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Capitolo 4 Note crociane sulla persona e l’opera di Weber

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Capitolo 4

Note crociane sulla persona e l’opera di Weber

4.1. La storia come esame di coscienza

Tra il 1925 e il 1932 escono quattro opere storiche di Croce: la Storia del Regno di

Napoli (1925), la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), la Storia dell’età barocca in Italia (1929) e la Storia d’Europa del secolo decimonono (1932).

Sfogliando le belle pagine della Storia d’Europa, troviamo una considerazione a proposito di un’opera di Weber:

egli [Bismarck] non aveva certo lavorato a creare o a preparare un’altra classe politica mercé dibattiti del parlamento, lotte di partiti, avvicendamento nel governo, vivace ricambio tra il popolo e i suoi rappresentanti, e, come Max Weber dimostrò poi in un esame di coscienza nazionale al quale con alto animo di cittadino sottomise il suo popolo, lasciò che la politica scendesse dall’alto, attraverso la fedele e sedula burocrazia, esecuzione del pensiero e della volontà di un cancelliere, grandissimo o piccolissimo, e di un imperatore, savio o poco savio1.

Lo scritto a cui si riferisce il filosofo napoletano è Parlament und Regierung in

neugeordneten Deutschland, introdotto in Italia proprio da lui nel 1919.

Dalle righe qui riproposte emerge con evidenza la valutazione positiva delle riflessioni weberiane a proposito dell’eredità politica bismarckiana.

La situazione odierna della nostra vita parlamentare è un retaggio dell’annoso

dominio del principe Bismarck in Germania e dell’atteggiamento interiore che la nazione

aveva assunto verso di lui dall’ultimo decennio del suo cancellierato […].

Una gran parte della letteratura popolare su Bismarck, e in ogni caso la parte più influente, è confezionata su misura per la tavola natalizia del piccolo borghese che predilige quella forma assolutamente apolitica di culto degli eroi che da noi è divenuta usuale. Questa letteratura usa un linguaggio gradito a questo sentimentalismo e crede di servire al suo eroe dissimulando i suoi limiti e diffamando i suoi avversari. Ma in questo modo non si educa una nazione a formarsi una propria coscienza politica. La gigantesca grandezza di Bismarck può benissimo sopportare che si comprendano obiettivamente anche quelli che la pensavano diversamente da lui e che si stabilisca senza riguardi quali conseguenze ebbe il suo profondo disprezzo per gli uomini, e la circostanza che dal 1878, a causa del suo dominio,

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la nazione si disabituò a quella positiva partecipazione alla determinazione del proprio destino politico, attraverso i suoi rappresentanti elettivi, la quale soltanto rende possibile l’educazione del giudizio politico.

Che cosa era quindi – per gli aspetti della questione che qui ci interessano – l’eredità

politica di Bismarck? Egli lasciò una nazione senza la minima educazione politica, molto al

di sotto del livello che essa a questo riguardo aveva già raggiunto venti anni prima. E soprattutto una nazione senza la minima volontà politica, abituata al fatto che il grande uomo di stato che stava al suo vertice si occupasse per lei della politica. E inoltre, in conseguenza dello sfruttamento illecito del sentimento monarchico come copertura dei propri interessi di potenza nella lotta politica di partito, una nazione abituata a subire fatalisticamente, all'insegna del “governo monarchico”, ciò che su di essa si decideva, senza mettere in discussione le qualità politiche di coloro che avevano occupato la poltrona lasciata vuota da Bismarck e che tenevano in mano con sorprendente disinvoltura le redini del governo. In questo punto stava il danno di gran lunga più grave. Una tradizione politica, invece, il grande uomo di stato non la lasciò assolutamente dietro di sé. Egli non aveva allevato e nemmeno solo tollerato menti interiormente autonome e che avessero per di più carattere. E la cattiva stella della nazione aveva voluto inoltre che, accanto alla sua folle diffidenza verso tutte le personalità che in qualche modo fossero da lui sospettate come possibili successori, egli avesse anche un figlio, di cui sopravvalutava incredibilmente le qualità veramente modeste di uomo di stato. D'altronde, un risultato assolutamente negativo del suo forte prestigio fu un parlamento del tutto impotente. È noto che egli stesso si è incolpato di ciò come di un errore, quando non era più in carica e ne aveva sperimentato le conseguenze sul proprio destino. Ma quella impotenza significava nello stesso tempo un parlamento con un livello intellettuale molto ridotto. Certo l'ingenua leggenda moralizzatrice dei nostri letterati apolitici si immagina invece rovesciato il rapporto causale: poiché il livello della vita parlamentare è stato ed è rimasto basso, per questo motivo, e quindi meritatamente, il parlamento sarebbe rimasto impotente. Fatti e considerazioni molto semplici dimostrano però lo stato di cose reale, che del resto è di per sé evidente per ogni pensatore obiettivo. Infatti il livello alto o basso di un parlamento si adegua a seconda del fatto che in esso i grandi problemi vengano non soltanto discussi, bensì autorevolmente

decisi - a seconda che, quindi, ciò che accade in parlamento conti qualcosa e quanto,

oppure esso sia soltanto l'apparato di approvazione mal tollerato di una burocrazia dominante2.

Parlamento e governo è presentato dallo stesso Weber come una trattazione politica

volta ad accreditare, tra i vari poteri politici, la rappresentanza popolare.

L’intellettuale tedesco scrive che posto come fine quello di rendere la propria nazione grande, felice e valorosa, i mezzi di cui il politico dispone sono i mutamenti della forma di tecnica statale. La scelta dell’uno o dell’altro meccanismo dipende esclusivamente dalla funzionalità dello stesso al raggiungimento del suddetto scopo. Come segno della necessità di un cambio nella modalità di formazione della volontà statale, Weber, oltre a portare come testimonianza le esperienze fallimentari della politica tedesca degli ultimi dieci anni, esprime l’urgenza di una variazione della 2 Weber M., Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 9-21.

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forma di stato per dare ai soldati che lottano al fronte la possibilità di poter ricostruire da sé, attraverso la scheda elettorale e i loro rappresentanti, quella nazione di cui hanno già salvato l’esistenza in battaglia. In sostanza, il parlamentarismo emerge quindi come la forma di stato più funzionale.

Dopo un’analisi dell’eredità politica di Bismarck, di cui abbiamo poco prima riportato i passaggi principali, Weber tratta del cosiddetto “potere burocratico” all’interno dello stato moderno monarchico o democratico:

In uno stato moderno il potere reale, che non si manifesta né in discorsi parlamentari né in dichiarazioni di sovrani, bensì nel manovrare l’amministrazione nella vita quotidiana, sta necessariamente e inevitabilmente nelle mani della burocrazia, sia militare che civile. Dall’“ufficio”, infatti, l’alto ufficiale moderno dirige persino le battaglie. Come il cosiddetto progresso verso il capitalismo costituisce a partire dal Medioevo il criterio univoco della modernizzazione dell’economia, così il progresso verso un corpo di funzionari burocratico, fondato sull’assunzione , sullo stipendio, sulla pensione, sull’avanzamento, sulla formazione specialistica e sulla divisione del lavoro, su competenze fisse, sulla conformità agli atti, sulla subordinazione e sulla sovraordinazione gerarchica, costituisce il criterio altrettanto univoco della modernizzazione dello stato3.

Da un punto di vista sociologico sia la fabbrica del sistema ad economia privata capitalistica, sia lo stato moderno possono essere considerati un’“impresa”. Entrambi i casi sono caratterizzati dalla “separazione” del singolo (lavoratore o cittadino) dai mezzi materiali d’impresa (mezzi economici, bellici, di amministrazione, di ricerca, monetari):

la possibilità di disporre di questi mezzi sta nelle mani del potere4 a cui obbedisce

direttamente oppure resta a disposizione su richiesta quell’apparato della burocrazia (giudici, funzionari, ufficiali, capi-officina, commessi, sottoufficiali) che è ugualmente caratteristico di tutte quelle formazioni e la cui esistenza e funzione è inseparabilmente congiunta, sia come causa che come effetto, a quella “concentrazione dei mezzi materiali di impresa”, anzi, esso ne costruisce la forma stessa5.

