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POETI NEL MIRACOLO ECONOMICO

“Una visita in fabbrica” di Vittorio Sereni

Una visita in fabbrica apre il quarto numero del “Menabò”, ancor prima di

qualsiasi teorizzazione- e non una a caso, bensì l‟intervento di Vittorini- che la introduca. Un simile ordine fuga già da subito il timore che il lungo poemetto di Sereni si riduca a dimostrazione pratica di ciò che il direttore intende per il binomio Industria e

letteratura: niente di meno vero, e la prova ne è il giudizio non troppo lusinghiero che

lo scrittore siciliano esprime sulla poesia nel suo saggio iniziale1.

Sulla rivista il componimento presenta in testa la data 1952-58 e in calce una nota che precisa che “l‟indicazione temporale posta all‟inizio dei versi non si riferisce a un tempo di stesura. Inquadra invece un periodo di esperienza personale e diretta.”2 È infatti proprio nel 1952 che Sereni, lasciato l‟insegnamento di italiano e latino al liceo classico “Carducci” di Milano, entra come impiegato di prima classe alla Pirelli, alla direzione dell‟ufficio stampa e propaganda. La strada è quella intrapresa anche da altri intellettuali quali Ottieri, Volponi, Davì, che entrano da impiegati specializzati nel nuovo mondo industriale italiano, salvo poi denunciarne le storture e le disfunzioni nelle loro opere. Sul perché un professore di ruolo sia passato al mondo dell‟industria risponde lo stesso Sereni in un‟intervista ad Alessandro Fo nel 1975:

[…]in quegli anni era abbastanza frequente questo fatto, che gente destinata all‟insegnamento a un certo punto proprio, diciamolo chiaro, non facendocela economicamente, non disponendo di certe possibilità di cui oggi in qualche modo si dispone […] Quindi, per tutte queste ragioni, è andato a finire che a un certo punto, essendo misi offerta un‟occasione di cambiare stato, in un certo senso, io l‟ho presa; perché in quegli anni la vita, a Milano, per un professore di ruolo che non desse lezioni private, cosa alla quale io mi rifiutavo, era piuttosto dura […] In ogni caso, considero abbastanza una…direi quasi una stortura, se non proprio un infortunio, il fatto che uno scrittore finisca col lavorare nell‟industria. È stato un modo per campare, per risolvere determinati problemi pratici, non prevedendo poi di essere coinvolti molto di più di quanto in partenza non si pensasse. Quindi c‟è una specie di dimidiamento della persona, dell‟individualità, messa a contatto con queste cose.3

1

“I testi poetici presentano sì un atteggiamento che, per il fatto stesso d‟esser lirico, è globale, inclusivo di tutto dell‟uomo, nei riguardi del nuovo mondo; e quello di Vittorio Sereni giunge anzi al limite più alto della possibilità di pronunciarsi elegiacamente su un mondo imposseduto; ma lo sforzo loro si manifesta ancora all‟interno di

un‟esperienza letteraria già da tempo accertata etc. etc.” in VITTORINI, Industria e letteratura, pp.13-14

2 Cfr l‟apparato critico di Una visita in fabbrica in SERENI, Poesie, p.535 3 FO, Intervista a Vittorio Sereni, pp 73-74

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Come la Olivetti, anche l‟azienda che assume Sereni promuove un‟intensa attività culturale, o paternalistico-culturale, per i propri dipendenti (mostre, corsi, concerti) e pubblica un‟importante rivista, Pirelli, in cui le sezioni “arte” e “letteratura” sono affidate alla cura del poeta. Dopo sei anni egli ottiene la qualifica di dirigente, ma a novembre del 1958 lascia il mondo dell‟industria per passare alla direzione editoriale (sezione libri) della Mondadori, dove lavorerà con altri importanti intellettuali, tra cui Vittorini, promuovendo progetti come le collane “Medusa” e gli “Oscar”.

Si tratta di una carriera in linea con quella di molti altri scrittori (Volponi, Ottieri, Sinisgalli, Giudici), per i quali l‟attività letteraria è spesso relegata ai vuoti di tempo concessi dall‟industria. Ma per Sereni l‟esperienza alla Pirelli è qualcosa in più rispetto al consueto iter di lavoro: essa costituisce la prima occasione per Una visita in

fabbrica, che nasce da questi anni passati nell‟azienda, e non a corredo del tema, pur

scottante, del rapporto tra industria e letteratura. Sempre nell‟intervista rilasciata a Fo, il poeta spiega come la genesi del poemetto sia totalmente slegata dal motivo del quarto fascicolo de “Il Menabò”4, dove però è posto in testa agli altri scritti per la consonanza del tema o, a mio parere, per quel termine “fabbrica” che subito risalta dal titolo.

Ero professore di ruolo: a un certo punto, per certi determinati motivi, io sono passato, diciamo così, nell‟industria; sono stato sei anni alla Pirelli –alla propaganda- e poi sono passato alla Mondadori (che è industria, non ci sono differenze, è industria: su questo non c‟è il più piccolo dubbio). Tutto questo ha fatto sì che a un certo punto, direi quasi a coronamento dei miei anni pirelliani- che sono stati sei, come dicevo prima – io scrivessi una certa cosa, che si intitola Una visita in fabbrica, che è una poesia, piuttosto lunga […] che era uscita nel “Menabò” di Vittorini. Vittorini aveva impostato un numero del “Menabò” sul tema Letteratura e industria, e era successo che proprio in quei giorni io scrivessi…cioè, non “scrivessi”, ma “finissi di scrivere” questa cosa che si intitola Una visita in fabbrica, e a Vittorini è piaciuto addirittura aprire questo numero sul tema Letteratura e industria con questa cosa (ora ripubblicata nel libro Gli strumenti umani, ma abbastanza diversa, perché poi l‟ho ritoccata, l‟ho scorciata, ho tolto certe cose che anche a me, poi, a un certo punto, sembravano enfatiche addirittura, o quasi). Ecco, se uno mi dicesse che con questo io ho dato un contributo al tema Letteratura e industria, io direi che questo può anche darsi che sia stato, ma è stato un caso, perché Vittorini preparava il numero su Letteratura e industria. In realtà io che cosa avevo voluto fare: avevo voluto in un certo senso dare una figura ai miei sei anni di esperienza nell‟ambito dell‟industria. Il nocciolo di quella cosa che cos‟era: in fondo era la reazione di un borghese […] a contatto col mondo del lavoro. Contatto concreto […] perché

4 Inesatta quindi, a mio parere, l‟affermazione di SCHIAVONE, per il quale Una visita in fabbrica

programmaticamente “integra gli interventi sullo studio delle conseguenze dell‟industrializzazione sul vivere moderno”, laddove non si può parlare di consequenzialità tra la poesia e il “Menabò”, né di “motivo della scelta di partecipare”, in quanto le radici dell‟intervento di Sereni vanno cercate altrove.

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anch‟io ci lavoravo lì dentro. E…e quindi non è, dal mio punto di vista, un contributo al tema Letteratura e industria, non è una volontà di dare una risposta alla domanda “quale è il rapporto tra letteratura e industria?”; avevo una mia esperienza da dire, e a cui dare una figura.5

In Sereni l‟esperienza personale e casuale prevale sull‟impegno dell‟intellettuale nella società, che il poeta di Luino vede come un “interesse forzato”, una funzione a lui estranea 6. Egli crede piuttosto ad un‟”esperienza di umanità”, “decisiva nei confronti di quello che uno scrittore produce”, che “può avere dei riflessi sulla vita sociale o sulla vita politica” ma per vie che lui considera “abbastanza misteriose”. Quello di Sereni è stato definito come un Io disorientato, disperso dal “troppo tardi” derivato sia dalla sua assenza dai luoghi e dalle occasioni di mutamento della storia (la Resistenza mancata a causa della sua prigionia in Africa), sia dalla mancanza di una coscienza delle nuove forze in campo e della situazione reale italiana7. È probabilmente la permanenza alla Pirelli che permette al poeta di sollevare il velo borghese che cela alla sua mente di professore ordinario a Milano le contraddizioni proprie del mondo operaio, a lui fino a quel momento sconosciute. Secondo Nisticò, allora, Una visita in fabbrica rappresenta l‟occasione ritrovata con l‟impegno e con la storia, poiché risale la lenta, problematica ricostruzione dell‟Io disperso attraverso il passaggio dall‟alienazione individuale a quella sociale, dal “solaio del lirismo” alla “voce degli altri, operaia”8

. Chi scrive – forse anche alla luce dell‟intervista rilasciata dall‟autore ad Alessando Fo- adotterebbe invece una posizione ben più cauta prima di attribuire a Sereni un‟improvvisa coscienza di classe (e di una classe non sua), leggendo il componimento come frutto di riflessione del tutto personale e mai ideologica conseguente ad un‟esperienza fattuale. A conforto di questa tesi è l‟appunto Un angelo in fabbrica del 1957, contenuto ne Gli immediati

dintorni, che il poeta di Luino individua come spunto per la futura poesia in questione:

La L., conosciuta anni fa un po‟ di sfuggita, mi telefona in ufficio. Ha saputo che lavoro qui e mi prega di raggiungerla in fabbrica, dove è arrivata con una troupe televisiva per girare un documentario. Facciamo colazione insieme nella nuovissima, prestigiosissima mensa impiegati.

