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Prolegomeni allo studio critico dell’autobiografia

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Academic year: 2021

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CAPITOLO PRIMO

Prolegomeni allo studio critico dell’autobiografia

The mania for this garbage of Confessions, and Recollections, and Reminescences, and

Aniliana, «is indeed a vile symptom». It seems

as if the ear of that grand impersonation, «the Reading Public», had become as filthily

prurient as that of an eaves-dropping lackey.

J.G.LOCKHART, The Quarterly Review, 1827

C’est ce paradoxe apparent et fondamental de l’autobiographie, protéiforme, insaisissable et pourtant toujours semblable à elle-même, qui, en fin de compte, nous paraît le mieux à même de nous faire sentir la nature de son secret. C’est sans doute aussi parce qu’elle se montre si rebelle à se laisser définir et immobiliser, qu’elle n’est pas sur le point […] de cesser de tenter les talents littéraires les plus variés ni de cesser d’enchanter ses lecteurs […].

G.MAY, L’autobiographie, 1979

Introduzione

Dalle Confessioni di S. Agostino, vera e propria stele di Rosetta dell’autobiografia, passando attraverso l’opera di scrittori e artisti che in ogni epoca hanno segnato ulteriori

landmarks nell’evoluzione del genere autobiografico, fino agli sperimentalismi memoriali

di molti autori postmoderni, l’esigenza di raccontarsi e conoscersi mediante la scrittura appare radicata nello spirito umano.

È in particolare in questi ultimi anni che l’autobiografia ha raggiunto un’indiscussa proliferazione: se dalle origini il racconto di sé è stato l’ausilio di cui si sono avvalsi soprattutto mistici e intellettuali per sondare autopticamente le zone umbratili della propria anima, oggi autorità politiche, scienziati e accademici, celebrità e persone del tutto anonime si lasciano sempre più affascinare da un desiderio di conoscibilità che si estrinseca nella scelta delle forme di autorivelazione esplicita della scrittura autobiografica.

(2)

Sul versante della critica accademica, a richiamare l’attenzione degli studiosi sul genere autobiografico e sulle sue eteroclite declinazioni è stata invece, in senso estensivo, la constatazione di come la scrittura si sia da sempre prestata all’indagine della psicologia del sé e di come, inversamente, lo scandaglio dei più intimi recessi dell’interiorità umana possa convertirsi in matrice essenziale dei materiali della letteratura1.

Nonostante la sua lunga storia e la portata degli spunti tematici da essa offerti, i tentativi di stabilire una teoria dell’autobiografia sono tuttavia abbastanza recenti, e

soltanto con la pubblicazione delle opere seminali di Roy Pascal e di Jean Starobinski le indagini sulla scrittura autobiografica hanno ricevuto stimoli produttivi, sviluppandosi nei decenni successivi grazie ai lavori di Philippe Lejeune, e poi a quelli di Paul De Man e Jacques Derrida, due tra i critici ad aver esplorato in forme più radicalmente ermeneutiche un continente del quale nel lontano 1968 si faceva ancora notare l’assenza nelle mappe tracciate dai «cartografi letterari»2.

A più di quarant’anni di distanza dalle disquisizioni di chi come Shapiro si interrogava sulla sua natura e sulla sua collocazione all’interno del sistema letterario, l’autobiografia è finalmente divenuta un oggetto di ricerca autonomo, che proprio in virtù dell’indipendenza conquistata ha potuto svincolarsi dagli orientamenti teoretici che ne decretavano ora l’appartenenza ai generi letterari minori3

, ora lo status di «parente povera della ricerca letteraria, ammessa al convito dei generi dominanti contigui (biografia e romanzo) in modi obliqui e dubitativi»4.

1

Cfr. M. BOTTALICO –M.T. CHIALANT (a cura di), L’impulso autobiografico: Inghilterra, Stati

Uniti, Canada… e altri ancora, Liguori, Napoli 2005, p. xii.

2

Cfr. S.A.SHAPIRO, «The Dark Continent of Literature. Autobiography», Comparative Literary

Studies, 5, 1968, pp. 421-54.

3

Nell’economia di un discorso che verterà, nel primo e nel secondo capitolo, sui punti nodali dell’attuale dibattito critico-teorico relativo all’autobiografia e sull’evoluzione tematico-strutturale che essa ha subìto nell’arco degli ultimi venti anni, saranno tralasciati gli approfondimenti usuali sull’origine e sulla storia del genere autobiografico. È comunque necessario puntualizzare che molti dei testi citati contengono riferimenti di varia estensione a tali questioni: per quanto concerne

lo studio dell’autobiografia sia come pratica letteraria che come oggetto critico, cfr. in particolare: R.PASCAL, Design and Truth in Autobiography, Harvard UP, Cambridge (Massachusetts) 1960; J.OSBORN, The Beginnings of Autobiography in England, California UP, Los Angeles [1960?]; F.HART, «Notes for an Anatomy of Modern Autobiography», New Literary History, 1(3), 1970;

pp. 485-511; J.H.BUCKLEY, The Turning Key. Autobiography and the Subjective Impulse since

1800, Harvard UP, Cambridge (Massachusetts)-London 1984. Per un profilo più aggiornato, si può

almeno rinviare a: R. FOLKENFLIK (ed.), The Culture of Autobiography. Constructions of

Self-Representation, Stanford UP, Stanford 1993; P.COLEMAN –J.E.LEWIS (eds.), Representations of

the Self from the Renaissance to Romanticism, Cambridge UP, Cambridge 2000; S. SMITH –

J. WATSON, Reading Autobiography. A Guide for Interpreting Life Narratives, Minnesota UP, Minneapolis-London 20102; L. ANDERSON, Autobiography, Routledge, London-New York 20112.

4

B.ANGLANI, «Introduzione al repertorio sull’autobiografia», Moderna, 9, 2007, pp. 123-30, qui

p. 1. Su questo punto cfr. in particolare il pionieristico saggio Studies in Autobiographydi James Olney (Oxford UP, New York-Oxford 1988), nella cui introduzione l’autore constata come, a partire dalla metà degli anni ’50, gli sviluppi del genere abbiano inaugurato una nuova fase di

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Non solo, dunque, il genere autobiografico non è più connotabile nei termini con cui lo dipingeva Shapiro, ma da terra vergine e incontaminata si è trasformato in una sorta di potenza imperialista che ha attratto e continua ad attrarre a sé, colonizzandoli, tanto i territori limitrofi che quelli più apparentemente lontani dalla sua sfera d’influenza5.

L’autobiografia è insomma arrivata a coprire un campo di studi talmente variegato che non è sempre facile raggiungere un compromesso o un accordo su che cosa quest’ultima possa debitamente includere6: numerosi sono ad esempio i critici che, dinanzi «[al]la mancanza di parametri rigidi e di un modello uniforme che […] stabiliscano le costanti morfologiche e semantiche»7 del genere, ne hanno allargato le alquanto mobili frontiere in modo da inglobarvi forme affini di scrittura autobiografica, quali lettere, journals e memorie; altri, alla luce delle tendenze della (post)modernità a valicare la soglia tra fittizio e reale, e ad aprirsi a discipline e culture diverse, hanno sostenuto la necessità di prescindere dal rigore di parametri puristi nella valutazione del contenuto autobiografico dei testi presi in esame.

L’inesauribile mole degli studi si stratifica intorno a settori spesso così indipendenti gli uni dagli altri (l’autobiografia di gruppi etnici e soggetti patologici, i memoirs femminili e postcoloniali, le scritture intimistiche di donne e uomini ordinari o altrimenti famosi) da rendere pertinente, nella rappresentazione dello stato attuale della critica, l’immagine di un dedalo di strade che non si incontrano mai, o di un oceano solcato da imbarcazioni di ogni tipo e dimensione destinate a seguire ognuna la propria rotta8.

Se volessimo riprodurre a livello figurativo la molteplicità di forme assunte dal genere autobiografico, potremmo invece optare per lo schema proposto da Jacques Lecarme sul modello della ruota virgiliana, e non a caso ribattezzato rue de l’autobiographie (cfr. infra, fig. 1). La figura elaborata dal critico francese si compone di una serie di cerchi concentrici a loro volta suddivisi in sezioni circolari che, in base alla vicinanza alla zona più interna, indicano il grado di “parentela” con l’autobiografia (il centro ideale della ruota) e delimitano, all’interno di ciascun cerchio, le aree entro le quali si possono inscrivere

studi, dalla quale hanno avuto origine «newly designed, differently oriented university curricula» (J.OLNEY, op. cit., p. xiv).