Da un punto di vista storico esiste un forte legame tra la modernizzazione dello stato (progresso verso un corpo burocratico di funzionari del potere centrale) e la modernizzazione dell’economia (progresso verso il capitalismo); infatti l’impresa capitalistica moderna si basa sul calcolo e sull’organizzazione razionale del lavoro e, così come deve poter prevedere le prestazioni delle sue macchine, essa deve poter pure fondare la propria attività sull’esistenza di un diritto razionalmente concepito e 3 Ibidem, p. 23.

4 Capo politico nello stato, imprenditore nella fabbrica.

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di una giustizia e di un’amministrazione il funzionamento delle quali possa essere calcolato razionalmente sulla base di quelle norme.

Il primo capitalismo moderno non è sorto nei paesi modello della burocrazia (che, da parte sua, in questi paesi è derivata dal puro razionalismo statale). E anche il grande capitalismo moderno non era in un primo momento limitato a questi paesi, in un primo momento non trovava prevalentemente neppure il proprio ambiente ideale in essi, bensì laddove i giudici provenivano dagli avvocati6. Ma oggi capitalismo e burocrazia si sono

incontrati e sono intimamente accoppiati7.

Anche i partiti, vista la sempre maggiore razionalizzazione della tecnica della lotta elettorale, sono soggetti al processo di burocratizzazione.

Naturalmente una burocrazia statale sembra in parte molto diversa da quella di un partito, e all’interno della prima la burocrazia civile sembra a sua volta diversa da quella militare, e tutte queste a loro volta da quella di un comune, della Chiesa, di una banca, di un cartello industriale, di un consorzio professionale, di una fabbrica, di una rappresentanza di interessi (associazioni di imprenditori, lega degli agricoltori) […]. Ma le manifestazioni di queste forme amministrative, certo importanti dal punto di vista pratico, non ci interessano in questa sede. Infatti – e questo è il solo aspetto che qui ha importanza – nell’amministrazione di gruppi di massa il corpo di funzionari ad impiego fisso e con un’istruzione specializzata costituisce sempre il nucleo dell’apparato, e la sua “disciplina” è l’assoluta condizione preliminare del successo. E ciò in misura sempre maggiore col crescere della grandezza del gruppo, della complessità dei suoi compiti e – soprattutto – quanto più la sua esistenza è condizionata dalla sua posizione di potenza (sia che si tratti di lotte di potenza nel mercato, sul terreno della lotta elettorale o sul campo di battaglia). Così avviene anche nei partiti8.

Weber, di fronte alla burocratizzazione che avanza inesorabilmente, espone tre questioni relativamente alle forme politiche di organizzazione:

- Come salvare «qualche residuo di una libertà di movimento in qualche senso “individualistica”»9.

- Come garantire una democrazia attraverso delle potenze in grado di frenare e

di controllare l’enorme e crescente predominio della burocrazia statale.

- La consapevolezza dell’assenza dello spirito direttivo nella burocrazia statale e in quella privata. Se il funzionario riceve un ordine può sollevare obiezioni, ma se il superiore insiste il funzionario ha il dovere e l’onore di eseguirlo (spirito d’ufficio del funzionario). Un dirigente politico invece deve porre al suo sovrano – che sia monarca o che sia il popolo – un aut aut per il quale o 6 Vale a dire l’Inghilterra.

7 Weber M., Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, cit., pp. 26-27 n. 8 Ibidem, pp. 31-32.

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riceve certe istruzioni o abbandona il suo incarico (responsabilità personale del politico e dell’imprenditore).

Weber ricorda come alla Germania sia mancata dopo Bismarck – “sterminatore” degli uomini politici che gli stavano accanto – una direzione politica. Sono stati i funzionari a governare il suo paese.

La principale risposta all’istanza di controllo della burocrazia è data, secondo l’intellettuale tedesco, da un parlamento potente. La monarchia, a tal proposito, è una potenza che non può svolgere, salvo che per il campo militare, un ruolo importante. Il monarca infatti, oltre a non possedere una competenza specialistica, non è un politico esperto nella dura lotta di partito o della diplomazia. Egli, che è completamente dipendente dalle relazioni preparate dai funzionari, pensa di governare da sé, ma in realtà è la burocrazia che, senza alcuna responsabilità, comanda.

Il giusto contrappeso del potere onnicomprensivo della burocrazia specializzata è un parlamento fautore di una politica positiva, vale a dire:

- titolare del diritto di bilancio;

- vivaio da cui vengono tratti i capi dell’amministrazione;

- istituzione che lega a sé, tramite il voto di fiducia, il governo, il quale deve rendergli conto e seguirne le direttive.

Il monarca «contribuisce a determinare la politica non in virtù dei suoi diritti sovrani formali, o almeno non prevalentemente e in ogni caso non esclusivamente in virtù di essi, bensì in virtù della sua influenza, che è molto grande in ogni circostanza, con forza diversa quindi a seconda della sua intelligenza politica e della sua consapevolezza del fine. In questo caso si parla, non importa se a ragione o a torto, di “stato popolare”, mentre un parlamento dei dominati con una politica negativa nei confronti di una burocrazia dominante rappresenta una varietà dello “stato autoritario”»10.

Attraverso l’attribuzione, da parte del monarca, della direzione politica a uomini di fiducia della maggioranza parlamentare, si consente al parlamento stesso di divenire 10 Ibidem, p. 44.

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il luogo di selezione di capi che emergono da una lotta di potenza dei partiti.

Weber dice che la Germania post-bismarckiana è governata dai funzionari, mentre i soggetti dotati dell’istinto di potenza sono a capo di grandi imprese. La struttura politica infatti non permette al capo di un partito di acquisire potere nello stato, come invece accadrebbe con un parlamento potente.

Per il controllo della burocrazia, scrive l’intellettuale tedesco, si devono sviluppare commissioni parlamentari titolari del diritto di inchiesta. «Soltanto questa collaborazione tra funzionari specializzati e politici di professione garantisce il controllo continuo dell’amministrazione e, attraverso di esso, l’educazione e l’istruzione politica di governanti e governati»11.

Per diritto di inchiesta si intende la possibilità da parte del parlamento di conoscere i fatti (“sapere di servizio”) e i criteri tecnico-specialistici (“sapere specializzato”) sui quali i funzionari sviluppano la propria attività burocratica.

Tale diritto, tipico di un parlamento potente, viene esercitato all’interno delle commissioni, consentendo ai parlamentari di occuparsi della realtà dell’amministrazione e di dimostrare le loro capacità all’interno di un luogo in grado di favorire la selezione dei politici.

In sintesi, per Weber l’attribuzione di potere al parlamento è il problema fondamentale dell’ordinamento statale della Germania. Vediamo come egli propone di raggiungere questo scopo; gli snodi riformatori individuati sono i seguenti:

- Integrazione dell’autorità parlamentare, tramite la promozione di una politica

positiva del Reichstag.

- Abrogazione dell’articolo 9 della Costituzione del Reich, che all’ultimo

comma dice: «Nessuno può essere contemporaneamente membro del

Bundesrat e del Reichstag». Tale disposizione costituzionale implica che

mentre «nei paesi governati col sistema parlamentare è considerato assolutamente necessario che gli uomini che dirigono lo stato, facciano parte del parlamento, in Germania ciò per legge è impossibile. Il cancelliere del

Reich o un ministro di un singolo stato che sia deputato al Bundesrat o un

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segretario di stato del Reich può sì far parte di un parlamento di un singolo stato, ad esempio della dieta prussiana, e lì dunque influenzare o persino dirigere un partito, ma non può far parte del Reichstag»12. Con la soppressione

della norma si permetterebbe a dei soggetti capaci che siedono nel Reichstag di poter assumere allo stesso tempo cariche politico-direttive nel Reich, senza sradicarsi politicamente dal parlamento, perdendo l’influenza che esercitano nel loro partito.

