CAPITOLO II
Artroprotesi totale d’anca
Origine ed evoluzione della protesi totale d’anca
L’articolazione che storicamente ha aperto l’era della protesica in ortopedia è la coxo-femorale ed il primo versante articolare su cui è stata progettata una protesi è stato quello femorale (endoprotesi d’anca). Il vero fondatore della protesica dell’anca è stato il chirurgo inglese Sir John Charnley, che all’inizio degli anni ’60 sviluppò ed introdusse i primi modelli di artroprotesi (figura8).
Figura 1: a sinistra Sir John Charnley; a destra un libro di Charnley.
Egli elaborò studi per il miglioramento dei materiali (scoperta del polietilene a basso PM –UHMWPE- che tutt’oggi è ampiamente utilizzato), delle tecniche chirurgiche, della biomeccanica e delle norme da applicare in sala operatoria. Il suo modello era dotato di testina fissa monoblocco da 22 mm, ossia molto piccola rispetto ad una testa femorale umana, in modo tale che il piccolo diametro della testa diminuisse l’usura del polietilene. Per tale motivo chiamò la sua tecnica “Low Friction Arthroplasty”, ossia protesi a bassa usura [19,20]. Pur se con alcune modifiche, questo modello è ancora oggi in uso ed ha quindi il registro e i risultati più lunghi disponibili in letteratura. Berry et al. (2002) hanno pubblicato i dati dopo 25 anni di utilizzo di queste protesi in 461 pazienti impiantati negli anni 1969-1971, dimostrando risultati discretamente soddisfacenti. Grazie al continuo
perfezionamento della tecnica chirurgica, delle caratteristiche degli impianti e dell’esperienza degli operatori, il numero di interventi è tutt’oggi in continuo aumento e tale tendenza sembra essere destinata ad evolvere ulteriormente [21].
Distribuzione della chirurgia protesica dell'anca nella popolazione
L’intervento di protesi d’anca trova indicazione nell'artrosi primaria e secondaria (epifisiolisi, lussazione congenita dell’anca e coxa plana, artrite reumatoide, necrosi asettica della testa del femore, esiti di fratture del collo del femore o lussazione traumatica dell’anca, esiti di artrodesi o insuccessi di osteotomie) e nei tumori ossei della porzione prossimale del femore o dell’acetabolo. Sicuramente l’artrosi è la patologia per cui si ricorre maggiormente all’intervento di sostituzione protesica essendo la patologia reumatica più frequente in Italia. L'artrosi dell'anca colpisce circa quattro milioni di persone, uno su due tra i settantenni e comportando disabilità lavorativa nel 30% dei soggetti al di sotto dei 65 anni.
Nel 2005 sono stati eseguiti 139.438 interventi di sostituzione protesica: circa il 63% sono sostituzioni protesiche dell’anca, il 34% di ginocchio, il 2% di spalla e l’1% le restanti minori [22]. Come si evince dai dati l’intervento di protesi d’anca è quello in assoluto più eseguito e nell’ambito di questo possiamo osservare come tra i tre interventi di sostituzione protesica dell’anca (sostituzione totale dell’anca, sostituzione parziale dell’anca e revisione di sostituzione dell’anca), la sostituzione totale dell’anca sia l’intervento più eseguito [22]. Osservando sempre i dati relativi al 2005 distribuiti secondo il sesso e l’età, nei tre interventi correlati alla protesi d’anca è evidente che le donne si sottopongono ad un intervento di protesi d’anca in numero nettamente maggiore rispetto agli uomini ed a un'età mediamente maggiore (circa 70 per le donne e 65 gli uomini per gli interventi di sostituzione totale e di revisione, mentre a 82 e 80 rispettivamente per gli interventi di sostituzione parziale dell’anca che sono effettuati più frequentemente per una frattura del collo del femore). Analizzando i dati più recenti dal National Joint Registry – UK del 2012, emergono valori che evidenziano in maniera significativa l’importanza socio-economica che la coxartrosi e l’impianto di
PTA hanno nella popolazione. Infatti il numero totale di procedure chirurgiche eseguite in UK durante il 2012 è stato di 86.488 e 10.040 sono state revisioni (in aumento rispetto al 2011 passando dall’ 1% al 12%). Di tutti gli interventi di PTA del 2012, 33% sono stati impianti cementati, 43% non cementati, 1% procedure di resurfacing e 2% teste grandi metallo con metallo. L’età media dei pazienti è stata di 67,4 anni (0,2 anni in più rispetto ai report del 2011). Il 60% dei pazienti erano donne e i pazienti che hanno fatto resurfacing erano più giovani, con età media di 53,3 anni. Il BMI è aumentato in questi ultimi 8 anni da un valore di 27.4 a 28.7.
In Italia, invece, secondo gli ultimi dati del Registro Nazionale Artroprotesi RIAP19, si effettuano ogni anno quasi 160.000 interventi di artroprotesi in 750 strutture, con un incremento medio annuo di circa il 5% ed un costo totale stimato in circa 1 miliardo di euro per il solo DRG (Diagnosis-Related Group) chiurgico. Secondo un’analisi del database SDO 2001-2010, disponibile presso l’Ufficio di Statistica dell’ISS, per i codici ICd9-CM (International Classification of Diseases) articolare, in Italia c’è stato un netto incremento di interventi chirurgici di sostituzione protesica di anca, passando da circa 46.000 primi impianti nel 2001 a circa 60.000 primi impianti nel 2010, con un incremento netto del 3%. (Tabella1).
Tabella 1
Dopo aver analizzato attentamente questi dati appare evidente che l’elevato numero di pazienti coinvolti, l’impatto sulla qualità della vita e l’impegno sanitario, fanno assumere a questo tipo di
chirurgia un valore estremamente importante e, quindi, l’eventuale fallimento rappresenta a livello mondiale un problema socio economico grave. Fortunatamente la sostituzione protesica è un intervento di chirurgia protesica maggiore con un discreto margine di successo, arrivando secondo alcuni studi ad un indice di soddisfazione dei pazienti maggiore del 90 - 95% a 15 anni dall’intervento. In alcuni casi invece è stato dimostrato un miglior trend di soddisfazione in un intervallo di tempo compreso tra i 6 mesi ed i primi anni dall’intervento, per poi decrescere nel periodo successivo. Il monitoraggio degli impianti è, quindi, fondamentale per comprendere i motivi del loro successo o del loro fallimento ed eventualmente per apportare modifiche che possano migliorarne la longevità.
Biomeccanica dell’anca protesizzata
L'analisi biomeccanica delle forze agenti sull’articolazione coxofemorale, ha spinto gli ingegneri progettisti a posizionare i componenti protesici in modo tale da massimizzare il sostegno dell'impianto, nel corso di tutto il ciclo di deambulazione. Gli impianti protesici sono pensati per avvicinarsi il più possibile alla funzione dell'articolazione naturale. Tuttavia, le considerazioni inerenti la tribologia protesica e la loro produzione dettano delle caratteristiche nei componenti protesici che possono limitare il raggiungimento di questo obiettivo [23].
Nel progettare la protesi occorre tenere in considerazione dei requisiti anatomici, funzionali e di biocompatibilità che derivano dallo studio del normale funzionamento dell’articolazione sana e dall’esperienza clinica. Una protesi deve:
1. Consentire il movimento;
2. Supportare i carichi a cui è sottoposta l’articolazione mostrando buona resistenza alla fatica meccanica e all’usura garantendo, quindi, un tempo di vita medio-lungo;
4. Essere tecnologicamente perfetta (possibilità di esser sottoposta a microlavorazioni che consentano la migliore adattabilità al sito d’impianto);
5. Avere requisiti chirurgici quali: facilità di inserzione e di posizionamento dei componenti, minimizzazione del trauma chirurgico e possibilità di eseguire un re-intervento.
Nel caso di sostituzione protesica, i carichi vengono trasmessi dalla protesi all’osso e generano in quest’ultimo una distribuzione di tensioni nettamente diversa da quella fisiologica, che dipende dalla configurazione geometrica della protesi, dalle caratteristiche meccaniche dei materiali (rigidità dello stelo) e dal tipo di interfaccia (cementata / non cementata). Le maggiori differenze fra anca normale ed anca protesizzata si verificano soprattutto per il sovvertimento della distribuzione delle tensioni nella zona prossimo-mediale del femore. Nelle articolazioni naturali, le forze vengono trasmesse, attraverso le superfici articolari, le inserzioni muscolari e quelle legamentose, alle strutture dell'osso spongioso e corticale.
