raggiungere l’India, il Brasile, il Labrador.

Un grande missionario, Padre Antonio Vieira, affermò che Dio aveva donato ai suoi compatrioti una piccola patria per luogo di nascita, ma tutto il mondo per morirvi.

I portoghesi del Rinascimento non erano tutti grandi pensatori; molti di loro, come Álvaro Velho3 e

3 Velho era membro dell’equipaggio di uno dei quattro vascelli – probabilmente del São Raphael - salpati per volontà del re Dom Manuel alla ricerca di spezie e nuove rotte. Viene unanimemente considerato lo scrivano del vascello, di cui è giunto a noi il giornale di bordo. Era un militare vissuto in Sierra Leone per circa otto anni,

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Pero Vaz de Caminha, erano uomini semplici, non colti, che presero parte con modestia alle scoperte e che, senza dubbio, sapevano come resistere alle difficoltà marittime.

Intelligenze acute, come il vate Camões, combinarono una innata capacità di resistere alle avversità della vita con una disincantata, realistica visione del mondo, degli uomini, del Portogallo, che sottende l’apparente ottimismo patriottico dei Lusiadi.

Forse queste qualità possono aiutarci a capire come tali uomini siano riusciti a raggiungere quasi tutti i lidi del mondo perseverando nel sacrificio.

L’impresa di Vasco Da Gama prende avvio l’8 luglio 1497; quattro vascelli erano stati costruiti sotto la supervisione di Bartolomeo Dias, altro grande navigatore portoghese che prima di Gama aveva doppiato il capo di Buona Speranza e aveva navigato sull’oceano Indiano, non riuscendo però a raggiungere le Indie orientali. Tali vascelli erano il São

Gabriel, il São Raphael, il Berrio – una caravella – e

una nave da carico. Il vescovo Diogo Ortiz le aveva provviste di mappe e libri, e Abraham Zacuto di strumenti astronomici. Uguale cura era stata impiegata nel selezionare il personale: tra i piloti vi

un tipico esploratore portoghese avvezzo alla vita di mare. La sua testimonianza non ha grande valore letterario, ma è una

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era ad esempio Pero de Alemquer, che aveva fatto con Dias il viaggio verso il Capo. Molti della ciurma erano in realtà veterani dei viaggi di Dias. Il comando supremo era stato affidato a Vasco Da Gama, un gentiluomo della corte reale, nato nell’anno della morte di re Enrico il Navigatore (1460), figlio di un ufficiale; il fatto che fosse stato scelto per un incarico così importante è indice di una considerevole esperienza marittima.

Uno dei giornali di bordo che documentano il viaggio ci è pervenuto e può essere utile nel tentare di comprendere il modo di pensare di quell’epoca. È probabile che questo resoconto di viaggio sia il diario di bordo di uno dei quattro vascelli – il São Rafael – che salparono dal Restelo, il porto di Lisbona, alla volta delle Indie. L’autore è il già citato Álvaro Velho. Eccone l’incipit:

Nel nome di Dio. Amen!

Nell’anno 1497 il Re Dom Manuel, il primo con questo nome in Portogallo, mise a disposizione quattro vascelli per le scoperte e la ricerca di spezie. Vasco da Gama era il comandante in capo di questa flotta; Paulo da Gama, suo fratello, guidava una delle navi e Nicolau Coelho un’altra.

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Lasciammo il Restelo sabato 8 Luglio 1497. possa Dio nostro Signore permetterci di compiere questo viaggio per servirlo. Amen!

Il sabato seguente avvistammo le Canarie, e durante la notte costeggiammo Lanzarote. La notte seguente vedemmo Terra Alta, dove pescammo un paio d’ore ed il giorno dopo avevamo già passato il Rio do Ouro. […]4

La narrazione continua con le peregrinazioni compiute che, circa un secolo dopo, vennero riprese – anche se, ovviamente, romanzate – da Camões.

L’estratto del diario di bordo cui in questa sede si fa riferimento5 termina con l’arrivo di da Gama a Calicut; il testo originale va avanti descrivendo il ritorno in patria.

Come si può notare dal testo, i riferimenti all’aiuto e alla presenza divina sono continui, ribadiscono di continuo quel gesta Dei por Lusos che sottende l’epoca. Uno degli scopi dei viaggi portoghesi era quello di scoprire se e che tipi di evidenze cristiane vi fossero in India. L’ideale sarebbe stato trovare

4 Roteiro da viagem que em descobrimento da India pelo Cabo da

Boa Esperança fez Dom Vasco da Gama, Lisboa, 1838, tradotto da

E.G. Ravenstein, Vasco da Gama’s first Voyage, Haklurt Society, 1898, in Portuguese Voyages 1498 – 1663, edited by Charles David Ley, pp. 3 – 38, London J.M. Dent & Sons LTD, New York E.P. Dutton & Co INC, 1947, T.d.R.

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qualche monarca cristiano e stringere alleanze politiche e religiose con lui, per quella convinzione secondo cui le navigazioni intraprese sotto l’egida della diffusione del Cristianesimo potevano avere buon fine e portare prestigio alla madrepatria.

2.2 Un caso tardomedievale: l’impresa dei

Vivaldi

In epoche anteriori al Rinascimento, comunque, si rendeva già manifesto un cambiamento culturale che, considerando superata l’idea del non più oltre, tentava la via del mare alla ricerca di nuove rotte.

Vi furono già nel Medioevo alcuni che, salpati alla volta dell’Atlantico suscitando la meraviglia di chi li vide partire, non fecero più ritorno.

Pare che lo stesso Dante, nel comporre il XXVI canto dell’Inferno, abbia tenuto presenti le gesta di Tediso d’Oria e dei fratelli Ugolino e Vadino de Vivaldi, armatori genovesi che nel 1291 allestirono con tutto il necessario due galee, con l’intento di accingersi ad un viaggio che fino ad allora nessuno aveva mai osato tentare6. Nel maggio di quell’anno, in

6 B. Nardi, La tragedia di Ulisse, in Dante e la cultura medievale, Bari, 1942, pp.89 – 99.

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compagnia di alcuni concittadini e di due frati minori, i due fratelli Vivaldi spinsero i due navigli in alto mare, diretti verso lo stretto di Gibilterra, al fine di raggiungere le Indie attraverso l’oceano. Ma dopo essere riusciti a far pervenire in patria qualche informazione sul proprio conto, attraversata Gozora non se ne seppe più nulla.

Come sostiene Nardi, non è inverosimile che Dante abbia avuto notizia dell’accaduto e, ispirandosi a questa storia, sia riuscito ad animare della stessa intraprendenza la figura del suo Ulisse.

Se infatti l’Ulisse dantesco si configura come archetipo del navigatore, è bene puntualizzare che egli incarna una nuova concezione dell’uomo: in lui Dante vede il tipo ideale dell’esploratore e del navigatore di ogni tempo, pronto ad affrontare l’ignoto. “Egli ha scoperto lo scopritore”7: l’Ulisse dantesco racchiude in sé una mutazione culturale alla base dell’età moderna; Dante percepiva questo cambiamento, cui non era però – come avremo modo di osservare - assolutamente concorde.

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2.3 Mediazioni prerinascimentali e

intuizioni di un cambiamento.

Se l’Ulisse di Omero, al sicuro nella propria reggia, può lì attendervi una decorosa vecchiaia, tale sorte non si addice all’eroe dantesco, che personifica la ragione umana insofferente ai limiti e ribelle al decreto divino che interdice il trapassar del segno8.