- Modificazioni del regolamento parlamentare interno al fine di garantire un diritto di inchiesta da crearsi come diritto di minoranza (organizzazione di un’inchiesta su richiesta da parte di un numero non eccessivo di deputati e diritto della minoranza ad essere rappresentata, a fare domande e a produrre controrelazioni).

- Sviluppo di un corpo di parlamentari di professione, ovvero di persone la cui principale attività lavorativa è costituita proprio dalla politica. Tali soggetti possono vivere di politica o per la politica; in questo secondo caso si vive di rendita ed essendo disponibili, in quanto non vincolati a nessuna impresa, si può diventare politici di grande livello. «Tra gli strati sociali vincolati ad un’impresa solo gli avvocati sono “disponibili” e adatti a fare i politici di professione». Inoltre essi sono abituati alla lotta e a difendere tramite essa una causa. «Ma soltanto se il parlamento offre la prospettiva di posizioni di capo con responsabilità di capo, saranno non solo avvocati di gran classe, ma personalità indipendenti in generale, che vorranno vivere per la politica. Altrimenti saranno solo funzionari stipendiati di partito e rappresentanti di interessi»13.

Weber ricorda inoltre che un ostacolo alla parlamentarizzazione, ovvero alla selezione parlamentare dei capi, è rappresentata dal sistema dei partiti tedesco.

Due grandi partiti sono scettici riguardo al parlamentarismo: la Socialdemocrazia, per evitare ogni contaminazione con l’attività di un meccanismo statale borghese e con un’economia capitalistica, rifiuta ogni ipotesi di responsabilità di governo, anche 12 Ibidem, p. 47.

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all’interno di una coalizione; il Centro, nato come partito di minoranza, sarebbe, con il governo parlamentare, minoranza parlamentare e pertanto non potrebbe più favorire gli interessi dei suoi protetti ( i cattolici che aspirano ad una carica) come è in grado di fare se continua a rappresentare nei parlamenti l’“ago della bilancia”. Inoltre nel sistema caratterizzato dal potere incontrollato dei funzionari «al partito del Centro veniva risparmiata quella responsabilità cui non avrebbero potuto sottrarsi se il suo capo avesse fatto parte formalmente del governo. Questa responsabilità non sarebbe stata comoda. Infatti, mentre il Centro anche oggi conta ancora tra i suoi politici una serie di persone molto capaci, tra i funzionari da esso protetti, accanto a persone di valore, si trovano anche persone così evidentemente prive di ogni capacità, che un partito che siede responsabilmente nel governo difficilmente avrebbe affidato ad essi posti di funzionario. Simili personaggi possono andare avanti solo con un patronato privo di responsabilità. Come partito ufficialmente al governo, il Centro avrebbe dovuto presentare candidati più dotati»14.

Un sistema caratterizzato da un simile potere burocratico incontrollato ha avuto ripercussioni anche sulla politica estera della Germania. I posti che dovrebbero essere di politici responsabili, sono occupati da funzionari che hanno reso pubbliche le dichiarazioni personali del monarca riguardanti le relazioni estere del Reich, senza l’assunzione – in quanto funzionari – di alcun genere di responsabilità politica. Ciò è avvenuto, scrive Weber, per più di un decennio, dal telegramma di Krüger (1896) fino alle crisi marocchine del 1905 e del 1911 e, fermo restando il diritto del monarca ad assumere ogni tipo di posizione politica, la questione da porre riguarda chiaramente l’ingerenza da parte di funzionari nelle importanti decisioni circa l’opportunità politica di pubblicare tali prese di posizione quando tale compito dovrebbe essere proprio invece di dirigenti politici esperti e responsabili. Le conseguenze di queste pubblicazioni “irresponsabili” sono state gravi e molteplici: sconfitte diplomatiche, danneggiamento degli interessi tedeschi e soprattutto «l’impressione oltremodo pericolosa che la Germania usi i gesti esteriori più forti, ma poi sia solita ritirarsi – a ciò risale questa credenza che contribuì sicuramente a 14 Ibidem, pp. 74-75.

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determinare la condotta della politica inglese alla fine del luglio 1914. L’innaturale coalizione mondiale contro di noi è stata riunita in forte misura anche per mezzo di questi errori del tutto incredibili»15.

L’intellettuale tedesco ritiene così indispensabile che si proceda attraverso una legge ad impedire immediatamente un simile abuso delle dichiarazioni del monarca e a garantire l’assunzione preventiva della responsabilità costituzionale della pubblicazione da parte del politico dirigente, suggerendo anche lo sviluppo di un organismo consultivo composto da esperti uomini politici.

Weber riflette, inoltre, sul rapporto tra parlamentarizzazione e democratizzazione, qui intesa come diritto elettorale democratico:

la moderna propaganda di massa fa della razionalizzazione dell’impresa di partito – i funzionari, la disciplina, i mezzi finanziari, la stampa e la propaganda di partito – il fondamento del successo elettorale. I partiti si organizzano sempre più rigidamente […]. I bilanci dei partiti si ingrossano, poiché crescono i costi delle elezioni e il numero dei propagandisti pagati che sono necessari […].

L’apparato di partito cresce di importanza e, corrispondentemente, declina l’importanza dei notabili16.

In concomitanza con la democratizzazione emergono quindi fenomeni come la burocratizzazione, l’economia finanziaria razionale e l’inasprimento dei mezzi di lotta elettorale, caratterizzati anche da toni sempre più spregiudicati.

Weber sottolinea che la durezza dello scontro elettorale è proprio un prodotto delle elezioni di massa in quanto tali e sussiste indipendentemente dalla parlamentarizzazione e dal tipo di differenziazione del suffragio. Si veda a tal proposito la spregiudicatezza dei mezzi e del tono usati nel confronto politico dalla stampa bismarckiana, la quale certo non operava in una situazione caratterizzata dalla potenza del parlamento.

In un contesto di elezioni di massa, indipendentemente dalla misura della parlamentarizzazione, conseguenza diretta della razionalizzazione e della specializzazione dell’impresa di partito è anche, senza dubbio, l’affermazione del ruolo del politico di professione, che, come abbiamo visto, usa sempre più comportamenti demagogici per la conquista delle masse.

15 Ibidem, p. 88. 16 Ibidem, p. 97.

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L’intellettuale tedesco esprime un’istanza di democrazia regolata e di parlamentarizzazione come condizioni dell’avvaloramento della tesi dell’importanza crescente del demagogo. Scrive, infatti, Weber: «È di importanza decisiva il fatto che, in ogni caso, solo persone selezionate nella lotta politica hanno l’esperienza necessaria per essere capi politici, poiché tutta la politica, nella sua essenza è lotta. Per questo va meglio in media il vituperato “mestiere di demagogo” che la stanza delle pratiche, che certamente per l’amministrazione effettiva offre un addestramento infinitamente superiore»17.

Weber dice che la democrazia tende naturalmente ad accogliere in sé momenti cesaristici di selezione dei capi politici; nello specifico, il mezzo demagogico di massa per la conquista del popolo è il plebiscito. Sia il legittimismo monarchico ereditario – si ricordi le modalità delle dimissioni del cancelliere Bismarck – sia il principio parlamentare – si pensi alla Costituzione e al diritto elettorale adottati in Francia per evitare il riaffacciarsi del rischio boulangista – reagiscono alla selezione plebiscitaria dei capi. In una monarchia democratizzata come l’Inghilterra, avviene una scelta plebiscitaria parlamentare dei capi. La componente cesaristica del sistema, secondo la quale il primo ministro fonda il proprio potere sulla fiducia popolare e dell’esercito, è temperata dall’esistenza di un parlamento che garantisce:

1) la stabilità e 2) il controllo della sua posizione di potenza; 3) il mantenimento delle garanzie giuridiche civili contro di lui; 4) una forma regolata nella quale i politici che cercano di ottenere la fiducia delle masse diano prova di sé nell’ambito del lavoro parlamentare e 5) una forma pacifica di rimozione del dittatore cesaristico quando egli ha

perduto la fiducia delle masse. Ma il fatto che proprio le grandi decisioni della politica,

anche e proprio nella democrazia, vengano prese da “singoli individui”, è questa inevitabile circostanza a far sì che la democrazia di massa, fin dai tempi di Pericle, ottenga i suoi successi positivi a prezzo di forti concessioni al principio cesaristico di selezione dei capi18.