Distribuzione dei carichi: L'inserimento di una protesi altera questa distribuzione e crea sollecitazioni che non hanno alcun corrispettivo fisiologico. Si determina una vera e propria inversione del normale pattern di distribuzione delle sollecitazioni; infatti, mentre nei femori naturali la massima sollecitazione si ha a livello prossimo-mediale, nei femori protesizzati si verifica una marcata riduzione delle sollecitazioni nella zona prossimale (metafaisaria), più accentuata quando la protesi è sprovvista di colletto (riduzione fino al 90%), ed un incremento delle stesse al di sotto della punta dello stelo, dove si registrano le massime sollecitazioni.
Stress shielding: Questo effetto di schermatura del carico, noto come Stress shielding, dipende dal diverso modulo di elasticità di femore e stelo protesico e si manifesta sotto forma di aree di apposizione e riassorbimento osseo secondo la legge di Wolff: l’osso si rimodella in funzione delle forze che su di esso si esercitano per cui nelle zone sottoposte a carico si registra l’apposizione di nuovo osso, mentre le aree prive o con minor sollecitazioni vanno incontro a riassorbimento [24]. Questo principio ha un carattere puramente descrittivo e non è stato finora possibile giungere a una determinazione quantitativa della legge stessa. Sono stati però definiti alcuni comportamenti di massima che si sviluppano successivamente all’inserimento dello stelo:
Le deformazioni longitudinali, nella regione ossea prossimo-mediale, sono inferiori a quelle fisiologiche, mentre sono superiori nella parte distale; questo effetto è più evidente nelle protesi non cementate ed in particolare in quelle con rivestimento poroso esteso su tutta la superficie dello stelo, con le quali si assiste spesso ad un’ipertrofia della corticale;
Le deformazioni circonferenziali, sono più elevate, rispetto ai valori "fisiologici" (negli steli a press-fit si ha un aumento delle tensioni circonferenziali pari al 125% Walker 1992 -) e, al contrario di quelle longitudinali, la loro distribuzione non sembra modificabile variando la rigidezza dello stelo;
Sono presenti elevate sollecitazioni torsionali intorno all'asse longitudinale della protesi e l’influenza del peso del paziente sulle sollecitazioni nella parte prossimale è superiore a quello di altri parametri;
All'interfaccia osso-impianto si hanno sollecitazioni di taglio e compressione. Nelle protesi con finitura superficiale, le sollecitazioni di taglio vengono equilibrate dall’azione dei microincastri, ed in quelle con superficie liscia dall’attrito, con un coefficiente stimato intorno a 0,5. Se presenti, le sollecitazioni di trazione tendono a separare le superfici contigue dell’osso e della protesi, favorendo il flusso di liquidi e la disseminazione di particelle di usura. Carichi statici e dinamici: A monte di ogni tipo di interazione meccanica protesi-osso ci sono i carichi statici e quelli dinamici che agiscono sull’articolazione dell’anca: il peso del corpo è il principale determinante dei carichi statici. I fattori che condizionano l’entità di questi carichi sono rappresentati essenzialmente dal sistema di fissazione delle componenti protesiche (protesi cementate e non cementate), dalla forma dell’impianto e dalle caratteristiche morfometriche dei segmenti scheletrici che ospitano la protesi. I carichi dinamici si sovrappongono a quelli statici durante il movimento articolare modificandone i vettori, non solo in termini di valore assoluto, ma anche di direzione.
Classificazione delle protesi d’anca
Le protesi vengono classificate prendendo in considerazione principalmente due aspetti: le superfici articolari sostituite e il tipo di fissazione dell’impianto protesico all’osso. In base al primo metodo di classificazione si distinguono:
Protesi totale o artroprotesi Protesi parziali o endoprotesi Protesi di rivestimento
L'artroprotesi consiste nell'asportazione e sostituzione protesica di entrambi i versanti articolari della coxo-femorale. Questo tipo di protesi è formato da una componente acetabolare (o cotiloidea) e da una femorale. Trova indicazione nelle persone per le quali si prevede un uso frequente, seppur scevro di sforzi eccessivi, della propria articolazione. Si parla di artroprotesi ibrida quando si combina uno stelo femorale cementato con una coppa acetabolare non cementata, e di artroprotesi ibrida inversa quando, al contrario, la componente acetabolare è cementata mentre lo stelo è posizionato tramite press-fit.
L'endoprotesi sostituisce, con una superficie artificiale, solo metà dell’articolazione dell'anca, solitamente la componente femorale. Per endoprotesi si intende quindi la sostituzione parziale della sola componente femorale e l'accoppiamento dell'impianto con l'acetabolo fisiologico del bacino; ne deriva che la protesi consta solo di una testa, di un collo e di uno stelo femorale che può essere di tipo cementato o non cementato. L’indicazione più frequente all’intervento sono le fratture le collo del femore in pazienti anziani [25]. La prevalenza dell’osteoporosi nel sesso femminile spiega perché i pazienti operati siano soprattutto donne. In questo caso il tempo di attesa dal momento dell’incidente non dovrebbe superare le 24 ore. Questo intervento viene eseguito su persone particolarmente anziane che non hanno un uso routinario dell’articolazione o in pazienti con limitazioni funzionali gravi e/o con importanti malattie generali. La scelta di applicare un'endoprotesi riduce i tempi ed i rischi chirurgici e permette una veloce ripresa della verticalità e della deambulazione. In realtà, ciò che si utilizza oggi nella traumatologia dell’anziano e dei pazienti con scadenti condizioni generali, è la cosiddetta endoprotesi biarticolare (o bipolare) concepita con la finalità di ridurre l’attrito a livello acetabolare che si genera dall’accoppiamento testa protesica e
superficie cartilaginea nativa dell’acetabolo. L’endoprotesi biarticolare è costituita da una coppa metallica alloggiata senza fissaggio nell’acetabolo nativo, all’interno della quale è inserita una componente in polietilene su cui va ad articolarsi la testa femorale artificiale: si vengono così a creare due superfici di scorrimento, una a livello acetabolare tra cavità articolare e coppa metallica ed una tra polietilene e testa femorale. Nel paziente giovane o comunque funzionalmente più attivo, non si ricorre ad endoprotesi in quanto la presenza della testa protesica (o della coppa metallica non fissata, nel caso dell’endoprotesi bipolare) a diretto contatto con il cotile osseo può portare ad un'usura precoce del cotile stesso. E' quindi necessario rioperare il paziente per “completare” l'intervento applicando un cotile protesico; in questo modo l'endoprotesi viene trasformata in un'artroprotesi. Nei pazienti giovani e/o più attivi quindi, anche in presenza di frattura, si procede subito all'applicazione di un'artroprotesi totale dell'anca, sostituendo sia il femore prossimale che il cotile.
Le protesi di rivestimento sono protesi in cui la componente femorale consiste in un cappuccio di rivestimento della testa femorale. Le nuove protesi di rivestimento, interamente in metallo, soddisfano i due obiettivi a cui la chirurgia protesica dell’anca mirava da tempo: una maggiore conservazione dell'anatomia articolare e delle sue inserzioni muscolari ed una durata maggiore dell'impianto. Ciò è reso possibile dalle caratteristiche intrinseche di questo tipo di protesi. A differenza delle protesi tradizionali, che prevedono l’osteotomia del collo del femore, le nuove protesi rivestono la superficie danneggiata dall'artrosi e lasciano intatte le altre strutture articolari. Inoltre la coppia di movimento di queste protesi (ovvero i materiali che scorrono l’uno sull’altro per garantire il movimento articolare) è formata da metallo verso metallo, una soluzione che riduce al minimo gli attriti. Il rivestimento delle superfici articolari viene eseguito previa loro preparazione: un’apposita fresa circolare asporta un sottile strato di tessuto artrosico lasciando una superficie sferica e regolare. La testa del femore così preparata viene incapsulata con un cappuccio metallico sferico che riproduce le dimensioni originarie del femore. Identica preparazione viene compiuta sull'altro versante articolare, quello cotiloideo. Le due parti vengono infine accoppiate per ricreare il normale movimento dell'anca. Ne risulta che il femore e le sue inserzioni muscolari sono state mantenute integre e, fatto ancora più apprezzabile, l'asse di carico del femore risulta essere quello naturale. I
benefici sono evidenti già dopo ventiquattro ore: il paziente è in grado di camminare con l'uso delle stampelle e torna alle sue attività lavorative dopo solo sei settimane. Indicazione ulteriore alla protesi di rivestimento è rappresentata dai pazienti sportivi che non intendono abbandonare lo sport, che dopo solo tre mesi possono tornare a praticare la loro disciplina preferita, anche se intensa o traumatica.