L’Ulisse di Dante non nasce dallo sforzo erudito di un tardo umanista, abilissimo nel riprodurre fedelmente modelli; quanto poi il dantesco sia lontano dall’omerico è visibile al primo sguardo.

Eppure, è come se questo Ulisse pre-rinascimentale mediasse quello classico, contaminandolo con la timorosa concezione del mondo medievale, per superarla.

Se infatti il multiforme ingegno e la Hybris antiche, funzionali allo scioglimento delle stasi, non fossero state mediate dal “fatti non foste a viver come

bruti” e dall’ardire di andare oltre, probabilmente non

sarebbe sopravvenuta la trasgressione che permetterà a Colombo e Carlo V di intraprendere missioni fino allora impensabili, trasgressione dunque funzionale alle scoperte del loro tempo.

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In Omero Ulisse è un eroe speciale, le cui imprese sono guidate da una accorta e prudente ragione, che gli permette di dominare anche chi, fisicamente, lo sovrasta. È l’uomo che eccelle per le argomentazioni più convincenti, è colui che arditamente si mette alla prova ed osa sempre più di quello che le sue forze gli consentono. Astuzia e inganno non hanno qui connotazioni negative, non godono di minor diritti di qualunque altra risorsa della ragione; sono strumentali al buon fine delle imprese.

Il carattere precipuo dell’Ulisse dantesco è il suo essere fraudolento, punito per questa sua colpa; è un disonesto comprimario negli avvenimenti aggrovigliati dal fato e dalla malvagità umana, che conducono Troia alla rovina.

Se viene espressa questa definizione pienamente medievale, d’altro canto, colpisce una nota caratteriale: in lui vi è da un lato la religiosa coscienza dei confini divini e il mistero che sta al di là di essi, dall’altro l’atto di varcare a forza tali confini e la conseguente rovina. Forse spira veramente, nel pathos con cui Dante dà ali al discorso del suo Ulisse, il futuro spirito dei viaggi intorno al mondo.

Ma i tempi non sono ancora maturi per una rivoluzione mentale: il suo viaggio termina con un

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naufragio che non è l’abituale destino dell’uomo di mare, bensì il segno di Dio.

La conoscenza umana è ancora stoltezza, può essere anche strumento del male: Dante intuisce con inquietudine che i tempi sono maturi per un nuovo rapporto dell’uomo con la realtà naturale, recepisce questa mentalità già presente e viva nella società comunale, destinata a rompere decisamente con il mondo ideale e culturale che il poeta sentiva più suo. L’oceano era la parte del globo terracqueo negata ai viventi, dove l’unica terra emersa era la montagna del Paradiso Terrestre; nessun mortale l’aveva impunemente violata. Come se non bastasse, errare sul mare, in base ai canoni fissati da una simbologia plurisecolare, significava essere dediti alle cose terrene, dominati da un’interna, amara inquietudine.

Dante sceglie di seguire un cammino differente da quello del suo Ulisse, una strada luminosa, non folle, ma sublimata da una visione cristiana delle cose e del mondo. Eppure, non si può negare il manifesto, incipiente ardore che il temerario greco suscita nel Vate fiorentino.

L’Ulisse trecentesco incarna la nascita del mondo moderno e lo fa grazie ad una poesia di altissimo valore che sgorga dalla realtà dei fatti, da un

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evento tanto impensabile allora quanto la grandezza dei sogni e delle speranze umane.

2.4 Colombo e Vespucci: dall’arte alla vita.

Umana, quasi incarnata diremmo, è la realizzazione a posteriori di questa grande utopia che si verifica grazie all’incantata meraviglia di un navigatore: Cristoforo Colombo.

Come ha scritto Boitani, “l’Ulisse dantesco costituisce la figura e Cristoforo Colombo il

compimento in cui la realtà adempie alle scritture che

l’hanno profetizzata, costruendo una retorica ed un mito che in una forma o nell’altra il mondo sente come suoi fino ai giorni nostri”9.

Se dunque ispiratori di Dante furono con molta probabilità i fratelli Vivaldi, ecco che i successori di Ulisse rendono possibile il pieno adempimento delle sue speranze; nel giro di due secoli la cultura europea rimargina la propria ferita, ripulisce la propria coscienza dalla colpa della trasgressione ulissiaca. La realtà del Nuovo Mondo affonda l’incubo dantesco: la poesia si inoltra nel mare, seguendo stavolta Ulisse senza biasimarlo, diventa vita, vissuta e vera.

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Vespucci segue la rotta di Ulisse, lo fa consapevolmente, addirittura identifica le facelle dantesco – australi con la Croce del Sud.

L’impresa di Colombo viene automaticamente accostata all’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco, diviene emblema dell’incontro tra poesia e storia nel tempo, e la Nova Terra, in vista della quale l’uno naufraga, viene letteralmente ritrovata dall’altro.

La meravigliosa metafora che tramuta i remi in ali sta a significare il volo dell’anima che, attraverso il potere dell’intelletto, tende a mete insperate resesi improvvisamente raggiungibili. I remi divengono ali di un’immaginazione che valica confini preimposti, che si fa portavoce di un’istanza quasi profetica: quel “fatti

non foste” che sprona, spinge, incalza la mente

umana, richiedendole la forza che occorre alla realizzazione delle aspirazioni.

Se Dante può solo enunciare una determinata volontà di esperire, di conoscere sempre e comunque

seguendo virtute, con Vasco Da Gama tale possibilità

si dispiega totalmente: la rotta per le Indie è benedetta dal vessillo di Cristo, ciò che era follia e tracotanza adesso diviene non solo realtà di fatto, ma anche un’azione compiuta in funzione della gloria divina. Le gesta dei Portoghesi ricevono così il sigillo di Dio.

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3. Ulisse e Lisbona: un legame da

sempre

3.1 Le radici leggendarie

Al fine di introdurre l’eziologia della città di Lisbona pare opportuno riportare l’episodio mitologico seguente che narra della fondazione della città10 .

Narra la leggenda che in tempi remoti la città di Lisbona non esisteva e tutta la costa aveva un nome strano e simbolico: Ofiusa, ossia terra dei serpenti. E i serpenti avevano la loro regina. Una strana regina, per metà donna e per metà serpente, signora dallo sguardo enigmatico e dalla voce quasi infantile. A volte saliva su un alto monte e gridava al vento perché potesse udire la sua voce:

-Questo è il mio regno! Io ne sono l’unica regina…nessun altro! Nessun uomo porrà qui i suoi piedi! I miei serpenti non gli lasceranno un attimo di respiro! Ma la regina si ingannava.

Un giorno, venuto da lontano, un eroe leggendario chiamato Ulisse, famoso per le sue abilità guerriere, approdò sullo stesso luogo su cui oggi si erge la città di Lisbona. Appena mise piede in terra, rimase stupito. I suoi occhi non si stancavano di ammirare le meraviglie di cui la natura si mostrava tanto prodiga. Riunì i suoi uomini e annunciò:

- Qui edificherò la città più bella dell’Universo! Le darò il mio nome…sarà Ulisseia, capitale del Mondo!

