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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

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OSTITUZIONE

I

TALIANA”

1.1 INTRODUZIONE

Il tema della revisione costituzionale, soprattutto a partire dall’introduzione delle Costituzioni scritte, lunghe e rigide, è, in tutti gli ordinamenti dotati di una propria carta costituzionale, tra le questioni più dibattute inerenti alla “Costituzione come fonte del diritto”.

Sin dal momento dall’entrata in vigore della nostra Costituzione, legislatore, giurisprudenza, dottrina e opinione pubblica, sono dovuti costantemente scendere in campo per affrontare questioni, spesso molto delicate, relative proprio alla procedura per la revisione del testo costituzionale introdotta dall’Assemblea costituente con l’art. 138Cost.

Con questo studio si vuole affrontare la complicata tematica della revisione costituzionale, dapprima attraverso un’introduzione generale del concetto di Costituzione e un’analisi relativa alle sue caratteristiche più rilevanti e al percorso storico sviluppatosi dal 1948 ad oggi; si passerà poi allo studio specifico del testo costituzionale: esaminando l’articolo 138Cost. saranno anzitutto esposte le particolari fasi da seguire per portare a termine il procedimento di revisione, in secondo luogo i limiti previsti oltre i quali tale procedura aggravata non può spingersi, ed infine le varie deroghe al procedimento ordinario

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2 di revisione, proposte nel corso degli anni, proprio per cercare di raggiungere l’obiettivo della riforma costituzionale aggirando la disciplina prevista.

1.2 LA COSTITUZIONE COME FONTE

DEL DIRITTO

Che cosa è la Costituzione?

E’ una domanda a cui non è facile dare una risposta.

Ancora oggi, forse, non è possibile trovare un'univoca definizione di questo complesso vocabolo. E ciò lo si deve, in particolare, al fatto che, nel corso dei secoli, si sono susseguiti molteplici provvedimenti, emanati dalle più svariate autorità, ben distinguibili tra loro per origini, modalità di produzione e caratteristiche varie, che tuttavia sono stati denominati tutti con tale termine.

Il termine, derivante dal latino “Constitutio”, originariamente veniva utilizzato in epoca romana per indicare una legge emanata dall’imperatore ritenuta di particolare importanza, ed è proprio in tale particolare accezione che è tuttora usato nel diritto canonico per indicare rilevanti decisioni prese dal Papa. In epoca moderna e contemporanea, invece, l'uso più comune del termine fa riferimento alla fonte “superprimaria” e fondamentale di un ordinamento giuridico, ovvero alla legge posta al vertice gerarchico delle fonti di diritto, da cui, di conseguenza, tutte le altre fonti traggono la propria legittimità.

Il concetto di Costituzione può, dunque, indicare svariate tipologie di provvedimenti, anche molto diversi tra loro, rendendo assai arduo il percorso per giungere ad una definizione che possa riferirsi pienamente e in modo assoluto a tutte queste svariate tipologie di atti. Provando a cercare una definizione quanto più generale possibile e facendo comunque riferimento al suo utilizzo più diffuso, attualmente è possibile considerare la Costituzione come quel “complesso di norme che costituiscono l'atto normativo fondamentale dell'ordinamento giuridico di uno stato, rappresentando l'immagine riflessa della comunità a cui tale disciplina si riferisce, definendone la natura, la forma, la struttura e le regole fondanti, permettendo, solo in tal modo, a tale comunità di identificarsi a pieno in tale complesso di norme”. Le Costituzioni concepite in tal modo, hanno cominciato a svilupparsi a partire dalla fine del 1700, e possono essere classificate sulla base di alcune caratteristiche fondamentali.

Anzitutto possono essere distinte in base alla provenienza, ossia per le modalità con cui è stata data origine a tale fonte: in alcuni casi, come in Francia e negli Stati Uniti, tale corpo di leggi fondamentali rappresenta il risultato dell’esercizio della sovranità del popolo, che

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3 avviene solitamente attraverso il ricorso ad un’assemblea costituente1.

In altri casi, la Costituzione nasca da una cessione di autorità da parte di un monarca. Si parlerà allora di “Costituzione ottriata”, ovvero concessa da un sovrano, sino a quel momento regnante assoluto, così come avvenuto nel caso dello Statuto Albertino2.

In secondo luogo, è possibile effettuare una classificazione in base ad un’altra importante caratteristica: la maggioranza degli Stati, anche per esigenza di certezza del diritto, presenta, infatti, alla base del proprio ordinamento una Costituzione scritta (come ad esempio nei casi di Italia, Francia e Stati Uniti d'America); in altri paesi, invece, e solitamente si tratta di paesi di lunga tradizione democratica, non troviamo una Costituzione esplicita, ma vengono ritenute sufficienti alcune leggi di riferimento, considerate come fondamentali, che, accompagnate da una serie di consuetudini radicatesi nel tempo, nel loro complesso possono essere considerate come una Costituzione materiale3.

1.3 LE PRIME COSTITUZIONI MODERNE

E IL LORO VALORE PARADIGMATICO

Le scelte effettuate dall’Assemblea costituente del 1946, in particolare riguardo ad alcune determinate caratteristiche della Costituzione, come quella rappresentata dalla “rigidità”, sono certamente dovute sia alle vicende verificatesi in Italia dal 1861, culminate col ventennio di regime fascista, sia alle esperienze costituzionali degli ordinamenti giuridici stranieri.

L’esperienza costituzionale muove i primi passi negli Stati Uniti, quando nel 1787, in seguito alla proclamazione di indipendenza, fu adottata dalla Convenzione costituzionale a Filadelfia la Costituzione degli Stati Uniti d’America, tutt’oggi in vigore, ovviamente scritta, rigida e garantita da un controllo di conformità costituzionale nato in seguito al famoso giudizio della Corte Suprema “Marbury vs Madison” del 1803.

Sull’esempio di quanto accaduto nel nuovo continente, anche in Europa cominciò a diffondersi l’uso di questa fonte: in particolare in Francia, dopo gli eventi della rivoluzione del 1789, si vennero ad avvicendare, tra il 1791 e il 1814 una lunga serie di Costituzioni. In

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Si tratta di una commissione, a seconda delle varie esperienze, formata da politici, esperti di diritto, tecnici, a cui si affida il compito di elaborare la norma fondamentale di quel determinato ordinamento.

2 Lo Statuto Albertino venne concesso da Re Carlo Alberto “per la grazie di Dio” il 4 marzo 1848 ai sudditi del Regno Sardo-Piemontese.

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L'esempio certamente più rilevante è quello del Regno Unito con le norme della Magna Charta, l'importante documento in cui si racchiude anche il sistema dell'Habeas Corpus.

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4 questo caso tuttavia il modello sviluppatosi fu molto diverso da quello statunitense: si tratta, infatti, di atti varati e abrogati in stretta successione, e quindi destinati a durare poco nel tempo a causa dei continui rovesciamenti di potere che caratterizzarono la scena politica francese di allora, dovuti agli eventi tumultuosi della rivoluzione, dell’età napoleonica e della restaurazione.

Per l’affermazione in Europa di Costituzioni, come quella americana, rigide e garantite da sistemi di giustizia costituzionale, si dovrà attendere ancora più di mezzo secolo.

Questo ritardo può essere sicuramente ricondotto all'influenza che ebbe proprio l’esperienza costituzionale francese, dalla rivoluzione in poi, sullo sviluppo di gran parte degli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale.

Dalla tradizione francese del tempo, in particolare, si diffuse nel resto d’Europa, il principio della “sovranità della legge emanata dal Parlamento”. Questo concetto si fonda su un punto fermo e indiscutibile, ovvero quello della non suscettibilità della legge a controlli da parte di organi terzi, diversi quindi dal Parlamento. La legge, in quanto espressione della volontà popolare, manifestata attraverso i meccanismi di rappresentanza politica, deve considerarsi l’atto sovrano per eccellenza e dunque una norma giusta a priori che non necessita di controlli esterni. Partendo da questa impostazione, in cui la natura del potere legislativo tende quasi a confondersi con l’esercizio del potere costituente, in quanto entrambi espressione della sovranità popolare, una distinzione formale tra legge e Costituzione, con conseguente riconoscimento della supremazia della seconda, non poteva certamente trovare spazio.