I vantaggi connessi all'uso di questo tipo di protesi sono:
una normale distribuzione dei carichi a livello del femore prossimale;
la conservazione del collo del femore e della testa femorale (quindi, nel caso di un eventuale fallimento della protesi, a prescindere dalla causa che l’ha determinato, si potrà impiantare una protesi standard come se fosse il primo intervento);
la preservazione della propriocettività dell'anca, il paziente infatti non avverte la sensazione di “arto estraneo” o “arto senza controllo”, come spesso accade con le protesi tradizionali); testa femorale di grandi dimensioni in metallo che si articola con una coppa acetabolare in
metallo. La testa di grandi dimensioni riduce il rischio di lussazione della protesi e l’accoppiamento metallo-metallo riduce la produzione di particolato da usura e quindi i rischi di mobilizzazione della protesi.
Gli svantaggi sono invece legati: all'uso del cemento;
al tempo operatorio più lungo;
al rischio di fratture del collo del femore;
all'incisione più ampia di quella utilizzata in una protesi convenzionale (~20cm);
al fatto che la testa protesica di grande dimensioni determini la maggiore usura delle componenti: questo fenomeno rappresentava, infatti, la causa principale di fallimento delle protesi di superficie di prima generazione[26]. Oggi, in teoria, lo sviluppo di nuove leghe metalliche dovrebbe aver ridotto questo fenomeno, ma in realtà alcuni modelli protesici stanno dimostrando, in una percentuale rilevante di casi, una eccessiva e soprattutto inaspettata usura del metallo, tale da poter inficiare il risultato della protesi e richiederne una revisione. Altra possibile ragione del fallimento di questa tipologia di protesi è da ricercare
nel tipo di cemento utilizzato, in quanto studi hanno descritto che l’uso di cemento a bassa viscosità determina una distribuzione disomogenea dello stesso nell’ambito della testa femorale, con una massima concentrazione in regione polare, tale da poter determinare sia necrosi degli osteociti, da elevata reazione esotermica locale generata dalla polarizzazione del cemento, che alterazione della distribuzione delle forze di carico[27]. Esiste tuttavia un importante criterio di selezione che limita l'uso di questa protesi: la resistenza dell'osso. Sono esclusi da questa possibilità chirurgica tutti coloro che presentano un osso osteoporotico: di norma tutti i maschi che hanno più di sessanta anni e le femmine che ne hanno più di cinquanta. Inoltre la protesi di rivestimento non è applicabile a tutte le forme di artrosi dell’anca. Qualora infatti la deformazione dei capi articolari o la loro morfologia si allontanasse troppo dall’anatomia normale, questo tipo di protesi non rappresenterebbe la scelta più adeguata. Le protesi di rivestimento hanno avuto un recente sviluppo ma le casistiche internazionali più accreditate hanno denunciato alcune complicazioni poco tollerabili per i pazienti, soprattutto per quelli giovani (ad esempio la frattura del collo del femore). Una seconda possibilità per i soggetti giovani è rappresentata dalle protesi non cementate anatomiche o su misura che devono essere impiantate con ricostruzione del corretto centro di rotazione dell’anca.
Artroprotesi totale d’anca: morfologia
Figura 2: morfologia protesi totale d’anca
COTILE (o coppa acetabolare o acetabolo protesico): è la parte che viene fissata al bacino mediante viti, cemento chirurgico, avvitamento o forzamento meccanico nell'acetabolo primario. Può essere: rivestito di idrossiapatite, che ne aumenta l'ancoraggio biologico, filettato o poroso. Normalmente è realizzato in UHMWPE (polietilene ad altissimo peso molecolare) o, più raramente, in ceramica o metallo. La coppa acetabolare può essere avvolta da un supporto metallico (metal back) che lo vincola alle ossa del bacino. E’ opportuno sottolineare che il metal back, necessario in caso di cotile in UHMPWE, serve ad evitare che i micromovimenti tra il cotile e l’osso generino l’usura massiccia del polietilene con elevata produzione di detriti; inoltre il UHMWPE, a causa della sua flessibilità, può trasmettere i carichi alle strutture ossee in modo non uniforme. Un modo per ovviare a tale inconveniente è rivestire il cotile con un rigido guscio metallico che può essere ancorato all’osso con cemento o con accoppiamento diretto.
TESTINA (o epifisi protesica): è la parte terminale della componente femorale, normalmente di forma sferica, che si accoppia con la cavità interna del cotile per formare l'articolazione protesica. La testina può essere parte integrante dello stelo oppure modulare, cioè separata dallo stelo femorale e ad esso fissata durante l'intervento mediante accoppiamento conico.
E' disponibile in diametri diversi: il diametro della testa influenza l’ampiezza dei movimenti concessi dalla protesi, in particolare teste di maggior diametro permettono movimenti più ampi e riducono il rischio di lussazione e contatto precoce dei componenti (impingement); a questi vantaggi si associano però maggiori forze di attrito, che aumentano all’aumentare del diametro della testa. Attualmente le testine più impiegate hanno un diametro pari a 28 o 32mm, ma esistono anche diametri inferiori o superiori (testine di diametro molto maggiori sono state impiegate in endoprotesi). La testa può essere realizzata in metallo o ceramica; nel caso di accoppiamento metallo-metallo, prove di laboratorio hanno dimostrato che il quantitativo di detriti dovuti all’usura diminuisce all’aumentare dei diametri.
STELO: è la parte che viene inserita nel canale diafisario del femore ed è fissato mediante cemento chirurgico o meccanicamente (press-fit). E’ sempre realizzato in leghe metalliche e può essere rivestito da uno strato di idrossiapatite o da metallo (tecnica plasma spray ad esempio) per favorirne l’osteointegrazione. La lunghezza degli steli varia in relazione alla tipologia, in particolare negli ultimi anni l’attenzione è stata posta sugli steli corti, infatti è’ ormai superato il concetto che uno stelo lungo permetta una maggiore distribuzione dei carichi, in quanto è stato dimostrato che i carichi cambiano poco e che determinano maggiore stress shielding con maggior rischio di mobilizzazione [28]. Oggi gli steli lunghi sono riservati agli interventi di reimpianto.
COLLO: può essere definito come la porzione di stelo che unisce la testina, o il cono di fissaggio, al corpo dello stelo. Un collo snello permette una maggiore escursione di movimento ed adottando sezioni non circolari si può privilegiare il movimento in un piano senza compromettere la resistenza strutturale.
COLLETTO: presente in alcuni modelli protesici, è una linguetta solidale con lo stelo che, una volta inserita nel canale femorale dovrebbe appoggiarsi a livello della porzione prossimale del femore, in particolare sul calcar, trasferendogli parte del carico, al fine di ridurre il riassorbimento osseo che si ha soprattutto in quest’area dopo il posizionamento di una protesi. Tutto questo è vero teoricamente ma, nella realtà risulta difficile realizzare un valido contatto tra calcar e colletto.
Generalmente le componenti sono modulari, cioè sono elementi istinti e perciò intercambiabili. La modularità rappresenta un grande passo in avanti nell’evoluzione delle protesi d’anca perché permette di combinare design e dimensioni diverse delle componenti in modo da adattare una protesi alle caratteristiche anatomo-morfologiche del paziente. L’obiettivo che si persegue è quello di ottenere una biomeccanica che si avvicini il più possibile a quella fisiologica, con un adeguato scarico delle forze ed una minima usura delle superfici articolari, in modo da garantire una maggiore stabilità nel tempo dell’impianto.
Fissazione delle componenti protesiche
La modalità con cui si ottiene l’ancoraggio delle componenti protesiche all’osso incide sulla distribuzione delle forze all’interfaccia osso-protesi e, quindi, sulla risposta dell’osso alle nuove condizioni di carico. Esistono due modalità di fissare una protesi all’osso: cementazione e press-fit [29,30].