Ma subito comprese che l’impresa non sarebbe stata tanto facile. Molti dei suoi uomini morivano per i morsi dei serpenti…altri scomparivano. Nel frattempo, il

10 Tratto da A Lenda da Fundação de Lisboa incluído em As

Lendas da Nossa Terra por Gentil Marques, 1955, citato da

Alexandre de Carvalho Costa in Lendas, historietas, etimologias populares e outras etimologias respeitantes às cidades, vilas, aldeias e lugares de Portugal Continental,

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nemico sconosciuto e occulto era in cerca di Ulisse. Il guerriero iniziava a perdere le speranze. Non era un codardo. Quasi amava il pericolo. Ma un pericolo visibile, palpabile. Non uno stillicidio come quello, così inglorioso. Un giorno gli giunse la triste notizia che uno dei suoi più cari amici era morto in circostanze molto strane. Ulisse salì su un’altura da cui dominava tutto il paesaggio e gridò forte, a pieni polmoni:

- per tutti gli dei dell’Olimpo io vi sfido, nemico traditore e villano. Sono abituato alla lotta, ma viso a viso, con combattenti che non si nascondono nell’ombra! Mostratevi! Voglio vedervi!

Ma chiamava invano. Il nemico continuava a falciare vite e non si faceva mai vedere. Solo i sibili dei serpenti – sinfonie di rumori strani che inondavano la notte – mantenevano Ulisse in continua tensione nervosa. Un nemico simultaneamente presente e occulto era il problema cui Ulisse non riusciva a trovare soluzione. Il suo coraggio era enorme. Ma il suo valore lo era di più. Ma non riusciva a trovare una soluzione: come sterminare ciò che non si conosce? Quella sera il sole stava tramontando quando il guerriero salì su un’altura gridando nuovamente:

- Ah! Potrei fare tutto ciò che vuoi, nemico invisibile! Ma non abbandonerei mai questa terra senza lasciarvi la più famosa città edificata finora! Hai sentito bene cosa ti ho detto?

Udì un terribile e profondo silenzio. E, all’istante, sbucò una strana donna, che aveva qualcosa di serpente. Ulisse rimase a guardarla sorpreso e ascoltò la sua voce attraente ma incisiva:

- E se io mi opponessi ai tuoi disegni? Se ti dicessi, visitatore, che la tua volontà non vale nulla entro i miei domini?

Con crescente sorpresa, Ulisse chiese:

- Ma chi siete, signora? Per questa luce che illumina i miei occhi, vi giuro che non ho mai visto niente di simile a voi! Chi siete?

Serenamente, ella rispose:

- Sono la regina di questa terra! La regina di Ofiusa, il regno dei serpenti!

Il volto di Ulisse si animò in un sorriso. Il primo, dacchè il nemico aveva iniziato ad attaccarlo. Ma non era un sorriso felice. Aveva qualcosa di enigmatico che gli dava uno strano sapore. Si avvicinò alla donna che gli parlava. La scrutò bene in viso, con una minuzia quasi eccitante, e dichiarò:

- ora comprendo perché siete così! Avete, in verità, la grazia felina dei serpenti…il vostro parlare è dolce…il vostro sguardo è intenso…

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La donna sorrise. E la sua voce tornò a farsi insinuante:

- Notate il mio sguardo intenso? Ma io non sono come credete, nobile navigante! Per giorni e notti ho atteso la vostra resa. Ma siete stato coraggioso…ho imparato ad ammirarvi!

Ulisse si piegò a un complimento:

- grato per le vostre parole, signora…nel mio paese le donne non sanno parlare così!

Lei lo guardò intenzionalmente:

- Qui, nella mia terra…si sente la mancanza di un re!

Il guerriero sorrise: - Potete spiegarvi meglio?

Lo sguardo di lei era fisso in quello di lui come in un incantesimo.

- credete sia necessario, nobile navigante? Non avete già compreso il mio desiderio?

Senza smettere di fissarla, Ulisse, giovane e valoroso guerriero, le parlò un po’ spiazzato:

- Preferirei foste voi ad esporre il vostro piano. Gli sorrise apertamente:

- Bene. Penso che possiate edificare qui questa città che avete sognato, ma ad una condizione. Rimarrete a vivere qui per sempre!

Egli, con il suo spirito di indipendenza, tentò ancora di opporsi:

- E se non potessi accettare la vostra condizione? La regina fece un gesto evasivo:

- Che voi accettaste o no, nobile navigatore, cambierebbe poco.

Silenzio. Non riuscì a risponderle. La regina, consapevole del proprio trionfo, continuava a incantarlo nel suo sguardo enigmatico. Vinto, Ulisse mormorò:

- Bene…accetto.

A partire da quel giorno, tutto si modificò in quella terra strana e bella dove Ulisse era approdato. Sbarcarono uomini, mezzi, materiali. Con grande sforzo si costruirono edifici, si aprirono giardini, strade. I serpenti non attaccavano più gli operai. Adesso le donne – serpente si riunivano a cantare mentre gli uomini lavoravano. Canti fattucchieri che avevano un non so che di magico…

Qualche tempo passò e Ulisse, l’irrequieto Ulisse, non voleva più restare lì. La sua terra lo chiamava. E nonostante quella città avesse il nome di ULISSEIA, consacrandolo come proprio signore, la verità è che il destino di Ulisse era un destino di avventura. Aveva nostalgia del mare e sete di nuove battaglie. Ma partire non era facile. C’era un grande, enorme ostacolo quasi

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impossibile da superare: la regina dei serpenti che lo adorava e lo voleva con sé.

Come ben si sa, in tutti i tempi sono esistiti coloro cui piace svelare segreti che non gli appartengono. E così, arrivò all’orecchio della regina che Ulisse voleva lasciarla. Disperata, lo ammonì gravemente:

- Non ti lascerò mai partire! Guardami bene…nei miei occhi puoi leggere l’amore…o la morte!

Egli vide bene quanto erano veritiere le sue parole, e pensò che doveva mentirle per portare avanti il proprio progetto di fuga. E sorridendole il più dolcemente possibile, replicò:

- Ma chi ti ha raccontato simili fandonie! Nessuna idea del genere mi è mai passata per la testa. Non vedi come sono felice con te? Guarda com’è bella la città che abbiamo edificato!

Il dialogo continuò tra dubbi e false carinerie. - Ulisse, non mi mentire! Sarebbe peggio per te! Il mio odio sarà tanto grande quanto il mio amore!

- Tu vaneggi! Non sono forse qui re e signore? Perché dovrei voler partire?

- Mi hanno detto che hai saudade della tua terra! - Ti hanno mentito!

- E con che intenzione?

- Con quella di dividerci! Noi due, insieme, siamo una muraglia invincibile.

- Dici bene! Uniti, nessuno riuscirà a sconfiggerci! Ma ti vedo, a volte, così pensieroso con lo sguardo perso nell’Oceano…sento che desideri nuove avventure…

- Che idea! Io preferisco leggere l’amore nei tuoi occhi. Non voglio odio.

- Nel frattempo, sento che stai fuggendo da me. - Questa è una tua convinzione! Senti, stasera faremo una bella passeggiata, come nei primi giorni del nostro amore. Ti va?

- Sì, Ulisse! Ma non scordarlo: il mio amore è grande ma il mio odio può esserlo anche di più!

Le sorrise. Arrivò qualcuno e la conversazione rimase sospesa. Lentamente, la regina andò calmandosi…

Ulisse preparò tutto per quella notte. Voleva fuggire e perciò gli occorreva un piano ben organizzato. Chiamò dunque il più fedele dei suoi compagni e gli disse:

- Mi serve il tuo aiuto…

Il fedele compagno gli rispose con la solennità dei grandi momenti:

- Puoi contare su di me sempre! Disponi della mia vita se ti occorre.