Ecco perché, a lungo, i grandi ordinamenti dell’Europa dell’ottocento, optarono tutti per l’emanazione di Costituzioni flessibili, assegnando, in tal modo, un ruolo centrale alla legge, senza prevedere alcun possibile rimedio giuridico nei confronti di eventuali violazioni dei principi costituzionali da parte del legislatore ordinario.

1.4 L’ESPERIENZA ITALIANA DALLO

STATUTO ALBERTINO AL FASCISMO

È facile constatare come l’esperienza costituzionale del nostro ordinamento si sia evoluta in perfetta sintonia con gli sviluppi del costituzionalismo europeo tra l’ottocento e il novecento.

Al passo di quanto stava accadendo nel resto d’Europa, il 4 marzo 1848 il Re di Sardegna Carlo Alberto firma e promulga lo “Statuto Albertino” destinato a restare in vigore fino all’avvento del fascismo4,

come legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia.

4 Con il fascismo, in realtà, lo Statuto Albertino non fu mai formalmente abrogato, ma semplicemente e sostanzialmente messo da parte, per poi tornare ad essere ripreso in considerazione, seppur in modo assolutamente provvisorio, in seguito alla caduta del fascismo stesso sino all'entrata in vigore della Costituzione italiana.

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5 Così come avviene negli altri paesi europei, anche lo Statuto Albertino nasce come “Costituzione di una monarchia costituzionale”: non è, infatti, il prodotto dell’attività costituente di un’apposita assemblea, ma si tratta di una Costituzione ottriata, quindi concessa per volontà e grazia del sovrano, per riaffermare l’organizzazione monarchica in chiave di governo rappresentativo, col conseguente abbandono del modello della monarchia assoluta.

Inoltre, sempre sull’esempio delle Costituzioni europee ad esso coeve, anche lo Statuto assume una caratteristica, che risulterà determinante nei decenni successivi, ovvero quella della flessibilità. Lo Statuto infatti non prevede alcun procedimento speciale, aggravato, per la modifica del proprio testo e, tanto meno, un sistema di controllo di legittimità costituzionale delle leggi.

Pur essendo considerata come legge fondamentale del regno, posta al vertice del sistema delle fonti, non solo, dunque, si tratta di una fonte derogabile, modificabile e integrabile semplicemente attraverso un atto legislativo ordinario, ma è proprio a quest’ultimo istituto che lo Statuto riserva il compito di dettare la disciplina attuativa delle disposizioni costituzionali dedicate alle materie più sensibili e delicate, come ad esempio quella rappresentata dalla tutela dei diritti di libertà5.

La flessibilità dello Statuto, che andava mostrando progressivamente la propria debolezza, condizionò non poco gli equilibri politici e sociali di tutto il successivo periodo storico. In breve tempo, a partire dalla sua entrata in vigore, proprio a causa di tale caratteristica, fu possibile trasformare gradualmente il nostro ordinamento da una monarchia costituzionale pura ad una monarchia parlamentare, sul modello tradizionale delle istituzioni inglesi. Benché, quindi, il potere esecutivo fosse detenuto completamente dal sovrano, sempre più spesso il Consiglio dei Ministri si rifiutò di restare in carica quando non risultava essere gradito dal Parlamento. Pur rimanendo l’istituto della nomina regia, si affermò, dunque, in via di consuetudine, il principio della fiducia riconosciuta al Governo da parte dell’Assemblea legislativa. In conseguenza di ciò, il potere di decisione politica passò, col tempo, dal monarca al Governo, il quale poteva dunque operare al meglio solo con la collaborazione della maggioranza parlamentare che lo appoggiava e gli riconosceva la fiducia.

Ma soprattutto, la debolezza dello Statuto e del sistema politico che si andò delineando, crearono una condizione di fragilità e di forte instabilità, destinata inevitabilmente a peggiorare con l’avvio della seconda fase della nostra storia costituzionale, segnata dall’avvento del regime autoritario fascista.

Lo stato autoritario si affermò come conseguenza della crisi dello stato liberale al termine del primo conflitto mondiale, e si venne a caratterizzare anzitutto per una sistematica contestazione delle istituzioni statuarie che si erano affermate durante il periodo di monarchia parlamentare; in secondo luogo per il rigetto verso il c.d.

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I diritti fondamentali vengono infatti solennemente proclamati dagli artt. 24 e seguenti dello Statuto, ma la loro concreta attuazione veniva interamente rimessa alle scelte politiche del legislatore, che risultava quindi totalmente libero di introdurre anche i limiti più incisivi al loro concreto esercizio.

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6 “pluripartitismo” che aveva contraddistinto la scena politica italiana, causando sempre governi deboli ed instabili; ed infine per la volontà di ripristinare in modo fermo e deciso l’autorità centrale dello Stato, in un contesto politico incapace di esprimere una guida forte, unica, solida per la nazione.

Tuttavia nonostante la volontà di andare a sostituire il vecchio ordinamento e pur introducendo una serie di incisive riforme nel diritto costituzionale previgente, il fascismo non giunse mai ad una completa revisione o eliminazione delle istituzioni pubbliche.

Nel 1940 l’Italia prende parte al secondo conflitto mondiale al fianco di Germania e Giappone, ma i risultati non sono quelli sperati. Mussolini e il fascismo, dopo la breve esperienza della Repubblica Sociale costituita nel 1943 nei territori del centro-nord, allora occupati dalle truppe tedesche, cadono definitivamente, tanto che nel luglio del 1943 il re può riprendere le funzioni attribuitegli dallo Statuto e nomina Capo del Governo il maresciallo Badoglio, il quale opta immediatamente e irrevocabilmente per la completa eliminazione di tutte le istituzioni fasciste.

Nel frattempo i partiti antifascisti si ricostituiscono in seno al Consiglio di Liberazione Nazionale, che assumerà, in quel periodo un ruolo di prim’ordine: da subito si dimostra fermamente ostile al semplice ripristino dell’ordinamento monarchico e dello Statuto, rivendicando la necessità di una nuova Costituzione e chiedendo la deposizione della monarchia a favore della repubblica. Col “patto di Salerno”, nell'aprile 1944, monarca e CLN stipulano la loro intesa: il re avrebbe abdicato nominando luogotenente il principe ereditario; in seguito sarebbe stata convocata un'Assemblea costituente con il compito fondamentale di dare alla luce una nuova Costituzione, mentre, solo alla fine della guerra, si sarebbe deciso sulla sorte della monarchia e quindi riguardo alla forma di stato.

Con due successivi decreti luogotenenziali si stabilì, poi, che la nomina dei membri dell’Assemblea costituente sarebbe spettata, a suffragio universale6, al corpo elettorale, il quale con apposito referendum

avrebbe anche dovuto effettuare la scelta istituzionale tra monarchia e repubblica.

1.5 L’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Il 2 giugno del 1946 si svolgono, con sistema proporzionale, le elezioni per la nomina dei membri dell’Assemblea Costituente, unitamente al referendum istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica, da cui, come ben sappiamo, uscirà vincitrice quest’ultima.

Con le elezioni per l’Assemblea si andò a delineare quella che sarebbe

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Con il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945, il Consiglio dei ministri, presieduto da Bonomi, aveva riconosciuto per la prima volta nel nostro paese il diritto di voto anche alle donne.

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7 stata, nei decenni successivi, la composizione del sistema dei partiti caratterizzanti la politica italiana: circa un terzo dei voti andò al partito cattolico (Democrazia Cristiana), circa un terzo ai partiti della sinistra (comunista e socialista), il restante terzo ai partiti minori di diverso orientamento. Saranno infatti questi, e in particolare la DC e il PCI, i partiti che domineranno la scena politica fino agli anni ‘90. I Costituenti avviano la propria attività il 25 giugno 1946. Lo stesso giorno l'Assemblea nomina suo presidente Giuseppe Saragat e il 28 giugno elegge capo provvisorio dello Stato il liberale Enrico De Nicola, in attesa delle nuove norme per eleggere il primo Presidente della Repubblica. La carica di Presidente del Consiglio dei ministri viene, nel frattempo, ricoperta dal segretario democristiano Alcide De Gasperi.