In una democrazia di massa, il parlamento esercita una funzione di primaria importanza: il controllo del potere burocratico. Ovviamente l’assemblea degli eletti deve avere il potere per ottenere la pubblicità dell’amministrazione, la verifica e l’approvazione del bilancio e, infine, la discussione e l’approvazione dei disegni di legge.

L’assenza in una democrazia di una struttura parlamentare, a vantaggio del voto 17 Ibidem, p. 105.

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popolare obbligatorio, significherebbe la mancanza di un organo di controllo che autonomamente disponga del potere di chiedere ai funzionari della burocrazia statale di rendere pubblicamente conto del loro operato. Inoltre

la votazione popolare, come mezzo tanto di elezione quanto di legislazione, ha limiti intrinseci che derivano dalle sue caratteristiche tecniche. Essa risponde soltanto con un “sì” o con un “no”. In nessuno stato si massa le è assegnata la funzione più importante del parlamento, cioè la l’approvazione del bilancio. Ma in un grande stato di massa essa ostacolerebbe nel modo più grave anche l’attuazione di tutte quelle leggi che si fondano su una composizione di interessi contrastanti19.

Il parlamento rappresenta poi un vero e proprio argine nei confronti di una scelta dei capi puramente emotiva e legata alla loro capacità “demagogiche”20. In altre parole, i

capi politici, che hanno la fiducia delle masse, si formano attraverso la loro partecipazione ai lavori delle commissioni parlamentari e pertanto operano entro le forme giuridiche statuali.

Nella parte finale di Parlamento e governo, Weber mette in relazione la democratizzazione e la parlamentarizzazione col federalismo.

la democratizzazione del diritto elettorale è un imperativo del momento, stringente e politicamente indifferibile, soprattutto per lo stato egemonico tedesco. A prescindere da ogni altra cosa, a favore di essa è politicamente decisivo il fatto che: 1) oggi solo il diritto elettorale paritario può rappresentare l’esito finale delle lotte per il diritto di voto, la cui sterilità terribilmente esacerbante deve essere eliminata dalla vita politica prima che i soldati ritornino a casa dal fronte per ricostruire lo stato; 2) è politicamente impossibile svantaggiare nel diritto elettorale i soldati che tornano nei confronti di quegli strati della società che nel frattempo, stando a casa, hanno potuto conservare o addirittura incrementare la loro posizione sociale, la loro proprietà e la loro clientela, mentre quelli al fronte versavano il proprio sangue per la loro sopravvivenza […].

A suo tempo fu proposto di regolare la questione del diritto elettorale dei singoli stati con un atto del Reich concepito in modo che ad ognuno che fosse stato al fronte, in ogni stato federale con un diritto elettorale per classi, dovesse spettare il diritto elettorale della classe o del tipo migliore. Ciò rispettava il principio federalistico, poiché formalmente significava soltanto una modificazione temporanea della Costituzione del Reich, e si poteva formulare in modo che all’occorrenza diventasse inutile ogni appello alla dieta prussiana. Era da aspettarsi un’opposizione contro questa soluzione.

Ma con stupore si lesse su alcuni giornali berlinesi l’affermazione che la questione del

diritto elettorale prussiano era un affare puramente di politica interna prussiana e che

occuparsene costituiva da parte degli altri membri del Reich una “ingerenza” o addirittura il tentativo di una “mediatizzazione”21 della Prussia22.

19 Ibidem, p. 112.

20 Si fa qui riferimento alla “demagogia” nel suo senso cattivo – demagogia come illusione inutile – e non nel suo senso giusto – demagogia come spazio di lotta politica – .

21 Nel Sacro romano impero la Mediatisierung era l’annullamento di quella indipendenza da ogni istanza che non fosse il Kaiser (Reichsunmittelbarkeit), che caratterizzava quei poteri che erano appunto definiti Immediatstände, e comportava la sottomissione a un altro Reichsstand.

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La riflessione sui legami tra parlamentarizzazione e federalismo scaturisce quindi dal dibattito che si ebbe in Germania in seguito alla proposta di modifica del diritto elettorale dei singoli stati federali, al fine di attribuire a chi aveva combattuto la guerra il diritto elettorale della classe o del tipo migliore. La posizione sostenuta dai giornali berlinesi era di difesa del diritto della Prussia di decidere del proprio diritto elettorale, in quanto questione di politica interna, senza subire alcuna ingerenza da parte del Reichstag.

Dopo un’accurata analisi dei privilegi di cui godono le autorità puramente prussiane all’interno del Reich e nei rapporti con gli altri stati della federazione, Weber, lungi dal voler mettere in discussione la posizione egemonica dello stato di cui lui stesso è cittadino, chiede con forza, nel suo scritto, una modifica della legge elettorale prussiana, in modo che il voto di quello stato nel Bundesrat, decisivo in tutte le questioni di politica federale, sia responsabile verso una dieta espressione del popolo prussiano e non di una casta privilegiata.

È proprio l’enorme influenza che la Prussia esercita in tutte le decisioni di alta politica federale a rendere la questione del mutamento in senso democratico del diritto elettorale degli stati facenti parte del Reich un problema non di politica interna agli stessi, bensì un affare nazionale.

L’abrogazione del secondo comma dell’art. 9 della Costituzione significherebbe, dice Weber, un temperamento della particolarizzazione di interessi per forza di cose presente all’interno di un’assemblea, quale il Bundesrat, composta da parlamentari di diversi stati. Con l’eliminazione della barriera prevista dal suddetto articolo costituzionale, infatti, si consentirebbe anche a rappresentanti dei partiti del

Reichstag di sedere nel Bundesrat, favorendo così punti di equilibrio tra le differenze

regionali raggiungibili entro la struttura coesa dei partiti nazionali.

Si tratta per lo studioso tedesco di preferire alla soluzione grande-prussiana, una soluzione autenticamente federalistica: «invece di una mera libertà dal Reich, un’influenza assicurata nel Reich»23.

Weber demistifica le obiezioni mosse contro l’abolizione del secondo comma 23 Ibidem, p. 154.

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dell’art. 9 della Costituzione. Da parte conservatrice si era infatti fatto notare che si rischiava di creare gravi conflitti di coscienza in coloro che, sedendo in entrambe le camere avrebbero dovuto votare secondo la propria convinzione nel Reichstag e secondo delle istruzioni – dettate dal governo che li aveva scelti come delegati – nel

Bundesrat. Weber mette però in guardia da questo ragionamento per lui moralistico,

in quanto se un politico riceve un’istruzione in contrasto con le proprie convinzioni deve dimettersi: è questo onore e questa responsabilità politica che lo distingue da un funzionario.

Lo studioso tedesco mette in luce poi ciò che si cela dietro la retorica di quei letterati che si esprimono con ardore contro la parlamentarizzazione che favorirebbe secondo loro il centralismo. Il loro timore serve a tenere basso il credito politico del

Reichstag nell’interesse del prestigio di una burocrazia già monopolizzata.

Il parlamentarismo tedesco avrà un aspetto indubbiamente diverso da quello di ogni altro paese. Ma la vanità letteraria che si abbia cura innanzitutto che lo stato tedesco non sia simile agli altri stati parlamentari del mondo, ai quali appartengono quasi tutti i popoli germanici, non corrisponde alla serietà dei nostri compiti futuri. Questi, e solo questi, devono decidere della forma di stato. La patria non giace come una mummia nella tomba degli antenati, ma deve vivere come la terra dei nostri discendenti.

In che modo nella realtà prenderà forma in futuro la divisione parlamentare del potere, dipenderà dalla carica e dal ruolo in cui compariranno personalità politiche con qualità di

capo.