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- Non chiedo tanto..mi serve solo che tu faccia in modo che gli altri ti confondano con me.

- È facile, siamo della stessa statura!

- Sì, ma non dimenticare che si tratta di ingannare una donna…e il cuore delle donne è ben difficile da ingannare!

Il compagno di Ulisse abbassò il tono di voce: - Comprendo…vuoi fuggire da lei stanotte! Ulisse sorrise felice.

- Proprio così. Ho già un piano. Andrai a prenderla e farai qualche passeggiata con lei, che mi aspetta. Intanto, io fuggirò.

- Che gli dei ci proteggano!

All’inizio, tutto andò come Ulisse aveva previsto. Il suo fedele compagno, ben mascherato, andò a prendere la regina dei serpenti e la portò a passeggiare lungo il fiume, al chiaro di luna. Ma parlava solo lei, poiché egli temeva che potesse riconoscergli la voce. Inebetita dall’amore, la regina diceva:

- Costruiremo un Impero immenso. E la tua Ulisseia – la nostra Ulisseia – sarà a capo del mondo! Che dici? Ma non parli? Non dici nulla? Perché?

La donna serpente iniziò a inquietarsi.

- Guardami! Voglio vedere i tuoi occhi! Tu mi nascondi qualcosa!

Egli tentò di allontanarsi, Ma la regina gli scoprì il volto e, rendendosi conto dell’inganno subito, gridò furiosa:

- Ah, villano! Sono stata tradita, ingannata! Ma tu morirai e anche lui! Muori! Questo è il tuo castigo. Ricevi il mio veleno!

Il compagno di Ulisse cadde a terra dopo un urlo. Lei gli si curvò sopra:

- Dimmi la verità: dov’è Ulisse?

Nel delirio, il giovane compagno di Ulisse, che stava dando la vita per la libertà dell’amico, balbettò:

- È fuggito via mare…sarà già lontano… La regina pregò a denti stretti:

- Maledetto! Mille volte maledetto! Devo raggiungerlo, costi quel che costi!

E narra la leggenda che, in uno sforzo superiore alle sue possibilità, la regina tentò di allungarsi sulla città per raggiungere il mare. Ma quell’inutile tentativo – Ulisse era già lontano – la portò alla morte. E come simbolo dello sforzo fatto rimasero le sette colline di Lisbona, disegnate dalle contorsioni finali della povera Regina dei serpenti. Spaventati, questi fuggirono. Ma lì, nell’antico regno del veleno e della morte, rimase edificata, tra le sue sette colline, la più bella città di allora.

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Corre l’obbligo di notare, in questa leggenda, alcuni particolari che, se considerati nella loro valenza simbolica, spingono a considerare l’arrivo di Ulisse a Ofiusa indice di un principio ordinatore, cosmogonico diremmo, che trasforma appunto il caos archetipico in cosmo.

Tale caos iniziale è sottolineato da una peculiarità: a Ofiusa regna una regina dalle strane fattezze, metà donna e metà serpente. Questi due elementi sono fortemente indicativi di una caoticità latente.

La presenza femminea, in primo luogo, rimanda all’archetipo del matriarcato, tipico delle civiltà mediterranee arcaiche. Pur senza addentrarci nelle diatribe riguardanti le teorizzazioni sulla ginecocrazia, è comunque assodato che l’esistenza del matriarcato rimane un’ipotesi convenzionale, fondata su un’esigua base d’indagine e connotata per queste ragioni da una forte instabilità11.

11 Per una visione d’insieme riguardante gli studi sul matriarcato: Johann Jakob Bachofen, Il matriarcato, Torino, Einaudi, 1988; Joseph Campbell, Le figure del mito, Red/Studio Redazionale, 1991; Joseph Campbell et alii, I nomi della Dea, Astrolabio, Milano, 1991; Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., 1983.

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In seconda istanza, la presenza dei serpenti. Il serpente, nelle società matriarcali africane, viene considerato signore delle donne e della fecondità. La natura si mostra feconda a Ulisse, prodiga di meraviglie, e quando l’eroe giunge in questa terra rimane stupito da tanta bellezza. A ciò aggiungiamo la considerazione che, sia nella cultura greca che in quella egizia, il serpente è colto nella sua doppiezza: è temuto in quanto ha il potere di ricondurre il cosmo nel caos iniziale dell'indifferenziato, ma è anche apprezzato e venerato poiché rappresenta l'altra faccia dello spirito, il vivificante, l'ispiratore della vita.

Il binomio donna – serpente, dunque, e la crasi, potremmo dire, che di questi due elementi si verifica nella regina, caratterizza il caos che precede l’arrivo di Ulisse, anzi, lo personifica in sé. In Ofiusa c’era vita prima che Ulisse vi approdasse, una vita organizzata secondo un ordine presunto – il matriarcato -, e connotata da una fecondità di natura caotica – il serpente, simbolo al contempo di fecondità e di caos -.

La presenza di Ulisse che decide di edificare una città introduce in queste dinamiche ancestrali un ordine nuovo, ma non basta. È necessario infatti che la regina soccomba affinché il cosmo possa

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sopraffare definitivamente il caos e instaurarsi definitivamente.

L’eziologia affonda le proprie radici in un’epoca antica. Ma proprio da questa storia – e dalle sue varianti, spesso in contrasto tra loro - prende l’avvio una fortunata tradizione che, lungo il corso dei secoli, testimonia il legame a doppio filo che unisce il grande eroe Odisseo alla capitale del Portogallo.

3.2 Ricostruzioni documentarie.

L’indagine filologica esige anche una ricostruzione storica che devia dal mito.

Strabone, geografo greco, registrava l’esistenza in occidente di due città dal nome similare, Odisseia e

Olysipón. La prima era situata in una regione di

montagna – Turdetânia, nella regione della Sierra Nevada, nella provincia di Granada – in cui vi era un Tempio dedicato ad Atena dove, secondo antiche testimonianze, si trovavano gli scudi che Ulisse aveva portato fin lì. Spiegava il geografo:

E mi sembra che la spedizione di Odisseo, avvenuta in questi luoghi e narrata dal Poeta, gli abbia fornito il pretesto per trasporre l’Odissea, come già aveva fatto per l’Iliade, dai fatti reali alla poesia e alla invenzione mitologica così consueta

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per i poeti. Infatti non solo i luoghi dell’Italia e della Sicilia, e altri ancora, mostrano segni di quei fatti: anche in Iberia è possibile vedere una città chiamata Odissea, un santuario di Athena e altre migliaia di vestigia del viaggio di Odisseo o di altri reduci dalla guerra di Troia […]12.

Quanto a Olysipón, situata alla foce del Tejo, Strabone non fa alcuna associazione con l’eroe greco, sostenendo invece che era stata fortificata da Décimo Jùnio Bruto nel 137 a.C. al fine di rendere libero il passaggio per mare e di trasportare le provviste necessarie.

Tuttavia il geografo ammette che Ulisse possa essersi avventurato al di là delle Colonne d’Ercole. Ora, con un tale allargamento di orizzonti geografici, e con il presupposto che il passaggio di un eroe implicava la presenza di testimonianze lasciate nella fondazione di una città, l’esistenza di Olysipón nell’estremo occidente e la somiglianza con il nome di Ulisse, corrispondente latino del nome greco, forniva il pretesto per un’ analogia davvero plausibile.