Il 27 dicembre 1947 i lavori terminano definitivamente con la promulgazione da parte di De Nicola della Costituzione italiana che entrerà in vigore il 1 gennaio 1948.

Così, per la prima volta, il popolo italiano ha una Costituzione propria, elaborata direttamente dai propri rappresentanti, liberamente e democraticamente, eletti.

La Costituzione repubblicana si compone di 139 articoli, dei quali, i primi dodici riguardano i c.d. principi fondamentali; i successivi quarantadue costituiscono la parte dedicata ai “diritti e doveri dei cittadini”. I rimanenti ottantacinque articoli compongono la seconda parte della Costituzione, con la quale si disciplina l'ordinamento della repubblica, nelle sue diverse articolazioni, a cui corrispondono altri sei distinti titoli: il Parlamento; il Presidente della Repubblica; il Governo; la Magistratura; le Regioni, le Province, i Comuni; le Garanzie costituzionali.

La prima questione affrontata dall’Assemblea fu quella relativa alle modalità da seguire per la conduzione dei lavori, e a riguardo, fu deciso di andare a formare una commissione redazionale, la c.d. "Commissione dei 75", formata da altrettanti membri, presieduta dall’onorevole Meuccio Ruini, con il compito di redigere un progetto unitario di Costituzione da sottoporre in seguito all'esame di tutta l'Assemblea.

La Commissione dei 75, per meglio organizzare i propri lavori, si suddivise ulteriormente in tre sottocommissioni, le quali si occuparono rispettivamente di:

1. “Diritti e Doveri dei Cittadini”; presieduta da Umberto Tupini (DC);

2. “Organizzazione Costituzionale dello Stato della Repubblica”; presieduta da Umberto Terracini (PCI);

3. “Rapporti Economici e Sociali”; presieduta da Gustavo Ghidini (PSI).

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8 Infine, per elaborare al meglio tutto il materiale prodotto dalle tre sottocommissioni, venne creato il c.d. "Comitato dei 18”: un più ristretto comitato di redazione che si occupò di redigere la Costituzione, coordinando ed armonizzando i lavori delle tre sottocommissioni.

La “Commissione dei 75” terminò i suoi lavori il 12 gennaio 1947 ed il successivo 4 marzo poté avviarsi il dibattito sul testo presentato in aula.

Certamente lo svolgimento dei lavori da parte delle commissioni fu tutt’altro che agevole; i dibattiti furono spesso lunghi e accesi, si verificarono anche momenti di tensione e rottura, soprattutto in riferimento alla parte riguardante la forma di governo. Ma ciò che realmente permise di ottenere questo grande risultato, qual è la Costituzione della Repubblica Italiana, fu lo spirito di compromesso che caratterizzò l'intera attività dell’Assemblea. La maggior parte di questi articoli venne infatti approvata con larghissime maggioranze, ed il loro contenuto fu, in molti casi, il frutto dell'incontro di idee, posizioni e valori, spesso diversi e contrari, dei vari partiti rappresentati all'interno dell'Assemblea Costituente, tuttavia uniti dalla comune lotta antifascista e dalla ferma volontà di dare all'Italia una Costituzione in grado di trasformare in precise disposizioni tutte quelle speranze e quelle attese per un profondo mutamento dello Stato e della società.

La Costituzione italiana nasce dalla confluenza in un'unica direzione di diversi principi ispiratori: all'idea democratica di base, condivisa da tutti gli schieramenti, si uniscono i valori dell'antica tradizione liberale italiana, quelli propri del socialismo e dei partiti della sinistra, ed infine quelli della dottrina sociale della Chiesa a cui si ispirava la Democrazia Cristiana. Il risultato che ne conseguì venne definito da molti un “compromesso costituzionale”, che dimostrò il forte desiderio di edificare un impianto costituzionale in cui ogni italiano potesse pienamente identificarsi.

La Costituzione repubblicana non nasce quindi dalla preponderanza di una parte politica sulle altre, ma da un'intesa, che si sarebbe dovuta trasformare in una vera e propria guida per le variabili maggioranze di governo che, un domani, si sarebbero succedute e, interpretando le disposizione costituzionali in modo diverso in base alle proprie ideologie, avrebbero dovuto poi tradurla in provvedimenti concreti. Inoltre, nella memoria dei giuristi che contribuirono, dentro e fuori l’Assemblea costituente, alla nascita della Costituzione repubblicana, erano ben presenti le tragiche conseguenze che aveva comportato l’intrinseca debolezza dello Statuto flessibile, nonché la mancata previsione di un qualsiasi rimedio giuridico contro i possibili abusi da parte del legislatore a danno dei principi costituzionali.

Questa consapevolezza, sviluppatasi, come già detto, grazie agli errori del passato e all’esempio ripreso dalle altre esperienze costituzionali europee, determinò una scelta che rappresentò una vera svolta decisiva: i Costituenti, infatti, decisero con assoluta fermezza di imprimere alla Costituzione il carattere della “rigidità”, collocandola al vertice del sistema delle fonti dell'ordinamento giuridico ed introducendo, attraverso l'articolo 138, un particolare procedimento aggravato per la revisione costituzionale.

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9 In tal modo dunque vengono sanciti due principi, il “principio gerarchico” ed il “principio di rigidità”, ritenuti, in quel momento, assolutamente necessari per la salvaguardia, non solo della stessa Costituzione, ma dell’ordinamento giuridico italiano nel suo complesso.

I due principi, che si vengono a saldare reciprocamente, rappresentano una caratteristica tipica di quasi tutte le Costituzioni democratiche del novecento, in quanto risultano legati al valore di “patto fondamentale tra le diverse forze politiche” che tali fonti assumono.

Per quanto riguarda il primo dei due principi, questo risulta assolutamente necessario perché ogni ordinamento giuridico moderno si caratterizza per un complesso sistema di norme, composto, infatti, da una pluralità di fonti del diritto. Proprio a causa di questa complessità, si crea la necessità di porre un determinato ordine tra le fonti, che vengono in tal modo classificate con il ricorso ad una scala gerarchica. Con tale principio si introduce, quindi, nel nostro ordinamento una sorta di grado di importanza tra le varie norme, grazie all’imposizione tra le varie fonti di un reciproco rapporto di sovraordinazione-subordinazione.

In virtù di questo rapporto la fonte superiore condiziona, modifica e legittima tutte quelle inferiori, che al contrario non possono influire sulla prima. Inoltre la fonte di grado inferiore non potrà, in alcun modo, porsi in contrasto con quella superiore, pena la sua dichiarazione di invalidità tramite un accertamento giudiziario affidato ad un organo apposito, che nel nostro caso rappresentato dalla Corte Costituzionale.

Il rapporto di gerarchia si sostanzia, dunque, anzitutto nel “principio di legalità

, già introdotto nello Statuto Albertino grazie al riconoscimento della supremazia della legge sugli atti del potere esecutivo, consistente nella non-contraddizione dell'atto sub-legislativo nei confronti della legge; e in secondo luogo, nel “principio di costituzionalità”, o di “legalità costituzionale”, affermato invece per la prima volta solo con l’entrata in vigore della Costituzione, anch'esso consistente nella non-contraddizione, in questo caso dell'atto legislativo o sub-legislativo, nei confronti della Costituzione.

L’altro principio, quello della rigidità costituzionale, rappresenta la vera e propria forma di cautela fortemente voluta dai Costituenti stessi, al fine di assicurare la continuità nel tempo della Costituzione, andando ad impedire facili e “politiche” modifiche del suo contenuto, in quanto, grazie a questa caratteristica, le disposizioni costituzionali non potranno essere integrate, modificate o abrogate, se non con procedure diverse e aggravate rispetto a quelle previste per le leggi ordinarie7.

Attraverso l’introduzione dell’art. 138Cost., le regole del gioco e i principi su cui si sarebbe edificato il nuovo ordinamento potranno subire modifiche solo a certe condizioni, e soprattutto solamente per mezzo di un particolare procedimento legislativo aggravato rispetto al

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10 normale procedimento legislativo ordinario, in quanto da un lato preclude al legislatore parlamentare la facoltà di modificarla tramite semplici leggi ordinarie, e a maggior ragione al Governo di modificarla tramite propri decreti, e dall’altro richiede, per la sua revisione o integrazione, un apposito atto normativo, ovvero una legge costituzionale, da approvare per l’appunto con tale procedura aggravata, e comunque solo attraverso una larga partecipazione dei vari schieramenti politici, rendendo nuovamente necessario il ritorno a quel compromesso politico, già verificatosi tra i vari partiti in Assemblea Costituente.