La cementazione: utilizza il Metilmetacrilato (cemento osseo: Il nome cemento per ossa indica una classe di materiali a base di Polimetilmetacrilato PMMA ottenuto per polimerizzazione radicalica del Metilmetacrilato MMA, utilizzando il Perossido di Benzoile come iniziatore radicalico) e sfrutta le variazioni delle proprietà fisiche della resina nel suo processo di polimerizzazione. Esso viene inserito nella sede ossea che deve ricevere la componente protesica quando è ancora plastico e malleabile, quindi viene introdotta la parte protesica e il cemento viene lasciato indurire. Così, il cemento riempie totalmente lo spazio tra protesi e osso, penetrando anche negli anfratti e nelle irregolarità dell’osso. L’uso del cemento permette una fissazione immediata, in quanto la presa sull’osso circostante è ampia e diffusa e le forze meccaniche possono essere trasferite dalla protesi alla leva scheletrica. Il cemento quindi non è un materiale adesivo: non aderisce né all’osso né al metallo dello stelo; la sua funzione primaria è quella di sostanza di riempimento degli spazi fra protesi e osso con lo scopo di migliorare la distribuzione degli sforzi trasmessi durante il carico e di assorbire
gli urti. La migliore distribuzione degli sforzi trasmessi riduce la concentrazione degli sforzi stessi e la conseguente necrosi ossea che si osserva con una protesi non cementata mal impiantata. Il secondo scopo dell’uso del cemento è quello di ridurre il dolore dovuto ai micromovimenti relativi tra protesi ed osso. La fissazione immediata e la massimizzazione della superficie di contatto consentono un’ottima stabilizzazione primaria che permette il carico precoce sull’articolazione. Poiché l’osso è tessuto vivo vascolarizzato, è evidente che l’inserimento del cemento determina sempre e inevitabilmente un danno per il tessuto fino a formare zone di vera e propria necrosi. La presenza di queste aree sofferenti, unita all’alterazione della biomeccanica e del trasferimento dei fisiologici carichi, determina delle modificazioni dell’organizzazione dell’osso intorno all’impianto, che si svolgono in un lasso di tempo lungo, fino a 3-5 anni all’intervento. A queste problematiche si sommano due aspetti che devono essere considerati, in quanto possono compromettere la stabilità futura e la resistenza alla fatica meccanica di una protesi cementata: I cementi commerciali hanno ritiri volumetrici dello 0,5-1% durante l’indurimento e nei successivi 30 giorni subiscono una espansione volumetrica del 1-2% a causa dell’assorbimento di acqua e lipidi. Qualora il ritiro volumetrico sia maggiore, l’ancoraggio atteso della protesi può venir meno. L’altro spetto da considerare è la presenza di porosità che dipende molto dalla modalità di mescolamento della componente solida con quella liquida, in quanto tale operazione favorisce l’intrappolamento di aria nella miscela. In genere le porosità riducono le proprietà meccaniche del cemento fra cui la resistenza alla fatica meccanica.
Press-Fit: questa modalità di fissazione è caratterizzata dall’inserimento diretto della componente protesica nel canale femorale (a pressione), realizzando un contatto diretto tra protesi e osso, senza interposizione di cemento. Anche con questa tecnica comunque si produce un danno tissutale iniziale, con necrosi e rimodellamento del tessuto osseo fino al raggiungimento di un equilibrio. Questo incastro avviene sia a livello macroscopico (design della protesi) che microscopico (trattamento delle superfici delle componenti). La quantità di superficie dello stelo a contatto con l’osso è un aspetto importante da valutare, in quanto essa condiziona non solo la stabilità primaria ma anche la stabilità secondaria, poiché si è visto che superfici rugose o porose favoriscono l’apposizione di nuovo osso intorno alla protesi, processo fondamentale per l’osteointegrazione.
La stabilità primaria di una protesi non cementata (anche detta protesi a fissazione diretta) è influenzata dalla finitura superficiale della protesi, dal design dello stelo, e dall’abilità del chirurgo. L’ancoraggio di questo tipo di protesi richiede una congruenza anatomica difficile da realizzare sia nel canale midollare, sia sulle superfici di osteotomia; questo spiega l’importanza di un planning preoperatorio che guidi alla corretta scelta del modello e della taglia della protesi da impiantare. Il particolare meccanismo che permette l’ancoraggio delle protesi non cementate è rappresentato dalla presenza di micro-incastri all’interfaccia osso-protesi che, aumentando l’attrito tra le due superfici, contrasta la generazione di movimenti relativi.
La ricerca di adeguati tipi di finitura superficiale si basa su due diversi meccanismi che influenzano, rispettivamente, stabilità primaria e secondaria:
Stabilità meccanica iniziale (press-fit) per ottenere una salda fissazione già al momento dell’intervento, che si stabilizzerà in maniera completa in un secondo momento, mediante l’interposizione di tessuto fibroso;
Apposizione di osso neoformato (bone ingrowth) sulla superficie porosa di uno stelo metallico. È stato dimostrato che gli osteoblasti preferibilmente proliferano, si differenziano e producono la matrice mineralizzata negli alveoli e nelle scanalature di superfici non biologiche, di dimensioni simili a quelle prodotte dagli osteoclasti in vitro.
Le leghe più utilizzate per gli steli femorali non cementati sono la lega cobalto-cromo-molibdeno e la lega titanio-alluminio-vanadio. L'elasticità delle leghe al titanio è più vicina a quella dell'osso rispetto alle leghe cobalto-cromo; teoricamente questo dovrebbero produrre meno dolore alla coscia e meno stress-shielding; inoltre il cromo-cobalto è noto essere citotossico e molti lo considerano un potenziale agente cancerogeno. Il dolore alla coscia, tuttavia, si crede non sia dovuto solo alla rigidità del metallo ma anche alla geometria ed alla lunghezza dello stelo e dovrebbe essere assente o quasi negli impianti a presa metafisaria [31].
Le superfici di rivestimento svolgono un ruolo importante per la stabilità primaria grazie alla rugosità di superficie che ne aumenta l'attrito e quindi la tenuta.
Un'altra funzione molto importante e forse fondamentale che deve possedere il rivestimento di uno stelo e che ne condiziona il successo a lungo termine, è la capacità di determinare la stabilità secondaria.
Dobbiamo da principio distinguere due fenomeni: Ingrowth (microfissazione)
Ongrowth (macrofissazione)
Il primo rappresenta la crescita di tessuto osseo all'interno del materiale impiantato; questa caratteristica è ottenuta soprattutto con materiali di ultima generazione come ad esempio il titanio poroso a poro aperto o il trabecular metal. L'ongrowth è invece il fenomeno di crescita del tessuto osseo attorno al materiale impiantato [31].
La tipologia delle superfici di rivestimento regola tali fenomeni; esistono diversi tipologie di superficie che hanno lo scopo di aumentare l'ingrowth tra cui l'applicazione di grani di cobalto o titanio, la ricopertura di fibre di titanio e l'utilizzo di metalli porosi o il Trabecular metal (figura10).
Figura 3: struttura microscopica di trabecular metal, un metallo poroso che riproduce la struttura dell'osso trabecolare.
Le superfici di rivestimento sviluppate per favorire l'ingrowth hanno come costante la presenza di pori di una dimensione compresa tra i 100 e i 700 μm e di mantenere una percentuale di vuoti nel rivestimento tra il 30% ed il 40%, in modo tale da mantenere una adeguata resistenza meccanica. I
metalli porosi hanno una rete tridimensionale uniforme con un alta interconnettività tra i vuoti ed una porosità che varia dal 75% all'80% [31, 34].
L'ongrowth è invece aumentato utilizzando tecniche come il plasma spray e la sabbiatura dello stelo. Il plasma spray consiste in un mix di polveri di metallo (generalmente sono polveri di titanio) e gas inerti pressurizzati ed ionizzati che formano una fiamma ad alta energia. Il materiale fuso viene spruzzato sull'impianto creando una superficie rugosa che aumenta l'osteointegrazione. La sabbiatura crea una superficie rugosa attraverso il bombardamento dell'impianto con piccole particelle abrasive di corindone (ossido di alluminio).
Esistono differenze anche per quanto riguarda l'estensione della superficie della zona circonferenziale di rivestimento (completa od incompleta) e l'area di rivestimento (prossimale o diffusa) [31].
Per quanto riguarda invece il design dello stelo, in linea generale, gli steli possono essere classificati:
In base alla lunghezza: corti (con presa metafisaria a press-fit e fill distale) e lunghi (tradizionali con tenuta diafisaria a press-fit). In letteratura sono presenti varie classificazioni anche se la più accreditata è la JISRF Short Stem Classification System che distingue gli steli in 4 gruppi: head stabilization, neck stabilization, metaphyseal stabilization e conventional metaphyseal diaphyseal stabilization.