Questa versione dei fatti verrà riferita da autori di varie epoche; ad esempio, tra i crociati che prendono

12 Strabone, Geografia, 3,2,13, trad. a cura di Francesco Trotta, Milano, BUR, 2008, p.117.

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parte alla conquista di Lisbona, ve ne è uno di origine inglese, da identificare più propriamente con tale Raul de Glanville13, che dice: Ab Ulixe opidum Ulixbona

conditum creditur.

Il crociato, con l’utilizzo di creditur anziché ferunt, termine utilizzato dall’eponimo Marziano Capella14, ne riduce l’orizzonte di affidabilità, ma ciò può essere interpretato come derivato da una opinione recepita localmente senza escludere, al contempo, una dottrina generalizzata.

Una variante appare nel testo castigliano della

Crònica Geral de Espanha, in cui si narra che l’eroe,

dopo la prigionia presso Circe, impedito dai venti contrari nel suo ritorno a Itaca, giunge all’occidente atlantico e sbarca presso una insenatura dove fonda la città: dal suo nome proprio e dall’aggettivo qualificativo bona – per rimarcare che quel luogo era

13

L’identificazione di questo crociato ha creato molti problemi in ambito filologico; secondo le ultime ricostruzioni, trattasi di Raul, legato a Hervey de Glanville, forse proprio il suo scudiero. Cfr. A

conquista de Lisboa aos mouros. Relato de um Cruzado. Ed. a

cura di Aires A. Nascimento, Lisboa, 2001, pp. 153 – 154, e cfr. Helena de Carlos Villamarín, Ulises, fundador de Lisboa. Algunhas

anotacións, in Troianalexadrina: Anuario sobre literatura medieval de materia clásica, n.2, 2002, pp. 31–40.

14 Marziano Capella, De Nuptis Philologiae et Mercurii, VII, 629: “ Olisipone illic oppidum ab Vlixe conditum ferunt, ex cuius nomine promuntorium, quod maria terrasque distinguit”.

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il migliore fra tutti quelli in cui si era imbattuto – costruisce il toponimo15.

Lorenzo Valla, tra il 1445 ed il 1446 al servizio del re di Aragona, afferma che in Portogallo si usa una forma del nome di Lisbona a pretesto di una derivazione etimologica da Ulisse, e sostiene che la referenza greca può notarsi al massimo in un ipotetico, sebbene infondato, elemento finale della parola, ossia in –hìppoi , in cui mito e realtà si

incontrano16.

La risposta alle congetture di Valla, inconcepibili per i portoghesi che nella loro greca genealogia trovano grandi motivi di orgoglio nazionale, arriva circa un secolo dopo da un altro grande umanista, André de Resende, l’erudito cui si rifanno tutte le opere letterarie lusitane che parlano dei legami tra Lisbona e Ulisse17.

15

Crònica Geral de Espanha, ed. di L. F. Lindley Cintra, Lisboa,

1954, vol. II, p. 22, capitolo VII. Cf. Mário Martins, Estudos de

Cultura medieval, Lisboa, 1983, cap. VIII.

16 Laurenti Vallensis, Patriti Romani, Historiarum Ferdinandi Regis

Aragoniae, libri tres, Parisiis, 1521, f. 9: “In Portugalia Olisippona, quod nomen ab iis corrumpitur, qui velut ab Vlyxe Vlixbonam dicunt, nescientes Vlyssis illius viri nomen, sed sic a Latinis esse corruptum, preterea Vlyssem illuc non navigasse. Postremo hanc vocem, se grecam originem sectari libet, ab equis dictam.

17André de Resende (1498 – 1573), frate domenicano, iniziatore delle discipline archeologiche in Portogallo.Noti i suoi numerosi viaggi in giro per l’Europa e le corrispondenze con uomini colti, tra

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André de Resende, mutando Odisseia e

Olysipón in Ulysseia e Olysipón, sostiene che la Ulysseia di Strabone corrisponde alla Olisipo di

Solino18, conosciuta con questo nome da Varrone e Tolomeo e, confidando soprattutto nella corrispondenza tra Olisipo e Ulysseia, celebra la

fondazione di Lisbona da parte dell’eroe greco. Un nuovo mito, nato dalle reminescenze della tradizione unite all’affabulazione, è così pronto per essere eternato con voce epica.

Nel canto VIII, 4 e 5, Camões parla così di Ulisse:

Ves outro, que do Tejo a terra pisa, Despois de ter tam longo mar arado, Onde muros perpetuos edifica,

E templo a Palas, que em memoria fica? (5–8).

Ulisses he o que faz a sancta casa Aa deusa, que lhe dá lingoa facunda,

anche alla propria attività filologica. Tra gli scritti maggiori ricordiamo: in portoghese, Historia da antiguidade da cidade de

Evora (ibid . 1553);Vida do Infante D . Duarte Lisbon, 1789); in

latino, De Antiquitatibus Lusitaniae (Evora, 1593)

18 Solino, Collectanea rerum memorabilium, 23, 5: “ In Lusitania

promunturium est quod Artabrum alii, alii Olisiponense dicunt. Hoc caelum terras maria distinguit: terris Hispaniae latus finit , caelum et maria hoc modo diuidit, quod a circuitu eius incipiunt Oceanus Gallicus et frons septentrionalis, Oceano Atlantico et occasu terminatis. Ibi oppidum Olisipone Vlixi conditum: ibi Tagus flumen”.

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que se lá na Asia Troia insigne abrasa, Ca na Europa Lisboa ingente funda (1-4).

(Vedi un altro più in là, cui non è arrisa / benigna sorte sopra il mare arato: / eterne mura erige al Tago in riva, / e un tempio a Palla che gli è dea corriva. / Ulisse è quel ch’ alza la sacra casa / alla dea che gli diè lingua faconda. / Dopo aver Ilio in Asia al suolo rasa / su terreno europeo Lisbona fonda)19.

In questo passo Paolo da Gama illustra al catual di Calicut gli stendardi di seta che svettano sulle navi portoghesi, su cui è dipinta la storia del Portogallo. Ulisse, tornato a Itaca, desideroso di nuove avventure, non resiste a lungo alla quiete familiare e riparte. Giunto in Portogallo, vi fonda un tempio in onore di Pallade Atena, precisamente sul monte da

Lua.

Andrè de Resende, basandosi su una scoperta archeologica fatta sul Cabo da Roca, designa la Serra

de Sintra col nome appunto di monte da Lua:

Lunae alta cacumina montis20, e nella nota

corrispondente spiega:

19Trad. di Riccardo Averini, I Lusiadi, Milano, Mursia, 1972, tratta da I Lusiadi, Milano, BUR, 2001 p. 761 - 763.

20Resende, André de, Vincentius Levita et Martyr, Olisipone, apud Lodouicum Rhotorigium typographum. M.D. XLV, II, 165.

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Lunae mons est is quem nostra aetas Sintriensem ab oppido adpellat, ad quujus promontorii radices, in littore, templum olim fuit Solis et Lunae, summa religione cultum. De quo in Antiquitatibus Lusitaniae aliquando, Deo favente, dicemus.