Weber fa riemergere lo scopo politico della parlamentarizzazione: rendere il parlamento il luogo di selezione dei capi.

La parlamentarizzazione, insieme agli organi consultivi che devono essere creati dall’interno del Bundesrat, dà quindi al federalismo, con una corretta organizzazione, tutto ciò che gli fa difetto: invece di una mera libertà dal Reich, un’influenza assicurata nel

Reich.

Come dicevamo, nel 1919 Croce fece pubblicare dall’editore Laterza Parlament und

Regierung in neugeordneten Deutschland e consentì un’introduzione di Erico Ruta

che sottolineava il valore dell’opera weberiana. L’apprezzamento crociano dell’analisi weberiana dell’eredità politica di Bismarck presente in Parlamento e

governo ha ragioni peculiarmente storiche. In un breve passo dell’opera Teoria e storia della storiografia Croce scrisse:

Le storie meramente politiche s’indirizzano in prima linea ai diplomatici e quelle militari ai militari: ma la storia etico-politica s’indirizza agli uomini di coscienza, intenti al

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loro perfezionamento morale, che è inseparabile dal perfezionamento dell’umanità, e può dirsi veramente un grande esame di coscienza24 che l’umanità a volta a volta esegue di se

stessa nel suo operare e progredire25.

Croce, intendendo la storia etico-politica come un esame di coscienza e qualificando nella Storia d’Europa sempre con l’espressione “esame di coscienza” le riflessioni di Weber su Bismarck26, carica le stesse analisi del pensatore tedesco di un importante

valore storico. L’esame di coscienza può essere pertanto presentato come canone metodologico comune a Croce e al Weber di Parlamento e governo.27

4.2. La Storia d’Europa, l’ideale liberale e la politica bismarckiana

Con la Storia d’Europa nel secolo decimonono, Croce vuole fornire la dimostrazione dell’assunto secondo il quale la libertà non è un momento transeunte nelle varie forme di regime politico, bensì il contenuto stesso dell’attività morale, destinata a informare di sé la storia umana nel suo eterno divenire. Non bisogna quindi rassegnarsi alla sua scomparsa: ciò che sembra un regresso o una perdita irreparabile, riguardata sotto la luce del pensiero filosofico, si rivela come la condizione necessaria di un ulteriore avanzamento28.

Nel capitolo che apre la Storia d’Europa leggiamo:

Poteva accadere e sarebbe di certo accaduto, che alcuni o molti di cotesti istituti liberali, nel corso ulteriore della storia, sarebbero morti, venendo meno le loro condizioni di fatto, e altri di essi sarebbero diventati inefficaci, insufficienti o inadatti, e si sarebbe dovuto modificarli o addirittura rovesciarli e sostituirli; ma ciò appartiene alla sorte di tutte le cose umane, che vivono e muoiono, si trasformano e ripigliano vita, o si meccanizzano e conviene disfarsene, e, a ogni modo l’agente di quelle modificazioni, di quei riadattamenti e abolizioni, sarebbe stata pur sempre la libertà, che si formava, in tal guisa, un nuovo corpo, dotato di nuova gioventù o pervenuto ad adulta robustezza. Così niente impediva di pensare – nella rigorosa e preveggente logica che si attiene all’essenza del concetto liberale – che il sistema dei due partiti, antiquati i contrasti che gli avevano dato vita, si sarebbe cangiato in quello dei vari e mobili aggruppamenti su particolari problemi, e l’autogoverno avrebbe ceduto al bisogno di maggiore regolarità e accentramento, e le monarchie costituzionali alle repubbliche, e gli stati nazionali si sarebbero composti in stati plurinazionali o stati uniti

24 Corsivo nostro.

25 Croce B., Teoria e storia della storiografia, cit., p. 312.

26 Croce B., Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 283-284.

27 Si veda a tal proposito Franchini R., Croce e la metodologia storiografica, in Interpretazioni crociane. Convegno

crociano Bari 28-30 gennaio 1963, Adriatica Editrice, Bari, 1965, p. 187.

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(col formarsi, cioè, di una più larga coscienza nazionale, per esempio europea), e il liberismo economico sarebbe stato temperato e ridotto in più stretti confini da leghe d’industriali o da statificazioni di servizi29.

Bisogna quindi considerare l’ideale di libertà nella sua natura dialettica, fatta di svolgimenti, interruzioni e recessioni. Esiste sì un’apparenza sottoposta a notevoli cambiamenti, ma ciò che deve emergere ai nostri occhi è un principio morale, la sostanza. Ma quali sono i tratti dell’ideale liberale? Leggiamo ancora Croce:

Si volle la sincerità della fede, la coerenza del carattere, l’accordo tra il dire e il fare, si rinnovò moralmente il concetto della dignità personale, e con essa il sentimento dell’aristocrazia vera, con le sue regole, le sue rigidezze e le sue esclusioni, dell’aristocrazia che era divenuta oramai liberale e perciò affatto spirituale. La figura eroica, che parlava ai cuori, era quella del poeta milite, dell’intellettuale che sa combattere e morire per la sua idea: una figura che non rimase nei rapimenti dell’immaginazione e nei paradigmi educativi, ma apparve in carne ed ossa sui campi di battaglia e sulle barricate in ogni parte d’Europa. I “missionari” ebbero compagni i “crociati” della libertà30.

Italo de Feo, nel suo libro Croce. L’uomo e l’opera, riporta una riflessione di Ferruccio Focher, il quale ci dice: «In un mondo in cui lo stato, innalzato a lugubre e feroce divinità barbarica, minacciava di asservire a sé la coscienza morale, il Croce era stato tratto a meditare su di essi, a chiedersi che cosa ne costituisse l’effettivo contenuto. Fu a questo punto che l’oppressione esercitata dallo stato totalitario gli fece vedere con chiarezza che la coscienza morale, ribellantesi, come creatrice e promotrice di vita, a tutto quanto mortificasse il suo libero e spontaneo espandersi, coincideva con l’ideale della libertà. Il cammino millenario dell’umanità acquistava così un senso e un positivo valore».

Si può notare come all’interno dell’idea – caratterizzante la filosofia crociana – della volontà morale sovrana dell’azione, si erga una concezione della storia vista come affermazione progressiva della “religione della libertà”.

Ora chi raccolga e consideri tutti questi tratti dell’ideale liberale, non dubita di denominarlo, qual esso era, una “religione”: denominarlo così, ben inteso, quando si attenda all’essenziale ed intrinseco di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, e si prescinda dall’elemento mitologico, per il quale solo secondariamente le religioni di differenziano dalle filosofie. La concezione della realtà e l’etica conforme del liberalismo erano, come si è mostrato, generate dal pensiero moderno, dialettico e storico; e a conferirgli carattere religioso non vi bisognava altro, perché personificazioni, miti, leggende, dommi, riti, propinazioni, espiazioni, classi sacerdotali, paludamenti pontificali e simili, non appartengono all’intrinseco e moralmente vengono

29 Croce B., Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 15. 30 Ibidem, p. 17.

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astratti da particolari religioni e posti come esigenze di ogni religione. Nel che è l’origine delle parecchie religioni artificiali o “religioni dell’avvenire”, escogitate nel corso del secolo decimonono, cascate tutte, come meritavano, nel ridicolo, essendo contraffazioni e caricature; laddove quella liberale dimostrò la sua essenza religiosa con le sue proprie forme e istituzioni, e nata e non fatta, non fu un’escogitazione a freddo e di proposito, tantoché, dapprima, credé persino di poter convivere con le vecchie religioni o di venir loro compagna, complemento ed aiuto. In verità, si contrapponeva ad esse, ma, nell’atto stesso, le compendiava in sé e proseguiva: raccoglieva al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo, del cattolicismo, dell’agostinismo e del calvinismo, e quante altre erano state, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione, approfondimento e potenziamento della vita religiosa dell’umanità. Perciò non segnava punti cronologici del suo inizio e nuove ere che la distaccassero con taglio netto dal passato, come aveva fatto la chiesa cristiana e poi l’islamismo, e come rifece, imitando quelle chiese e sette, la Convenzione nazionale, con un decreto che rispondeva alla sua astratta concezione della libertà e della ragione, e che, dopo aver trascinato vita parimente astratta, fu dimenticato prima che abolito. E nondimeno diffuso risuonava dappertutto il grido della palingenesi, del “secol si rinnova”: quasi saluto augurale a quella “terza età”, l’età dello Spirito, che nel secolo dodicesimo Gioacchino da Fiore aveva profetata, e ora si schiudeva dinanzi all’umana società che l’aveva preparata e aspettata31.