5

Cfr. B.ANGLANI, op. cit., p. 1.

6

Nel 1980 William Spengemann faceva già notare: «the boundaries of the genre have expanded proportionately until there is now virtually no written form that has not either been included in some study of autobiography or else been subjected to autobiographical interpretation. What was once a rather clearly demarcated territory, populated almost exclusively by such self-identifying texts as John Stuart Mill’s Autobiography and Jonathan Edwards’s Personal Narrative, has become an unbounded sprawl, in which the poetry of T. S. Eliot and William Carlos Williams, the novels of Stendhal and Proust, the plays of Tennessee Williams, and even Henry James’s prefaces have found a place» (W.C.SPENGEMANN, The Forms of Autobiography. Episodes in the History of a

Literary Genre, Yale UP, New Haven-London 1980, p. xii).

7

M. BOTTALICO –M.T.CHIALANT, op. cit., p. xiii. 8

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modalità discorsive, generi e sottogeneri, anch’essi raggruppati in base ai rispettivi rapporti di consanguineità9.

Fig. 1. Nel Medioevo la rota Virgilii veniva usata per esemplificare la corrispondenza tra lo stile umile, medio e sublime. Il nome deriva dalle maggiori opere virgiliane – le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide –, che vengono assunte come modello dei generi in cui si realizzano i tre stili. Nella rielaborazione di Lecarme la ruota contempla anche quelle autorappresentazioni multimediali che Sidonie Smith e Julia Watson fanno rientrare nella più ampia categoria delle life narratives (cfr. infra).

9

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Nonostante nella ruota lecarmiana il ricorso a una serie di linee nette di demarcazione tra le varie sezioni non sia in grado di suggerire visivamente un dato di incontestabile validità nell’odierno panorama letterario, ovvero quell’intreccio di forme e contenuti che dimostra quanto siano in effetti porosi e mutevoli i confini che separano le pratiche autobiografiche10, i raggruppamenti e le relazioni stabilite da Lecarme hanno il merito di mettere in luce la sintomatica interdisciplinarietà e intergenericità dell’autobiografia contemporanea.

Valga, ad esemplificazione di quanto appena accennato, il testo del seminario tenuto da Andrea Battistini sui generi marginali del ’900, dove il critico sottolinea il bisogno, reso ancor più impellente dalla poetica stessa del Postmodernismo, di una costante riconfigurazione dei generi canonici e di quelli, come l’autobiografia, considerati a lungo marginali. Secondo Battistini, per poter comprendere i rapporti dialettici tra i generi letterari, bisogna più esattamente concepire le loro delimitazioni come linee mobili e dinamiche, che variano sia dal punto di vista diacronico che sincronico.

È quanto risulta specialmente perspicuo se si prende in considerazione l’odierna “scrittura del sé”11, che “scardina” molti di quei canoni considerati imprescindibili e a esclusivo appannaggio del genere autobiografico per intrecciare una fitta rete di scambi con generi e branche del sapere diversi.

Della frequenza con cui avvengono tali scambi interconnettivi ci si può facilmente rendere conto procedendo allo spoglio di una serie di prestigiose riviste internazionali (per menzionarne soltanto alcune a/b: Auto/Biography Studies, Auto/Biography Yearbook,

Auto/Biography, Autopacte, Biography, Lifewriting Annual, Life Writing) che – ad onta

degli sbarramenti metodologici e delle chiusure dogmatiche su cui per anni hanno insistito certi indirizzi teorici – rendono conto di come quello delle forme autobiografiche sia

10

Cfr. A.BATTISTINI, «I ‹generi marginali› nel Novecento letterario», Seminario di studi a cura di Daniela Baroncini e Federico Pellizzi, Bologna, 22 maggio 1997 (Dipartimento di Italianistica). Testo reperibile in formato elettronico al seguente indirizzo web: http://www3.unibo.it/ boll900/con vegni/gmbattistini.html. Le considerazioni di Battistini permettono di notare, se messe in rapporto con lo schema di Lecarme, che le linee di separazione tra gli insiemi, e i loro stessi elementi, sono tutt’altro che immutabili, ma aderiscono anzi a una serie di paradigmi epocali e culturali: si ricordi infatti che – come afferma lo stesso Hans Jauss – i generi letterari sono fenomeni storici e sociali, di conseguenza vincolati non solo a tutte quelle congiunture che cambiano inevitabilmente l’assetto di un Paese o di una nazione, ma anche alle aspettative del pubblico dei lettori.

11

Le perifrasi «scritture del sé/dell’io», «letterature del sé» e la gusdorfiana «letteratura dell’io» saranno da qui in poi usate in senso generale e senza virgolette, per far riferimento a tutti i generi e sottogeneri in forma scritta che si concentrano – seppur con accentuazioni diverse – sulla rappresentazione del sé. «Scrittura del sé/dell’io» e «letteratura del sé» sono invece le perifrasi più correntemente impiegate, per pura varietà lessicale, in alternativa alla parola «autobiografia»: questo sebbene esse siano latrici di un significato adattabile a testi che possono essere assimilati alla letteratura autobiografica, ma non necessariamente alle forme e ai contenuti dell’autobiografia propriamente detta. Il testo fornirà opportune spiegazioni qualora vengano adottate ulteriori varianti terminologiche, o nel caso in cui si apportino rettifiche a quelle di cui sopra.

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divenuto un settore di studi generosamente aperto alle più disparate incursioni disciplinari12.

Che l’autobiografia sia una materia di indagine di ampiezza vertiginosa è infine testimoniato dall’esistenza, in vari Paesi europei, di luoghi deputati alla conservazione e alla promozione di un patrimonio memoriale che negli ultimi anni è cresciuto in maniera pressoché esponenziale.

Si pensi in proposito all’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano (l’altrimenti nota «città dei diari», in provincia di Arezzo)13, all’Association pour l’Autobiographie (APA) di Ambérieu-en-Bugey (una cittadina nei pressi di Lione), ai registri di Emmendingen (Germania), o ancora a quelli spagnoli di La Roca del Vallès (Catalogna)14.

Un dato di indiscutibile importanza può già emergere da questo breve excursus introduttivo: la scrittura dell’io, resasi un’icona pregnante dell’interazione con il mondo di un soggetto di cui vengono riflesse le intime complessità, valica con sempre maggiore frequenza l’ambito letterario per convertirsi in fatto antropologico. Non è peraltro un caso fortuito che Philippe Lejeune, il quale a più riprese ha evidenziato l’inestinguibile portata cognitiva di questo «onnivoro agglomerato di forme e contenuti»15, abbia segnalato che, nelle società moderne, studiare l’autobiografia significa intraprendere un percorso di continua scoperta:

12

Per un bilancio sommario in materia, si vedano in particolare le rassegne bibliografiche della rivista Biography, dove ogni anno vengono riversati importanti e aggiornati contributi sulle letterature del sé (autobiografia, biografia e generi contigui). Tutti i contributi dell’elenco – opere primarie, critiche, tesi e articoli – sono inoltre accompagnati da un commento che ne rileva puntualmente i tratti salienti e che, nel caso dei volumi miscellanei, viene opportunamente preceduto dalla trascrizione completa dell’indice dell’opera in esame.