Secondo José Maria Rodrigues21, le due ottave furono sicuramente ispirate a Camões dal poema agiografico di André de Resende22. Rodrigues parte da un’osservazione sul titolo del poema camoniano, sostenendo che Resende fu uno degli innovatori della parola Lusiadae, impiegandola per la prima volta – in vece della forma Lysiadae, molto usata dai latinisti rinascimentali – proprio nel seguente passaggio del

Vincentius:

…urbemque [ Olysses] suo de nomine primum Finxit Odysseiam, quae nunc carissima toto

Cognita in orbe, ducem fama super astra Pelasgum Tollit. Ea poterat securus uiuere Olysses

Inter LUSIADAS, nisi amor reuocasset amatae

Coniugis & patriae gnatique, & cura parentis (II,191-196).

Ed ecco qui di seguito un altro estratto che, incalzando, ribadisce il convincimento di Rodrigues:

21 Rodrigues, José Maria, Fontes dos Lusíadas, Lisboa, Academia das ciências de Lisboa, 1979.

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Post Pergama uicta…ductores Graiûm…a patria procul errauêre per aequor. Oceano uero…Olysses turbine uentorum adpulsus…deflexit iter portumque preendit…Cunctôsque celoce recessus explorans, captusque loco, nam…uidebat…hostia alta Tagi,… ad

socios tandem redit et subducere classem

imperat…indigenâsque sibi uario sermone peritus deuinxit… tum…condit sibi moenia parua colle super, templumque tibi, Tritonia virgo, signaque naufragij sospendi…Errorêsque suos illic, Asiaeque ruinas uenturis posito signauit carmine seclis,…urbemque suo de nomine primum finxit Odysseam, quae nunc clarissima toto cognita in orbe, etc.

(Vincentius, II, 158 – 193).

3.3 Una Laudatio Urbis: letteratura

apologetica a sostegno del mito.

Sempre nel XVI secolo, Pedro da Costa Perestrello, nell’ Epístola ao Marquês de Castello

Rodrigo, traccia una apologia di Lisbona in una laudatio urbis contrapposta alla vituperatio di Madrid23. Si suppone che la stesura dei due testi sia avvenuta in un arco cronologico ravvicinato, ossia

23 Per questo paragrafo preziosi spunti da: Mario Barbieri, O

Madrid, escuro infierno: percorsi della vituperatio urbis da Pedro da Costa Perestrello a Francisco de Quevedo, in Rivista di Filologia e Letterature Ispaniche, IX 2006, Pisa, edizioni ETS.

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durante il decennio di reggenza del Vicereame di Portogallo da parte di Alberto d’Asburgo (1583-1593) presso la cui corte Perestrello prestava servizio come “Secretário”. La laudatio si articola in maniera peculiare: si esaltano la strategica posizione della città, l’opulenza del porto, la salubrità del clima. Soprattutto, però, è lodata la sua mitica fondazione attribuita ad Ulisse, che ne decreta la supremazia di “Caput Hispaniae”:

[ ……….]

Este de Ulisses brando acolhimento Nos tempos foi de Troia, e que a memória Co nome lhe ficou do fondamento.

Que a lisboa tem dado os escriptores, Em outra maior glòria é convertido

La laus di Perestrello ha come fonte palese il trattato Urbis Olisiponensis descriptio (1554) di Damião de Góis24, testo base di quella letteratura apologetica nota come Olisipografia,

24 Damião de Góis (1502 - 1574), storico e umanista, personalità di spicco del Rinascimento portoghese, tramite tra il Portogallo e la cultura Europea del XVI secolo. Le sue opere maggiori in Portoghese sono storiche: la Crónica do Felicíssimo

Rei Dom Emanuel ( 1566–67) e la Crónica do Príncipe Dom João (1567). In latino il succitato Urbis Olisiponensis descriptio

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successivamente amplificata a sostegno del diritto politico di Lisbona alla capitalidad iberica25.

3.4 L’Ulisseia: Lisbona mulher à espera

Se si guarda al secolo XVII, infine, Gabriel Pereira de Castro, autore nel 1636 dell’Ulisseia, altro poema epico con l’intento di narrare le avventure che portarono Ulisse alle sponde lusitane, ricorre all’Odissea come modello. Pereira de Castro riproduce con maestria topoi, temi, ritratti ed episodi di Virgilio, Orazio, Ovidio, Seneca e, in special modo, di Omero, assemblando le reminiscenze classiche, in maniera abile ed armoniosa, con il tema centrale della propria epopea. Non fu un servile imitatore dei passi omerici, ma un creatore di merito proprio che, nel rifondare radicalmente la fabula per integrarla nel proprio contesto narrativo, riuscì a captare con gusto l’atmosfera di un’età antica, animando con un alito nuovo il mito26:

Aqui neste lugar os nobres muros

25 Cfr. F. de Castelo Branco, Breve História da Olisipografía, Lisboa, Icalp/ Biblioteca breve, 1980.

26 Rebelo, Luís de Sousa, A tradição clássica na literatura

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Levantàras com gloria, a que tremendo Todo o Oriente, en seculos futuros Inclinarà a ceruiz obedecendo:

Quando ao mundo nascerem aqueles puros Espiritos, que o Elisio està detendo

Atè que o tempo vagaroso, e lento Traga o dia a seu claro nacimento.

Daraõ a graõ Lisboa descendentes Que dilatem co a vida o novo Imperio Atè as cazas do Sol, e nas ardentes Areas de Asia escrevaõ o nome Hesperio Afrontaraõ com animos valentes

O frio, e ardentissimo hemispherio, Ficando o mundo todo campo estreito A hum reino sò de mil imperios feito27.

Questa è la profezia di Circe, da cui Ulisse, dopo essere sceso all’Ade, si diparte per fondare Lisbona, la città à espera, madre e sposa di navigatori.

È come se, avendo imparato da ciò che accadde alla regina dei serpenti, Lisbona avesse compreso che non si può tenere stretto l’amato a sé: la regina ne muore, la città rimarrà sola, quasi vedova28 durante il periodo di aggregazione delle due corone

27 Castro, Gabriel Pereira de, Ulyssea, ou Lysboa edificada, Lisboa, 1636, disponibile in versione digitale: http://purl.pt/12170/1/ . Viene qui citato il canto III, 125 – 126.

28Cfr. F. Bouza Álvarez, “Lisboa Sozinha, Quase Viùva. A cidade e

a Mudança da Corte no Portugal dos Filipes” in Id. Portugal no Tempo dos Filipes. Política, Cultura, Representações (1580-1668),

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iberiche: sposa in lagrimosa attesa del suo regale marito, legata strettamente alla mitica mullher à

espera, protagonista della famigerata cantiga d’amigo.

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4. Un’epopea secondo il modello

classico

Vengono presentate in questo capitolo le direttrici strutturali lungo cui si snoda la costruzione del poema camoniano.

Il modello classico della scrittura epica influenza fortemente la formazione dell’autore de I Lusiadi,che, pur tenendo sempre presente la lezione degli antichi, riesce tuttavia a riformulare la struttura portante dell’opera con alcune importanti innovazioni. Tali progressi, che comprendono sia il livello strutturale che quello contenutistico, riescono a rendere I Lusiadi una occorrenza molto peculiare, che si situa pienamente nel filone dell’epica innovandola, pur nel segno della tradizione.

4.1 Modelli e contenuti.

I Lusiadi possono essere considerati un’epopea secondo il modello classico come recita il titolo di

questo capitolo: tale espressione costituisce un programma letterario, contenente una serie di requisiti che condizionano la struttura, lo stile ed il concepimento stesso di un poema. È fuor di dubbio

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che una tale programmaticità d’intenti delinea in maniera chiara ed efficace l’intenzione creativa dell’autore.