Nella Storia d’Europa, Croce non ne ripropone le vicende nel dettaglio, ma presupponendo la conoscenza da parte del lettore dei fatti e ricordandoli a grandi linee, guarda tutto dall’alto, in uno studio interpretativo della storia nel suo divenire. Considerando anche il nostro interesse per le analisi di Weber a proposito del ruolo di Bismarck nello suo scritto Parlamento e governo, esaminiamo, come segno del metodo interpretativo seguito dal filosofo napoletano, il paragone tra il Risorgimento italiano e l’unificazione tedesca.

Due sono gli statisti che hanno impersonificato questi processi: da una parte abbiamo il genio etico-politico di Cavour, capace di colpire le immaginazioni, di parlare alle anime; dall’altra abbiamo il genio esclusivamente politico di Bismarck, cioè incurante degli ideali e celebrato dai suoi connazionali (ricordiamo anche Weber di

Parlamento e governo) come “dominatore”, “titanico”, “duro realista”, “uomo della

realtà”, “uomo della volontà”.

Leggiamo prima le lodi tessute da Croce del Risorgimento, dei suoi protagonisti e poi vediamo che ha da dire a proposito della politica di Bismarck:

Se per la storia politica si potesse parlare di capolavori come per le opere d’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di essere detto il capolavoro dei movimenti liberali-nazionali del secolo decimonono: tanto ammirevole si vide in esso la

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contemperanza dei vari elementi, il rispetto all’antico e l’innovare profondo, la prudenza sagace degli uomini di stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine […] . Il Risorgimento italiano era stato accompagnato dalla simpatia, dalla trepidazione, dall’ammirazione di tutto il mondo civile32.

Bimarck viene sì definito da Croce come l’«uomo grande»33 che ha fondato l’unità

della Germania, ma lo statista tedesco, con la sua politica della mera potenza, è altresì visto come il simbolo di un sistema che il filosofo napoletano considera «una crisi che la civiltà europea deve superare; e presto o tardi, e magari dopo un intervallo di quasi barbarie, supererà»34. «E cosa era la politica della mera potenza,

che si levava con aria di schiacciante superiorità a fronte della concezione liberale, se non il riflesso della ritardata e incompiuta formazione liberale e politica di un gran popolo le cui capacità e virtù erano state storicamente indirizzate ed adoprate a quel fine e davano luogo a quel vanto di superiorità?»35.

Italo de Feo ha sintetizzato il pensiero crociano così: «Il nazionalismo, degenerato in imperialismo, aveva presto rotto in Germania il collegamento con la dottrina liberale, perdendo quindi il suo lievito vitale e la sua giustificazione»36.

4.3. Il trapasso dalla storicismo alla sociologia: il caso di Weber

C’è stata una fitta corrispondenza tra Benedetto Croce e Carlo Antoni; in alcune brevi lettere si parla dell’intellettuale tedesco Max Weber, al quale Antoni dedica una serie di saggi, pubblicati nella rivista Studi Germanici e inseriti poi nel suo Dallo

storicismo alla sociologia.

Antoni a Croce

Roma, 21 giugno 1936 Eccellenza,

La ringrazio per la Sua lode e per il Suo incitamento, che attendevo con grande speranza. Ho in animo di proseguire nel lavoro e di rielaborare e fondere in seguito gli articoli in un volume, che dovrebbe essere un po’ la storia del tramonto della cultura tedesca. Mi occupo attualmente di Max Weber, Troeltsch e Meinecke, ma specialmente i

32 Ibidem, pp. 220-223. 33 Ibidem, p. 242.

34 Cutinelli Rèndina E. (a cura di), Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 311. 35 Croce B., Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 258.

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primi due richiedono una preparazione lunga e faticosa. Il prof. Gabetti desidererebbe invece che tentassi una storia della Germania nel secolo XIX. Nel prossimo fascicolo della nostra rivista uscirà un mio articolo sull’unità della storia tedesca, che discute la recente opera del von Srbik.

Come Ella ha preveduto, nessuna eco dei miei articoli e delle mie recensioni mi è giunta dalla Germania. Effettivamente sembra che la nostra rivista non vi susciti interesse alcuno. In Spagna Ortega y Gasset ha tradotto e pubblicato nella sua Revista de Occidente il mio articolo su Huizinga, segnalatogli dallo storico olandese medesimo. Da noi, se non mi illudo, c’è stato un certo interessamento, ma la diffusione della nostra rivista incontra molte difficoltà, che del resto si comprendono dato il suo carattere.

Nella speranza che anche in seguito non mi mancherà il conforto della sua approvazione

Suo Carlo Antoni37

Siamo nel 1936; Antoni sta lavorando a degli articoli aventi ad oggetto il pensiero di vari autori tedeschi del XIX secolo – dal 70 in poi – e dell’inizio del XX e già gli è chiaro di poter qualificare l’insieme delle opere di quegli studiosi, compreso Max Weber, come parte della «storia del tramonto della cultura tedesca», come parte di una caduta di quella cultura.

Croce ad Antoni

[Milano], 12.XII.38 Caro prof. Antoni,

Le scrivo di passaggio per Milano, ma tornerò a Napoli fra qualche giorno.

Leggendo il suo ottimo articolo sul Weber mi è tornato il pensiero che sarebbe opportuno che Ella riunisse alcuni dei suoi principali articoli sulla moderna storiografia tedesca, e ne formasse un volume o, per ora, un volumetto. Credo che sarebbe cosa utilissima agli studi italiani. Se Ella non avesse ora altro editore a Lei legato, io potrei combinare la pubblicazione col Laterza, nella cui Biblioteca di Cultura Moderna il suo volume troverebbe la sede adatta e certo l’aria più spirabile. Ci pensi e me ne scriva.

L’Omodeo le scriverà per una trad. ital. che vorrebbe pubblicare presso il Principato del Grundriss del Droysen, seguito da una scelta di brani delle Vorlesungen.

Suo B. Croce38

L’articolo a cui fa riferimento Croce, e che è da lui considerato un ottimo lavoro, è il primo dei vari saggi che Antoni dedica a Weber, Problemi e metodi della moderna

storiografia: il “Politeismo” di Max Weber; il filosofo napoletano si rende persino

disponibile come mediatore per rendere possibile la pubblicazione, nella Biblioteca di Cultura Moderna della Laterza, di un volume contente i vari studi sulla moderna 37 Mustè M. (a cura di), Carteggio Croce-Antoni, Società Editrice Il Mulino, Napoli, 1996, pp. 15-16.

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storiografia tedesca di Antoni, ma quest’ultimo si era già da poco accordato con la casa editrice Sansoni.

È interessante notare l’interesse di Croce per il destino degli studi italiani, per i quali, egli dice, «sarebbe cosa utilissima» la pubblicazione di un libro nel quale si descrive la crisi di un’importante cultura storiografica come quella tedesca.

Il saggio di Antoni sul “Politeismo” di Max Weber si apre con una presentazione della personalità dell’intellettuale tedesco, attraverso la proposta di alcuni importanti elementi biografici, ma anche tramite l’illustrazione della sua carriera scientifica, della sua linea politica, fino alla rivelazione del suo problema centrale, che è poi un problema tedesco: la successione di Bismarck, al quale Weber non perdona di non aver consentito attorno a sé la formazione di un corpo di politici capaci39.

