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Introduzione

Tutti i modelli di protesi d’anca attualmente impiegati possono essere divisi in tre tipologie:

¾ protesi non cementate;

¾ protesi cementate;

¾ ibride, nelle quali solo la componente femorale è cementata.

Nelle protesi non cementate i componenti vengono fissati all’osso mediante un accoppiamento diretto. Lo stelo della protesi è forzato (press fitted) nella cavità midollare ossea preparata, mentre l’acetabolo (parte semisferica che ricopre la testina) della protesi viene fissato nella cavità cotiloidea (figura 1). Viene così assicurata una stabilità primaria della protesi mediante forzamento meccanico per raggiungere, poi, una stabilità secondaria grazie ad un ancoraggio biologico dovuto alla crescita ed al rimodellamento del tessuto osseo che circonda la protesi.

Fig.1. Bacino di donna (A) e di uomo (B) visto dal davanti.

1, sacro; 2, fossa iliaca; 3, spina iliaca; 4, cavità cotiloidea; 5, sinfisi pubica; 6, ischio; 7, forame otturato.

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In generale, infatti, si parla di due tipi di stabilità: primaria e secondaria.

Con il concetto di stabilità primaria si intende la stabilità della protesi a breve termine (meccanica) e viene ottenuta tramite l’inserimento a pressione dello stelo della protesi nel canale osseo femorale (press-fitted), il quale è stato preparato per consentire una migliore adesione con l’impianto. La tecnica chirurgica risulta particolarmente critica per la stabilità primaria delle protesi non cementate; infatti una raspatura eccessiva dell’ordine dei 200 µm è sufficiente per compromettere l’osteointegrazione. Va precisato che la stabilità primaria dello stelo di una protesi non cementata non è solo funzione della sua definizione, ma anche delle qualità meccaniche dell’osso, della eventuale presenza di gap fra osso e impianto, del peso corporeo del paziente e della taglia della protesi stessa. In particolare la qualità dell’osso prima dell’operazione non costituisce da un punto di vista biomeccanico, un fattore determinante per il raggiungimento di una stabilità primaria (esclusi i casi di una demineralizzazione estrema), mentre è un fattore sicuramente critico da un punto di vista biologico. Poiché risulta difficile poter considerare e misurare in vitro tutti i parametri che influenzano la stabilità primaria, risulta di particolare interesse l’impiego di un modello agli elementi finiti in grado di simulare il comportamento dell’impianto con buona approssimazione.

L’utilizzo simultaneo di modelli sperimentali e numerici portano ad una comprensione e valutazione del fenomeno molto più approfondita.

Con il concetto di stabilità secondaria, invece, si intende la stabilità della protesi a lungo termine (biologica) e viene garantita dalla crescita del tessuto osseo, che stabilisce un intimo contatto con l’interfaccia dell’impianto. Risulta quindi evidente come il mancato raggiungimento di una buona stabilità primaria, per le protesi non cementate, rappresenti un requisito fondamentale per ottenere una buona stabilità secondaria. Così, è fondamentale valutare il livello di stabilità primaria che può essere raggiunta dal chirurgo con un nuovo dispositivo protesico.

Lo stato di mineralizzazione dell’osso e l’età del paziente sono le principali

caratteristiche che condizionano la scelta del tipo di protesi. Nei soggetti più giovani si

preferisce in genere l’utilizzo delle protesi non cementate, date le maggiori potenzialità

osteogeniche di rimodellamento del tessuto osseo, mentre, in quelli anziani (o

comunque affetti da patologie del metabolismo osseo) si utilizzano di solito protesi non

cementate.

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Le cause più frequenti, che portano ad eseguire l’intervento di protesi d’anca, sono riconducibili ad artrosi primaria (consumo precoce dei capi articolari), necrosi idiomatica (morte cellulare per alterazione del circolo sanguigno) della testa del femore, frattura del collo del femore, artriti reumatiche, artrosi e necrosi post traumatiche e altre cause poco frequenti [Toni A. et al., 2002; Stea S. et al., 2002]. La causa principale di intervento è comunque riconducibile all’artrosi primaria. Ad oggi, l’intervento di protesi d’anca fornisce ottimi risultati nella maggior parte dei pazienti [NHI, 1982].