In base alla forma: possiamo distinguere Steli Retti (non tengono conto della forma del femore e il bloccaggio nel canale è permesso dalla loro forma a cuneo; esempio più classico è lo stelo Zweymuller), Steli Curvi (si adattano all’anatomia in modo da proseguire un contatto più esteso possibile), Steli Anatomici (capostipite è la protesi ABG, sono steli a presa metafisaria conformati per adattarsi alla forma del femore).
In base alle geometrie che regolano il livello a cui sarà ottenuta la fissazione (basandosi sul grado di contatto osseo e sulla progressione della zona di fissazione da prossimale a distale): si distinguono sei categorie [31]. In questa classificazione dal Tipo 1 al Tipo 4 gli steli sono dritti e al crescere del numero cresce anche la zona di fissazione. Il Tipo 1, 2 e 3 sono affusolati, disegnati per avere un fissaggio più prossimale, il Tipo 4 è completamente rivestito
per ottenere una fissazione più distale. Il Tipo 5 è una protesi modulare, il Tipo 6 ha un design anatomico ed è curvo (figura 11).
Figura 4: Classificazione degli steli femorali non cementati: (P=posteriore e A=anteriore)
Tipo 1: Lo stelo tipo 1 od a cuneo singolo è stato disegnato per impegnarsi nell'osso corticale metafisario in un singolo piano: da mediale a laterale. Lo stelo è piatto e sottile sul piano antero-posteriore, si restringe prossimalmente sul piano medio-laterale e si assottiglia distalmente. Il rivestimento si trova classicamente tra un terzo e un quinto prossimali dell'impianto. La stabilità iniziale si ottiene attraverso la fissazione del cuneo sul piano medio-laterale oppure attraverso il fisaggio in tre punti (posteriormente in due punti, prossimale e distale, anteriormente nella porzione intermedia) lungo la lunghezza dello stelo. La stabilità rotazionale si ottiene grazie alla forma ampia del piatto. La preparazione richiede brocciatura, ma non alesatura distale [31].
Tipo 2: Gli steli tipo 2, detti anche a doppio cuneo od a riempimento metafisario, sono stati disegnati per prendere contatto con la corticale prossimale su due piani: antero posteriore e medio-laterale. Questi steli sono più ampi sul piano anteroposteriore rispetto al tipo 1 e la porzione distale può
essere affusolata od arrotondata per riempire il canale. Per impegnare endostio distale sono utilizzate delle linguette che sono solitamente combinate con delle scanalature per diminuire la rigidità dello stelo. La preparazione necessita di alesatura distale e brocciatura prossimale.
Tipo 3: Gli steli tipo 3 hanno un lungo cono in entrambi i piani: mediale-laterale ed antero-posteriore. A differenza degli steli tipo 1 e 2 non ci sono bruschi cambiamenti della geometria o nel rivestimento, ma la fissazione è ottenuta più prossima alla giunzione metafisaria-diafisaria. Gli steli tipo 3 si suddividono in 3 sottogruppi:
Tipo 3A: i componenti sono affusolati, con un design conico e la maggior parte hanno un rivestimento poroso nei due terzi prossimali e si fissano in 3 punti. Possono esserci delle alette per aumentare la stabilità rotazionale. La preparazione richiede alesatura distale e brocciatura prossimale.
Tipo 3B: lo stelo è di forma conica con delle linguette sollevate longitudinali per la fissazione. Il bordo tagliente si incunea nell'osso ed aumenta la stabilità rotazionale. Dato il profilo stretto dello stelo prossimale, c'è libertà nella versione di controllo; questo lo rende ideale per i casi complessi con disordini dell'anatomia prossimale del femore. La preparazione richiede alesatura distale e brocciatura prossimale.
Tipo 3C: lo stelo è rettangolare, affusolato, conico ed è sabbiato per la sua intera lunghezza. Ha una sezione rettangolare in grado di impegnarsi in tre punti sulla giunzione metafisaria-diafisaria e sulla parte prossimale della diafisi. La sua sezione fornisce quattro punti di fissaggio per la stabilità rotazionale. La preparazione richiede solo una brocciatura prossimale.
Tipo 4: Questo design si affida alla fissazione lungo tutta l'intera protesi, impegnando l'osso corticale alla diafisi. La maggior parte della protesi è rivestita da una superficie a crescita interna ed il collo è posto prossimalmente. La preparazione richiede una brocciatura prossimale ed una alesatura distale.
Tipo 5: Gli steli tipo 5 hanno un design modulare e permettono una preparazione indipendente e separate delle componenti per la metafisi e la diafisi, offrono varie combinazioni e sono solitamente
riservati per le operazioni più complesse. Le indicazioni includono anomalie anatomiche e mal allineamenti rotazionali. La preparazione richiede alesatura diafisaria e lavorazione metafisaria. Tipo 6: Le protesi sono anatomiche e combaciano con la geometria dell'endostio femorale prossimale, sono più ampie sia prossimalmente, sia lateralmente e sia posteriormente. Sul piano laterale, si piega posteriormente nella metafisi e anteriormente nella diafisi. Questi steli hanno un antiversione del collo, distalmente invece sono affusolati o cilindrici. La stabilità è ottenuta attraverso il riempimento metafisario e la curvatura distale. La preparazione consiste in alesatura distale e brocciatura metafisaria [31].
Gli impianti a presa metafisaria ed a risparmio di collo esulano da questa classificazione. Questi si collocano a metà strada tra le protesi di rivestimento e gli steli standard.
Stabilità primaria e secondaria delle protesi cementate e non cementate
L’osteointegrazione delle protesi a fissazione diretta presenta aspetti analoghi al processo riparativo attivato nelle fratture, seppur con alcune differenze. La differenza fondamentale tra i due eventi è che l’osteointegrazione non interviene tra due parti di osso, ma tra un osso e la superficie di un impianto, per cui acquistano un’importanza preponderante il materiale (deve essere bioinerte, come il titanio), la superficie e la forma dell’impianto.
Una volta avviata, l’osteointegrazione segue uno schema comune in cui si individuano tre stadi: 1. Formazione di osso fibroso: Il primo tessuto osseo che si forma è il cosiddetto osso fibroso.
Si tratta di un tipo primitivo di tessuto osseo caratterizzato dall’orientamento casuale delle fibrille collagene e da una densità minerale relativamente bassa. La sua peculiarità è che cresce ad una velocità relativamente elevata, formando un’impalcatura di fibrille e lamine. La formazione di osso fibroso è il processo predominante nelle prime 4-6 settimane dopo l’intervento chirurgico.
2. Adattamento della massa ossea al carico: Nel secondo mese dopo l’intervento, l’osso acquista maggiore resistenza grazie alla deposizione di tessuto osseo lamellare ed a fibre
parallele. Nessuno di questi due tipi di tessuto osseo è in grado di formare un’impalcatura come l’osso fibroso, quindi crescono semplicemente depositandosi su un substrato solido preesistente. Ci sono tre superfici che possono servire come substrato per la deposizione dell’osso a fibre parallele e lamellare: l’osso fibroso, formatosi nel primo stadio dell’osteointegrazione, una superficie ossea preesistente od intatta e la superficie dell’impianto.
3. Adattamento della struttura ossea al carico: E’ questa la fase in cui si ha il rimodellamento osseo che rappresenta l’ultimo stadio dell’osteointegrazione. Esso inizia nel terzo mese circa e, dopo diverse settimane di attività sempre più intensa, rallenta per poi continuare per tutta la vita. Il rimodellamento osseo inizia con il riassorbimento osteoclastico, seguito dalla deposizione di osso lamellare. Dopo 2-4 mesi si è formato il nuovo osteone.