Gli stessi Costituenti, al fine di rendere effettiva la rigidità della Costituzione, erano consapevoli che sarebbe stata necessaria un’ulteriore particolare previsione, ovvero l’introduzione del c.d.

controllo di legittimità costituzionale” delle leggi ordinarie e degli altri atti che ne hanno la stessa forza.

Per questo motivo, in seno all’Assemblea, si scelse, attraverso l’art. 134Cost., di introdurre, al fine di garantire maggiormente la protezione e la salvaguardia della Costituzione, tale forma di controllo di legittimità, affidandolo ad un particolare organo creato ad hoc, ovvero la Corte Costituzionale. Alla Corte, per l’appunto, venne attribuito il compito di esercitare un controllo di conformità e rispetto alla Costituzione da parte di tutte le altre fonti dell’ordinamento, garantendo allo stesso tempo la c.d. “interpretazione autentica”, ossia la corretta ed uniforme interpretazione delle disposizioni costituzionali evitando, così, che si possano venire a formare, a causa di interpretazioni difformi, norme in contrapposizione con la Costituzione stessa.

1.6 LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

1.6.1 PRIMA FASE: DAL “CONGELAMENTO

DELLA COSTITUZIONE” AGLI ANNI ‘80

La Costituzione non avrà una vita agevole. La scena politica vivrà momenti di grandi fragilità e tensioni. Sin dai primissimi anni della Repubblica, l’equilibrio complessivo della forma di governo fu dominato dai partiti politici che assunsero un ruolo davvero decisivo rispetto all'effettivo funzionamento delle istituzioni costituzionali: un ruolo destinato a radicarsi nel corso dei decenni successivi, tale da rendere il sistema politico italiano difficilmente gestibile. La forma di governo basata sul multipartitismo produrrà governi di coalizione instabili e poco efficienti. Le crisi di governo, circa cinquanta dal 1948 in poi, saranno dovute tutte a dimissioni spontanee dell’esecutivo resosi ormai conto di non essere più in grado di governare in quanto non più appoggiato dai partiti che fino a quel momento ne componevano la maggioranza. Sicuramente questa situazione di

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11 debolezza della politica italiana influenzerà molto gli anni successivi all'entrata in vigore della Costituzione: dagli anni '70 in poi, cominciano infatti, a susseguirsi in modo costante proposte di revisione del testo costituzionale, ed in particolare della forma di governo, per cercare di porre fine a questa fragilità che caratterizzerà l’intera scena politica italiana sino ai giorni nostri.

Il primo periodo della vita repubblicana è solito essere chiamato come “fase del congelamento della Costituzione”. Questo periodo, che all'incirca va dal 1948 al 1956, è caratterizzato dalla completa inattuazione delle istituzioni e degli istituti di garanzia previsti dalle varie disposizioni costituzionali. L'inadempimento costituzionale, in questo primo periodo, incise profondamente sull’assetto e sul funzionamento della forma di governo, contribuendo infatti all'instabilità politica e alla frammentarietà partitica. Creò, in particolare, il malcontento tra le opposizioni di sinistra, che contestarono soprattutto l'assenza della disciplina attuativa di istituti come la Corte Costituzionale e il referendum abrogativo, ritenuti come strumenti fondamentali per contrastare il presunto assolutismo del circuito governo-maggioranza parlamentare.

I primi sentori di un cambiamento si ebbero il 29 giugno del 1955, quando venne eletto alla Presidenza della Repubblica Giovanni Gronchi. Il nuovo presidente, la cui elezione fu appoggiata anche dalle sinistre, si dimostrò, già con il suo discorso di insediamento, a favore della piena attuazione della Costituzione. Grazie anche ai continui stimoli del nuovo Presidente, in breve tempo, furono realizzati i primi interventi di parziale attuazione: nel 1956 entrò in funzione la Corte Costituzionale, nel 1957 fu istituito il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e nel 1958 il Consiglio Superiore della Magistratura.

Sull’esempio di quanto fatto da Gronchi, anche i Capi di Stato successivi, Segni, Saragat, Leone, scelsero di mantenere questo indirizzo presidenziale ed optarono sempre per un intervento attivo e costante per influenzare l’indirizzo politico di maggioranza.

La vera svolta si avrà negli anni '70. Questo decennio rappresenta, infatti, un importante crocevia per la vita della Costituzione repubblicana: da un lato, si assiste ad una grande accelerazione del processo di attuazione costituzionale, e dall’altro, è proprio in questo periodo che nasce e si diffonde in maniera epidemica il delicato argomento della revisione del testo costituzionale.

In tale direzione fu molto importante anche la politica del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, che esercitò un ruolo piuttosto attivo: sin da subito, egli affermò che il suo dovere principale era proprio quello di dover vigilare sul rispetto della Costituzione e di doverla difendere dai concreti soprusi delle varie forze politiche.

Nel 1975, in una situazione molto particolare, che vedeva ormai Leone essersi inimicato le varie forze politiche e in particolare le sinistre (inimicizie che lo costringeranno pochi anni dopo a dover rassegnare le proprie dimissioni), con un duro messaggio alle Camere invitava

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12 Governo e Parlamento ad una completa applicazione della Costituzione. Leone, intervenendo con tale messaggio alle Camere, in cui, inoltre, andava anche ad evidenziare il pessimo stato delle istituzioni repubblicane e le difficoltà di funzionamento di queste proponendo anche dei possibili rimedi, fu uno dei precursori di quella che sarebbe stata, per i futuri Governi, una delle questioni più delicate da affrontare, quale appunto quella relativa alla revisione costituzionale/istituzionale.

Nel periodo tra il 1978 e il 1982 cominciò ad essere sostenuta da più parti l’esigenza di procedere ad incisive riforme istituzionali, al fine di porre rimedio a quelle disfunzioni dei vari organi di governo evidenziate, sino ad allora, dall'esperienza repubblicana, ricondotte proprio al testo costituzionale. Quello che doveva essere l’oggetto della riforma fu subito chiaro: si dibatteva infatti circa la possibilità o meno di una “grande riforma” dell’intera forma di governo, ovvero relativamente ad un cambiamento costituzionale, ben più incisivo di una semplice manutenzione, relativa alle regole di funzionamento dell’intero sistema politico-istituzionale.

La nascita di questa volontà rappresenta un vero mutamento nel modo di concepire la Costituzione: se fino a quel momento era stata considerata come una legge fondamentale a cui dare attuazione per realizzare compiutamente i principi sanciti in essa, da allora iniziò ad essere vista come una fonte bisognosa di interventi riformatori, la cui ampiezza si sarebbe progressivamente allargata, al fine di apportare miglioramenti per quel sistema politico italiano che fino a quel momento si era dimostrato lento, fragile ed instabile.

Per la storia costituzionale italiana, pertanto, gli anni fra il 1979 e il 1982, durante i quali prende piede il dibattito sulla riforma costituzionale e si indebolisce la forza evocativa dell’attuazione della Costituzione, rappresentano una netta cesura rispetto al passato. Da questo momento in poi, il tema sulle riforme si sarebbe ripresentato in tutte le successive legislature, alimentato da iniziative parlamentari, governative, del Presidente della Repubblica, nonché da parte della stessa società civile.

1.6.2 GLI ANNI '80: NASCE L’IDEA DI

REVISIONE COSTITUZIONALE

L'Italia dal punto di vista politico, a cavallo tra gli anni '70 e '80, presentava uno scenario molto particolare: da un lato si assisteva al c.d. fenomeno del “multipartitismo estremo”, in quanto il sistema dei partiti italiano era costituito da una pluralità di frammentate formazioni politiche presenti in Parlamento; e dall’altro si assisteva alla presenza, all’interno di tale stesso sistema, di due forze politiche maggiori, che per decenni sono riuscite ad egemonizzare Governo ed

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13 opposizione, ossia rispettivamente la Democrazia cristiana e il Partito Comunista8.