Mi ricordo di colpo di una foto della L., apparsa in tanti fogli e rotocalchi, anche in qualche libro, come un‟immagine emblematica del 25 aprile e dell‟insurrezione. Una ragazza di nemmeno

5

FO, Intervista a Vittorio Sereni, pp.60-61

6

Sereni, borghese e assente giustificato al grande appuntamento con la Resistenza (in quegli anni era nei campi di prigionia dell‟Algeria francese)- testimonia un suo allievo, Luciano Erba- “non sapeva che farsene di ridicole code di paglia e di tardivi intruppamenti nel gregge degli intellettuali organici. Restava con tutti i suoi sacrosanti dubbi, forse un po‟ meno assente, certamente assai poco presente.” In ISELLA, Per Vittorio Sereni, p.128

7 Cfr NISTICO‟, Ai margini del Paese visibile, op. cit. 8 Ivi, pp. 59-60

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vent‟anni, impermeabile addosso e mitra in pugno. E adesso? Qui a legare l‟asino dove vuole il padrone, con me e tutti gli altri qui attorno. Ma i suoi discorsi sul lavoro che fa, il suo tono distaccato nel commentarne le vicende, lo sottintendono. Distaccato e spento.

Trovo in ciò un‟analogia – di quelle che non si tenta nemmeno di esprimere – col suono della sirena di fabbrica (che oggi non si sente più) nel momento in cui si spegneva, alla fine dei segnali di ripresa del lavoro: come una forza che rinunzia. E ne restava l‟amarezza e insieme una minaccia nell‟aria. (E‟ un mio chiodo da qualche anno: mi ha offerto stranamente lo spunto per una poesia che immagino lunga e che non mi riesce di scrivere.) Fa bene pensarci, come a un‟oscura solidarietà. E il ravvisare in questa donna disinvolta, che si crede e si vuole indifferente, un angelo, sui generis, del passato.9

Imput alla scrittura di una poesia sull‟industria è quindi l‟esperienza di un

incontro con una donna, un tempo pasionaria della Resistenza, oggi giornalista televisiva alle prese con un documentario sulla condizione operaia, che si appresta a girare senza il fervore ideologico di un tempo. Forte è la stonatura tra la “nuovissima, prestigiosissima mensa impiegati” e ciò che l‟ex angelo- “immagine emblematica del 25 aprile” rappresentava nel passato; il suo tono “distaccato e spento” suggerisce allora un‟analogia con il suono della sirena di fabbrica protagonista della poesia, messo a tacere dal padrone e quindi simbolo della rinuncia, del silenzio che non disturba, della rassegnazione al presente.

È vero che in questo periodo i mutamenti della storia e della società travolgono le vecchie idee dell‟autore e cambiano la sua poesia, nonostante la lentezza con la quale Sereni prende coscienza di determinate realtà storiche. Quella che è stata definita la “svolta degli anni Sessanta”, e che Una visita in fabbrica riflette perfettamente, è un adeguamento alla mutata consistenza della realtà, una realtà sempre più frantumata e destituita di senso unitario, a cui l‟autore cerca di ottemperare ricorrendo ad una discorsività densa, organica, eloquente, al limite del racconto in versi. Viene inoltre accentuato il grado di figuratività generalmente contenuto nelle poesie di Sereni, al fine di rendere più riconoscibile e pregnante la presenza di figure umane ed oggetti industriali10. Ma, sebbene l‟autore abbandoni il precedente dogma della separatezza della letteratura dai conflitti reali e acquisti un nuovo interesse (non militante) per la storia e la politica, egli rimane tuttavia estraneo alla tradizione hegelo-marxista che domina i dibattiti degli anni Cinquanta e che esige dall‟intellettuale un atteggiamento

9 SERENI, Gli immediati dintorni, pp. 91-92 10 Cfr RABONI, Poesia degli anni Sessanta, p.64

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verso la realtà “diverso da quell‟astratta e umanistica volontà buona, disinteressata ai conflitti terreni”11

che affascina la sua generazione.

Anche la sua volubilità nei confronti di Una visita in fabbrica denuncia un‟incertezza di fondo sulla posizione da prendere nei confronti del mondo industriale o, forse, una tremola volontà –si tratta sempre di un borghese, di un colletto bianco- di non assumerne una troppo ideologica o troppo ostile a quella realtà. Se da una parte, infatti, il timore di Sereni è “che una cosa non sia chiara in quello che ho scritto: che non ci si veda la condizione concreta dalla quale e della quale io parlo: l‟intellettuale gettato nell‟industria, gli operai che hanno gradatamente perduto la loro tensione proletaria (tenuta viva, come un monito dalla sirena artigiana a cotè della grande industria), la demoralizzazione piccolo-borghese, il paternalismo dei grandi complessi aziendali”, dall‟altra precisa: “Io non avevo queste cose da dire, ma queste cose sono, con altre più immediate, i pezzi del mio discorso”12. E ancora, molti anni dopo: “La

poesia conteneva certamente una spinta verso la rivoluzione. Oggi sono molto incerto, nei confronti di quanto ho scritto, perché quella poesia si è dilatata forse troppo con una specie di filo ragionativo che, a mio parere, ne ha compromesso il risultato espressivo. Penso che sia necessario trasferirsi all‟epoca in cui questa poesia è stata scritta, e cioè negli anni ‟52-‟56. In quel periodo la lotta sindacale in fabbrica era quasi annullata.”13

Le ultime dichiarazioni in merito al componimento hanno quindi il carattere di una parziale sconfessione e di una velata giustificazione: sembra che il poeta senta di essersi spinto troppo oltre: dalla narrazione di un‟esperienza personale è emerso, suo malgrado, un testo esageratamente rivoluzionario, quasi propagandistico, operaista. Ecco la rettifica: è necessario contestualizzare la poesia, “erano gli anni Cinquanta” (l‟intervista riparatrice è rilasciata nel 1981, all‟indomani della grande partecipazione degli anni Settanta ma anche quando si contano i morti che certe degenerazioni terroristiche hanno provocato), “la lotta sindacale in fabbrica era quasi annullata” (come a dire: “ho trattato un argomento scottante, ma potevo farlo perché il dissenso era represso e non gettavo benzina sul fuoco”) ed egli parlava a nome di quell‟umanesimo intellettuale borghese che riesce a provare pietà per i lavoratori subalterni più che come fomentatore di masse operaie.

L‟indizio probante- più di qualsiasi intervista- dei ripensamenti di Sereni su Una

visita in fabbrica è però rappresentato dalla differenza tra le due versioni della poesia: la

11

MAZZONI, Forma e solitudine, p. 156

12 BUZZI, Una vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni cit. in BARILE, Sereni, p.50d 13 AAVV Sulla poesia- Conversazioni nelle scuole p.60

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prima, del 1961, pubblicata sul quarto numero de “Il Menabò”, la seconda, uscita ne Gli

strumenti umani nel 1965, ritoccata e privata di “certe cose” che all‟autore “sembravano

enfatiche addirittura o quasi.”. Il poemetto rappresenta il caso estremo di un continuo rimaneggiamento- vera eccezione nel modus operandi di Sereni- sia per interventi motivati che per semplice indecisione, tanto che esso non raggiungerà mai uno stato di compiutezza formale. Sebbene la tendenza dei critici sia quella di considerare la versione “ufficiale” di Una visita in fabbrica –anche secondo la massima deontologico-filologica che esige rispetto per l‟ultima volontà dell‟autore- , ai fini di questo lavoro sarà più utile partire dal testo così come è stato pubblicato in rivista, per poi valutare le ragioni che dal 1961 al 1965 inducono Sereni ad apportare alcune significative varianti testuali.