In uno scheletro sano il riassorbimento e la formazione di tessuto osseo non sono solo accoppiati ma anche in equilibrio, così da mantenere costante la massa scheletrica per un lungo periodo di tempo. Se si determina uno sbilanciamento tra i due a favore del riassorbimento, si ha un deficit locale di tessuto osseo che può progredire fino a determinare il quadro tipico dell’osteoporosi. Questa breve descrizione della biologia dell’osteointegrazione e del rimodellamento ha la finalità di introdurre un concetto alla base della stabilità sia delle protesi cementate che non cementate. Sebbene la risposta iniziale dell’osso ai due tipi di impianto sia diversa, in quanto il “bone ingrowth” si osserva esclusivamente negli impianti non cementati, nelle fasi successive l’organizzazione in osso lamellare segue percorsi identici nelle due situazioni. Questo fatto è perfettamente coerente con il principio che il rimodellamento è un adattamento della struttura ossea alle forze meccaniche che su di essa agiscono ed appare, pertanto, a distanza di tempo, analogo nei due tipi di fissazione. Ne deriva che la valutazione del supporto strutturale deve far riferimento all’organizzazione complessiva della struttura lamellare del segmento scheletrico che supporta l’impianto e questo vale per entrambi i tipi di protesi. Avere un contatto osso-stelo o osso-cemento molto esteso non vuol dire scongiurare il rischio di mobilizzazione della protesi, perché la misura della stabilità di una protesi è data dal numero e dalla consistenza dei setti ossei che uniscono la superficie endostale con la superficie dell’impianto, non dalla misura della superficie in sé. Non va dimenticato inoltre che
la densità ossea periprotesica, risultante dall’adattamento dell’osso alle sollecitazioni meccaniche trasmesse dall’impianto, non è immutabile nel tempo: una modificazione del metabolismo dell’osso (osteoporosi, patologie primitive o secondarie) o variazioni delle forze applicate (peso, attività fisica…) possono modificare questo equilibrio dinamico, fino al cedimento meccanico. Questo spiega il razionale dell’utilizzo della DEXA nel follow-up degli impianti protesici.
Riassumendo si può concludere che la stabilità primaria è ottenuta al momento dell’impianto, mentre la stabilità secondaria è il risultato della riparazione e del rimodellamento osseo che avvengono durante e dopo il processo di guarigione [35]. I due tipi di protesi (cementata, non cementata) differiscono per i meccanismi che determinano la stabilità primaria [36]: l’uso del cemento comporta una fissazione immediata, ottenuta con la solidificazione del PMMA; la stabilità primaria delle protesi a fissazione biologica è garantita principalmente dalla forma dello stelo, quindi dal disegno macroscopico, ma anche dai micro-incastri osso-protesi, dipendenti dalla finitura superficiale della protesi; non a caso per questo tipo di protesi si parla di fissazione per incastro (press-fit) (figura 12).
La protesi ACUTA AGILIS® (Adler Ortho®)
Lo stelo ACUTA®
Lo stelo A-ACUTA realizzato in lega di titanio (Ti6Al4V) conforme alla normativa ISO 5832-3:1996 appartiene alla famiglia di steli con alette (ALATA) commercializzata da ADLER ORTHO s.r.l. a partire dal 2005. Si tratta di uno stelo conico, dritto, del Tipo 3B secondo la classificazione in base al livello in cui si ottiene la fissazione. Il processo di sabbiatura superficiale atto a garantire un livello di rugosità nell’intervallo Ra 2,5-6 e la struttura intrinseca dello stelo, assicurano un ottimo supporto alla crescita e ancoraggio all’osso. Progettato per il trattamento della displasia congenita dell’anca può essere indicato anche in casi primari quando il femore è particolarmente dritto, cilindrico e piccolo o in caso di revisioni semplici (figura 13).
Figura 6: Stelo Acuta®
E’ disponibile in 12 taglie (dalla 13 alla 22) che presentano tutte la stessa lunghezza, fatta eccezione per la 13. Lo stelo ha una conicità di 5° sull’intera lunghezza e otto alette longitudinali la cui altezza varia da 1.2mm a 2mm in funzione della taglia e rimane costante per tutta la lunghezza dello stelo, consentendo una penetrazione nell’osso variabile da 0,1 mm a 0,7 mm, in base alla consistenza dell’osso stesso. Grazie a tali caratteristiche, le alette sono in grado di garantire in tutti i casi una fissazione primaria efficace, un contatto ottimale per tutta la lunghezza dello stelo ed un’ottima stabilità rotazionale.
La parte superiore presenta un cono femmina atto ad ospitare i colli modulari Modula® e vi è una fessura utile per ospitare sia l’impattatore dello stelo, sa gli strumenti di estrazione.
Il cotile AGILIS®
E’ un cotile emisferico monoblocco da usarsi con tecnica non cementata “press-fit”. Il cotile è preassemblato con un inserto in ceramica Biolox Delta ed è disponibile con diametri interni, a seconda della taglia, di 32, 36, 40, 44, 48 mm.
La superficie esterna del cotile AGILIS presenta una struttura reticolare con interspazi di 700 micron atta a favorire la ricrescita ossea e quindi successivamente un’ottima osteointegrazione secondaria. E’ stato progettato per articolarsi con teste di grandi dimensioni così da garantire un ampio range di movimento dell’anca, aumentare la stabilità articolare e ridurre il rischio di impingement, sublussazioni e dislocazioni.
Figura 7: Cotile Agilis®
Il materiale costituente l’inserto in ceramica è la ceramica a base di allumina mentre quello costituente la coppa acetabolare è la lega di titanio-alluminio-vanadio (Ti6Al4V), utilizzando la “tecnologia delle polveri”. Inizialmente ideato per applicazioni aerospaziali e per la realizzazione di prototipi, si tratta di un sistema assolutamente innovativo ed originale per produrre protesi ortopediche
.
Adler Ortho è stata la prima azienda al mondo ad utilizzare questa tecnologia in ortopedia ed a trasformare il processo di fabbricazione con polveri da un sistema per la realizzazione di prototipi ad un mezzo industriale realizzando produzioni in serie di impianti protesici. La tecnologia delle polveri permette la produzione di strutture metalliche tridimensionali monolitiche altrimenti irrealizzabili. Questo consente non solamente la realizzazione di impianti custom madeanche molto complessi, ma anche di produrre in serie protesi articolari non cementate dotate di superfici tridimensionali monoblocco ideali per la promozione della osteointegrazione.
Il cotile Agilis ha inoltre una superficie tridimensionale monolitica per la ricrescita ossea Ti-Por®. Il Ti-Por® rappresenta l’applicazione della tecnologia delle polveri alla lega di Titanio, uno dei risultati
più eclatanti della ricerca Adler Ortho® (figura15).
Figura 8: Sezione della superficie Ti-Por®; Ingrandimento della superficie
Il Ti-Por®, grazie alla sua alta rugosità, fornisce alle protesi non cementate una stabilità primaria
enormemente più elevata rispetto alle ricoperture tradizionali.
Inoltre il Ti-Por®, essendo costruito in un pezzo unico assieme all’impianto stesso fornisce una resistenza allo sfaldamento assolutamente superiore rispetto ai sistemi di porous coating o di plasma spray normalmente utilizzati per le protesi ortopediche.
Il sistema di colli modulare MODULA®
In lega di Titanio è un sistema per ricostruire accuratamente l’anatomia femorale caratterizzato da un’esclusiva geometria a matrice lineare che permette la regolarizzazione indipendentemente all’offset e dalla lunghezza. La matrice frontale permette 9 opzioni differenti sul piano frontale con un range di regolazione dell’offset e della lunghezza di 15mm. Una volta scelto l’accoppiamento offset/lunghezza corretto si può, se necessario, scegliere anche colli con antiversione o retroversione, permettendo di spostare anteriormente o posteriormente il centro di rotazione della testina di 7,5mm senza modificarne in alcun modo i due parametri precedentemente determinati. In
tutto l’operatore ha a disposizione 27 opzioni differenti per ricostruire la geometria dell’anca del paziente (figura 16).
Figura 9: sistema di colli modulari MODULA®
Onde semplificare l’utilizzo delle 27 opzioni offerte dal sistema MODULA® i colli di prova e gli impianti definitivi sono tutti identificati da un codice colore e da una denominazione alfanumerica; i colli modulari di prova nello strumentario sono raccolti in maniera razionale seguendo il concetto della matrice ed il codice colore. In questo modo l’operatore può muoversi in maniera logica ed intuitiva fra le opzioni di Offset/Lunghezza oltre che fra le versioni disponibili. L’impiego di colli modulari con grande off-set frontale e/o antiversione o retroversione in pazienti molto pesanti e/o che svolgono attività sportive e/o professionali molto intense, deve essere valutato molto attentamente dall’operatore in quanto il rischio di complicazioni potrebbe essere superiore alla norma.