La vita della protesi non cementata dipende dal processo d’integrazione fra due entità profondamente diverse tra loro come l’osso e la protesi stessa. Il primo ha una struttura complessa e in costante evoluzione, mentre la seconda ha una struttura meccanica notevolmente sollecitata sia dall’ambiente chimicamente aggressivo che dai carichi indotti dall’attività motoria. L’integrazione totale fra queste due entità è attualmente irraggiungibile non solo per le diverse proprietà meccaniche dei due componenti ma anche per l’impossibilità della protesi di modificarsi in relazione al continuo cambiamento dell’ambiente circostante. Per questo, non si può pensare di realizzare una protesi che assicuri una durata illimitata dell’impianto, ma si può cercare di affinare sempre di più il processo di ottimizzazione dell’impianto stesso. Ciò significa trovare una soluzione che alteri il meno possibile la distribuzione del carico e delle tensioni originarie fisiologiche e nello stesso tempo assicuri un ancoraggio stabile più duraturo possibile.

Le cause principali di fallimento della protesi d’anca si possono riassumere in mobilizzazione asettica globale, del cotile, dello stelo, mobilizzazione settica, rottura e lussazione protesica, frattura ossea, dolore senza mobilizzazione e altre cause meno frequenti [Stea S. et al., 2002]. Subito dopo l’intervento chirurgico, è possibile notare all’interfaccia osso-impianto uno strato di tessuto molle, dotato di scarse proprietà meccaniche, che può essere composto da:

¾ grumi di sangue generati dal normale processo di guarigione

¾ frammenti di tessuto osseo che non è stato interamente rimosso prima dell’inserimento dello stelo

¾ fluidi organici

Le zone all’interfaccia che presentano tale tessuto molle sono sporadiche e limitate,

mentre si può evidenziare la presenza di ponti ossei che garantiscono la stabilità

dell’impianto in qualsiasi condizione fisiologica di carico.

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In questa fase il tessuto che circonda la protesi è soggetto ad una intensa attività biologica di adattamento che, nella maggioranza dei casi, porta alla completa integrazione della superficie dell’impianto con il tessuto osseo. Di fatto la scarsa stabilità primaria della protesi può far si che gli spostamenti relativi (micromovimenti) e le tensioni all’interfaccia siano di entità tale da impedire il processo di osteointegrazione. In questo caso, si sviluppa all’interfaccia osso-protesi uno strato di tessuto molle (tessuto fibroso), ricco di fibre di collagene e microscopicamente simile al tessuto connettivo, ma con una struttura e caratteristiche che assomigliano a quelle della cartilagine. Il tessuto fibroso non è in grado di stabilizzare la protesi, che quindi è soggetta a micromovimenti di entità crescente; questi a loro volta stimolano la formazione di nuovo tessuto fibroso. Il processo appena descritto viene definito mobilizzazione asettica e rappresenta un iter graduale nel quale sono implicati sia fattori meccanici (micromovimenti e tensioni) che fattori biologici (formazione del tessuto fibroso). La mobilizzazione asettica costituisce la causa principale dei fallimenti degli interventi di protesi d’anca [Stea S. et al., 2002; Manens E. et al., 1996].

Nella realtà è impossibile avere totale assenza di tessuto molle all’interfaccia osso- impianto, quindi risulta importante andare a determinare quale sia la minima estensione di tale tessuto e quale localizzazione debba avere per inizializzare il processo di fallimento dell’osteointegrazione.

Ciò porta a dover stabilire la quantità di micromovimento fra osso e stelo sufficiente per innescare la differenziazione fibrosa e quale sia la relazione fra le condizioni iniziali dell’interfaccia e la stabilità primaria (cioè il micromovimento) dell’impianto.