L‟azione variantistica di Sereni tende ad eliminare elementi esornativi, come descrizioni e giochi fonici, che possano distrarre l‟attenzione del lettore dal tema fondamentale del testo: l‟esigenza di visibilità del significato va talvolta a scapito della funzione e della ricchezza del significante. La propensione alla semplificazione e allo snellimento, evidente nella soppressione della descrizione iniziale e di quella finale e il tentativo di evitare ridondanze ed indugi magniloquenti rendono il testo più incisivo, secco, meno retorico. Il poemetto, in entrambe le edizioni, è composto da cinque strofe che delineano un racconto unico: la definizione dell‟ambiente di fabbrica attraverso l‟immagine simbolica della sirena, la visita di un borghese, a cui non sfuggono i subdoli atteggiamenti del padrone e che prova solidarietà per gli operai, il viaggio, nello spazio e nel tempo, evocato dall‟opificio, la riflessione e, infine, la rassegnazione del visitatore, forse un intellettuale.

Oscar Schiavone14, che ha analizzato dettagliatamente (forse troppo, e talvolta con indugio chirurgico) la poesia, “dopo uno spoglio dei termini e del lessico utilizzato dal poeta” per descrivere il percorso nell‟edificio, accosta questa visita ad una vera e propria catabasi infernale di tipo dantesco. Se accogliamo questa ipotesi, che giudico fondata, la “gita” nell‟opificio si trasforma allora in un itinerarium utile alla presa di coscienza contemporaneamente dell‟io narrante (il poeta) e dell‟oggetto poetico (la classe proletaria impiegata nell‟industria). I richiami intertestuali si situano a due distinti livelli: ad un primo, più superficiale richiamo che è anche citazione (generalmente segnalato dal corsivo di Sereni) e ad un piano sotterraneo, più arduo da identificare. Durante la visita, l‟intellettuale è accompagnato nella fabbrica da una

14 Cfr SCHIAVONE, Lettura di una visita in fabbrica, pp.109 e ss, a cui si rimanda per tutti i richiami intertestuali dalla

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guida, analogia con la figura di Virgilio che conduce Dante in un mondo sconosciuto. In conclusione, la fitta rete di richiami danteschi, che verranno individuati durante l‟analisi della poesia, e la fortuna che il sommo poeta ha avuto in gran parte della lirica del Novecento- compresa quella di Sereni- portano ad appoggiare l‟idea di un confronto tra il viaggio nell‟oltretomba cristiano e la visita nell‟inferno industriale.

Da un punto di vista linguistico-formale, il componimento si accosta ad uno stile neorealista, tanto che Siti lo inserisce nella sua antologia15 (sebbene esso evada temporalmente dalla fascia presa in considerazione, 1941-1956), o realista, capace in ogni caso di “rompere la crosta dell‟elegia”. Ed infatti, confutando l‟opinione di Vittorini sul tono elegiaco attribuito alla poesia, Sereni ribatte:

[…] avrei preferito che [Vittorini] scrivesse <<in termini ancora sentimentali e psicologici>> perché mi sembra di poter affermare che quella mia cosa in versi è sostanzialmente riducibile al conflitto dei due atteggiamenti sopra accennati, l‟affettivo e il conoscitivo, e alla sostanziale sconfessione, appunto del modo elegiaco.16

Una visita in fabbrica esprime in effetti l‟intimo contrasto tra una tentazione

elegiaca (o, vittorinianamente, una tensione espressivo-affettiva) e la sempre più consapevole esigenza di chiarezza (da tradursi in tensione razionale). Essa rappresenta infatti una nuova fase nella storia poetica di Sereni, segnata da una tendenza più discorsiva, ragionativa, anche sottilmente ironico-polemica, che segna il passaggio ad una poesia più comunicativa, dove il colloquio, ricorrente nell‟opera dell‟autore, “da evocativo di enigmi e di figurazioni metafisiche” diventa “comunicativo di idee”.17

Il ritmo della sintassi è spezzato, continuamente interrotto da parentesi, puntolini, lineette sospensive, anche se tale frazionamento è poi arginato dalla fluidità del verso lungo, capace di contenere meglio la dimensione narrativa del testo. Alto, altissimo è il grado di prosasticità (giustificato dal carattere di documentario della poesia), che si esprime anche nelle lunghe e variabili misure metriche, eccedenti l‟endecasillabo, per restituire una maggiore vicinanza ad un linguaggio dimesso, colloquiale che consente il ricorso a termini tecnici. 18 Gli enjambements sono numerosi ma per lo più deboli, perché il poeta sceglie di porre pause forti alla fine di quasi ogni verso, o marcandole sintatticamente da segni di punteggiatura, o rendendole comunque

15 Il riferimento è a SITI, Il neorealismo nella poesia italiana 16

SERENI, Intermezzo neocapitalistico, pp. 80-81

17 Cfr FERRETTI, La letteratura del rifiuto, p.186 18 NISTICO‟, Nostalgia di presenze, pp. 35-36

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intuibili19. Per quanto riguarda le figure retoriche, Una visita in fabbrica è densa di iterazioni di ogni genere, dalle più semplici, in forma di dittologia, a chiasmi, anafore, ridondanze e riprese. Come scrive Mengaldo, l‟iterazione in senso generale è una “realizzazione simbolico-esistenziale concreta dell‟ossessivo riaffiorare del passato per l‟uomo contemporaneo, gravato di memorie”20

. Di conseguenza essa non è mai innocua: porta con sé l‟idea di una sovrapposizione e di un confronto tra due oggetti, per cui , in un gioco di ritorni e rifrazioni, il presente- nel nostro caso la visita alla fabbrica- è sempre “allegoria di altro”, di un‟esperienza passata e mai dimenticata come la guerra.

I

1 Bisbiglia la mattina degli sciami operai, <….>

sono vesti leggere, tute linde. <….>

Lietamente nell‟aria di settembre. Lietamente nell‟aria di settembre più sibilo che grido

Ne accompagna il fluire, lontanissima una sirena di fabbrica.

5 più sibilo che suono, lontanissima <….>

una sirena di fabbrica. <….>

Non dunque tutte spente erano le sirene? Volevano i padroni un tempo tutto muto sui quartieri di pena:

10 ne hanno ora vanto della pubblica quiete.

Col silenzio che in breve va chiudendo questa calma mattina

prorompe in te, tumultua nel tuo sangue prorompe in te tumultuando

quel fuoco d‟un dovere sul gioco interrotto, di un dovere

la morta sirena che udivi da ragazzo la sirena che udivi da ragazzo

15 tra due ore di scuola. Riecheggia nell‟ora di oggi

quel rigoglio ruggente dei padroni: dei pionieri

sul secolo giovane, ingordo di futuro dentro il suono in ascesa la guglia del loro ardimento…

ma è voce degli altri, operaia, nella fase calante

19 Vedi i vv.35-38 della seconda sezione 20 MENGALDO, Iterazione e specularità, cit.

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20 stravolta in un rancore che minaccia abbuiandosi, di sordo malumore che s‟inquieta ogni giorno e ogni giorno è quietato – fino a quando? O voce ora abolita, già divisa, o anima bilingue tra vibrante avvenire e tempo dissipato

25 o spenta musica giù torreggiante e triste. Ma questa di ora, petulante e beffarda

è una sirena artigiana, d‟officina con speranze

che stenta paghe e lavoro nei dintorni… stenta paghe e lavoro nei dintorni.

Propaga in corti fremiti una larva del suono Nell‟aria amara e vuota una larva del suono

30 delle sirene spente, nell‟aria amara e vuota delle sirene spente, non una voce più

nessuna voce più, ma un aroma ma in corti fremiti in onde sempre più lente

di mescole, un sentore di sangue e fatica. un aroma di mescole un sentore di sangue e fatica

Un camion si distacca sul viale d‟asfalto, <….>

non c‟è anima viva sul piazzale. <….>

vv. 1-2 I primi due versi, poi espunti nella versione ufficiale che cancella ogni traccia degli operai e lascia protagonista assoluta la sirena, introducono immediatamente i soggetti della poesia, i lavoratori della fabbrica nell‟atto di prendere servizio. Il loro fluire in massa, in sciame indifferenziato, e l‟ambientazione mattutina possono ricordare la morta gente di Londra in The waste land di Thomas Stearn Eliot (Città irreale/ Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno/ Una gran folla fluiva sopra

il London Bridge, così tanta/ Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta). Come gli impiegati inglesi, anche gli operai di Sereni hanno perso parte della

loro umanità: paragonati prima ad api (si pensi all‟immagine confusa e impersonale dello sciame), poi identificati con le loro divise (sono vesti leggere, tute linde, non

hanno vesti leggere, tute linde), in entrambe i casi sono abbassati al livello animale, o a

quello del ruolo che ricoprono. Non più persone quindi, ma operai.