Teste BIOLOX Delta®
Disponibili con diametri da 28mm, 32mm, 36mm, 40mm, 44mm, e 48mm (con sleeve modulare). Sono inoltre disponibili testine con sleeve metallico per tutti i diametri normalmente utilizzate nel
caso di revisione della componente ceramica (figura 17).
L'intervento Chirurgico
Indicazioni alla terapia chirurgica
I pazienti sono considerati candidati all'intervento chirurgico di sostituzione totale dell'anca quando ogni altro tipo di tentativo d'approccio più conservativo è fallito. Le indicazioni dell'intervento sono la perdita di mobilità articolare, la presenza di dolore, i segni radiografici di artrosi avanzata ed una qualità di vita non più accettabile. La terapia chirurgica si pone come obiettivo quello di eliminare il dolore e migliorare la mobilità articolare. É importante informare correttamente il paziente sull'intervento, per non creare false aspettative sul risultato chirurgico. Le controindicazioni assolute all'intervento sono rappresentate da scadute condizioni generali e la presenza di infezioni; le relative controindicazioni sono: alcune malattie neurologiche e psichiatriche da non trascurare, inoltre, l'obesità per il carico meccanico che andrà a gravare sulla protesi. Un requisito necessario all'impianto di una protesi d'anca non cementata è una buona qualità ossea, infatti, quando l'indice corticale (cortical index), definito come il rapporto tra il diametro esterno del femore ed il diametro del canale midollare all'altezza dell'istmo (misurati su una radiografia antero-posteriore) del femore, è minore del 48% o l'indice di svasatura del canale (flare index) è minore del 3% è raccomandata una protesi di tipo cementato [37, 38].
Studio radiologico e pianificazione preoperatoria
Ogni paziente che si sottopone ad intervento dovrà eseguire uno studio radiologico. Sono consigliate una proiezione antero-posteriore (AP) del bacino in ortostatismo che mostri entrambe le anche, una proiezione AP dell'anca da operare che si estenda al di sotto dell’istmo femorale e una proiezione inguinale (figura 18).
I reperti radiografici possono differire in base alla causa dell'artrosi, tuttavia un'artrosi in fase avanzata ha un aspetto caratteristico. La maggior parte delle radiografie evidenzia una riduzione dello spazio articolare; osteofiti, in particolare sul bordo superiore dell'acetabolo; cisti subcondrali e sclerosi sia dell'acetabolo che della testa del femore.
Figura 11: Studio radiologico preopoeratorio: proiezione AP, proiezione inguinale, segni radiografici di coxartrosi
Lo studio radiografico premette, insieme all’osservazione morfo-funzionale della deambulazione del paziente (dismorfismi, vizi di atteggiamento, eterometrie), un planning preoperatorio di tipo bidimensionale.
Si parte dall’osservazione delle radiografie eseguite per valutare le caratteristiche morfologiche e anatomiche dell’anca quali orientamento articolare, centro di rotazione, angolo cervico-diafisario del femore (varo-valgo), antiversione del collo femorale, grado di lateralizzazione del femore (offset), cavità geodiche, osteofiti, aree di osteosclerosi e deviazioni assiali, distorsione o curvatura femorale. Si procede quindi alle misurazioni radiografiche per definire un’ipotesi di impianto protesico in termini di modello, taglia e posizione delle componenti, metodo di fissazione e strategia per la ricostruzione articolare. Si riproducono dunque sulla lastra radiografica del bacino le linee del piano basale, della congiungente dei tetti acetabolari, dei piccoli trocanteri, dell’equatore acetabolare, si misura poi l’angolo di inclinazione acetabolare, si segna il centro di rotazione e si disegna su una carta lucida trasparente sovrapposta alla radiografia il profilo dell’emibacino patologico, dopodiché, con l’utilizzo di template sulla radiografia si determina la dimensione presumibile del cotile e dello stelo femorale con il livello ottimale di affondamento dello stelo, la lunghezza del collo e della testina protesica e la linea di resezione del collo riportando il tutto sul lucido da disegno (figura 19).
A questo punto si completa il disegno con la riproduzione della testa femorale che verrà resecata per misurare la distanza tra apice della testa e base dell’osteotomia e il diametro maggiore della testa, distanze che saranno poi misurate durante l’intervento e che serviranno per verificare la congruità del piano preoperatorio.
A completamento della pianificazione preoperatoria occorre verificare se la posizione dello stelo e la lunghezza del collo selezionato determinano una soddisfacente geometria articolare, in particolare in merito all’entità dell’offset femorale e del braccio di leva degli abduttori che rappresentano parametri estremamente importanti per il riequilibrio muscolare e legamentoso che è biomeccanicamente necessario per ottenere la stabilità articolare statica e dinamica, la corretta trasmissione dei carichi e una cinematica fisiologica. Errori di offset e di metria, infatti, sono sempre causa di insoddisfazione del paziente e possono anche portare a problematiche medico-legali per il chirurgo [39].
Figura 12: fasi del planning preoperatorio
Uno studio TC non è generalmente necessario nella maggioranza dei pazienti, può essere utile in quelli con quei pazienti con grave deformità dell'anca e per quelli che necessitano una protesi fatta su misura. Permette inoltre un planning peroperatorio di tipo tridimensionale con software dedicati. La risonanza magnetica (RM) è utile solo per la diagnosi di osteonecrosi.
Accesso chirurgico
Esistono molti tipi di accessi chirurgici per la sostituzione totale d'anca, tutti con i loro vantaggi e svantaggi, è necessario che il chirurgo conosca i limiti di ogni tecnica e che in base anche alla
tipologia di paziente scelga quella più adatta. I più utilizzati sono rapprresentati dall’accesso laterale diretto di Hardinge, il posteriore di Kocher-Langebeck, l'antero laterale trans-trocanterica, l'anteriore di Smith-Petersen ed il postero laterale di Gibson-Moore [37, 39].
Tra questi tipi di accesso quello postero laterale tipo Gibson-Moore è quello più frequentemente utilizzato nei casi trattati presso la II Clinica Ortopedica di Pisa ed in tutti i pazienti analizzati in questa tesi.
L'accesso postero laterale di Gibson Moore
Garantisce una buona esposizione dell'acetabolo e del femore ed offre il vantaggio di una minore dissezione, di una mancata disinserzione dei muscoli abduttori e di un recupero postoperatorio più breve. Lo svantaggio principale che viene riportato da molti autori circa l'utilizzo di questa tecnica è il rischio di lussazione ma questa complicanza può essere minimizzata da un corretto orientamento delle componenti protesiche, da una accurata riparazione dei tessuti molli della loggia posteriore e da precauzioni comportamentali da adottare durante la fase di riabilitazione che evitino il movimento di lussazione.
Il paziente viene posizionato in decubito laterale e si pratica un'incisione di 1-2 cm posteriormente al gran trocantere che continui prossimalmente per circa 3 cm con una linea curva a concavità posteriore. Per via smussa si raggiunge la fascia che viene sezionata longitudinalmente, si esegue quindi split delle fibre del grande gluteo. Si incide la borsa trocanterica per visualizzare i muscoli extrarotatori (piriforme, gemelli, otturatorio interno e quadrato del femore) e, ad arto intraruotato si incide il tricipite dell'anca (muscoli gemelli e l'otturatorio interno) risparmiando il quadrato del femore quando possibile (figura 20).
Si esegue quindi sezione del piriforme e capsulotomia posteriore oppure si procederà alla creazione di un lembo capsulare posteriore. Si posiziona un divaricatore inferiormente al collo del femore, si esegue lussazione del femore e si procede all'osteotomia del collo come da planning preoperatorio e quindi alla rimozione della testa. L'acetabolo viene esposto proteggendo le fibre del medio gluteo ed avanzando il femore. Con un divaricatore a punta che fa leva sul margine anteriore dell'acetabolo, si posiziona un divaricatore sul legamento acetabolare trasverso e a livello del muro supero-laterale. Con le apposite frese si prepara l'acetabolo e si posiziona la componente cotiloidea. Si passa quindi alla preparazione del femore posizionandolo a 90° di intrarotazione, flessione e adduzione; utilizzando un divaricatore inserito subito al di sopra del piccolo trocantere si eleva il femore per separare il collo femorale dai tessuti molli posteriori. Si protegge sempre il medio gluteo con apposito divaricatore posizionato sul margine anteriore del gran trocantere in corrispondenza della fossetta del piriforme. Si prepara il femore con le apposite brocce e si posizionano le componenti femorali di prova. Si valuta quindi la geometria e la stabilità dell'impianto con le componenti di prova eseguendo manovre di lussazione, abduzione ed extrarotazione. Si valuta inoltre la corretta lunghezza dell'arto. Dopo l'impianto delle componenti definitive, si suturano gli extrarotatori brevi e, se presente, il lembo capsulare sul gran trocantere, attraverso fori effettuati con un trapano. La sutura della fascia e degli strati superficiali pone fine all'intervento.