Il micromovimento relativo fra osso ed impianto è espresso come modulo del vettore del movimento totale. Tale vettore è composto, nelle zone in cui l’impianto caricato non è più in contatto con l’osso, dal movimento tangenziale (sliding) e dal movimento normale (detachment) alla superficie di contatto, mentre, laddove c’è contatto fra impianto e osso in condizioni di carico, risulta essere uguale al tangent sliding.

Numerosi lavori di tipo sperimentale [Engh et al., 1992; Maloney et al., 1989; Søballe et al. 1991,1992,1993,1994; Pilliar et al., 1985,2001; Jasty et al., 1996,1997] hanno cercato di stimare l’entità dei micromovimenti e delle tensioni di taglio in grado di inibire il processo di osteointegrazione.

Engh [Engh et al., 1992] e Maloney [Maloney et al., 1989] hanno cercato di valutare

l’entità dei micromovimenti compatibili con l’osteointegrazione dell’impianto, e quindi

con la stabilità secondaria, eseguendo degli studi su femori umani di cadaveri.

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Søballe [Søballe et al. 1991,1992,1993,1994], Pilliar [Pilliar et al., 1985,2001] e Jasty [Jasty et al., 1996,1997] hanno, invece, effettuato studi su animali ponendosi il problema di valutare direttamente le soglie di micromovimento che inducono la differenziazione tessutale all’interfaccia. Si può notare come tutti i lavori citati presentino un buon accordo sul valore del micromovimento (150 µm), per il quale si ha il processo di fibrotizzazione, mentre non è identificabile un unico valore del micromovimento al di sotto del quale inizia il processo di osteointegrazione. Tuttavia assumere il valore di 40 µm identificato da Engh e Maloney come soglia sembra una buona scelta ed è di certo di tipo cautelativo.

I micromovimenti nel range di 150-200 µm portano a una formazione di tessuto fibroso cartilagineo attorno all’impianto che può eventualmente mineralizzare dopo.

Naturalmente la sua mineralizzazione è fortemente dipendente dall’entità dei micromovimenti ma anche dalla distanza fra osso ed impianto (gap).

Lo scopo di questo studio, effettuato presso il laboratorio di tecnologia medica degli Istituti Ortopedici Rizzoli, è stabilire un protocollo da seguire per la generazione del modello agli elementi finiti (ricostruzione della geometria, mesh, contatto, condizioni al contorno e proprietà dei materiali) ed investigare il livello di stabilità primaria che può essere raggiunta con una particolare protesi anatomica non cementata. Lo studio è stato condotto su di uno stelo anatomico non cementato usato largamente presso gli Istituti Ortopedici Rizzoli e in molti altri dipartimenti clinici (AncaFit, Cremascoli-Wright, Milano, Italy).

Lo svolgimento del presente lavoro ha richiesto varie fasi di elaborazione, cui corrispondono i diversi capitoli della presente tesi.

In primo luogo è stato necessario esaminare l’anatomia dell’articolazione dell’anca, con particolare attenzione alla struttura del femore, analizzare le principali patologie che portano all’intervento chirurgico e dare una descrizione delle fasi dell’intervento stesso (Capitolo 1).

Successivamente è stata effettuata una classificazione delle diverse tipologie di protesi d’anca attualmente impiegate. In particolare è stata focalizzata l’attenzione su quelle non cementate e sugli aspetti caratterizzanti la loro osteointegrazione (Capitolo 2).

È stato, poi, messo a punto un modello tridimensionale osso-protesi agli elementi finiti,

a partire dalla definizione del modello solido C.A.D., e cercando di simulare

l’interfaccia di contatto fra la cavità femorale e lo stelo protesico. Questa fase dello

studio ha richiesto l’utilizzo di diversi software, quali Unigraphics NX2 per la

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definizione del modello solido, Hypermesh 6.0 per la parte di preprocessing del modello e Ansys 8.0 per la simulazione dell’impianto, sottoposto a condizioni di carico proprie della salita delle scale, che è l’attività più critica per la stabilità dell’impianto stesso.

Infine sono stati valutati i risultati ottenuti (Capitolo 3 e 4).

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