Motivo dell‟eliminazione di questo incipit nella versione contenuta ne Gli

strumenti umani potrebbe allora essere la volontà di non esplicitare sin da subito la

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della sirena che torna a suonare, immagine che effettivamente apre la seconda redazione e correlativo oggettivo della voce del dissenso.

vv. 3-6 L‟avverbio lietamente connota positivamente la sirena, metafora cardine della poesia: come spiega Sereni, quel suono squillante “poteva anche esprimere – e la esprimeva di fatto, essenzialmente, nei tempi dei pionieri – la loro potenza e il loro ardire, [poi] si è sempre più identificata con la coscienza operaia: pena e fatica, ma anche ribellione, volontà di evoluzione e lotta.”21 Il ricorso alla metafora della sirena per indicare la voce della protesta operaia permette di trattare l‟argomento in modo evocativo, poetico e di sfuggire alla meccanicità della riproduzione mimetica22. Da un punto di vista formale la ricorrenza della sibilante ( sibilo-suono-lontanissima-sirena-

spente-sirene) crea un effetto fonosimbolico, che quasi riproduce il rumore tanto caro

agli operai; nella versione definitiva questa tecnica viene smorzata dalla sostituzione di

suono con grido, a conferma della volontà dell‟autore di scorporare la poesia degli

elementi troppo legati al significante.

vv. 7-10 La sirena di cui si parla è una sorta di reduce, di eroica sopravvissuta (forse perché si tratta di una piccola fabbrica, in fase iniziale di ammodernamento, “che suona ancora la sua sirena fregandosene del silenzio della grande fabbrica”23

): nelle grandi industrie, in osservanza alla campagna ecologica contro i rumori, i padroni hanno trovato il pretesto per far tacere il simbolo della coscienza operaia, che scandiva l‟inizio e la fine del lavoro e segnava i turni. Da qui la meraviglia ( Non tutte spente erano le sirene?, si noti l‟anastrofe) per questa unica eccezione al tempo tutto muto sui quartieri di pena ( le zone industriali , dove la pena è data dalla fatica e dalle pessime condizioni di lavoro), e la distanza ravvicinata tra le due categorie antagoniste ( operai, seppur aggettivo, al v.1 e padroni al v.8) sottintende un significato altro attribuito alla sirena, aldilà di quello di scansione dei tempi di lavoro. Il silenzio imposto alle sirene coincide infatti con l‟abolizione del simbolo della resistenza nella fabbrica, della voce e dell‟opposizione operaia; è un silenzio paragonabile al “tono distaccato e spento” dell‟ex angelo pasionario ( vedi Un angelo in fabbrica).

Il termine vanto riproduce la soddisfazione tutta borghese del capitalista per il silenzio imposto e al tempo stesso getta sull‟azione una luce di ironia, corroborata

21

SERENI, A proposito di industria e letteratura, p.7

22 Cfr VITTORINI, Parlato e metafora, op. cit. 23 Ivi, p.7

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dall‟espressione burocratica e poliziesca, così amata negli anni Cinquanta-Sessanta, di

pubblica quiete. Non è forse quella che chiedevano agli italiani i governanti

democristiani e che nelle piazze cercavano di ripristinare i celerini di Scelba?

vv. 11-18 Continua la preponderanza dell‟area semantica della voce

soffocata, taciuta, relegata a silenzio ( si pensi a bisbiglia, sibilo, spente, muto, quiete,

silenzio, calma), che è insieme suono di fabbrica e protesta di operaio. Nell‟apparente calma mattina, il rumore della sirena produce uno squarcio nella memoria del poeta e

come una madeleine inzuppata nel thè riporta alla mente, con la vividezza del sangue (elemento poi espunto negli “Strumenti umani”) e del fuoco, il ricordo della campanella della scuola, stimolo al dovere e richiamo per gli alunni dopo la ricreazione. Il ripetersi, al presente, di un evento, come il suono della sirena, attiva per confronto e differenza il riferimento ad un passato ormai sedimentato nella coscienza e riportato alla luce dall‟iterazione fenomenica.24

È il primo accenno al confronto continuo tra le due dimensioni temporali, tra passato e presente, costante tematica in Sereni: la sirena di fabbrica ricorda al poeta le speranze della sua generazione e in particolare lo slancio imprenditoriale (rigoglio ruggente, si noti la possente allitterazione della r) della borghesia di inizio Novecento (sul secolo giovane) tutta protesa al futuro (ingordo di futuro). Nel frequente scambio tra un presente deprecabile e un passato sentito come alternativa all‟attualità, i tempi e le immagini si sovrappongono e si confondono, così che ogni situazione non è che una somma si altre situazioni. Secondo Caretti, che parla di una tavola temporale sereniana divisa in due, il presente offre un continuo groviglio di scambi col passato tra speranze e delusioni, slanci e rimeditazioni25. Il suono che si alzava nell‟aria (in ascesa) si identificava allora con l‟avanguardia intraprendente (la guglia del loro ardimento) della borghesia industriale, fiduciosa nell‟avvenire del progresso.

Si veda la sostituzione di padroni in pionieri al v.16, meno ideologico e utilizzato anche nella già citata lettera a Mario Boselli per esprimere lo stesso concetto, anche se il termine sostitutivo (rispetto al sostituito, che richiama le divisioni di classe) trasmette ancora di più l‟idea, per il poeta assolutamente positiva, di spirito avventuriero e slancio capitalistico della prima industria italiana. Il punto di vista, per quanto filantropico, è pur sempre quello di un borghese, noncurante dell‟esistenza di pesanti contropartite gravanti sugli operai già nel secolo giovane, quando il rigoglio ruggente

24 Cfr LUZI, Introduzione a Sereni, p.91

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era comunque prerogativa di un‟unica classe sociale. Ma Sereni sembra qui dicotomizzare, forse un po‟ troppo semplicisticamente, presente e passato, negativo e positivo, laddove la distanza cronologica e semantica è sottolineata dall‟uso insistente delle avversative e dei deittici (questa, quel, ma..).

vv. 19-24 Adesso, invece, il suono della sirena è testimonianza di un‟altra voce, quella degli operai, del loro rancore minaccioso e cupo, in quella che al poeta sembra una fase calante della storia della borghesia industriale, anche se egli scrive in pieno boom economico e la crisi del 1963 è ancora di là da venire. Tanto era rigogliosa, luminosa la descrizione dei gloriosi albori industriali, quanto l‟attuale identificazione della sirena è connotata da termini inquietanti e pessimistici (stravolta, rancore,

minaccia, abbuiandosi, sordo, malumore, inquieta), con netta prevalenza di suoni

vocalici chiusi. Le rimostranze degli operai sono definite sorde, ma per traslitterazione a non sentire sono i padroni, che cercano di placarle separatamente, senza mai una vera attenzione alle richieste dei lavoratori, come enfatizza la costruzione chiastica s’inquieta

ogni giorno e ogni giorno è quietato. Fino a quando? , sottinteso “i padroni riusciranno

a quietare il malumore, evitando rivendicazioni più estreme”, è una domanda che resta in sospeso e crea un effetto di suspence, interrogazione lecita che troverà la sua risposta con lo sfociare della protesta operaia dopo il Sessantotto.

vv. 23-28 Attraverso un‟enfatica invocazione la voce è definita abolita, perché in questi anni (il riferimento è qui al periodo 1952-58) la rappresentanza sindacale, come nota lo stesso Sereni, è pressoché annullata e già divisa, dannosamente frazionata in toni discordi, dal più filo padronale (generalmente rappresentato da Cisl e Uil) al più intransigente e perciò isolato, la Cgil. L‟anima è invece bilingue, poiché parla due diversi idiomi e vede due diverse ragioni: quella padronale di un vibrante

avvenire di benessere e guadagno e quella operaia che ha davanti solamente la

prospettiva di un tempo dissipato, di una vita consumata e distrutta dalla fatica.