Sostituzione dell'acetabolo
La ricostruzione dell'acetabolo inizia con la pulizia dei tessuti molli periferici e della cartilagine residua, identificando i punti di repere ossei. Si deve identificare l'ischio, il pube e il legamento acetabolare trasverso. Si posiziona un divaricatore sotto il legamento acetabolare trasverso e dietro la parte inferiore del muro mediale. Se è presente un osteofita a livello del pulvinar va rimosso per identificare correttamente il muro mediale, che è un importante punto di repere per determinare la profondità dell'alesatura dell'acetabolo [37, 39]. L'alesatura iniziale stabilisce la profondità e deve essere diretta medialmente. Si procede ad alesaggi sequenziali, aumentando ogni volta le dimensioni dello strumento (2 mm o 1 mm per volta). Le dimensioni della componente acetabolare è limitata dal diametro anteroposteriore dell'acetabolo. Il fine dell'alesatura è quello di trasformare
l'acetabolo in una semisfera di osso subcondrale sanguinante, salvaguardando il vero pavimento acetabolare e garantendo il massimo contenimento protesico. La perdita di osso subcondrale indebolisce significativamente la resistenza dell'osso, occorre quindi asportarne il meno possibile. In alcuni pazienti l'osso subcondrale è di scarsa qualità soprattutto in quelli che hanno tenuto l'anca in scarico per un certo periodo, nei pazienti affetti da osteoporosi e nei pazienti affetti da artrite infiammatoria, soprattutto se in terapia con steroidi. A volte invece l'osso subcondrale può essere talmente sclerotico da contrastare l'alesatura, in questo caso si deve direzionare attentamente l'alesatore ed in alcuni casi rimuovere l'osso sclerotico con una fresa prima di continuare ad alesare. Terminato il processo di alesatura, si posiziona la componente acetabolare che solitamente è di 1 mm o 2 mm di diametro periferico massimo più grande dell'ultimo alesatore utilizzato (nei giovani e con un osso resistente può essere sufficiente 1 mm). Questo passaggio è variabile da impianto ad impianto in funzione del rivestimento, della geometria e della fissazione primaria. L'inserimento corretto della componente acetabolare avviene attraverso delle guide, la loro utilità tuttavia dipende dalla corretta posizione del bacino (che varia comunque a seconda della via di accesso). Il posizionamento ideale della componente acetabolare è a 30°-40° di abduzione sul piano orizzontale e massimo 15°-25° di antiversione. Una volta posizionata la componente acetabolare devono essere rimossi tutti gli osteofiti. L'utilizzo di mezzi aggiuntivi per la fissazione è tutt'ora controverso. Alcuni studiosi hanno dimostrato che le viti possono migliorare la fissazione, dimostrando che la maggior parte della ricrescita ossea si verifica attorno a queste ultime. Il chirurgo che utilizza le viti deve conoscere la zona di fissazione migliore, che è stato dimostrato essere l'ileo superiore. É stato dimostrato anche che la fissazione bicorticale è migliore di quella unicorticale. Altri invece preferiscono utilizzare le viti solo quando è necessario un mezzo aggiuntivo di fissazione, per la paura della messa in circolo di frammenti particolati [37, 39].
La componente femorale
Il primo passo per la ricostruzione femorale è l'osteotomia del collo. Questo viene generalmente determinato durante la pianificazione preoperatoria. Il secondo passo è l'alesaggio del canale intramidollare che ha lo scopo di modellare l'osso per accogliere la protesi. Il tipo di alesatore che
utilizzeremo varierà in base alla forma della componente femorale. Nel caso di steli dritti, progettati una fissazione prossimale, si utilizzano alesatori rigidi, cilindrici o conici; alesando il femore a misura o poco di più dello stelo da impiantare. Nel caso di steli progettati per fissazione distale o diafisaria si utilizzano alesatori cilindrici e si deve alesare 0,5-1 mm meno della misura dello stelo. In questa fase se il chirurgo non percepisce una significativa resistenza ad una misura inferiore a quella prevista è necessario che rivaluti la direzione di alesatura ed il foro pilota; un errore può provocare la perforazione del canale femorale e/o la frattura del femore. Occorre fare attenzione anche alla tendenza dell'alesatore di andare in varo, oppure ad una eccessiva flessione od estensione dell'alesatore rispetto al femore [37, 39]. Il terzo passo consiste nella preparazione del femore prossimale utilizzando una serie di brocce. Per gli steli a fissazione prossimale, la misura corretta della broccia è quella che riempe completamente la metafisi prossimale del femore e che garantisce la migliore stabilità rotatoria. Per gli steli a fissazione distale, la misura della broccia è valutata in base all'alesatore utilizzato per ottenere la migliore tenuta diafisaria. Occorre porre molta attenzione alla valutazione della stabilità rotatoria, un errore potrebbe causare la frattura del femore. Se si dovessero incontrare difficoltà a posizionare una broccia di misura corretta, occorrerebbe valutare il livello dell'osteotomia del collo femorale. Un'osteotomia bassa può dare la falsa impressione di una broccia non posizionata bene [37, 39]. Si effettua a questo punto la riduzione di prova per valutare la stabilità dell'anca, si flette e si intraruota l'anca per controllare che vi sia una corretta antiversione della componente acetabolare e di quella femorale, si effettua poi una estensione e una extrarotazione per controllare che le componenti non siano troppo antiverse. Se tutto dovesse essere corretto, si tolgono le componenti di prova e si impiantano le componenti definitive. Nel caso di steli a fissazione prossimale, si avvertirà una piccola resistenza all'inserimento fino agli ultimi 1-2 cm dal termine. Gli steli a fissazione distale richiedono una forza notevole per vincere la resistenza.
Complicanze
La protesi totale d'anca costituisce una delle più efficaci procedure della chirurgia ortopedica, tuttavia esistono delle complicanze precoci e tardive che ne possono determinare l'insuccesso. Le complicanze precoci si possono dividere in relative al paziente e relative alla protesi. Tra le varie
complicanze tardive che si possono presentare la mobilizzazione è la più temuta e può essere di tipo settico o asettico.
Complicanze precoci relative al paziente
Trombosi venosa profonda ed embolia polmonare: è la causa principale di morbidità e mortalità nei pazienti sottoposti ad intervento. In assenza di profilassi l'incidenza di trombosi venosa sarebbe del 70%, mentre il 20% andrebbe incontro ad embolia polmonare. La profilassi si esegue con somministrazione di anticoagulanti (l'eparina a basso peso molecolare è più utilizzata in Europa mentre il warfarin è più utilizzato negli Stati Uniti) calze elastiche post-intervento e mobilizzazione precoce.
Complicanze precoci relative alla protesi
Lesioni nervose e vascolari: il nervo più frequentemente interessato è il nervo sciatico (ma possono essere colpiti anche l'otturatorio, il gluteo ed i nervi femorali); la lesione può essere transitoria o permanente. Per quanto riguarda il versante vascolare i vasi più colpiti sono l'arteria e la vena iliaca esterna, l'arteria e la vena otturatoria. Le lesioni neurologiche sono generalmente dovute a trazione, compressione da ematoma o divaricatori mal posizionati. Le lesioni vascolari sono per lo più da correlare al posizionamento delle viti per la fissazione della componente cotiloidea.
Lussazione dell’impianto: La dislocazione della protesi può essere sia una complicanza precoce che tardiva. la fuoriuscita della testa femorale dalla coppa acetabolare si verifica mediamente nell'1-3% degli interventi primari. La causa principale è l'inadeguata compliance dei pazienti alle limitazioni precauzionali post operatorie (es. evitare intrarotazione e flessione oltre 90° dell'arto operato nelle vie di accesso posteriori), oppure può essere dovuta a malposizione delle componenti (più frequente la malposizione di quella acetabolare). La maggior parte dei casi si verifica entro 6 mesi dall'intervento e la maggior parte sono trattati