La combinazione di tali due fattori (multipartitismo estremo, per cui nessun partito aveva la forza parlamentare per governare da solo, e bipartitismo imperfetto, per cui all’interno della pluralità dei partiti due godevano di consensi molto più ampi degli altri e fra essi erano saldi i ruoli di forza egemone sul governo e sull’opposizione) aveva prodotto un sistema politico-istituzionale caratterizzato da una grande instabilità di Governo9, e al tempo stesso, da una notevole stabilità

strutturale: per ben 45 anni, infatti, lo stesso partito, ovvero la Democrazia cristiana, aveva costituito la forza egemone sul Governo, mentre nello stesso periodo, anche a causa della c.d. “conventio ad excludendum”, il Partito Comunista aveva egemonizzato l'opposizione. Ancor più grave dell’instabilità di Governo, era poi la scarsa efficienza del processo decisionale e la farraginosa produzione legislativa: l’assenza di procedure di direzione della decisione parlamentare in mano al Governo (con la sola eccezione della questione di fiducia sviluppatasi in via di prassi), nonché i sistemi di votazione parlamentare e la frammentazione interna al principale partito politico (la Democrazia cristiana era infatti divisa in numerose correnti in competizione fra loro) offrivano la possibilità di fare ricorso ad un vero e proprio potere di veto al principale partito di opposizione, rallentando notevolmente la produzione legislativa.

In questo particolare contesto, emersero le prime proposte di riforma costituzionale, soprattutto con l'obiettivo di trasformare l’Italia in una democrazia finalmente compiuta ed efficiente, ovvero in un sistema politico istituzionale in cui i governi:

A) fossero espressione di una scelta del corpo elettorale nelle elezioni legislative;

B) acquisissero maggiore stabilità e dunque avessero una durata coincidente con la legislatura delle Camere;

C) disponessero della forza e della autorevolezza necessarie per realizzare il loro programma politico;

D) potessero essere chiamati a rispondere al termine del loro mandato, eventualmente legittimando una maggioranza parlamentare diversa.

8 Dando origine al c.d. fenomeno del “Bipartitismo imperfetto”.

9 I governi duravano in media 10 mesi; furono ben 45 dal 1948 al 1992; i Presidenti del Consiglio dei Ministri cambiavano con notevole frequenza: furono ben 18 nello stesso periodo.

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14 Da quel momento, si susseguirono, in serie, importanti proposte di revisione delle norme costituzionali sulla forma di governo, le quali ovviamente si intrecciavano con gli scenari dell'evoluzione del sistema dei partiti essendo funzionali ad uno o all’altro obiettivo politico-partitico. A dimostrazione della grande attenzione rivolta a tale questione, nel 1982, fu prevista l’istituzione di due comitati di studio, presso le commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, noti come “Comitato Ruiz” e “Comitato Bonifacio”, con la funzione di valutare le molteplici proposte di riforma che venivano presentate. In generale tutte le varie proposte presentate allora, possono essere suddivise in due grandi categorie:

1. Le prime avevano come obiettivo la “sola” razionalizzazione del regime parlamentare esistente, lasciandone inalterati gli aspetti e gli elementi di fondo (ivi incluso il sistema elettorale), apportando quindi solo alcune determinate e specifiche modifiche.

2. Le seconde perseguivano, invece, un obiettivo ben più ampio, mirando, infatti, ad alterare, a stravolgere l’intero sistema politico attraverso una complessiva riforma costituzionale e istituzionale. Tra le riforme del primo tipo si annoverano, anzitutto, le innovazioni ipotizzate nel c.d. “Decalogo Spadolini”, consistente in un elenco di riforme istituzionali, proposte nell’agosto 1982, dall'allora Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, al momento della formazione del suo secondo governo.

Ma soprattutto, nella stessa prospettiva, si mosse la prima “Commissione Parlamentare per le riforme istituzionali”10 formata in

seno alle due Camere nel settembre 1983 e presieduta dal deputato e costituzionalista liberale Aldo Bozzi.

Nella prospettiva di una più radicale revisione, la proposta più rilevante fu la c.d. “grande riforma” proposta dal costituzionalista Giuliano Amato, allora consigliere costituzionale del leader socialista Bettino Craxi. Con tale intervento si richiedeva un deciso rafforzamento dell’esecutivo, l’introduzione di regole elettorali per cercare di rimediare alla frammentazione dei partiti, e soprattutto l’introduzione dell’elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale, al fine di trasformare la forma di governo da parlamentare in semipresidenziale, nella convinzione che le riconosciute capacità di leadership di Craxi avrebbero consentito al Partito Socialista di scardinare il bipolarismo imperfetto e la duplice egemonia di democristiani e comunisti.

10 La commissione Bozzi fu istituita proprio col fine di elaborare un complesso progetto di riforma del testo costituzionale, andando a colpire numerosi articoli della Costituzione. Tuttavia tale esperienza non andò a buon fine. Per approfondimenti cfr. Cap. 4.3 Pag. 113 e ss.

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15 Anche se gli anni fra il 1979 e il 1992 furono fortemente influenzati dalle iniziative politiche di Bettino Craxi, i suoi obiettivi strategici di modifica del sistema politico italiano non furono mai realizzati, e la stessa sorte toccò al progetto di “grande riforma” di Giuliano Amato. D’altronde non ebbero miglior sorte neppure i progetti di riforma elettorale o costituzionale elaborati da altre forze politiche: ogni riforma, infatti, andava a toccare interessi vitali di uno o dell’altro partito, incontrando così, ogni volta, insormontabili opposizioni.

1.6.3 GLI ANNI ‘90: TANGENPOLI E CRISI

POLITICA

I primi quarant’anni di vita della Costituzione repubblicana, come appena esaminato, si sono caratterizzati per l’alternanza tra l’opera di attuazione e gli interventi di revisione e integrazione al testo costituzionale. In realtà in questo periodo, gli interventi di vera e propria revisione si sono verificati in rarissime occasioni ed hanno sempre riguardato puntuali disposizioni o singoli istituti, trattandosi quindi di modeste correzioni, generalmente di scarso rilievo politico. Alla fine degli anni '80 e durante gli anni '90, al contrario, si registrerà una netta inversione di rotta: da un lato, si riaprirà il processo di attuazione costituzionale per via legislativa, come ne è esempio l’importante legge 400/1988 che regola in particolare l’attività normativa e l’organizzazione del Governo.

Dall'altro lato, il problema delle riforme istituzionali sarà ancora oggetto e strumento di lotta politica, ma non più con riferimento a semplici e puntuali interventi di revisione, bensì riguardando sempre il tema delle grandi riforme, cercando, quindi, di andare a colpire grandi parti del testo costituzionale.

Un aspetto di particolare rilievo, a partire dal 1991, sarà rappresentato dall’attività del Presidente della Repubblica Cossiga. Quest’ultimo, molto sensibile alle questioni relative alla forma di governo, fece uso, fino ai limiti del lecito, del suo c.d. “potere di esternazione”. Già al momento delle trattative inerenti alla formazione del VII governo Andreotti, lo stesso Presidente era voluto profondamente intervenire nel merito del programma di Governo, per imporre l’adozione di un capitolo contenente proprio una serie di riforme istituzionali da lui stesso suggerite. La sua attività culminò quando, nel giugno 1991, inviò alle Camere un messaggio col quale chiedeva addirittura un nuovo “patto”, ovvero una nuova fase costituente per ottenere una profonda revisione costituzionale, in modo da creare una forma di governo ispirata ai principi della democrazia diretta, fino a suggerire addirittura l'adozione del sistema presidenziale.

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16 Secondo Cossiga, per potere completare l'obiettivo di quelle profonde innovazioni ritenute necessarie, erano percorribili alternativamente tre diverse strade, tutte comunque conformi alla Costituzione:

Con l’approvazione di leggi di revisione costituzionale secondo il procedimento previsto dall'art. 138cost;

Con l’approvazione di una legge costituzionale attributiva alle stesse camere di veri e propri poteri costituenti;

Con l’approvazione di una legge costituzionale che prevedesse l'elezione di una vera e propria assemblea costituente.