L’evolversi di questa programmaticità è ben visibile fin dall’apertura, con l’invocazione alla musa, la dedica al re e l’inizio della narrazione in medias res, passando attraverso l’utilizzo della mitologia, il ricorso alla profezia ed una certa varietà stilistica che stempera il tono epico talvolta con episodi lirici, talaltra con inserti bucolici.

È importante comprendere cosa significhi la creazione di un’epopea per un poeta del Rinascimento, che ammira i modelli classici, vuole imitarli e, se possibile, superarli. L’epopea costituisce la massima aspirazione del poeta rinascimentale: attraverso l’imitazione di ciò che l’antichità ha creato di più sublime, egli potrà mettere alla prova la propria capacità di fronteggiarsi con coloro che più ammira.

Questa aspirazione letteraria incontra, nel Portogallo del secolo XVI, fatti grandiosi appena occorsi. Il poema di Camões vuole narrare il viaggio di Vasco de Gama da Lisbona all’India, per la prima volta toccata da navi europee, e le traversie della lunga navigazione protrattasi dall’8 luglio 1497 al 20 maggio 1498: l’avventura di de Gama aveva avuto dunque luogo meno di un secolo prima che il poema

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vedesse la luce e le vicende erano note a tutti perché un poeta potesse riempirle di Ciclopi e di Circi o di Nausicae e Lotofagi. Per la storia, però, de Gama era colui che aveva avuto la ventura di coronare e concludere lo sforzo di un intero popolo proteso a raggiungere la favolosa India, il favoloso Oriente, mettendovi stabilmente piede e riuscendo a tessere tutta una trama di commerci che avrebbero fatto di Lisbona per parecchio tempo l’emporio più grande del mondo. Dunque questi uomini e queste imprese – scoperte e conquiste di là dal mare - non erano meno degni di gloria degli eroi dell’Iliade o dell’Odissea e delle loro prodezze.

La prospettiva che Camões sottolinea già nel prologo è il carattere collettivo delle imprese portoghesi, frutto degli sforzi di tutta una nazione, fusione in una di mille volontà individuali. As armas e

os baroes assinalados si contrappongono fortemente

all’arma virumque cano virgiliano: l’abbandono della dimensione solitaria dell’eroe classico diviene il perno delle dinamiche interpersonali.

Fin dall’esordio del poema è enunciata la poetica della verità e realtà dell’epos narrato.

L’epica moderna diviene grandiosa nell’allargamento dei limiti spaziali e temporali e nel realismo che conseguentemente ne deriva: i fatti

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narrati sono verificabili poiché prossimi nel tempo e sono notevoli poiché testimoniano la possibilità per l’essere umano di conquistare nuovi orizzonti.

Al centro della scelta poetica camoniana sta la vocazione al racconto vivido, brillante, denso di capacità di approfondimento tematico, che non può essere espresso che in versi e non può che procedere per variatio. Cogliere lo spirito dei fatti richiede necessariamente la lunga durata, lo sguardo d’insieme, la pluralità di prospettive.

4.1.1. Dinamiche strutturali.

La varietà di inserimento della materia è strutturata in maniera armoniosa: è possibile notare infatti una lunga analessi costituita dalla narrazione di Vasco de Gama ai canti II – IV; seguono l’ekphrasis delle scene rappresentate sugli stendardi portoghesi al canto VIII e la profezia al canto X. Questi tre blocchi narrativi sulla storia portoghese sono assai istruttivi perché mostrano il procedere del poeta.

Oggetto della narrazione è il passato portoghese, fino ad anni prossimi alla composizione del poema; l’ottica che caratterizza questo incedere muta di continuo: nel primo blocco dona una visione travagliata della monarchia portoghese, nel secondo

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è colma d’ammirazione verso i più fulgidi esempi di eroismo dei suoi servitori, nel terzo guarda alla colonizzazione futura. Da questa pluralità di punti di vista e quadri si mira ad un unico processo storico. La poesia racconta con sentimenti decisi e netti, per inevitabili ma efficaci generalizzazioni date da figure esemplari.

Anche il frequente andamento oratorio della lingua asseconda questa tendenza, lo fa con quell’ut

pictura poiesis che il poeta rammenta quando parla di

“muda poesia” (VII, 76) per la pittura e di “pintura que fala” (VIII, 41) per la poesia. Il procedere prevalentemente descrittivo, non narrativo, è marcato in modo importante dai tempi verbali. Con l’eccezione del canto V, il poeta non ama i passati remoti, predilige di gran lunga i presenti attualizzanti e gli imperfetti descrittivi.

Il piano temporale su cui si pone Camões è almeno duplice. Il suo sguardo è divaricato tra il passato di Vasco da Gama e il proprio presente, su cui quel passato esercita sia la funzione del monito sia quella della proiezione inquietante. Il passato portoghese appare segnato dalla fragilità umana; non va mai dimenticata la situazione psicologica in cui de Gama è narratore. Il contesto in cui si svolge la sua narrazione è dominato da un bisogno di conoscenza

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e di incontro con l’altro che, caratterizzando tutto il poema, ne diviene una marca culturale molto evidente.

4.2 Sinossi.

Per contestualizzare meglio le osservazioni fin qui fornite sui principali blocchi tematici del poema, viene presentata di seguito una sinossi dell’intera opera.

Canto I – il poeta dichiara la sua intenzione di

cantare le gloriose imprese d’Asia e Africa dei portoghesi. Invoca per questo le ninfe del Tago e dedica il suo poema al giovane don Sebastiano.

Mentre le caravelle portoghesi solcano il mare, Giove convoca il concilio degli dei, decretando per i lusitani una buona accoglienza sulle coste africane. Il suo ordine provoca reazioni contrapposte: Bacco teme che i portoghesi mettano in discussione il suo potere sull’India, mentre Venere li difende, convincendo infine Giove a persistere nel suo disegno, e la riunione si scioglie.

Vasco de Gama e il suo equipaggio giungono in Mozambico, gli indigeni li invitano a incontrare il loro sovrano e, all’alba, ha luogo l’incontro a bordo delle caravelle di de Gama. L’ammiraglio chiede un pilota

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che lo guidi fino all’India e il re glielo promette, meditando però di ingannare gli odiati cristiani.

Bacco, dal cielo, non tollera la buona sorte dei portoghesi. Scende in Africa assumendo le sembianze di uno stimato anziano, fomenta nello sceicco astio nei confronti dei lusitani e gli suggerisce di dar loro un pilota che li porti fuori rotta.

La mattina seguente i portoghesi si trovano di fronte indigeni ostili, di cui hanno facilmente ragione. Con atteggiamento apparentemente conciliatorio viene allora concesso il pilota promesso: questi, novello Sinone, cerca di approdare nell’isola di Quiloa, dove, dice, vi sono cristiani; quando Venere lo impedisce, spinge i lusitani con la stessa menzogna a Mombasa.

Canto II – all’arrivo a Mombasa, un messo del re

locale invita de Gama a sbarcare; i due degredados che de Gama manda in perlustrazione a terra sono ingannati dagli abitanti e da Bacco. Ma mentre stanno attraccando nel porto, dove è già pronto un agguato per loro, Venere manda le Nereidi ad allontanare le navi. Gli infedeli lasciano le navi insieme al pilota mozambicano che teme sia stato scoperto il suo inganno.