Continua il leit motiv del silenzio imposto (si veda anche la voce abolita) con la

spenta musica, ovvero il suono della sirena, che con una dittologia antitetica il poeta

definisce torreggiante (che sovrasta lo spazio come una torre) e triste, forse da intendere “un tempo torreggiante, adesso triste”. Tutto il poemetto è dominato dal contrasto tra due aree semantiche opposte, entrambe concernenti l‟udito: quella dei suoni e dei rumori, dei gridi e del fragore, che sostanzialmente si lega al passato della sirena, e

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quella del silenzio, della voce abolita, sintomo sensoriale della repressione nel presente. La triplice invocazione (vv.23-25) crea un effetto di enfasi subito dopo interrotto, troncato dall‟avversativa ma, che secondo Nisticò26

ha in Sereni un valore di legamento e di sfumatura-variazione, più che di mera opposizione. Ad essere introdotto non è infatti un argomento contrastante con il precedente, ma, piuttosto, un restringimento di campo, che dal motivo generale delle due funzioni simboliche della sirena torna a

questa di ora, la sirena della fabbrica in questione, petulante, perché ripetitiva, e beffarda, perché sebbene attiva ha perso quel valore di resistenza di un tempo,

risultando ancora più vacua e ingannevole. L‟aggettivo artigiana precisa le dimensioni e lo sviluppo ancora contenuti della fabbrica, anzi dell‟officina che spera di ingrandirsi e ammodernarsi, ma che nel frattempo stenta (fatica ad offrire) paghe e lavori. Come già al v.18, anche qua l‟uso dei punti di sospensione non fa che confermare la teoria di Fortini, per il quale le figure dominanti negli Strumenti umani sono la ripetizione e, in questo caso, la reticenza. La frequenza di interruzioni del discorso ne denuncia tutta l‟intenzionalità: se da una parte si tratta di un punto di contatto con le tendenze “magmatiche” della Neoavanguardia (a quest‟altezza non ancora fondata come movimento), dall‟altra essa protesta una “sfiducia nella razionalità”27

, generalmente espressa attraverso un‟interpunzione stabile, perentoria. Nella redazione definitiva, in virtù di un‟attinenza più scarna al significato, i puntolini di sospensione sono sostituiti dal punto fisso.

vv. 29-34 Ciò che rimane dell‟antica, vigorosa voce operaia è una larva (un fioco rimasuglio senza dignità) del suono delle sirene spente che si diffonde in corti

fremiti, con fatica, o meglio, riprendendo l‟inizio della prima strofe secondo una sorta di

composizione ad anello, come un sibilo. A proposito di espressioni come aria amara e

vuota del v.30 si è parlato di anestetizzazione in Sereni, come via mediana tra presenza

e assenza, riferibile al torpore della vita di fabbrica e all‟alienazione che essa crea, stato tra la veglia (che solo a mente sveglia sa d’amaro, v.112) e il sonno (non ti lascia

dormire, v.121).

Il silenzio imperante è ora colmato da un aroma di mescole, espressione ironica ( dove l‟ironia è data dall‟antitesi tra i due termini) per indicare la puzza proveniente dalle

26 Cfr NISTICO‟, Nostalgia di presenze, p.22 27

Cfr FORTINI, Saggi italiani. Sulla stessa linea è il saggio di U. Eco, Del modo di formare come impegno sulla realtà : il rifiuto delle forme letterarie tradizionali, che non rappresentano più il reale ordine del mondo, si traduce in

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esalazioni dei composti chimici. Il termine mescola rimanda al processo di unione di sostanze diverse che, ad esempio, grazie ad un preciso dosaggio degli ingredienti, può assicurare risultati ottimali nella realizzazione di pneumatici, definiti perciò “a mescola dura, tenera” etc. Si tratta quindi di un termine tecnico dell‟industria, affatto poetico, che però collabora a far precipitare il discorso dal glorioso ricordo del passato alla concreta contingenza del presente. Gli ultimi due versi, forse perché contengono una descrizione accessoria come la parte immediatamente iniziale, e relativa all‟esterno della fabbrica, sono eliminati nella versione de Gli strumenti umani. Si notino però i termini fortemente antipoetici come camion, asfalto, piazzale che tentano di connotare in senso industriale la poesia attraverso l‟adozione di un lessico tecnico e specialistico.

II

35 La potenza, vedi, di che inviti si cerchia, La potenza di che inviti si cerchia

che lusinghe: di piste di campi di gioco di molli prati di stillanti aiuole

e persino fiorirvi, cuore estivo, può superba la rosa. Sfiora torrette ora, passerelle

40 la visita da poco cominciata: s‟imbuca in un fragore come di sottoterra, che pure ha regola e centro e qualcuno t‟illustra. Che cos‟è

un ciclo di lavorazione? Un cottimo

cos‟è? Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre, 45 questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente,

rumore che si somma a rumore e presto spavento per me, straniero al grande moto e da questo agganciato.

Eccoli al loro posto quelli che sciamavano là fuori

qualche momento fa: calmi e precisi all‟opera, qualche momento fa: che sai di loro

50 eleganti nel gesto risaputo. Che sai di loro? <…>

Che ne sappiamo tu e io, ignari dell‟arte loro… Chiusi in un ordine, compassati e svelti,

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senza perdere un colpo…In sospetto e tremore senza perdere un colpo – e su tutto implacabile

55 cade lo sguardo da me a loro per via, <…>

si spunta il mio solo argomento verso loro, <…>

l‟ansia di dirsi uguali… <…>

Un debole argomento. E su tutto implacabile e ipnotico il ballo dei pezzi dall‟una all‟altra sala

il ballo dei pezzi che li divora

60 dall‟una all‟altra sala. Qui <…>

La visita si spezza, ci respinge all‟aperto. <….>

vv. 35-38 L‟aperta repressione dell‟attività sindacale si accompagna ad un metodo

più subdolo, volto a soffocare la volontà di rivendicazioni operaie: quello del paternalismo, della moina, della filantropia interessata. Sono gli inviti, le lusinghe di cui si circonda la potenza (il potere imprenditoriale) per “comprare” i lavoratori e il loro malcontento, allettamenti puramente estetici come piste, campi di gioco, molli prati,

stillanti aiuole (si noti la stucchevole esagerazione degli aggettivi da locus amoenus),

elencati senza interpunzione come se fossero tanti pezzi male assemblati tra loro, accostati per comporre un oggetto di scambio. Sono versi, questi, in cui manca la coordinazione esplicitata per asindeto e le pause nascono spontanee sulla bocca del lettore senza dare adito ad equivoco, permettendo di lasciare libero corso all‟immaginazione del lettore. Sembra assurda l‟idea di poter barattare diritti e libertà con idillici spazi verdi in cui persino le rose possono fiorire d‟estate e con zone di relax di cui raramente l‟operaio stremato dai massacranti turni di lavoro usufruirà, di poter guadagnare silenzio ed obbedienza attraverso il dono di un paradiso terrestre contiguo agli asettici inferni della fabbrica. Sereni, che per sei anni è stato direttore del Servizio stampa e propaganda presso la Pirelli, mostra particolare interesse per questa pratica di scambio di diritti e di lusinghe paternalistiche. Così infatti scrive in Intermezzo

capitalistico:

Il primo, istintivo, espediente verso gli amministrati da parte dell‟imprenditore – e di chi esercita con lui o per lui la conduzione aziendale – è di creare uno sfondo per così dire religioso al lavoro, cioè al meccanismo da lui stesso avviato e di cui sente costantemente o di tanto in tanto la minaccia. <<La nostra grande famiglia, la nostra piccola famiglia>> a seconda delle dimensioni della ditta, è l‟espressione

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grezza, bonaria, propiziatrice e corrente di codesta religione che si è inteso instaurare. La codificazione degli atti e rapporti di lavoro corre parallela. La tendenza a fare del lavoro una religione, con quanto di capzioso e intimidatorio ciò comporta, va respinta nettamente.28

vv.39-47 Con il v.39, dopo una sorta di protasi rappresentata dalla prima strofa, entriamo nell‟argomento della poesia: lo svolgimento della visita di “uno che nella fabbrica c‟è per forza o per caso, un borghese, un impiegato che un giorno capita dall‟ufficio nello stabilimento in visita, […] un intellettuale, alla cui ironia non sfuggono gli allettamenti padronali […], uno di propensioni filantropiche, umanitarie verso gli operai, portato a un‟istintiva solidarietà”29 . Quasi logica è quindi la sua identificazione col poeta stesso.