Al di là della sua attività formale, il Capo dello Stato divenne, nella seconda parte del suo mandato, uno fra i soggetti politici di maggior influenza, soprattutto, come detto, grazie al “potere di esternazione”, cui sempre più spesso faceva ricorso. La forma di governo italiana, che per più di quarant’anni si era basata su un’idea di rappresentatività che vedeva il Parlamento e il Governo al centro del sistema, si mostrava, ormai, in piena crisi. Sempre più spesso, il Presidente della Repubblica, ben al di là del suo ruolo di garante della Costituzione, contestava apertamente la rappresentatività dei partiti, del Parlamento e del Governo. Era, insomma, evidente che il problema delle riforme istituzionali, assieme all’altra questione particolarmente delicata, relativa alla riforma elettorale, avrebbero condizionato, e non poco, le successive legislature.

Agli inizi degli anni '90, proprio in riferimento alla riforma elettorale si registrano alcune importantissime novità, nonostante comunque le costanti opposizioni di gran parte della classe politica.

Purtroppo, in sede parlamentare, non si riuscì a superare quella situazione di stallo e di instabilità che stava imperversando da anni, così, proprio per l’impossibilità di intervenire a livello parlamentare, lo strumento idoneo per raggiungere l’obiettivo della riforma elettorale, venne individuato nel referendum abrogativo ex art. 75Cost., permettendo, attraverso l’intervento del corpo elettorale, di scavalcare le resistenze in seno al Parlamento e quindi le insormontabili opposizioni di vari partiti.

Un primo referendum, svoltosi il 6 giugno 1991, ottenne il consenso del corpo elettorale sulla proposta di modificare un aspetto, in apparenza marginale, della legge elettorale della Camera, ossia la riduzione ad uno solo dei “voti di preferenza” che l'elettore avrebbe potuto esprimere all’interno delle liste di partito. Ma gli effetti politici di tale votazione dimostrarono che la riforma elettorale per via referendaria era praticabile e, superata una serie di ostacoli tecnico-istituzionali (in particolare la Corte Costituzionale aveva inizialmente respinto l’ammissibilità del referendum), una nuova consultazione referendaria in materia elettorale, stavolta finalizzata a trasformare in senso maggioritario il modo di elezione di tre quarti dei senatori, travolse il 18 aprile 1993, il sistema proporzionale. Così, prendendo atto dei risultati dei due referendum, attraverso le leggi n. 276 e 277 del 1993, il Parlamento introdusse un sistema elettorale maggioritario

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17 per l’elezione delle due Camere, rimasto in vigore fino all’entrata in vigore della L. 270/2005.

Ma proprio in questo periodo, nel corso del 1992, la classe politica è travolta da uno scandalo che colpirà, anche negli anni successivi, molti dei volti politici di maggiore spicco, lo scandalo “Tangentopoli”: un‘indagine giudiziaria compiuta dalla Procura della Repubblica di Milano nei confronti dei vertici di tutti i partiti di governo, fa progressivamente emergere un sistema di corruzione politica diffusa sia nel settore pubblico che in quello privato dell’economia.

I due maggiori partiti politici, DC e PSI, già molto indeboliti dai referendum relativi al sistema elettorale, furono profondamente segnati dallo scandalo Tangentopoli, tanto che fu impossibile realizzare l’intesa, poco prima raggiunta, tra queste due forze che avrebbe portato, con le elezioni del 1992, Craxi alla Presidenza del Consiglio e Andreotti al Quirinale.

Il primo tentativo del Parlamento per cercare di ridare ordine e soprattutto credibilità all’intera classe politica, fu quella di nominare come nuovo Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, considerato un vero e proprio “Presidente di garanzia”. Egli si pose subito un obiettivo: condurre, al momento della formazione del nuovo governo, le consultazioni, con l'incaricato Giuliano Amato, in modo tale da escludere nella maniera più assoluta dal Governo i personaggi coinvolti nell’inchiesta Tangentopoli, lanciando appunto un chiaro messaggio di trasparenza ed onestà.

Il nuovo Governo, da subito, si pose proprio il problema delle riforme istituzionali, col fine, in particolare, di far recuperare una qualche legittimazione ad un sistema di rappresentanza messo seriamente in discussione dagli scandali giudiziari. Dopo aver ottenuto la fiducia, il nuovo Presidente del Consiglio, sulla scia di quanto avvenuto nel 1983, promuove la costituzione di una nuova “Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali”, la quale sarà costituita con la L.Cost. 1/1993, con cui si andrà inoltre ad introdurre un procedimento di revisione derogatorio al procedimento ex art. 138Cost., in quanto, oltre all’istituzione della Commissione, prevedeva la trasformazione del referendum costituzionale da oppositivo/eventuale a confermativo/necessario. La Commissione, che sarà presieduta prima dall’Onorevole De Mita e poi da Nilde Iotti, non riuscirà ad ottenere grandi fortune, in quanto il progetto di revisione presentato alle Camere non sarà mai discusso a causa dello scioglimento anticipato delle stesse, avvenuto nel 1994 con la conseguente fine della legislatura11.

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1.6.4 DOPO LA RIFORMA ELETTORALE: LA

XII E LA XIII LEGISLATURA

Con le elezioni del 1994, il corpo elettorale italiano sperimenta per la prima volta il sistema elettorale di tipo misto prevalentemente maggioritario. Tale importante innovazione tuttavia non produsse, nonostante le attese, il passaggio immediato ad un assetto di democrazia maggioritaria e in particolare né ad un assetto bipartitico né bipolare del sistema politico. Da queste elezioni, da cui uscirà vincente per la prima volta Silvio Berlusconi, leader della coalizione di centro-destra, il “Polo delle Libertà”, si formerà ancora un sistema politico fortemente frammentato in tanti partiti, caratterizzato da equilibri politici molto precari, che renderanno debole la leadership dell’esecutivo, la quale cadrà poco dopo, in seguito ad una crisi di maggioranza dovuta al venir meno dell’appoggio al Governo da parte della Lega Nord.

La stessa sorte toccò, dopo le elezioni del 1996, al primo Governo Prodi, leader della coalizione di centro-sinistra, “L’Ulivo”, alleata con il noto “patto di desistenza” con Rifondazione Comunista. Ma proprio questo patto, già determinante per la vittoria della elezioni, venendo meno, rappresenterà la causa della crisi del Governo Prodi, rendendo la situazione ingovernabile, e causandone la caduta.

In seguito a queste due esperienze si delinea, dunque, ancora un sistema politico molto debole, fondato su alleanze tutt’altro che salde e in grado di provocare, molto facilmente, la caduta del governo. La prima fase del sistema maggioritario appare, dunque, assolutamente priva dei connotati che, invece, avrebbero dovuto caratterizzarla, come in particolare la stabilità di governo (e ciò principalmente per l’eterogeneità delle coalizioni parlamentari a sostegno dell’esecutivo). Anche in seguito a questa riforma elettorale, si viene a creare una situazione, per la classe politica italiana, davvero molto critica, che fa, ancora una volta, tornare di moda proprio quel desiderio di riforma istituzionale.

Riguardo agli interventi di riforma costituzionale, di grande spessore furono i tentativi effettuati durante la XIII legislatura. Secondo l’opinione più diffusa, il nostro ordinamento, necessitava, di una profonda revisione organica del testo costituzionale e così come nel 1993, ritenendo inidoneo il procedimento di revisione costituzionale ex art. 138Cost., si sceglierà di procedere per via derogatoria.

Con l’approvazione della L.Cost. 1/1997 viene introdotto un procedimento che, basandosi sul modello previsto dalla Costituzione stessa, prevedeva anzitutto l’istituzione di una Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali con lo specifico compito di preparare un ampio progetto di revisione, e, in secondo luogo, una modifica alla natura dell’istituto referendario costituzionale, prevedendo come obbligatorio, e non più come eventuale, l’intervento del corpo elettorale, chiamato a confermare o meno la revisione approvata in doppia deliberazione dalle Camere.

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19 Tuttavia, come nei casi “derogatori” precedenti, anche questa Commissione12, la cui presidenza fu assegnata all’Onorevole D’Alema,

non ottenne grandi risultati, tanto che in seguito a questo ennesimo fallimento, in sede di revisione costituzionale, la via derogatoria fu totalmente abbandonata, e i successivi interventi di revisione, come quello andato a buon fine del 2001, saranno effettuati attraverso un completo “ritorno” al procedimento previsto dall’art. 138Cost.