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Vasco de Gama invoca la Divina Provvidenza e Venere, per soccorrerlo, si reca da Giove chiedendo al padre di confermare l’aiuto ai portoghesi. Giove la tranquillizza profetizzandole le glorie dei suoi protetti in Asia e manda Mercurio ad avvisare in sogno de Gama di fuggire e di volgere la rotta a Malindi.

Qui il re accoglie favorevolmente i portoghesi, e chiede di essere informato sulla storia del popolo lusitano e sulle traversie affrontate dai naviganti per giungere fino alla sua città.

Canto III – Vasco de Gama dà avvio alla sua

lunga risposta al re di Malindi. Inizia descrivendo la collocazione geografica del Portogallo e, dopo un cenno alle antichità portoghesi, tra mito e storia, ricostruisce la nascita del regno a partire da Enrico di Borgogna e dal figlio di lui, Afonso I, le cui vicende sono descritte in dettaglio. Quindi la narrazione procede con i regni di Sancho I e Dom Dinis, poi con Afonso IV e l’esecuzione di Inês de Castro, amante del principe Pedro.

Canto IV – Continua la narrazione della storia

lusitana per giungere a Manuel I che, ispirato da una visione in cui l’Indo e il Gange gli appaiono promettendogli il trionfo in Oriente, affida a de Gama il

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compito di raggiungere l’India circumnavigando l’Africa; l’ammiraglio accetta e sceglie validi collaboratori.

Dopo una processione propiziatoria, il distacco è doloroso per la presenza di mogli e fidanzate; le parole di un vecchio di venerando aspetto, che critica la brama di potere e suggerisce la guerra santa in Africa piuttosto che una meta tanto lontana, caricano la partenza di funesti presagi, facendo riflettere al contempo sull’inesauribile inquietudine che muove l’essere umano.

Canto V – Prosegue la narrazione della

navigazione: Madeira, le Canarie, le coste africane, i prodigi marini – il fuoco di Sant’Elmo - ; de Gama esprime l’orgoglio di una conoscenza fondata sull’esperienza.

Dopo cinque giorni di navigazione dal golfo di Sant’Elena, avvolto dalle nubi, compare il gigante Adamastor, trasformato nel capo Tormentoso: egli rimprovera i portoghesi di avere osato scoprirlo e preannuncia dolori e naufragi; sono profetizzate così la morte di Francisco de Almeida, futuro viceré in India, e la tragica fine di Manuel de Sousa Sepùlveda e della sua famiglia.

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De Gama gli chiede allora di raccontare la sua storia e il gigante si sfoga parlando del proprio infelice amore per Teti che, convocatolo ad un incontro amoroso, lo ha trasformato in roccia costringendolo per la vergogna a nascondersi dagli occhi di tutti.

Il pianto del gigante, sotto forma di tempesta, segna la fine dell’angoscioso incontro.

Doppiato il capo, la navigazione procede fino all’infido Mozambico. La narrazione al re termina con l’esaltazione della veridicità delle scoperte dei portoghesi. Tutti ascoltano con meraviglia il racconto, dopo che il re al tramonto si è ritirato. Camões canta infine a sua volta la grandezza delle opere portoghesi, esaltando il valore della poesia che le celebra.

Canto VI – Dopo i festeggiamenti, Vasco de

Gama lascia il re di Malindi e riprende il viaggio con il pilota fornitogli.

Bacco, invidioso, visita Nettuno nella sua splendida reggia, dove spiccano le porte scolpite con temi mitologici. Tutte le divinità marine raggiungono il loro re, convocate su esortazione di Bacco, che le esorta a non tollerare l’usurpazione dei portoghesi, scoppiando a piangere. Gli dei marini, rifiutatisi di ascoltare la profezia di Proteo, appoggiano Bacco ed Eolo scioglie i venti.

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Nel frattempo, su una delle navi, Veloso sta raccontando ai compagni di viaggio la vicenda dei Dodici d’Inghilterra; ma ecco che, finita la narrazione, si sente sopraggiungere la tremenda tempesta: la loro perizia è messa a dura prova, e la preghiera di de Gama viene ancora una volta raccolta da Venere, che manda le sue ninfe a sedurre i venti.

All’alba viene avvistata Calicut, meta tanto sospirata; de Gama, in ginocchio, rende grazie a Dio. Il poeta conclude il canto esaltando l’onore raggiunto grazie al valore individuale e al rischio della vita, non tra le mollezze e fondandosi sulla nobiltà dei propri predecessori.

Canto VII – Camões celebra con ardore il valore

dei portoghesi, introducendo poi una descrizione sintetica dell’India e dei suoi abitanti. Il portoghese mandato a terra da de Gama suscita la curiosità dei locali e incontra Monçaide, musulmano di Berberia, che parla spagnolo, lo ospita e si reca con lui sulla nave.

Monçaide riferisce le principali vicende del regno del Malabar, a partire dalla conversione all’Islam del re Perimal, illustrando anche gli usi sociali e religiosi degli Indù.

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De Gama viene accompagnato fino alla reggia da un catual mandato dal re e, nella sala del trono, propone allo zamorino l’alleanza con i portoghesi; l’indiano rimanda la decisione all’incontro con il suo consiglio, facendo ospitare i portoghesi negli appartamenti del catual. Questi, incuriosito, prima chiede informazioni su di loro a Monçaide, poi si reca alle navi dove gli vengono illustrati gli stendardi di seta che raffigurano il vecchio Luso.

Il poeta interrompe allora la descrizione per rivolgere alle ninfe del Tago e del Mondego una nuova invocazione in cui ricorda l’impegno profuso per la poesia e la scelta di cantare gli eroi che misero a repentaglio la vita per Dio e per il re.

Canto VIII – La descrizione degli stendardi al

catual si protrae fino a sera, quando questi lascia la nave.

L’animo del re è mal disposto verso i portoghesi sia per i responsi degli auspici, che ne predicono il dominio, sia perché Bacco, assunti i panni di Maometto, appare in sogno ad un sacerdote musulmano esortandolo a contrapporsi ai cristiani, provocando così i maneggi dei musulmani e dei catuali. Questi infatti cercano di ritardare la partenza

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di de Gama per evitare l’arrivo di altre navi ed il re dichiara di non fidarsi di loro.

Vasco de Gama ribatte con forza, dicendo che solo il dovere verso il proprio re può averlo spinto ad affrontare tanti rischi, e chiede di essere autorizzato a ripartire. Il re comprende di essere stato ingannato e, convinto dai modi di de Gama, lo autorizza a partire.

Corrotto dai musulmani, però, il catual non gli dà l’imbarcazione necessaria e medita di distruggerlo. Combattuto tra varie soluzioni, de Gama riesce infine a riscattarsi facendo sbarcare le merci che aveva a bordo. Tale è il potere del denaro.

Canto IX - Álvaro da Braga e Diogo Dias,

lasciati a terra con le merci, vengono bloccati dai musulmani; Monçaide avvisa del piano de Gama, che trattiene come ostaggi ricchi mercanti indù, riuscendo a far liberare i due portoghesi e a prendere il largo con preziosi campioni di spezie e alcuni indiani in ostaggio.

Venere, mentre i portoghesi sono sulla via del ritorno, appronta per loro il meritato riposo: una splendida isola oceanica in cui i naviganti possano provare le gioie dell’amore con le ninfe del mare.

L’equipaggio scende sull’isola per cacciare e vi trova ad attenderlo un meritato ristoro; Teti si prende

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