13

Il direttore dell’archivio, Saverio Tutino, è oltretutto il fondatore della LUA, la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo), sulle cui attività sono reperibili ulteriori informazioni al seguente sito web: http://www.lua.it/. Istituendo un confronto con il fertile terreno teorico anglosassone e francese, possiamo rilevare come la cultura italiana si sia dimostrata in generale poco sensibile alle questioni sollevate dal genere autobiografico, e anche quando ha prodotto testi che con risultati di rilievo hanno riflettuto sulla poliedricità di metodi, strategie interpretative e linguaggi a esso relativi, lo spazio concesso loro dalla critica internazionale ha continuato a essere molto esiguo. Nella presente dissertazione si è cercato di colmare tale lacuna sia sotto il profilo delle citazioni che delle indicazioni bibliografiche, nelle quali sono reperibili alcuni dei contributi

più significativi e attuali in area italiana. Per alcuni riferimenti preliminari, cfr. E. PORCIANI – B.ANGLANI et al., «Repertorio bibliografico ragionato sull’autobiografia (1993-2004)», Moderna,

9, 2007, pp. 131-92, e soprattutto le pp. 131-44 che, pur non contemplando un elenco degli articoli italiani comparsi in rivista, comprendono il repertorio bibliografico di gran parte degli studi e dei volumi miscellanei pubblicati in Italia a partire dal 1993.

14

Per completare il quadro anche a livello internazionale, è d’obbligo aggiungere all’elenco anche il Centre for Biographical Research dell’Università delle Hawaii, la cui fondazione, risalente al 1976, è stata un chiaro esempio del nuovo senso di rispettabilità raggiunto dal genere autobiografico. Per quanto concerne invece gli archivi europei sopra menzionati cfr. il sito dell’Associazione Europea per l’Autobiografia (AEA), <http://www.archiviodiari.it/eaea.htm>. 15

E.AGAZZI –A.CANAVESI, Il segno dell’io: romanzo e autobiografia nella tradizione moderna, Campanotto, Udine 1992, p. 92.

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L’autobiografia non conduce a un ripiegamento su se stessi, ma ad un’apertura verso gli altri: altre persone, altre discipline, ma anche altre culture. […] costruire un corpus di autobiografie scritte nella propria lingua è un modo per consolidare l’identità e la cultura del proprio paese, ma è al tempo stesso un’occasione per prendere coscienza degli studi svolti parallelamente in altri paesi, partecipi della medesima civiltà16.

1.1. La critica autobiografica: cenni preliminari

Se gli studi sull’autobiografia da un lato si sono moltiplicati così tanto da produrre uno spazio dinamico entro il quale analizzare la contemporanea scrittura del sé, dall’altro hanno reso estremamente arduo il progetto di procedere a una loro catalogazione sistematica.

Non mancano comunque dei validi tentativi in questa direzione, come ad esempio quello compiuto in Reading Autobiography (2010) da Sidonie Smith e Julia Watson, alle quali va riconosciuto tra l’altro il merito di aver fornito alcune utili delucidazioni (il volume, sottotitolato A Guide for Interpreting Life Narratives, si propone infatti come una sorta di manuale) sull’uso e sulle valenze disciplinari di un apparato terminologico arricchitosi, di pari passo con l’intensificarsi dell’interesse per l’autobiografia, di un’ampia gamma di coniazioni verbali, tutte afferenti alla letteratura della soggettività17.

Per distinguere l’autobiografia propriamente detta dai generi e sottogeneri che – pur avendo storie istituzionali e frontiere epistemologiche proprie – fanno delle articolazioni del sé il proprio perno tematico, Smith e Watson procedono col definire i caratteri peculiari delle forme comunemente designate con i termini life writing e life narrative: la prima, spiegano le due critiche americane, è una parola di recente coniazione, con cui si copre tutta la possibile gamma di narrazioni in forma scritta – siano esse di natura biografica,

16

La citazione è tratta dalla postfazione redatta da Lejeune per la traduzione italiana del suo ben noto Pacte autobiographique, su cui ci soffermeremo più oltre. L’edizione di riferimento è la seguente: P.LEJEUNE, Il patto autobiografico, tr. it. a cura di F. Santini, Il Mulino, Bologna 1986 [1975], p. 409.

17

Per una disamina più accurata delle attuali forme di “narrazione del sé” si veda il glossario in appendice, che ripropone, con opportune modifiche e aggiunte, il glossario inserito da Smith e Watson in Reading Autobiography (S. SMITH – J. WATSON, op. cit., pp. 253-96), dove vengono

contemplati ben sessanta diversi generi autobiografici (cinquantadue nell’edizione originaria del volume, uscito per la prima volta nel 2001). Nell’ambito degli studi anglosassoni, i termini self-life

writing (il termine è indiscriminatamente usato con lo slash, come in questo caso, oppure senza), life-writing e auto/biography (lo slash tra il prefisso «auto-» e la parola «biography» è impiegato

per segnalare la reciprocità tra «self» e «other(s)» nelle scritture del sé, o meglio ancora la predisposizione di queste ultime a condensare forma autobiografica e biografica) vengono frequentamente usati in sostituzione del più comune life writing (cfr. T.L. BROUGHTON (ed.),

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storica o romanzesca – incentrate sulla descrizione della vita di uno o più soggetti18; la seconda, di accezione ben più ampia, racchiude un insieme variabile di atti

autoreferenziali che in forma scritta o visuale, filmica o digitale, fanno luce sull’identità di chi li produce19.

L’aspetto più interessante delle considerazioni di Smith e Watson è sicuramente quello di scorgere nel vocabolo «autobiografia»20, che a differenza degli altri fa riferimento a una pratica specifica di scrittura, la mancata designazione di un folto gruppo di modalità e forme narrative ormai solo di rado incentrate sull’autonomia individuale e sull’esemplarità di una vita21.

Ai numerosi teorici dell’autobiografia che hanno assimilato la parola all’obsoleto ideale liberal-umanistico di un soggetto unitario, unificante e totalizzante, adattandone poi il senso al più copioso quadro dei «racconti di vita», viene di fatto contestato, principalmente da parte della critica postmoderna e postcoloniale, di aver reso la scrittura dell’io uno strumento adatto alla raffigurazione della vita di uomini illustri, ma fondamentalmente incapace di profilare il ritratto di persone (singoli individui, gruppi etnici, categorie sociali) destinate a rimanere ai margini della Storia.

In particolare «[i]ts theorists [the theorists of autobiography] have installed this master narrative of “the sovereign self” as an institution of literature and culture, and identified, in the course of the twentieth century, a canon of representative life narratives. But implicit in this canonization is the assignment of lesser value to many other kinds of life narratives

18

Cfr. S. SMITH – J. WATSON, op. cit., p. 4. L’autobiografia rientra in questo esatto ambito, ma per una maggiore precisione semantica «might […] be called self life writing» (ibidem).

19

Cfr. ibidem. 20

Anche se datata rispetto a «life writing» e «life narrative», la parola «autobiografia» è di coniazione relativamente recente, come possiamo d’altronde evincere dallo studio condotto da Robert Folkenflik in op. cit., pp. 1-20, dove vengono ripercorse le varie fasi della sua evoluzione diacronica. Bisogna in ogni caso tenere presente che: «the relatively recent coinage of the term

autobiography does not mean that the practice of self-referential writing began only at the end of

the eighteenth century. In earlier centuries, terms such as ‹memoir› (Madame de Staël, Glückel of Hameln) or ‹the life› (Teresa of Avila) or ‹the book of my life› (Cardano) or ‹confessions› (Augustine, Rousseau) or ‹essays of myself› (Montaigne) were used to mark the writer’s refraction

of self-reference through speculations about history, politics, religion, science and culture» (S. SMITH – J. WATSON, op. cit., p. 2. Corsivi nel testo).

21

Nell’ambito di un discorso focalizzato sull’incapacità di alcuni contributi teorici di cogliere le peculiarità dell’autobiografia settecentesca, ma in piena consonanza con quanto appena rilevato, Anglani sottolinea: «Si può cominciare […] a pensare che il rapporto storicamente più fondato non sia quello tra formazione di un soggetto “pieno” sicuro di sé e nascita dell’autobiografia, e che al contrario l’autobiografia in senso moderno intervenga al momento in cui, distrutte le certezze sostanzialiste sull’essenza dell’io, l’identità comincia ad essere un problema, un dato da costruire piuttosto che una realtà dalla quale partire» (B. ANGLANI, I letti di Procuste: teorie e storie

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produced at the same time and, indeed, a refusal to recognize them as “true” autobiography»22.