1.6.5 LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA II

PARTE DELLA COSTITUZIONE

La riforma del Titolo V della II parte della Costituzione, relativa alle autonomie territoriali, rappresenta il primo vero ed organico intervento di revisione costituzionale effettuato attraverso le modalità descritte dall'art. 138Cost. dal 1948 ad oggi.

A partire dalla seconda metà degli anni '90 comincia a prendere piede la convinzione che la deludente esperienza regionale maturata sino ad allora, fosse da ricondurre al testo costituzionale e in particolare quella tendenza centrista, a favore quindi dello Stato, sancita dalle norme costituzionali: se da un lato infatti, le Regioni avevano acquisito piena attuazione, dall’altro le politiche pubbliche, le scelte legislative, le prassi amministrative, volte a mantenere lo Stato in una posizione di supremazia, andavano necessariamente a circoscrivere l’autonomia regionale. Il dibattito sull'autonomia regionale si sviluppa, così, in un clima di ripensamento complessivo dell'intera seconda parte della Costituzione. Si tratta di un dibattito molto vivace, che riprenderà, in maniera decisiva, il tema regionale, già profondamente affrontato nel 1997 dalla Commissione bicamerale D’Alema.

Sfumato il tentativo di “grande riforma” effettuato dalla Commissione D’Alema, la spinta verso una revisione del testo costituzionale sull’autonomia regionale non si esaurì, ed anzi, in breve tempo, a partire dal 1999, si giunse al completamento della riforma del Titolo V, effettuato, proprio a causa dei fallimenti registrati dalle esperienze derogatorie, con la piena attuazione dell’art. 138Cost.

Il primo fondamentale passo della riforma è rappresentato dall’approvazione della L.Cost. 1/1999, con la quale viene modificata la forma di governo delle Regioni, attraverso le revisione degli articoli 121,122 e 123 della Costituzione.

In particolare, con l’intervento sul testo dell’art. 123 viene valorizzata l’autonomia statuaria delle Regioni di diritto comune, sia dal punto di vista formale che sostanziale.

12 Per approfondimenti sull’attività e sulle proposte di revisione presentata dalla Commissione D’Alema: Cap. 4.3, Pag. 121 e ss.

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20 Coerentemente con questa profonda modifica relativa all’autonomia statuaria regionale, la stessa legge costituzionale provvede ad estendere la potestà legislativa regionale anche alla materia elettorale, sino ad allora disciplinata con legge statale: si prevede, infatti, che il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente, dei membri della Giunta e dei consiglieri saranno disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica.

Tuttavia, l’ampliamento dell’autonomia statuaria delle Regioni di diritto comune finì per creare una situazione di favore per quest’ultime rispetto a quelle a statuto speciale, vincolate invece dalle previsioni contenute nei loro statuti originari che, in quanto leggi costituzionali, sfuggono alla loro disponibilità diretta. Ecco perché il secondo grande passo verso la completa revisione del Titolo V, rappresenta una conseguenza naturale e quanto mai necessaria del primo intervento: per riequilibrare le rispettive posizioni si procede all’approvazione di una nuova legge costituzionale, la L.Cost 2/2001 con cui si prevede che le Regioni ad autonomia speciale possano apportare modifiche al proprio statuto, adottando un’apposita legge regionale, detta Legge Statuaria, con un contenuto e un procedimento analoghi, anche se non perfettamente coincidenti con quanto previsto per gli statuti delle Regioni di diritto comune.

Infine, nel 2001, verrà portata a compimento la revisione del Titolo V: in seguito alle leggi costituzionali 1/1999 e 2/2001, il processo riformatore va ad investire l’intero assetto delle competenze regionali (legislative, amministrative, finanziarie), revisionando gli articoli 114, 116,117,118 e 119Cost. attraverso la L.Cost. 3/2001, per la cui approvazione, per la prima volta nella storia repubblicana, non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi in sede di seconda deliberazione, si fece ricorso, il 7 ottobre 2001, al referendum costituzionale previsto dall’art. 138Cost.

Complessivamente, la riforma del Titolo V ha comportato una trasformazione molto profonda dell’originario assetto costituzionale, compiuta, in particolare, attraverso l’introduzione di istituti ripresi da esperienze di altri ordinamenti federali o regionali. Questa rigida trasformazione, tuttavia, negli anni successivi darà origine a numerosi problemi sia in sede attuativa che interpretativa, e ciò non solo per alcuni limiti impliciti alla nuova disciplina costituzionale, ma anche per la mancata previsione di una normativa transitoria in grado di favorire il passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Tale riforma per le successive legislature rappresenterà sempre un argomento di dibattito, un modello da rivedere e soprattutto, a causa degli scarsi risultati ottenuti dal nuovo sistema, si giungerà, ben presto, a considerarlo come un punto assolutamente da riformare.

Già nella successiva XIV Legislatura verrà effettuato un particolare tentativo di “riforma della riforma” che interessò tuttavia non solo l’appena revisionato Titolo V, ma l’intera forma di governo, tanto che per la prima volta, l’ordinario procedimento previsto dall’articolo 138

(21)

21 sarà utilizzato per una riforma “globale”.

Nel 2003 viene presentata la c.d. “Bozza dei quattro saggi” o “Bozza di Lorenzago” da parte di esponenti della maggioranza di centrodestra. La proposta toccava molti settori di particolare importanza: si proponeva la modifica dell’elenco delle materie assegnate alla competenza legislativa concorrente regionale, rafforzando il ruolo dello Stato e l’introduzione di un’esplicita enumerazione delle competenze esclusive delle Regioni; dal punto di vista della forma di governo si prevedeva l’introduzione di un Senato federale e si proponeva che l’unico ramo del Parlamento con cui il Governo avrebbe dovuto intrattenere un rapporto fiduciario doveva essere la Camera Dei Deputati; si prevedeva un rafforzamento del ruolo del Primo Ministro, a cui si riconosceva inoltre il potere di nomina e revoca dei ministri; venivano infine previste forti limitazioni ai poteri presidenziali, nonché modifiche alla composizione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura.

Dopo una serie di passaggi parlamentari il testo venne definitivamente approvato nel novembre 2005. Tuttavia, in sede di seconda delibera non fu raggiunta la maggioranza dei due terzi richiesta in entrambe le Camere, rendendo perciò possibile il ricorso al referendum costituzionale.

Il referendum, che si svolse nel giungo 2006, vide la partecipazione di poco più della metà degli aventi diritto, e terminò con la vittoria dello schieramento ostile alla modifica approvata dal Parlamento, che fu quindi definitivamente respinta.

1.6.6 LA XV E LA XVI LEGISLATURA

Nelle legislature che seguiranno, pur rimanendo assolutamente centrale, nell’agenda parlamentare, il tema delle riforme istituzionali, anche sulla scia delle esperienze del 2001 e del 2005, si sceglie di abbandonare i modelli assunti negli anni ‘90: lasciata ormai definitivamente l’ipotesi delle commissioni bicamerali, si tentò ancora, seppur senza grandi risultati, la strada del procedimento ex art. 138Cost.

Durante la XV legislatura, sul Governo Prodi II, incise, e non poco, l’esito negativo del referendum del 2006, soprattutto per quanto riguarda il dibattito politico-parlamentare in materia di riforme istituzionali: più schieramenti politici cominciarono a ritenere che non fosse più opportuno insistere sul modello della “Grande Riforma”, dovendo al contrario perseguire il più ampio consenso possibile intorno a quegli interventi costituzionali, di portata più circoscritta, che apparissero urgenti, necessari e soprattutto maturi.

Seguendo questa tendenza, nel 2007, la commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati approvò un testo unificato di alcune proposte di legge costituzionale, almeno inizialmente condiviso sia da maggioranza che opposizione, recanti modifiche dei vari articoli della Parte II della Costituzione. La c.d. “Bozza Violante”, che mirava

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22 in particolare alla modifica del sistema bicamerale, delle modalità di esercizio della funzione legislativa, della forma di governo e dei rapporti governo-parlamento, fu successivamente presentata all’Assemblea la quale però riuscì a discutere solo una minima parte del progetto, in quanto l’iter non poté proseguire a causa della fine anticipata alla legislatura.