Le torrette che il visitatore sfiora richiamano le meschite della città di Dite ( “E io: <<Maestro, già le sue meschite/ là entro certe ne la valle cerno”, Inferno, VIII, 70-71) che il pellegrino deve attraversare per giungere al cerchio degli eretici. Con questo termine Dante intende infatti le torri fortificate erette sulle mura, forse minareti, più che moschee, che non hanno forma verticale. Le passerelle che collegano lo stabilimento industriale da una parte all‟altra ricordano invece a Schiavone i ponticelli che si attraversano per passare da una parte all‟altra della Malebolge ( “E come a tai fortezze da‟ lor sogli/ a la ripa di fuor son ponticelli,/ così da imo de la roccia scogli/ movien che ricidien li argini e‟ fossi/ infino al pozzo che i tronca e raccogli”, Inf., XVIII, 14-18). L‟idea di discesa verso il basso è veicolata dal verbo s’imbuca, che fa da pendant con altri termini indicanti profondità, o meglio profondità ipogea come pozzo ( presente anche in Inf., XVIII, v.18), fossa, sacca, e l‟inequivocabile sottoterra. L‟espressione ha

regola e centro può inoltre rimandare al pozzo delle Malebolge, che funziona da perno

per i fossi concentrici dei dannati che in esso convergono (“i tronca e raccogli”). Chiude il breve quadro dantesco il riferimento ad un accompagnatore (qualcuno t’illustra), un Virgilio di fabbrica che conduce il visitatore nei cerchi della produttività (“Ond‟io per lo tuo me‟ penso e discerno/ che tu mi segui, e io sarò tua guida”, Inf., I, 112-113).

A metà del v.42 il tono improvvisamente cambia e si fa incalzante attraverso una doppia interrogazione a chiasmo (Che cos’è un ciclo di lavorazione? Un cottimo

cos’è?) che introduce la voce del poeta, “straniero” e incapace di comprendere a fondo

quel mondo, nonostante la volontà di parteciparvi30. Si tratta, rispettivamente, del

28 SERENI, Intermezzo capitalistico, op. cit., p.77 29

SERENI, A proposito di letteratura e industria, pp. 7-8

30 Si ricordino le remore e il rammarico di Ottieri per il carattere chiuso del mondo industriale, in cui l‟intellettuale può

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complesso delle operazioni necessarie alla lavorazione di un prodotto e della retribuzione corrisposta in proporzione alla produzione realizzata in un determinato lasso di tempo, termini tecnici, specialistici, alieni sia allo scrittore borghese che al linguaggio poetico. Prosegue poi il disorientamento dell‟intellettuale davanti a parole come trafile ( macchine per ridurre in fili metalli o plastica) e calandre (macchine per spianare e lucidare fogli di diversi materiali), percepite come solo suono senza significato, o meglio rumore che si somma a rumore e al fragore già più volte citato. Dalla prevalenza del silenzio imposto siamo ora passati alla confusione di rumori in libertà, indefiniti e senza significato, che nulla hanno da dire se non spaventare il visitatore benestante che si sente straniero e agganciato (attratto) da questo mondo, “al tempo stesso respinto e affascinato, incapace di distinguere tra la fabbrica e chi ci lavora, tra operaio e macchina, a causa […] della propria impreparazione tecnologica, viziato dall‟educazione umanistica di vecchio stampo.”31

vv.48-51 Gli operai che all‟inizio vivacemente sciamavano (si ricordi la

definizione di sciami operai al v.1) sono ora entrati in servizio e hanno deposto ogni allegria, per assumere l‟atteggiamento calmo, composto e alienato di chi compie i soliti, ben noti movimenti (gesto risaputo). E, ancora, la separatezza del visitatore occasionale dai lavoratori di fabbrica è ribadita dalla domanda Che sai di loro? subito seguita da una risposta (Che ne sappiamo tu ed io, ignari dell’arte loro…), conferma della focalizzazione del poeta sull‟opposizione più o meno scoperta tra un “io”, un “noi” intellettuali borghesi, e un “loro”, la classe operaia, dove il “tu” interlocutore della voce narrante sembra indicare un alter ego dello scrittore, che condivide con lui la stessa condizione, oppure un semplice sdoppiamento della sua coscienza. Il punto di contatto tra il narratore e gli operai è limitato alla visita in fabbrica: il poeta rimane comunque in una posizione superiore, libera, poiché quello non è il suo mondo, ma un passaggio temporaneo32, esattamente come la condizione del pellegrino Dante, vivo tra i morti, eletto tra i peccatori.

vv. 52-57 Continua l‟osservazione dei lavoratori da parte del poeta, e ciò che emerge dalla visione della meccanica serialità della catena di montaggio è la totale alienazione che li rende chiusi nel loro ordine, misurati nei gesti, veloci, infallibili

31 SERENI, A proposito di letteratura e industria, p.8 32

“Ecco appunto un uomo che in condizione di estraneo scende nel sottosuolo…estraneo perché, nonostante tutto, egli è ancora vivo, cioè libero, in un regno di non-liberi” I. Cremaschi, Coerenza in Sereni in “La fiera letteraria”, 5 novembre 1961, p.4, cit. in BAFFONI LICATA, p.152

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(senza perdere un colpo), ricattati moralmente dalla necessità di guadagnare per raggiungere un filo, un poco di benessere, obiettivo che negli anni dello sviluppo industriale sembra essere l‟imperativo morale degli italiani.

Al v. 54 come al v. 57 gli ennesimi puntolini di sospensione denunciano l‟afasia del poeta, il suo imbarazzo (in sospetto e tremore), la sua difficoltà a trovare le giuste parole per stabilire un contatto che ha forse come unica motivazione la buona volontà del borghese. Ecco quindi che in breve tempo il suo tentativo empatico fallisce: lo sguardo osservatore si abbassa imbarazzato (cade), e l‟unico argomento di comunicazione possibile (l‟uguaglianza tra tutti gli uomini) perde vigore (si spunta) perché intrinsecamente debole, inconsistente. È quell‟ansia – termine che già tradisce il desiderio forzato, l‟affanno filantropico di stabilire una non verità- di dirsi uguali, quando uguali purtroppo non si è. Questa parte di riflessione del poeta sulla sua impotenza a contatto con il mondo industriale è stata eliminata nella versione ultima probabilmente in ragione degli interventi di snellimento antienfatico voluti da Sereni. Peccato, si sono persi così alcuni dei versi più veri e drammaticamente autentici della poesia, dove lo scrittore, paroliere per eccellenza, non trova i termini né gli argomenti per abbattere il muro tra classi, culture, condizioni diverse.

vv. 58-61 L‟anafora di argomento, prima definito solo, adesso debole, evidenzia come nonostante la solidarietà e l‟umanitarismo verso gli operai (sentimenti che ricordano certi indugi simpatetici di Dante davanti a Paolo e Francesca) , il poeta sia consapevole della reciproca estraneità che nasce dalla condizione sociale e dalla formazione culturale diversa. La ripetizione – che come sostiene Fortini33 è la figura preponderante de Gli strumenti umani, insieme alla già notata reticenza- ha qui la funzione di intensificazione e soprattutto di modulazione, poiché aggiunge al sostantivo un nuovo attributo.

A metà del v.58 l‟accento torna sul lavoro in corso degli operai, che non si ferma davanti agli incerti tentativi comunicativi del poeta ma, anzi, li sovrasta ( E su tutto ) con la sua cogente necessità. La catena di produzione è rappresentata attraverso l‟immagine di un ballo implacabile e ininterrotto (nell‟ultima redazione definito anche

ipnotico ) dei pezzi della catena di montaggio da un reparto all‟altro, ballo che divora

gli operai coi suoi ritmi alienanti. L‟ultimo verso, espunto nell‟edizione definitiva forse perché ritenuto superfluo, vede l‟interruzione della visita in fabbrica e il respingimento

(19)

(ci respinge)– atto che sembra quasi forzato, quasi censorio, come se non si volesse far vedere altro della situazione dell‟opificio- all‟esterno dello stabile. Oppure, lettura opposta suggerita dallo stesso autore, il visitatore borghese “si annoierà, alla lunga, [e] uscirà stordito all‟aperto”34

.

III

Negli angoli morti. <….>

Dove il giorno sonnecchia. <….>

Dove s‟ammucchiano gli scarti, <….>

65 fermentano i rifiuti e più resiste <….>

il pattume alla pala. <….>

Dove più dice i suoi anni la fabbrica.

Qui ritorni in famiglia? <….>

Di vite trascorse qui la brezza

70 è loquace per te? Quello che precipitò

nel pozzo d‟infortunio e d‟oblio: e di oblio

quelli che tra scali e depositi in sé accolse e in sé crebbe il germe d‟amore

e tra scali e depositi lo sperse: l‟altro che prematuro dileguò

nel fuoco dell‟oppressore… nel fuoco dell‟oppressore.

75 Il tuo vizio più vecchio ed il più caro. <….>

Lavorarono qui, qui penarono.