Weber fa sentire la sua voce contro una Germania governata da dilettanti e da burocrati. Scrive Antoni: «il tema specifico del Weber è stato un tema di tecnica della potenza, di “politica come professione”. La sua sociologia è anzitutto la teoria della classe politica, la cui assenza in Germania, gli appariva come la più grave minaccia per le sorti della nazione»40.

La prima opera weberiana affrontata da Antoni è La storia agraria romana nel suo

significato per il diritto pubblico e privato. In questo scritto l’intellettuale tedesco

valorizza l’elemento economico41 e sostiene una tesi che vede il concetto romano di

proprietà privata come il risultato «d’una politica di interessi di cittadini agricoltori di medio ceto, che nell’ager privatus, nell’emancipazione giuridica ed economica del possesso fondiario, avevano scorto lo strumento della loro elevazione sociale e politica di fronte al patriziato»42.

Antoni scrive che, nel 1890,con lo studio su Le condizioni dei contadini nella

Germania orientale dell’Elba, Weber, si trasformò da storico del diritto in

economista e sociologo43. L’inchiesta è caratterizzata dalla prevalenza del criterio

dell’interesse politico di potenza della nazione tedesca sul criterio economico-39 Cfr. Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., pp. 123-127.

40 Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., p. 128.

41 In quest’opera Weber mette sempre in relazione gli accadimenti con la trasformazione della sottostruttura economica, ovvero si concentra, per la spiegazione di quegli eventi, sui loro aspetti tecnico-economici.

42 Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., p. 130. 43 Cfr. Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., p. 130.

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produttivo, su quello di giustizia sociale e su quello eudemonistico.

L’altra opera weberiana analizzata dall’allievo di Croce in questo saggio è

Parlamento e governo nella Germania riordinata. Antoni mostra come per

l’intellettuale tedesco sia centrale la questione della direzione politica: se la borghesia non poteva guidare il paese a causa della sua inettitudine dovuta alla mancanza di un passato politico alle spalle, gli Junker erano, da un punto di vista economico, “agonizzanti”, ed alle masse popolari e ai loro capi mancavano gli ideali di potenza. Proprio quegli istinti di potenza dovevano invece qualificare una classe di potere e Weber sostiene quindi come necessità la formazione di un corpo di politici di professione, i quali, attraverso gli strumenti offerti dal parlamentarismo44,

potessero imparare a lottare45.

Antoni rileva l’originalità di Weber «nell’aver rivolto contro la monarchia di Guglielmo II non i consueti attacchi di principio, bensì proprio quei motivi di cui essa si faceva propugnatrice e custode: l’interesse e la potenza dello Stato, il vigore e l’autorità della direzione politica. Le forme di Stato erano per lui tecniche, meccanismi»46. Nel pensiero dell’intellettuale tedesco l’interesse di potenza dello

Stato nazionale prevale su tutto ed anche la politica economica deve mettersi al servizio di quell’interesse supremo: la scienza economica diventa perciò in Weber scienza politica.

L’errore che il professore triestino addossa all’intellettuale tedesco è invece il suo “tecnicismo”: il suo porre drasticamente l’antinomia di etica e politica e ridurre quest’ultima a una tecnica della potenza (si pensi all’opportunità dell’esistenza di un regime parlamentare al solo scopo di garantire la formazione dei futuri capi).

Il problema dell’autorità era poi inserito in un contesto di regime di masse e Weber – dice Antoni – guardando agli Stati Uniti e all’Inghilterra, al loro cesarismo costituzionalizzato47, fa un errore storico, crea un paradosso sociologico, quando

44 Weber pensa soprattutto alle commissioni parlamentari.

45 Ciò che differenzia il politico dal funzionario della burocrazia è che il primo deve lottare, mentre il secondo deve amministrare ed essere soggetto al controllo del primo.

46 Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., 135.

47 L’istituto parlamentare, seppur praticamente superato (i parlamentari votavano secondo gli ordini del leader), manteneva nei paesi anglosassoni, in virtù dello loro tradizioni, una teorica vitalità, la quale gli consentiva di esercitare i suoi modesti compiti.

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crede di poter introdurre nella sua Germania un sistema che altrove esisteva in funzione della lunga tradizione parlamentare e della tradizione etico-religiosa di quei paesi48.

Antoni scrive che Weber sembra che voglia porre un abisso tra etica e politica; quest’ultima concepita come la scienza empirica e tecnica della potenza da collocarsi entro la disciplina sociologica (dottrina delle relazioni razionali tra individui). L’intellettuale tedesco dichiara sì l’autonomia della sfera politica da quella etica, ma allo stesso tempo la dichiara “diabolica”, esprimendo così un giudizio negativo: «Anche gli antichi cristiani sapevano che il mondo è governato da demoni, e che chi si immischia nella politica, cioè si serve della potenza e violenza, stringe un patto con potenze diaboliche»49.

È chiaro ora quindi che la politica non è per Weber un valore altro, autonomo dall’etica, ma diventa lo stesso non-valore etico, il male; ed egli, constatata questa malvagità della politica, cerca, al di sotto dell’etica assoluta e dei suoi valori evangelici (valori inattuabili, valori del Regno), un’etica per questo mondo «governato da demoni»50, un’etica della responsabilità 51.

Antoni arriva a definire questa etica: «etica sociologica»; infatti gli uomini hanno una responsabilità verso il loro Beruf, verso il loro mestiere, verso la loro professione intesa come una vocazione divina.

Qui la sociologia, scienza di ceti, diventava uno schema di norme etiche, diventava una moderna forma del medievale ordine degli “stati”, voluto da Dio. Così la “professione del politico”, inserita nell’ordine sociale come elemento indispensabile, dotata del suo

ethos, cioè dell’istinto della potenza, trovava la sua giustificazione. Parimenti anche la

scienza era intesa dal Weber come “professione”. Per quest’estetica sociologica era veramente uomo soltanto il Berufsmensch, colui che esercita con competenza una professione, ed il reietto era il dilettante52.

L’allievo di Croce parla di un Weber “politeista”; l’intellettuale tedesco, infatti, collocando l’etica assoluta nella trascendenza, sente di trovarsi a che fare con un’immanenza contraddistinta da una pluralità di valori, nella quale la necessaria 48 Cfr. Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., pp. 136-138.

49 Weber M., La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1966, p. 123. 50 In Weber non c’è quell’accettazione hegeliana del mondo che è accettazione del male come elemento della vita e quindi del bene, che da esso nasce (il male come materia del bene) e su di esso trionfa.

51 Cfr. Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., pp. 140-144. 52 Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., p. 144.

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scelta da parte dell’uomo di uno di questi “Dei” significa per lui anche entrare in conflitto con qualcun'altra divinità.

Max Weber è anche definito in questo saggio come «il pensatore tedesco che ha con maggiore energia insistito sulla distinzione di essere e dover essere, di scienza e giudizio di valore»53. L’essere è l’oggetto della conoscenza, quindi della scienza che

è intesa come conoscenza dei dati di fatto e delle leggi empiriche54; mentre il dover

essere è quell’atteggiamento del soggetto che determina l’importanza dell’essere oggettivo. La scelta dell’importante, ossia del punto di vista valoriale che si decide di assumere per guardare alla realtà empirica, è un atto iniziale, poi si procede oggettivamente, scientificamente. La scienza è utile per capire quali assiomi ultimi stanno alla base di un giudizio di valore e quali altri, magari contrastanti, giudizi di valore siano in esso contenuti, presupposti; inoltre essa è una tecnica dei mezzi e dei costi che consente di calcolare le conseguenze delle proprie azioni guidate da un certo giudizio di valore, di calcolarne limiti e possibilità: la razionalità scientifica è cioè razionalità economica, razionalità di calcolo pratico55.