La XVI legislazione si aprirà con il terzo Governo Berlusconi, che vivrà un triennio (2008-2011) davvero molto duro dal punto di vista politico, e soprattutto dal punto di vista economico: l’Italia sta attraversando un periodo di profonda crisi economica, tanto che si arriverà, nel novembre 2011, alla caduta del Governo stesso, che sarà affidato al tecnico Mario Monti, le cui politiche si caratterizzeranno proprio per gli aspri interventi in ambito economico e tributario.

Dal punto di vista istituzionale, il Parlamento, durante questa legislatura, è stato notevolmente impegnato dalle molte proposte di revisione costituzionale volte in particolare a cercare di porre fine a questa critica situazione politico-economica, garantendo maggiore efficienza all'ordinamento della repubblica e al contempo il rafforzamento della rappresentatività delle istituzioni democratiche. Il tema delle revisioni costituzionali emerge, durante questo triennio, in ambito parlamentare, in più occasioni, ed in particolare quando si viene a verificare un importante episodio caratterizzato dallo scontro istituzionale tra il Capo del Governo e il Capo dello Stato: Berlusconi tornò infatti sulla necessità di modificare la Costituzione nel 2009, quando il Presidente della Repubblica Napolitano rifiutò di firmare il decreto legge, approvato dal Consiglio dei Ministri, che avrebbe vietato l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale di Eluana Englaro. Berlusconi allora, contrariato dalla mancata firma, attaccò Napolitano, dichiarando che “il Capo dello Stato si stava appropriando di poteri che secondo l'interpretazione del Governo non gli spettavano ed anzi sarebbero spettati al Governo stesso”. Per questo motivo, ritenendo la Costituzione come “una legge fatta troppi anni prima e sotto l’influenza della fine della dittatura”, sollecitò ulteriormente la riforma con il fine di prevedere, in particolare, un rafforzamento dell’Esecutivo.

Nel giungo 2010, sulla base anche di quanto proposta dalla “Bozza Violante”, le commissioni affari costituzionali di Camera e Senato avviarono un’indagine sul processo di revisione costituzionale in materia di ordinamento della repubblica, ed in particolare su tre argomenti:

• Superamento del bicameralismo perfetto, anche in rapporto all'evoluzione dell'ordinamento in senso federale;

• Revisione della forma di governo e possibili interventi sul sistema elettorale;

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23 Una concreta proposta di riforma si ebbe, però, solo nell’aprile 2012, durante il Governo tecnico di Mario Monti, quando fu presentata la c.d. “Bozza ABC” (Alfano, Bersani, Casini). I tre importanti esponenti di PDL, PD, e UDC misero a punto questo progetto di riforma con cui si prevedeva in particolare il superamento del bicameralismo perfetto a favore del bicameralismo eventuale (sarà la Camera ad occuparsi delle materie di esclusiva competenza dello Stato, il Senato sarà competente per le materie di potestà legislativa concorrente), il rafforzamento dei poteri del premier, la riduzione del numero dei parlamentari e l’abbassamento dell’elettorato passivo per Camera e Senato.

Il tentativo di revisione tramite questo progetto tuttavia fallì poco dopo: il testo in questione non riuscì a giungere all’esame delle Camere, in quanto, nel momento in cui l’accordo sembrava ormai definitivamente raggiunto, sorsero delle divergenze tra i vari gruppi politici, in quanto alcuni schieramenti cominciarono a sostenere con fermezza che la riforma costituzionale avrebbe dovuto introdurre anche l’elezione diretta del Presidente della Repubblica da parte del popolo. Proposta che, tuttavia, non trovò il sostegno di tutti gli schieramenti, provocando profonde spaccature che provocarono il venir meno dell’accordo.

Molte delle proposte riportate nella “Bozza ABC” saranno al centro del secondo importante tentativo di riforma messo a punto durante il Governo Monti. Pochi mesi dopo infatti, nel luglio 2012, il Senato andava ad approvare una riforma diretta a colpire ovviamente Parlamento e forma di Governo. Nel testo proposto dalla commissione affari costituzionali, in seguito ampiamente modificato dall'Assemblea, si prevedeva oltre ai punti già presentati con la “Bozza ABC” (riduzione parlamentari, superamento bicameralismo perfetto etc.), anche e soprattutto, l’istituzione di un Senato Federale, nonché l’elezione diretta del Capo dello Stato. Tuttavia il progetto di legge, una volta passato alla Camera, non vide mai la luce, in quanto, presso la commissione affari costituzionali della Camera, l’esame in sede referente non venne portato a conclusione.

Durante la XVI Legislatura, oltre alle citate proposte di revisione costituzionale volte ad incidere su alcuni importanti aspetti dell’ordinamento della repubblica, hanno impegnato il Parlamento anche altre iniziative, miranti a incidere su singoli punti della Carta Costituzionale o a modificare altre leggi costituzionali (riforma Titolo V, riforma della giustizia, referendum, iniziativa legislativa popolare). Tuttavia nel corso di questa Legislatura, nonostante fossero state presentate moltissime proposte di riforma, solo in un caso si è riusciti a portare a conclusione il procedimento aggravato di revisione: con la L.Cost. 1/2012 è stato introdotto, nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione Europea, il principio dell'equilibrio delle entrate e delle spese, ossia il c.d. principio del "pareggio di bilancio". In questo caso, tra l’altro, avendo raggiunto il quorum dei due terzi dei componenti nella seconda votazione, sia alla Camera, sia al Senato, la modifica costituzionale non fu sottoposta a referendum popolare.

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24 Proprio questa larghissima maggioranza parlamentare con la quale tale legge di revisione fu approvata, senza che vi sia stata nell’opinione pubblica un’eco in grado di testimoniare un interesse reale dei cittadini per il contenuto della legge di revisione costituzionale, conferma l’impressione della stessa opinione pubblica che il contenuto della legge di revisione sia da ritenere come prevalentemente tecnico, e diretto piuttosto a rispondere ad aspettative internazionali, che non ad effettive esigenze del paese.

1.6.7 LA XVII LEGISLATURA: DA MONTI A

LETTA

L’Italia si presenta alle elezioni del febbraio 2013, per la XVII legislatura, in un situazione davvero disastrosa: non solo la crisi economica sembra non avere fine creando ovunque povertà, disoccupazione e malcontento, ma si sta, ormai, diffondendo un profondo sentimento di disaffezione nella grande maggioranza della popolazione verso l’intera classe politica, che si dimostra sempre più inadeguata ed incapace di far fronte a questa critica situazione.

Dal dicembre 2012, in seguito alle dimissioni del premier Monti, i vari partiti, in vista delle ormai prossime elezioni, cominceranno a combattere una vera e propria guerra mediatica che vedrà come uno dei principali protagonisti il comico Beppe Grillo e il suo Movimento 5 stelle, e tra i principali argomenti proprio quello della revisione istituzionale.

Come gli ultimi vent’anni, anche il biennio 2013-2014 sarà profondamente caratterizzato dalle continue proposte di riforma costituzionale, dirette in particolare a modificare, in modo radicale, la forma di governo: al centro dell’attenzione, infatti, non solo ci saranno le figure del Presidente del Consiglio e del Presidente della Repubblica, ma anche il Parlamento, il bicameralismo perfetto e soprattutto il Senato, la sua organizzazione, le sue funzioni.

Le elezioni rivelarono un’Italia, dal punto di vista politico, letteralmente frammentata, distaccata, indecisa, e la situazione si fece ancora più delicata in seguito non riuscendosi ad individuare una figura di spicco in grado di formare una forte maggioranza e prendere saldamente in mano le chiavi del Governo.

A conferma del particolare periodo di crisi vissuto anche dalle istituzioni italiane, il 20 aprile 2013 si verifica un fatto assolutamente insolito: per la prima volta si assiste a una rielezione del Presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano, Presidente uscente, viene chiamato ad un secondo mandato, in quanto, da un lato sembrava impossibile per le forze politiche trovare l’accordo in riferimento ad ogni potenziale candidato presentato, e dall’altro, era sentita come assolutamente necessaria, per rompere quella situazione di stallo, la presenza al Quirinale di una figura con particolare esperienza ed equilibrio, e che conoscesse a fondo la situazione attuale.

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