E oggi il tuo pianto, il più facile, sulla fine comune. (E oggi il tuo pianto sulla fossa comune)

Ma anche di costoro che ne sappiamo tu e io, <….>

tu che tanto bene ne discorri, io con parole <….>

80 buone a scovar larve di passato <….>

dall‟ombra di quei muri – <….>

specie di questi, periferici alla fabbrica, <….>

che la visita tocca al suo finire. <….>

(20)

vv.62-68 La terza strofe presenta una prima parte spaziale, con funzione di cerniera, poi completamente eliminata nella versione definitiva, e una seconda dedicata ancora alla memoria. I primi sei versi, dalla sintassi irregolare, spezzata, incompleta come a riflettere le difficoltà di espressione del poeta a restituire un mondo vittorinianamente imposseduto, focalizzano l‟attenzione sull‟esterno della fabbrica. Qui, negli angoli morti (altro indizio per un‟interpretazione infernale), ovvero improduttivi, dove il giorno può seguire uno svolgimento tranquillo (sonnecchia) e non quello tecnologicamente efficiente dell‟interno della fabbrica e dove vengono accumulati i rifiuti dell‟industria, sembra lentamente affievolirsi il senso di estraneità del poeta (chiosa Sereni: “Strana familiarità tra il visitatore e la fabbrica nelle sue zone più vecchie e neglette”35

). La triplice anafora di dove intensifica la sua progressiva immersione –ora che l‟incompatibilità di classe è rimasta al di dentro delle mura dell‟edificio- nella realtà e nella storia della fabbrica, che è soprattutto storia di vite operaie (Dove più dice i suoi anni la fabbrica). La penetrazione dell‟intellettuale nel passato, secondo un movimento esogeno (partito cioè dall‟osservazione di ciò che sta fuori la fabbrica), è descritto come un ritorno in famiglia, ovvero un ritorno ad una dimensione più umana e conosciuta, la dimensione del dolore.

vv. 69-77 L‟interrogativa retorica, con anastrofe e rivolta a se stesso, Di vite

trascorse qui [in fabbrica; di vita privata non si parla, l‟esperienza dell‟operaio è

totalizzante] la brezza è loquace per te? permette di introdurre e ricordare alcuni episodi di esistenze consumate nella fatica e nello sfruttamento. (Ancora Sereni: “Sentimento a buon mercato su di loro, elegia”36

). Ecco dapprima riaffiorare la storia dell‟operaio (quello) che precipitò nel pozzo d’infortunio (perché di incidente sul lavoro si trattò) e

d’oblio, ovvero presto dimenticato e –si presume- senza alcuna inchiesta37

. Pozzo, come è già stato detto, è parola anche dantesca, con ben sette occorrenze nell‟Inferno e sempre unito ad aggettivi indicanti un‟inquietante profondità (“pozzo assai largo e profondo”, Inf., XVIII, 5; “bassissimo pozzo”, Inf., XXIV, 38; “pozzo scuro”, Inf., XXXII, 16) ed è riproposto da Sereni anche in Pantomima terrestre (in “Gli strumenti

35

Ivi, p.8

36

Ivi, p.8

37 Nei giorni in cui sto analizzando questa poesia è stata emessa una rivoluzionaria sentenza per la tragedia della

Thyssenkrupp (dove il 6 dicembre 2007 morirono sette operai che lavoravano in un‟area da tempo priva di

manutenzione ), che condanna a sedici anni e mezzo per omicidio volontario l‟amministratore delegato dell‟azienda. Nel XXI secolo siamo forse di fronte ad una nuova sensibilità nei confronti delle morti bianche, in grado di rendere giustizia simbolica a tutti i caduti sul lavoro ben presto dimenticati e archiviati.

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umani”) come “pozzo di lavoro con attorno un girotondo di prigionieri”. Segue il ricordo della lavoratrice incinta, che tra la fatica quotidiana dello scaricare e immagazzinare le merci ( tra scali e depositi, enfaticamente ripetuto) e in mancanza di diritti per la maternità, prima accolse, poi crebbe e infine sperse (climax ascendente in drammaticità) il suo bambino. E, infine, la vicenda del giovane (prematuro) operaio ucciso dagli spari dei neofascisti (fuoco dell’oppressor38), piuttosto di moda in questi anni.

Il v.75, poi eliminato nella redazione definitiva, sembra apparentemente staccato dal contesto con il suo significato oscuro; forse il tuo [del poeta] vizio più vecchio e il

più caro è il ricordo, l‟atto del ricordare il passato, non solo quello dei morti in fabbrica,

ma soprattutto quello, pur doloroso, personale. È infatti il dolore il trait d’union tra la tragica esperienza degli operai e quella propria del poeta, tema che viene introdotto e collegato al discorso precedente dal chiasmo del v. 76, Lavorarono qui, qui penarono. La sofferenza della classe operaia ricorda al poeta il sacrificio del popolo italiano durante la guerra, e in particolare la sua prigionia in Algeria: a questo punto la sua partecipazione è massima e si traduce in un pianto (come lo svenimento dantesco alla fine di Inferno, V), il più facile perché legato ad un‟esperienza personale, sulla fine

comune, la morte. Si noti però come la versione presente ne Gli strumenti umani,

generalmente più scarna, presenti il pregnante, sebbene tra parentesi39, fossa comune, che rimanda con chiarezza alla guerra e alla morte. Il termine fossa, infatti, oltre ad appartenere alla stessa area semantica di pozzo e del seguente sacca, ha sei occorrenze nella prima cantica dantesca e conferma quella tendenza alla discesa in profondità rinvenuta da Schiavone, richiamandone la dimensione infernale. Si fa sempre più evidente, infatti, la specularità tra l‟inferno della guerra e quell‟officina, tra l‟oppressione del potere politico e quella del padronato economico-industriale che è espresso attraverso una corrispondenza di immagini e di suoni tra le due esperienze. E tuttavia, per stessa ammissione di Sereni, è “inconcludente [la] concordia coi morti, insufficiente [il] riscatto dell‟estraneità, della difficoltà di legare coi vivi.”40 A comprovare la corrispondenza tra i due inferni, si noti il riferimento nella seconda strofe alle torrette, presenti anche nei campi di concentramento conosciuti da Sereni in Algeria

38 Elisabetta Chicco Vitzizzai, che ha analizzato sommariamente il significato di questa poesia, identifica in senso

resistenziale “l‟oppressor” con i nazifascisti. A me sembra piuttosto che il termine sia da ricondurre alle frange neofasciste che in grembo alla Democrazia Cristiana trovarono in quegli anni nuova vitalità e legittimità.

39 Fortini riconduce la parentesi ad un segnale della reticenza. Cfr FORTINI, Ivi, p.166 40 SERENI, ivi, p.8

(22)

(si pensi alle “torri alte sulla memoria” di Soldati a Urbino41

, raccolta in Frontiera e al

“Lassù dove di torre in torre” e al “quaggiù di torretta in torretta” di Diario d’Algeria42

),

e l‟analogia tra il suono della sirena di fabbrica e i segnali d‟allarme nel periodo bellico.

vv.78-83 Quest‟ultima parte, assente nella redazione definitiva, è di nuovo un disilluso monologo interno al poeta, che riprende, variandole, le parole dei vv. 50-51. Neanche di costoro (i caduti in guerra, mentre i loro del v.50 erano gli operai) sembra che il poeta si senta abilitato a parlare con legittimità, né con belle parole (che tanto

bene ne discorri), né con ricordi che fanno riaffiorare spunti di passato ( si noti l‟uso del

termine degradante larve di passato, simile alla larva del suono del v.29, forse nel senso di entità abbozzate ed incomplete). Attraverso una focalizzazione quasi cinematografica, lo zoom del poeta esce poi dal tema del ricordo e repentinamente, con l‟immagine dei muri periferici, torna allo spazio esterno, da cui era partito lo stimolo della memoria all‟inizio della strofe. Si realizza così una composizione ad anello, che chiude l‟excursus commemorativo laddove esso era cominciato e che, ricollocando l‟azione al di fuori della fabbrica, sancisce la fine della visita.

IV

Forse che meno soli, oggi, siamo stati? <….>

85 Non ce l‟ho coi padroni. Loro almeno “Non ce l‟ho –dice- coi padroni[..]

sanno quello che vogliono. Non è questo,

non è più questo il punto. E raffrontando e non è più questo il punto.” […]

rammemorando: - la sacca era chiusa per sempre rammemorando: “…la sacca […]

e nessun moto di staffette, solo un coro 90 di rondini a distesa sulla scelta tra cattura

e morte. Che insulto, che beffa della vita…- e morte…” Ma qui, non è peggio? Accerchiati da gran tempo

Ma qui, non è peggio? Accerchiati da gran tempo e ancora per anni e poi anni ben sapendo che non più duramente (non occorre) si stringerà la morsa.