Accanto alla constatazione della necessità di ridefinire le fondamenta (le implicazioni relative alla mutata percezione della soggettività e dell’identità, l’ambito circoscritto dal genere) dell’autobiografia e i rapporti che quest’ultima intrattiene con gli altri generi letterari, si situa il già preannunciato tentativo di passare in rassegna le principali teorie che sono state formulate dalla seconda metà del ventesimo secolo con lo scopo di rintracciare i tratti pertinenti e risolvere i congeniti paradossi di questa forma brulicante di fermenti interrogativi.

In Reading Autobiography vengono individuate tre fasi della critica autobiografica, l’analisi di ciascuna delle quali è puntualmente accompagnata dalla segnalazione dei principali fattori storico-culturali23 che in ogni periodo hanno condizionato la percezione della personalità e quindi stimolato nuove riflessioni sull’autobiografia.

Influenzati dallo storico tedesco Wilhelm Dilthey, il quale per la prima volta individua nell’autobiografia «the highest and most instructive form in which the understanding of life comes before us»24, gli studi moderni nell’ambito del self-writing iniziano con la pubblicazione dell’opera History of Autobiography in Antiquity25

. In questa monumentale raccolta di volumi Georg Misch, allievo e genero di Dilthey, ripercorre la rappresentazione dell’uomo occidentale attraverso la Storia, cercando così di dimostrare come le vite dei grandi e dei potenti siano il metro per valutare il progresso della civiltà.

Anche se vincolata alla risorsa più naturale in assoluto, ovvero il bisogno che l’uomo ha di esprimere se stesso e autoaffermarsi, nel significato attribuitole da Misch l’autobiografia è uno strumento conoscitivo par excellence che, nascendo da uno stato di avanzamento culturale, ha la facoltà di rivelare lo sviluppo umano di un determinato periodo nella misura in cui un autore se ne è reso partecipe.

Nonostante sia innegabile l’influenza degli studi di Misch sulle successive generazioni di critici, i criteri fortemente selettivi da lui adottati sollevano un’altrettanto innegabile

congerie di dubbi per quanto attiene il grado di inclusività del genere autobiografico:

22

S. SMITH – J. WATSON, op. cit., p. 3. 23

Per l’esattezza: l’Illuminismo, con la sua visione del soggetto, inteso come uomo universale e trascendente; i movimenti rivoluzionari della fine del ’700, che favoriscono la democratizzazione della società; l’enfasi egotistica del periodo romantico; il darwinismo vittoriano con le sue rifrazioni sociali (la sopravvivenza del più adatto e la supremazia del progresso evolutivo); la rivoluzione industriale e la conseguente esaltazione del mito del self-made man; le teorie freudiane e i metodi analitici della psicoanalisi, che mirano all’organizzazione dell’autoriflessività; la democratizzazione dell’attività letteraria (cfr. ivi, p. 194).

24

W.DILTHEY, Pattern and Meaning in History (1960), cit. in ibidem.

25

Vale la pena ricordare che, prim’ancora di Misch, a occuparsi esplicitamente di autobiografia sono stati Anna Robeson Burr nel volume dal titolo The Autobiography. A Critical and

Comparative Study (1909), ed Ernest Stuart Bates in Inside Out. An Introduction to Autobiography

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in primo luogo, tali restrizioni sanciscono un’eclatante divisione tra una “cultura alta” in cui vengono fatti rientrare esempi di civilizzazione universali, e una “cultura bassa” costituita da modelli discorsivi di uso popolare (lettere, diari, journals e memorie) che però hanno contribuito alla nascita dell’autobiografia26

; in secondo luogo, i parametri di Misch conferiscono unicamente a pochi eminenti individui la facoltà di formare lo spirito di un’epoca, mettendo perciò in discussione la rappresentatività di tutti coloro ai quali viene precluso l’accesso alla «storia testuale della propria soggettività»27

.

Con Georges Gusdorf, Francis Hart, James Olney e Karl Weintraub si inaugura invece una fase che si contraddistingue per il ridimensionamento della concezione del sé e della verità28. Ridimensionamento incentivato, fin dalle prime decadi del ’900, da filosofie e correnti di pensiero che postulano lo scardinamento della certezza in un self e in una narrazione invariabilmente veritieri.

La reificazione del soggetto promossa dall’Illuminismo viene più esattamente confutata da:

la critica marxista, che fa della coscienza individuale il prodotto di forze e relazioni di carattere socio-economico (le forze produttive materiali costituiscono la struttura di una data società, alla quale si conformano anche le varie manifestazioni di una coscienza sociale), negando così l’autonomia del singolo;

 la psicoanalisi freudiana, per la quale l’uomo non è un agente puramente razionale, ma un essere plasmato da forze istintive, difficili da comprendere perché al di là del controllo cosciente;

 la riconfigurazione della soggettività promossa dagli studi di Freud sul linguaggio e la sua relazione con l’inconscio: il linguaggio, nell’ottica freudiana, è sempre soggettivo e mai neutrale in quanto, trasmettendo i desideri del parlante, è uno strumento deputato alla conoscenza degli strati profondi dell’essere;

 la reinterpretazione delle teorie freudiane da parte di Jacques Lacan, il quale riconosce nell’inconscio una struttura di tipo linguistico (il linguaggio viene in altre

26

Franco D’Intino fa notare in merito che «la storia del genere […] sembra essere in larga parte sotterranea, segreta. […] Così è delle moltissime autobiografie dettate da mistiche e religiose o prodotte all’interno delle sètte protestanti, e dunque circolanti in ambiti ristretti» (F. D’INTINO,

L’autobiografia moderna: storia forme problemi, Bulzoni, Roma 1998, p. 17).

27

Cfr. S. SMITH – J. WATSON, op. cit., pp. 195-96. 28

La definizione delle varie tappe che hanno segnato l’evoluzione della critica autobiografica non è tuttavia unanime: Olney, per esempio, riconduce l’inizio della seconda fase al 1956, anno della pubblicazione in francese del pioneristico articolo «Conditions and Limits of Autobiography» di

Gusdorf (cfr. infra). Per Spengemann, invece, molti degli studi anteriori al 1970 incluso il lavoro inaugurale di Gusdorf – sono sconosciuti al retroterra inglese, e solo il

pionieristico saggio di Hart, Notes for an Anatomy of Modern Autobiography, sembra avviare nuove prospettive di ricerca all’interno di tale ambito.

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parole analizzato con metodo strutturalista), formalizzabile scientificamente. Per Lacan, così come per lo strutturalista Ferdinand de Saussure, la lingua e i segni

sono autonomi rispetto alle prestazioni linguistiche individuali: in questo senso, il linguaggio dell’inconscio è il discorso dell’Altro rispetto al soggetto conscio;  Saussure e i formalisti russi, i quali problematizzano ulteriormente la questione del

linguaggio, dubitando della trasparenza di ciò che viene concepito come veicolo dell’espressione del sé. Per Saussure il linguaggio è un sistema nel quale interagiscono un significante (la parole, ovvero la singola parola) e un significato (la langue, ossia il referente), e come tale agisce indipendentemente dal soggetto29.

Dinanzi alla problematizzazione del rapporto dell’individuo con il linguaggio, inizia così a gravare anche sul soggetto autobiografico, che di questo stesso linguaggio si serve per estrinsecare il proprio iter vitae, la minaccia della frammentazione e dello straniamento.

Il risultato della nuova e destabilizzante visione della soggettività è quindi un tipo di critica interessata a quelle che Olney definisce le agonizing questions della rappresentazione del sé: una critica cioè in cui «[l]ife narrative is seen as a process through which a narrator struggles to shape an identity out of an amorphous experience of subjectivity», e lo studioso «becomes a psychoanalyst of sorts, interpreting an encoded truth in the welter of details of the narrative as a psychological design rather than a factual or moral profile»30.

In questo secondo momento, le riflessioni sorte intorno alle pratiche discorsive e all’istituzione dell’autobiografia tendono ad assimilare la scrittura autobiografica a un atto creativo piuttosto che a una mera trascrizione del passato. Concepire le narrazioni autoreferenziali non tanto come resoconti della verità di una vita, quanto come frutto dell’inventività autoriale, permette sia di arginare la spinosa questione della mimesi del reale a esse sottesa, sia di conferire una piena legittimità letteraria all’autobiografia, come d’altronde attestato dall’impegno di cui illustri teorici hanno dato prova nel delinearne

29

Cfr. S. SMITH – J. WATSON, op. cit., pp. 201-202. Non è necessario attendere Freud e Marx (insieme a Nietzsche, i “maestri del sospetto”) o le correnti di pensiero del ’900 per assistere alla dissoluzione delle sicurezze dell’autobiografo sulla veridicità della propria narrazione. Secondo Jeanette Den Toonder, infatti, Montaigne è il primo ad aver evidenziato nei suoi Essais come la descrizione del sé sia sempre insufficiente perché filtrata dal linguaggio (cfr. J. M.L. DEN

TOONDER, «Qui est-je?»: l’écriture autobiographique des nouveaux romanciers, Peter Lang, Bern-Berlin-Frankfurt 1999, p. 8). Sull’analogia tra la visione del mondo del filosofo francese (in Montaigne «skepticism, relativism, and textual multiplicity reflect the sense that reality, even of the self, is a shifting, subjective, and impermanent phenomenon») e la «condizione postmoderna» si era inoltre già soffermato Dudley Marchi in un saggio di poco anteriore (D. M. MARCHI,

Montaigne among the Moderns. Receptions of the Essais (1994), cit. in J. M.L. Den Toonder, op. cit., p. 10).

30

(12)

l’evoluzione storica (Wayne Shumaker, Margaret Botrall, Paul Delany), i tropi dominanti (William Spengemann e William Howarth), la poetica (Roy Pascal e Jean Starobinski) e le interazioni con i generi attigui.

Tuttavia, anche questi studiosi non si rivelano capaci di superare un limite quantomai evidente – peraltro lo stesso insito nelle speculazioni di Misch –, ossia l’esclusione dallo spettro autobiografico di forme letterarie, soggetti e culture “altre”. Specificano in proposito Smith e Watson:

The focus on self-referential narratives as narratives of autonomous individuality and representative lives narrowed the range of vision to the West. […] The focus also privileged “high” cultural forms, a focus that obscured the vast production of life narratives by ex-slaves, apprentices and tradespeople, adventurers, criminals and tricksters, saints and mystics,

immigrants, and the representation of lives in such documents as wills and treaties. The gendering of the representative life as universal and therefore masculine meant that

narratives by women were rarely examined; and on those rare occasions when their narratives were taken up, they were accorded a place in an afterword, a paragraph, a note – in marginal comments for what were seen as marginal lives31.

Spetterà agli esponenti della terza e ultima fase, il cui inizio è databile intorno agli anni ’70 del ’900, colmare tali lacune teoriche. Ed è proprio la riconfigurazione della soggettività cui hanno fatto strada il Postrutturalismo, il Postmodernismo, e in tempi più recenti il Postcolonialismo, a fornire un’arena di riflessione per la disamina dei caratteri del genere autobiografico e dei suoi più indicativi mutamenti, incentivando allo stesso tempo l’ulteriore messa a fuoco della relazione tra le narrazioni riunite sotto l’onnicomprensiva etichetta di life writing32.

La vitalità degli studi affollatisi attorno alle scritture dell’io è altresì favorita dalla comparsa di opere altamente sperimentali in cui le forme e i contenuti canonici dell’autobiografia sono amplificati – se non addirittura compromessi – con il chiaro intento di rilevare le insufficienze e le aporie soggiacenti alla rappresentazione del sé.

Ne sono un esempio le opere di Roland Barthes, che nella sua omonima autobiografia (Roland Barthes par Roland Barthes, 1975) si interroga sull’irrisolvibile enigma di essere sia il soggetto che l’oggetto di un discorso autobiografico sempre e comunque impossibile; o di Michel Leiris, per il quale la logica dello studio della personalità risiede nella scoperta

31

Ibidem. Le partizioni temporali e categoriali all’interno delle varie correnti della critica

autobiografica sono introdotte in via del tutto esemplificativa, e non hanno valore perentorio. Lo dimostra per esempio il fatto che Olney, pur rientrando tra quei teorici che si

contraddistinguono per l’estromissione dal canone di soggetti e forme di scrittura marginali,

dedichi varie sezioni di un suo successivo studio alle autobiografie etniche e minoritarie. Per approfondimenti, cfr.J.OLNEY, op. cit., in particolare le sezioni tematiche 2 e 4.

32

Per una sintetica messa a fuoco di tali interventi teoretici (il Decostruzionismo di Derrida, la semiotica barthesiana, lo studio di Foucault sui regimi discorsivi, gli studi culturali e le teorie femministe), rinviamo a S. SMITH – J. WATSON, op. cit., p. 204 e ss.

(13)

delle regole – le stesse da cui deriva il titolo della sua tetralogia autobiografica, La règle du

jeu (1976) – di un gioco in cui l’individuo interagisce incessantemente con i suoi simili.

Per entrambi gli scrittori – Lacan e Derrida docent – l’io autobiografico altro non è che l’esito di un atto di fiction-making: la sua origine e la sua storia, benché sommariamente recuperate, sono fittizie perché costruite per mezzo di un discorso che ne mima la complessità senza però riuscire a carpirle in modo esaustivo.

Parallelamente ai lavori avanguardistici degli autobiografi che raccontano le difficoltà e le contraddizioni insite nella ricerca del significato dell’esistenza, in ambito coloniale e multiculturale emergono i contributi di autori che propongono interpretazioni alternative dell’individuo, identificato come altro rispetto ai valori culturali ufficiali.

La marginalità e la perifericità di tali esperienze di vita costituiscono – si pensi in questo caso alle autobiografie di Gandhi e Malcolm X – l’elemento catalizzatore di messaggi politicamente e socialmente orientati, dove le distorsioni e i pregiudizi etnocentrici sono resi oggetto di denuncia per mezzo dello stravolgimento delle norme letterarie tradizionali, e l’atto autobiografico, nel dover ricostruire una soggettività diasporica, ibrida e nomadica, subisce una tale riconcettualizzazione da acquistare una dimensione collettiva.

In sintonia col sentire degli autobiografi contemporanei, la critica ha pertanto riflettuto metadiscorsivamente sui propri strumenti, e si è dotata di un ventaglio di approcci e dispositivi tesi al riesame delle nozioni di narratore, intenzionalità, verità e significato. Come infatti vedremo, le attuali teorie sulla scrittura e le pratiche autobiografiche attingono dalle metodologie di altre discipline (la linguistica, così come la pedagogia, la psicoanalisi, la filosofia, e l’antropologia) e, a fronte dell’avvenuta democratizzazione del genere e dell’allargamento della membrana sottile che ne riveste i confini, incorporano l’analisi di forme alternative di self-presentation.

In piena contrapposizione agli assunti che stavano alla base dei primi indirizzi teoretici, gli studiosi hanno inoltre riconosciuto il rilievo acquistato da alcuni pregnanti nodi contenutistici (l’instabilità del soggetto, la referenzialità e la relazionalità), dai quali si sono poi mossi per articolare ipotesi di indagine verso:

 l’autobiografia come atto performativo: l’autobiografia, così intesa, non viene più recepita come locus dell’affermazione di un’identità fissa di cui si possa cogliere l’essenza immutabile;

 la posizione del soggetto, determinata dalle relazioni di potere che vigono all’interno di una determinata società;

 l’autobiografia come discorso che, sulla scorta degli studi bachtiniani, riunisce in sé molteplici lingue (la pluridiscorsività dell’autobiografia contemporanea scardina

(14)

l’idea della scrittura del sé quale discorso monologico di un soggetto solitario e introspettivo).

Vari e fecondi sono infine gli orientamenti suggeriti dalla poetica postmoderna, la cui assiologia si manifesta, a livello formale, nell’ostentata manifestazione della contiguità dell’autobiografia con la biografia e il novel in prima persona, e a livello tematico nel sostanziale decentramento del soggetto, che nella vana ricerca di un’unità interiore e di un passato ormai irrecuperabile, evidenzia la tragica assenza, nella società odierna, di ancoraggi epistemologici e ontologici.

autobiography – in its various guises – can capture and address many contemporary concerns, for example the status of the subject, the relations and representations of ethnicity and gender, and perhaps most importantly […] the individual’s relationship with the past. Autobiographical writing can thereby reflect some of the main preoccupations of postmodernism, which has often been defined in terms of questions about the knowledge of the past and the difficulty of articulating our relationship to it33.