95 C‟è vita, sembra, e animazione dentro

41 SERENI, Soldati a Urbino in Frontiera, p.37 42 SERENI, Diario d’Algeria in Diario d’Algeria, p.19

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Quest‟altra sacca, di uomini in grembiuli quest‟altra sacca, uomini in grembiuli neri

neri – ti fanno tenerezza- <….>

che li riaccostano all‟infanzia mentre recano plichi, che si passano plichi

uniformati al passo delle teleferiche 100 di trasporto giù in fabbrica.

Salta su

il più buono e il più fesso, cita: il più buono e il più inerme, cita:

E di me si spendea la miglior parte

tra spasso e proteste degli altri – ma va’ là! – scatenati.

vv. 84-87 Il v.84, assente nell‟edizione definitiva, sembra essere una riflessione interna agli operai sulla loro solitudine. Sull‟oscuro valore di oggi (l‟oggi contingente della visita dell‟intellettuale in fabbrica o l‟oggi generale degli anni Sessanta) è Sereni stesso a fornire una glossa esplicativa nella lettera a Mario Boselli: “Non siamo stai meno soli per il fatto di esserci mescolati col mondo della produzione, anzi!”.43

Non la massificazione dei consumi e dei media, non la diffusione del benessere su vasta scala sono riusciti a colmare l‟isolamento sociale, politico e culturale del lavoratore salariato e la sua intrinseca solitudine.

L‟accento si sposta poi, per analogia, dalla condizione degli operai e la lotta di classe (Non ce l’ho con i padroni. Loro almeno/ sanno quello che vogliono. Non è

questo,/ non è più questo il punto), in cui l‟agire utilitaristico dell‟imprenditore trova

una giustificazione nella volontà di guadagno, al tema della guerra, più latente nell‟edizione del 1961, meno in quella de Gli strumenti umani attraverso l‟espressione

fossa comune (v.77). Se nella versione della rivista sembra chiaro che il soggetto delle

affermazioni dei vv. 85-87 sia il poeta, più ambigua è l‟attribuzione delle stesse parole nella redazione definitiva, dove il discorso non è più libero, ma viene introdotto da un

verbum dicendi (“Non ce l’ho- dice- coi padroni […]”).

vv. 87-91 Attraverso l‟espressione E raffrontando e rammemorando si realizza il legame analogico e dunque il passaggio tra il mondo della fabbrica e quello della guerra, nonché tra i due soggetti dicotomici della poesia, “loro” (gli operai”) e l‟”io” del poeta. È al tempo stesso un confronto (raffrontando) tra le due esperienze e un ricordo (rammemorando) della sacca ( in senso militare, la rientranza profonda nella linea del

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fronte di un esercito) nordafricana, zona alla quale era stato assegnato il reparto di Sereni nel 1941. L‟eternità della sacca (la sacca era chiusa per sempre, immagine presente anche nella sezione Sicilia ’43 in Gli immediati dintorni: “[…] da Salemi la sacca si restringeva su di loro, in una terra divenuta decisamente ostile, e di lì a poco si sarebbe definitivamente chiusa.”44

), sebbene stia propriamente a significare l‟accerchiamento totale del reparto, rimanda, unita all‟idea di profondità, ancora ad una concezione infernale, che si sposa perfettamente con la dimensione bellica e che, più avanti, contribuirà a connotare l‟Ade degli operai (vedi v.96). Dal completo accerchiamento nemico e dalla mancanza di indicazioni su cosa fare (nessun moto di

staffette, ovvero di portaordini) , dove l‟unica voce è rappresentata dal coro delle rondini-, deriva un senso di assoluta impotenza che riduce la possibilità di scelta del

soldato tra il cadere prigioniero –la sorte di Sereni, recluso in Algeria dal 1943 alla fine della guerra- e il morire combattendo. L‟excursus sulla guerra si conclude con un‟amara riflessione, poi espunta nell‟edizione definitiva, sul carattere beffardo e offensivo di una vita che costringe a scegliere tra due opzioni ugualmente nocive.

vv. 92-94 Abbandonato di nuovo il passato della guerra per un ritorno al presente industriale, il poeta si rende conto che la scelta proposta agli operai non è tuttavia migliore ( Ma qui [in fabbrica] non è peggio?), né meno perentoria. Si tratta infatti di rassegnarsi allo sfruttamento, alla fame e all‟obbedienza, anzi alla remissività che garantiscono la perpetuazione degli stenti e allo stesso tempo del magro salario, oppure di dedicarsi alla rivolta contro il padrone, nella consapevolezza degli scenari imprevedibili e forse disastrosi che potrebbero aprirsi. È il cruciale dilemma degli anni Sessanta-Settanta e della guerra civile all‟interno della classe operaia, combattuta tra i cosiddetti crumiri, spesso più terrorizzati che ruffiani, e coloro che partecipavano alle rivendicazioni sindacali rischiando e anche perdendo il posto di lavoro. Anche gli operai della fabbrica sono accerchiati nella sacca, da molto ed ancora per molto tempo, consapevoli che se la morsa che li opprime non si stringerà ulteriormente sarà perché

non occorre, perché non è possibile uno sfruttamento maggiore di quello già in atto.

vv. 95-100 Il verbo sembra è una spia linguistica della sostanziale falsità della vita in fabbrica e soprattutto della percezione che l‟intellettuale ha di questa durante la sua visita. Sereni non avrebbe scritto Una visita in fabbrica se avesse ascoltato

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acriticamente il suo accompagnatore e se avesse guardato soltanto là dove egli lo invitava a guardare. L‟animazione è solo apparente e l‟opificio è definito qui come

quest’altra sacca (oltre quella della guerra, con cui l‟iterazione del termine crea un

parallelo) di uomini in grembiuli neri, indistinguibili e spersonalizzati nelle loro divise identiche, come dannati non più riconoscibili l‟uno dall‟altro che svolgono gli stessi atti di espiazione.

Ma nell‟indistinto grigiume della fabbrica ecco riaffiorare il sentimento, che ha il motivo della tenerezza e del ricordo, espunto poi nella redazione definitiva. Come all‟inizio del poemetto (vv. 12-15), torna il richiamo degli anni dell‟infanzia, dove i grembiuli neri degli operai evocano la divisa dei bambini a scuola. L‟indugio evocativo è però breve: i falsi bambini, ormai privi dell‟antica genuinità e spensieratezza, portano

plichi (fogli piegati, forse bolle di commissione e di consegna del materiale) e sono uniformati, nonché succubi dei ritmi dei carrelli che trasportano le merci giù – altra spia

di un movimento di graduale discesa- in fabbrica. L‟alienazione tocca ora i suoi apici attraverso la schiavitù e la dipendenza imposte dalla macchina all‟uomo: se il fattore meccanico era nato come ausilio e facilitazione per il lavoratore, adesso esso lo comanda e gli impone i suoi ritmi e le sue regole.

vv. 101-103 Al movimento discensionale del v.100 (giù in fabbrica), si oppone l‟emergere (salta su) di un operaio nella massa indistinta, il meno combattivo (il più

buono e il più fesso, che nell‟edizione finale diventa, privo di accenti coloriti, il più inerme), analogamente a certi personaggi infernali (si pensi a Farinata degli Uberti) che,

vedendo Dante, si staccano dalla loro schiera ed acquistano di nuovo, attraverso la parola, una loro identità. E di me di spendea la miglior parte, famoso verso di A Silvia di Leopardi, è la citazione (quasi teatrale, mimica e quindi non originale- come la vita alienata) dell‟operaio, una citazione volutamente riconoscibile (di primo livello e scritta infatti in corsivo), ma soprattutto ironicamente antifrastica, perché il poeta di Recanati ricorda un tempo per lui sinceramente positivo, quello della gioventù dedicata agli studi, mentre l‟età più bella degli operai scorre tra le fila della catena di montaggio e nelle sfide quotidiane per la sopravvivenza. In questo stato di alienazione della coscienza non trova spazio nemmeno il minimo conforto culturale rappresentato dalla citazione leopardiana, subito dissolto dalla derisione, dallo spasso e dalle proteste degli altri che –scatenati- liquidano il parlante con un banale ma va là. Viene così radicalmente disintegrato il valore della tradizione lirica e la possibilità di fare poesia, nonché il suo

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