Sono appunto le incertezze classificatorie che hanno da sempre accompagnato le teorizzazioni sulla scrittura del sé, così come gli interrogativi suscitati dalle «nuove autobiografie»34 di cui abbiamo appena fatto menzione ad aver stimolato l’impegno delle direttrici di ricerca correnti nel definire, ridisegnare e fornire un bilancio della costellazione dei generi autobiografici e dell’autobiografia stricto sensu. Un argomento, quest’ultimo, di cui ci occuperemo nel corso dei prossimi paragrafi.

1.2. Tra strutturalismo ed essenzialismo: Lejeune, Gusdorf e Olney

Lo scenario critico contemporaneo, all’interno del quale si sono succeduti gli interventi di studiosi che negli ultimi due decenni soprattutto hanno collaborato all’ampliamento delle già nutrite ricerche sulla scrittura autobiografica, sembra sostanzialmente poggiare su alcune tendenze preponderanti: si è andata intanto esaurendo, secondo Bartolo Anglani, quella vera e propria mania «di definire e categorizzare che aveva contribuito a configurare

33

G. GUDMUNDSDÓTTIR, Borderlines. Autobiography and Fiction in Postmodern Life Writing, Amsterdam-New York 2003, p. 1.

34

Mutuo questa espressione da Den Toonder, che la utilizza per designare «les oeuvres novatrices des nouveaux romanciers [e.g. George Perec, Patrick Modiano, Philippe Sollers e Michel Leiris]» (J.M.L.DEN TOONDER, op. cit., p. 6). Sebbene le considerazioni di Den Toonder siano ristrette alla sola letteratura francese, è impossibile non scorgere nelle «nuove autobiografie» alcuni dei caratteri più pregnanti delle autobiografie postmoderne, a partire dalla «mise en question du critère de véracité» e dalla tematizzazione «[de] l’impossible séparation entre fiction et réalité», che si realizza a livello testuale per mezzo della sovversione del patto autobiografico, e dell’introduzione di elementi finzionali, richiami autotestuali e riflessioni metanarrative (cfr. ivi, passim).

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il territorio dell’autobiografia ma lo aveva anche irrigidito in una problematica prevalentemente formalistica», e parallelamente «[a]l graduale tramonto e talora la quasi totale scomparsa di alcune preoccupazioni tematiche e disciplinari caratteristiche dei decenni precedenti»35, si è optato per un orientamento che tenga conto delle specificità storico-contestuali del genere, e sia capace di analizzare le marcature più sintomatiche della discorsività autobiografica36.

Uno dei denominatori comuni della ricerca critica è l’immancabile confronto con le teorie avanzate da Philippe Lejeune, le quali, pur costituendo il presupposto di un gran numero di contributi nel campo della letteratura dell’io, vengono quasi invariabilmente abbandonate a favore di più mobili e articolati orizzonti speculativi.

Dal momento che il fenomeno si può spiegare se si hanno presenti gli snodi fondamentali degli studi lejeuniani, sarà opportuno accennare brevemente ai contenuti de

Le pacte autobiographique (1975), il volume in cui il critico francese articola in modo più

compiuto i problemi di «memoria, […] costruzione della personalità [e] autoanalisi» associati a quello che lui stesso definisce l’atto autobiografico37.

Nel Pacte Lejeune descrive l’autobiografia in questi termini:

Récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l’histoire de sa personnalité38

e specifica che tale definizione mette in gioco quattro categorie di elementi:

forma del linguaggio: a) racconto

b) prosa;

soggetto trattato: vita individuale, storia di una personalità;

35

Cfr. B.ANGLANI, «Introduzione al repertorio sull’autobiografia», cit., rispettivamente p. 26 e p.

25. 36

Mutuo quest’ultima espressione dal seguente articolo: C. LOCATELLI, «Rappresentazione e referenza autobiografica in Moments of Being di Virginia Woolf», in E. Agazzi – A. Canavesi, op.

cit., pp. 137-62, qui p. 143.

37

Il patto autobiografico è il risultato e la diretta – oltre che complementare – continuazione degli studi di poetica e critica letteraria pubblicati da Lejeune a partire dal 1971, ai quali rinviamo per eventuali riscontri: L’Autobiographie en France, Colin, Paris 1971, Exercices d’ambiguïté, lectures

de Si le grain ne meurt, Lettres Modernes, Paris 1974 e Lire Leiris, autobiographie et langage,

Klincksieck, Paris 1975. Per quanto concerne il testo in esame, vale la pena ricordare che il primo capitolo del Pacte era già comparso in rivista (P.LEJEUNE, «Le pacte autobiographique», Poétique,

14, 1973, pp. 137-63), mentre l’ultimo era stato invece presentato, con il titolo «Autobiographie et histoire littéraire», a un colloquio sull’autobiografia tenutosi alla Sorbona e poi pubblicato sulla

Revue d’histoire littéraire de la France (75, 1975, pp. 957-94).

38

(16)

situazione dell’autore: identità dell’io scrivente (il cui nome ha come referente una

persona reale) e del narratore; posizione del narratore:

a) identità narratore-protagonista

b) visione retrospettiva della storia narrata39.

I criteri individuati da Lejeune (forma del linguaggio, soggetto trattato, situazione dell’autore, posizione del narratore) sono vincolanti nello studio del genere, per cui le opere che li soddisfano in modo parziale non possono considerarsi delle vere autobiografie, come accade nel caso di altri generi della letteratura intima, come le memorie, la biografia, o il romanzo personale.

Naturalmente, non tutte le categorie hanno lo stesso grado di normatività: ad esempio, pur dovendo essere in larga misura un racconto, la narrazione autobiografica conferisce uno spazio più o meno variabile al discorso; la narrazione deve essere principalmente retrospettiva, ma spesso si generano strutture temporali molto complesse, che rendono palese l’attiguità con altri generi (l’autoritratto, il diario, le memorie); l’autobiografia si deve concentrare sostanzialmente sulla crescita del soggetto e la strutturazione del suo mondo interiore, però ciò non esclude la presenza di digressioni relative alla cronaca o al contesto politico-sociale.

Tra i quattro criteri formulati da Lejeune, uno solo è imprescindibile, ed è quello dell’identità tra autore (persona che produce materialmente il testo), narratore (istanza testuale) e personaggio, la cui coincidenza determina molto spesso l’adozione della prima persona grammaticale (la narrazione è quindi, usando la terminologia genettiana, di tipo autodiegetico).

Prendendo nota di quanto affermato da Gérard Genette sull’esistenza di racconti in prima persona che non presuppongono l’identità di narratore e personaggio (racconto allodiegetico, per utilizzare il consueto lessico derivato dalla codificazione genettiana)40, Lejeune aggiunge che esistono anche autobiografie alla terza persona, in cui personaggio principale e narratore coincidono (coincidenza di identità), sebbene non venga utilizzata la prima persona (non coincidenza di persona grammaticale): in questo caso l’identità, «n’etant plus établie à l’intérieur du texte par l’emploi du ‹je›», è stabilita indirettamente, «mais sans aucune ambiguïté, par la double équation: auteur = narrateur, et auteur = personnage, d’où l’on déduit que narrateur = personnage, même si le narrateur reste implicite»41.

39

Cfr. ibidem. 40

Il riferimento è a G.GENETTE, Figures III, Seuil, Paris 1972. 41

P. LEJEUNE, op. cit., p. 16. La scelta di scrivere la propria storia in terza persona è di tipo contrastivo e locale, e dipende da motivazioni diverse, come attestato dalle memorie storiche o

(17)

Per ovviare alle incongruenze semantiche che possono invece generarsi dinanzi alla non convergenza di identità (narratore, autore, personaggio) e persona grammaticale (io, tu, egli), è necessario, secondo Lejeune, rapportare i problemi dell’autobiografia al nome proprio, ovvero all’elemento che nell’enunciazione contribuisce alla referenza: confutando le teorie di Benveniste sull’uso della prima persona grammaticale, il critico fa infatti notare che ognuno «utilisant le ‹je›, ne se perd pas pour autant dans l’anonymat, et est toujours capable d’énoncer ce qu’il a d’irréductible en se nommant»42

.

Nell’autobiografia, come in ogni testo a stampa, l’enunciazione appartiene solitamente alla persona che appone la propria firma sulla copertina, per cui:

C’est dans ce nom que se résume toute l’existence de ce qu’on appelle l’auteur: seule marque dans le texte d’un indubitable hors-texte, renvoyant à une personne réelle, qui demande ainsi qu’on lui attribue […] la responsabilité de l’énonciation de tout le texte écrit. Dans beaucoup de cas, la présence de l’auteur dans le texte se réduit à ce seul nom. Mais la place assignée a ce nom est capitale: elle est liée, par une convention sociale, à l’engagement de responsabilité d’une personne réelle43

.

Il presupposto fondamentale dell’autobiografia si riassume perciò nell’identità di nome

tra autore – il cui nome appare sul frontespizio dell’opera –, narratore e personaggio, che si può stabilire implicitamente, nella relazione tra autore e narratore (relazione che trova a sua volta conferma nel titolo o nella sezione iniziale dell’opera)44

, o esplicitamente, nel nome che il narratore-personaggio si attribuisce nel racconto e che coincide con quello dell’autore in copertina.

Il nome dell’autore, come ribadisce anche Genette, riveste una funzione contrattuale variabile a seconda dei generi: nella narrazione altamente referenziale dell’autobiografia, la sua importanza è massima, in quanto si tratta di un tipo di scrittura in cui la credibilità e l’affidabilità della testimonianza si fonda sull’identità dello stesso testimone45

.

È il patto di lettura stabilito con il lettore a rendere possibile la distinzione tra autobiografia e romanzo autobiografico, che comprende in generale i racconti personali dove l’identità del narratore si sovrappone a quella del personaggio, e i racconti in cui non dalle autobiografie religiose. Per approfondimenti in materia, cfr. il glossario in appendice, alle voci autobiografia alla seconda persona e autobiografia alla terza persona.

42

P.LEJEUNE, op. cit., p. 22. 43

P.LEJEUNE, ivi, pp. 22-23. Corsivi nel testo. 44

Tipico è anche l’uso di uno pseudonimo, in merito al quale rinviamo alle pp. 24-26 del saggio in questione. Sul tema dello pseudonimato, cfr. inoltre il fondamentale G. GENETTE, Seuils, Seuil, Paris 1987, pp. 46-53; sul rapporto di tipo contrastivo tra nome (nome come essenza/essere di ogni individuo, simbolo dell’identità sociale, emblema della relazione necessaria con l’altro) e pseudonimo (pseudonimo come anonimato/negazione dell’essere, arte dell’apparire e della dissimulazione, alterazione volontaria delle relazioni umane, rottura con l’altro/rottura delle relazioni famigliari e sociali, rivendicazione radicale di autonomia), cfr. infine J. STAROBINSKI,

L’œil vivant: essai (Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal), Gallimard, Paris 1961, pp. 190-99.

45

(18)

si verifica alcuna sovrapposizione tra narratore e personaggi, tutti indicati alla terza persona46.

Non è semplice distinguere la fiction autobiografica dall’autobiografia, poiché da un punto di vista analitico può non comparire nessuna differenza esplicita nei moduli narrativi utilizzati da entrambe, e non è raro che il romanzo imiti le tecniche narrative del racconto di sé per fornire al lettore una garanzia di credibilità e verosimiglianza.

Per Lejeune l’unico discrimine possibile tra autobiografia e romanzo è rappresentato dal patto autobiografico, mediante il quale è sancita l’identità di autore-narratore-personaggio, e si fissa una corrispondenza tra testo (identità autore-narratore-personaggio) e fuori-testo (il nome in copertina).

Accanto al patto autobiografico si situa il patto romanzesco, caratterizzato dalla pratica manifesta della non-identità (autore e personaggio hanno nomi diversi), e dall’attestato di finzione, che Lejeune individua nel sottotitolo «romanzo» di solito presente in copertina47.

Quando un romanzo non è letto solo come pura fiction riferita «a una verità della natura umana», ma anche come «fantasticheria rivelatrice di un individuo»48, ha infine origine il

patto fantasmatico, una forma indiretta e celata di patto autobiografico che all’interno di

un’opera genera a sua volta uno spazio dai confini sempre più indeterminati, fluttuante tra autobiografia e romanzo.

Fin dalle indagini germinali condotte ne L’autobiographie en France, e soprattutto in seguito alla pubblicazione del Pacte, sono state molte le divergenze rispetto alle definizioni lejeuniane, tanto che dalla fine degli anni ’70 varie voci sono intervenute a confutarne, implicitamente o meno, gli assiomi centrali. Michel Beaujour, ad esempio, si concentra sulle “zone d’ombra” dell’analisi di Lejeune, i cui modelli risultano in effetti applicabili a una vasta gamma di opere ma non a tutte49. Il critico conferisce perciò un diverso

46

Cfr. P.LEJEUNE, op. cit., p. 25. 47

Occorre tener presente che il patto autobiografico non ha la stessa funzione in tutti i testi e agisce in concomitanza con le altre forme contrattuali individuate (oltre al patto romanzesco, il patto

referenziale, in merito al quale cfr. rispettivamente le pp. 29 e 36 del Pacte), per cui se in alcuni

testi esso si trova in posizione dominante ed è il fulcro attorno al quale si sviluppa l’opera, in altri assume un ruolo secondario in rapporto alle attese dei lettori. Questo è ciò che motiva la descrizione dell’autobiografia come l’effetto di un contratto storicamente variabile, «un mode de lecture autant qu’un type d’écriture» (ivi, p. 45).

48

Cfr. ivi, p. 42. 49

Solo un anno prima di Beaujour, Georges May constata che, dinanzi agli sforzi di Lejeune e di chi come lui vuole offrire una più chiara definizione del genere autobiografico, «[l]a formation

d’une doctrine critique sur l’autobiographie [n’est] encore de nos jours qu’a ses débuts» (G.MAY, L’autobiographie, PUF, Paris 1979, p. 10). Il critico riconosce quindi la lungimiranza di

Wayne Shumaker, il quale nel suo fondamentale studio sull’autobiografia inglese aveva sottolineato la necessità di tracciare una storia del genere, ma aveva allo stesso tempo individuato in tale impresa il rischio di creare delle delimitazioni del tutto arbitrarie e di conseguenza contestabili (cfr. W. SHUMAKER, English Autobiography. Its Emergence, Materials, and Form, California UP, Berkeley-Los Angeles 1954, p. 1). Criticando implicitamente i postulati lejeuniani, May aggiunge infine che «le moment n’est pas encore venu de formuler une définition précise,

(19)

significato alla scrittura autoreferenziale e, tenendo in considerazione il decentramento e le innumerevoli rifrazioni dell’io della modernità, usa il termine autoritratto50

, con il quale rimanda a una descrizione polimorfa ed eterogenea, che in opposizione ai sintagmi propri della narrazione autobiografica (per Lejeune una narrazione continua, tale da rendere percepibile la «storia sistematica della personalità»)51:

se conçoit comme le microcosme, écrit à la première personne, d’un parcours encyclopédique, et comme l’inscription de l’attention portée par JE aux choses rencontrées au long de ce parcours. Non pas portrait solipsiste – ou narcissique – d’un JE coupé des choses, ni description objective des choses en elles-mêmes, indépendamment de l’attention que JE leur porte: l’autoportrait est une prise de conscience textuelle des interférences et des homologies entre le

JE microcosmique et encyclopédie macrocosmique52.

Anche una critica di rigorosa osservanza lejeuniana come Elizabeth Bruss non ha esitato a contestare i termini del patto autobiografico, il cui valore rimarrebbe per Lejeune inalterato anche quando «le lecteur d’aujourd’hui [ne] partage [pas] les attitudes et les rôles qu’on attendait voir assumés par le public originel de l’œuvre et qu’il assumait effectivement»53.

L’autore, ricorda Bruss, non può però concludere legittimamente un contratto con il pubblico senza che quest’ultimo sia in grado di comprendere e accettare le regole che governano l’atto letterario: Lejeune, invece, sembra essersi lasciato influenzare dall’ottica di un lettore del ventesimo secolo, che lo condiziona altresì nell’esigenza di porre, tra l’autobiografia e i generi della letteratura intima, delle distinzioni di fatto sconosciute alle epoche precedenti54.

Per questo lo studio dell’autobiografia – e, in senso lato, di ogni genere letterario – deve essere rapportato allo studio di un fenomeno linguistico (di un atto illocutorio, precisa Bruss attingendo alla teoria degli speech acts di John Searle) nel quale si riflettono determinate situazioni pragmatiche, a loro volta dipendenti dalle relazioni tra uso del linguaggio e struttura sociale («[l]a valeur de l’autobiographie [...] est le reflet de

complète et universellement acceptée de l’autobiographie» (G.MAY, op. cit., p. 11). Va peraltro segnalato che già dagli atti del colloquio sull’autobiografia tenutosi alla Sorbona nel 1975 (dunque a ridosso della prima formulazione del patto elaborata ne L’autobiographie en France) si possono raccogliere alcune delle prime reazioni alle tesi lejeuniane, tra le quali spicca quella dello stesso Gusdorf, di cui parleremo tra breve.

50

Per approfondimenti in materia rinviamo alla voce corripondente nel glossario in appendice. 51

Cfr. P.LEJEUNE, L’autobiographie en France, cit., pp. 56-57.

52

M.BEAUJOUR, Miroirs d’encre, Seuil, Paris 1980, p. 30. Corsivi nel testo. 53

Cfr. E.BRUSS, «L’autobiographie considerée comme acte littéraire», Poétique, 17, 1974, pp.

14-26, qui p. 14, nota 1. 54

(20)

distinctions soumises au contexte, l’identité de l’auteur, et la technique – toutes conditions soumises au changement»)55.

Tra i più convinti oppositori di Lejeune troviamo poi Paul De Man, che nel contrastare la perentorietà metodologica del collega e la fiducia nella possibilità di un’autocoscienza alla quale fa da tramite il linguaggio («[t]he name on the title page is not the proper name of a subject capable of self-knowledge and understanding, but the signature that gives the contract legal, though by no means epistemological, authority»)56, desostanzializza il soggetto autobiografico e trasforma l’autobiografia in una figura tropologica.

Trattandosi di una costruzione retorica, il racconto di sé non è definibile come un genere letterario a tutti gli effetti, bensì come una costruzione

that occurs, to some degree, in all texts. The autobiographical moment happens as an alignment between the two subjects involved in the process of reading in which they determine each other by mutual reflexive substitution […]. This specular structure is interiorized in a text in which the author declares himself the subject of his own understanding, but this merely makes explicit the wider claim to authorship that takes place whenever a text is stated to be by someone and assumed to be understandable to the extent that this is the case57.

Sottesa al concetto di figure of reading è la tesi che l’entità autoriale sia un’entità enunciativa inferita direttamente dal lettore, al quale spetta identificare nel nome proprio del protagonista la figura dello stesso autore e verificarne l’autenticità58. L’associazione del nome a un referente specifico e reale fa della prosopopea la figura retorica dell’autobiografia, poiché con essa l’astratto nome proprio assume l’intelligibilità caratteristica di un volto concreto, imprimendosi con forza maggiore nella mente.

Ogni opera autobiografica, di conseguenza, mette in atto un processo dinamico di

facing e defacing, che vede l’autobiografo indossare molte maschere senza tuttavia mai

svelare per intero qualcosa del suo io più autentico59.

55

E.BRUSS, op. cit., p. 26. Per una trattazione più ampia dell’argomento qui appena accennato, cfr. E.BRUSS, Autobiographical Acts. The Changing Situation of a Literary Genre, Johns Hopkins UP, Baltimore-London 1976.

56

P.DE MAN, «Autobiography as De-Facement», in Id., The Rhetoric of Romanticism, Columbia UP, New York 1984, pp. 67-81, qui p. 71.

57

P.DE MAN, op. cit., p. 70. Corsivi nel testo. 58

Cfr. ivi, pp. 71-72. Come chiarisce Carla Locatelli in merito all’interpretazione di De Man, il lettore è chiamato a svolgere «a work of referential-interpretive projection», mediante il quale scompone le tre componenti etimologiche dell’autobiografia – il sé, la vita e la scrittura – e ne ricompone in seguito il significato. La ricostruzione delle tre componenti eterogenee dell’autobiografia implica sia «the responsibility of judgment», sia «the task of recontextualizing each one of these three auto-bio-graphical components» (C. LOCATELLI, «Is s/he my Gaze? (Feminist) Possibilities for Autobiographical Co(n)texts», in M. Bottalico – M.T. Chialant, op. cit., pp. 21-32, qui p. 7. Corsivi nel testo).

59

(21)

Il dibattito svoltosi a ridosso delle tesi di Lejeune non si esaurisce comunque con le critiche degli anni ’70 e ’80, ma si protrae per tutto il decennio successivo e anche oltre, con studi che si muovono su un tracciato lungo il quale l’impegno nel ridisegnare la costellazione dei generi autobiografici e nel fornirne un bilancio si affianca alla discussione delle problematiche sollecitate dai suoi postulati.

I temi che informano tali interventi teoretici ruotano intorno alle interpolazioni dell’autobiografia con i generi letterari a essa affini, alla datazione, all’identità del soggetto e alla referenzialità, che diviene un criterio estremamente fuorviante nel momento in cui è assunta come metro valutativo dell’autobiografia.

Molti teorici evidenziano innanzitutto come le rigide partizioni previste nel Pacte – l’autobiografia, asserisce perentoriamente Lejeune, «ne comporte pas de degrés: c’est

tout ou rien»60 – impediscano di cogliere la presenza di forme ibride, dai confini non sempre identificabili61. Forme alle quali si perviene attraverso una serie di complessi mutamenti epocali di cui Lejeune rende conto solo in parte, quando vede nell’autobiografia una “conquista” dell’epoca moderna che raggiunge il proprio apogeo con Rousseau, del quale non si discute tanto il ruolo di spartiacque nella storia del genere, quanto il merito di essere stato il primo a sondare in modo consapevole ed esemplare, e con l’ausilio della scrittura, le sconosciute regioni dell’animo umano.

Tra i primi a tacciare il critico per il suo sostanziale a-storicismo, Genette precisa che:

Lejeune, qui voit, sans doute à juste titre, dans l’autobiographie un genre relativement récent, la définit en des termes […] où n’intervient aucune détermination historique: l’autobiographie n’est sans doute possible qu’a l’époque moderne, mais sa définition, combinatoire de traits thématiques (devenir d’une individualité réelle), modaux (narration autodiégétique retrospective) et formels (en prose), est typiquement aristotélienne, et rigoreusement intemporelle62.

Oltre che nella datazione, un eccesso di dogmatismo è parimenti ravvisabile nei modelli elaborati da Lejeune per illustrare il rapporto tra persona narrativa e persona grammaticale. Difatti essi non sembrano né tener conto dei giochi di identità e degli sdoppiamenti dell’io tipici di numerose autobiografie contemporanee, né cogliere, «pur nella permanenza formale e anagrafica del nome proprio»63, eventuali scarti tra autore, narratore e

60

P.LEJEUNE, op. cit., p. 25. 61

Su questo punto interviene opportunamente D’Intino, il quale specifica in merito che «[l]’ipotesi di una nascita del genere nell’ultimo terzo del XVIII secolo e nei primi decenni del XIX regge […] soltanto se si considera l’autobiografia come prodotto “artistico”. La storia del genere, invece, si è svolta in misura preponderante all’insegna della non-letterarietà, per cui l’autobiografia d’arte rappresenta piuttosto l’eccezione che la regola» (F.D’INTINO, op. cit., p. 256).

62

G.GENETTE, Introduction à l’architexte, Seuils, Paris 1979, pp. 84-85. Su questa posizione si era già espresso Gusdorf nel seguente articolo: «De l’autobiographie initiatique à l’autobiographie genre littéraire», Revue d’histoire littéraire de la France, 75(6), 1975, pp. 957-94.

63

Figura

Fig.  1.  Nel  Medioevo  la  rota  Virgilii  veniva  usata  per  esemplificare  la  corrispondenza  tra  lo  stile  umile,  medio  e  sublime

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