Antoni a Croce

Roma, 18 dicembre 1938 Eccellenza,

Non occorre che Le dica quanto la Sua lettera mi abbia riempito di gioia. Era una mia vecchia speranza quella di giungere alla Biblioteca di Cultura Moderna. Purtroppo però devo accontentarmi soltanto del Suo riconoscimento. Due giorni prima dell’arrivo della Sua lettera è venuto all’Istituto il dott. Federico Gentile, direttore della Casa Sansoni, che mi ha fatto la proposta di pubblicare in un volume i miei articoli. Aderii volentieri, pregandolo però di chiedere il consenso al prof. Gabetti, che fino allora si era mostrato contrario a una pubblicazione del genere. Egli ottenne anche tale consenso. Ho riflettuto alcuni giorni, perché non mi risolvevo a rinunciare alla Sua proposta, e mi sono consultato anche con degli amici: credo però che non posso venir meno all’impegno contratto col dott. Gentile. Non mi rimane quindi che esprimerLe la mia gratitudine.

Sul Weber uscirà nel prossimo fascicolo un secondo articolo, in cui ho esaminato la famosa questione dell’origine dello spirito capitalistico. L’articolo, che è stato scritto prima che uscisse la Sua nota sulla Critica, è un’esposizione più particolareggiata di quanto Ella ha messo in quella nota. La coincidenza del resto non è singolare, tanto più che avevo riflettuto sul Suo accenno nel volume sulla Storia. In un terzo articolo, pure già composto, mi sono occupato della logica del tipo ideale.

Sto leggendo attualmente gli scritti di Lord Acton, sul quale scriverò un articolo per la rivista del Volpe.

Quest’estate sono stato al congresso degli storici a Zurigo, dove ho letto una

53 Ibidem, p. 146.

54 La scienza comprende sia le “scienze dello spirito”, che si rivolgono all’individualità, sia le “scienze naturali”, le quali invece si rivolgono all’uniformità delle leggi.

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comunicazione sul Ranke. Il tema mi era stato suggerito dal comitato un anno prima. Ho ritenuto d’insistere sulla situazione in cui si trovò lo storico, divenuto pubblicista ufficiale prussiano, di fronte alla Rivoluzione di luglio, sul suo sforzo di separare ciò che nei liberali della Restaurazione si era congiunto: illuminismo e storicismo.

Con rinnovati ringraziamenti

Suo Carlo Antoni56

Gli articoli su Weber a cui fa riferimento Antoni in questa lettera sono Problemi e

metodi della moderna storiografia: la sociologia della religione di Max Weber e Problemi e metodi della moderna storiografia: la logica del “ tipo ideale” di Max Weber, saggi che adesso si trovano anch’essi nel libro Dallo storicismo alla sociologia.

In Problemi e metodi della moderna storiografia: la sociologia della religione di

Max Weber, Antoni ritiene l’opera di Weber sull’etica protestante e lo spirito del

capitalismo57 come una di quelle geniali interpretazioni di un certo periodo storico

che posto un problema cercano poi di risolverlo con un metodo nuovo. Il principio cardine della tesi weberiana è l’insufficienza del momento economico per comprendere la vita economica dei popoli e quindi la necessità di integrarlo con il momento dell’etica economica, cioè con la valutazione morale del lavoro e del profitto.

Il capitalismo, inteso come impresa condotta secondo il calcolo degli investimenti e dei profitti, si è specificato nella modernità, secondo Weber, come organizzazione del lavoro formalmente libero58 e quindi come razionalizzazione economica, parte di

quell’intenso processo di razionalizzazione59 dello Stato, del diritto, della scienza,

dell’intera civiltà60.

Scrive Antoni:

Che i calvinisti ed i membri di sette affini si mostrassero particolarmente adatti, per scrupolosa diligenza e disciplina , alla moderna vita economica, era, come si è detto, una vecchia osservazione, che il Weber accetta come premessa. Le statistiche scolastiche tedesche, inoltre indicavano una spiccata predilezione dei riformati per gli studi tecnico-mercantili, “realistici”, a scapito di quegli umanistici. Quale era la causa di questa loro “vocazione”, di questa loro attitudine a condurre la propria esistenza col grado di razionalità

56 Mustè M. (a cura di), Carteggio Croce-Antoni, cit., pp. 26-28.

57 Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1991. 58 Cfr. Weber. M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 41.

59 Per Weber tale razionalizzazione ha raggiunto in Occidente un grado altrove sconosciuto. 60 Cfr. Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., pp. 150-152.

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richiesto dal capitalismo moderno? Il Weber si propone di dimostrare che la loro etica, direttamente dominata dal dogma della Predestinazione, lungi dal rappresentare un ostacolo alla condotta economica razionale, costituiva un impulso irresistibile all’indefesso lavoro e all’arricchimento. Come i monaci, asceti fuori dal mondo, avevano razionalmente riempito la loro giornata di ore di lavoro e di preghiera, così i calvinisti, asceti nel mondo, avevano organizzato metodicamente la loro esistenza per dedicarla totalmente al lavoro e al profitto e trovare in esso il segno della loro Elezione. Lo “spirito capitalistico” era insomma un paradossale scherzo del “destino”, cioè della logica che porta a conseguenze del tutto inattese e contrarie alle intenzioni, ed è in grado di trasformare un asceta, lettore assiduo di Salmi, in un duro ed oculato uomo d’affari61.

Antoni vede però il saggio di Weber, non come la storia del capitalismo calvinistico, bensì come un capitolo speciale di storia dell’etica riguardate il lavoro e il profitto studiato negli scritti nati dalla prassi della cura delle anime: libri di edificazione, prediche e sermoni62; proprio questa scoperta dell’importanza dell’ethos economico –

desunto, non dai trattati filosofici, ma da testi di vita morale e religiosa – rappresenta per Antoni la novità e il pregio di quello studio.

Inoltre il professore triestino vede nell’opera weberiana la fondazione di un nuovo metodo storiografico, una sorta di interpretazione sociologica della storia – la quale è per l’intellettuale tedesco, ricordiamo, scienza empirico-causale63. Weber ritiene che

tra le categorie vi sia reciproca influenza e quindi individua un meccanismo circolare, nel quale ogni causa è anche effetto e ogni effetto è anche causa64.

Il principale errore che Antoni imputa a Weber è lo “psicologismo” del suo saggio; l’intellettuale tedesco, infatti, dimostrando, attraverso lo studio delle opere di edificazione, che il dogma della Predestinazione rappresenta un impulso per l’attività economica razionale, scivola dal centro del problema, il pensiero teologico di Calvino, all’analisi dei suoi effetti psicologici, all’analisi, cioè, della mentalità etica di cui quei principi hanno favorito la formazione.

Le pagine più interessanti dell’articolo dell’allievo di Croce sono proprio quelle in cui egli ci fa vedere come la tesi weberiana sia solo apparentemente paradossale. Antoni, svelando il carattere capitalistico, non solo delle conseguenze psicologiche 61 Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., pp. 153-154.

62 Weber fa spesso riferimento al moralista puritano Richard Baxter.

63 La storiografia spiega l’origine degli “individui storici” investigando le loro componenti.

64 Il rapporto causale studiato da Weber è quello tra dogma della Predestinazione e spirito del capitalismo. L’intellettuale tedesco rileva che causa dello spirito del capitalismo non è solo il suddetto dogma, ma anche l’etica politico-sociale e il razionalismo umanistico. Inoltre lo spirito del capitalismo è quella conseguenza pratico-psicologica di tale dogma (il calvinista cerca la conferma della propria salvezza) che esce vittoriosa dallo scontro con l’altra conseguenza, ovvero il fatalismo.

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(la condotta economico razionale), ma anche dei principi logici (l’idea calvinistica di Dio65), declassa quella tesi ad una deduzione psicologica superflua. Scrive Antoni:

Il Weber ha preferito volgere l’attenzione sulle “conseguenze” psicologiche, perché ciò corrispondeva alla sua idea della scienza, cioè d’una tecnica, che, evitando ogni giudizio di valore, deve mostrare quali imprevedute conseguenze possa avere l’attuazione d’un determinato ideale. Soprattutto però il Weber partiva da un presupposto sociologico, dall’idea del ceto, che qui era un ceto di parvenus, di piccola borghesia, avversa agli speculatori e monopolisti, che si appoggiavano alla Corte e alla Chiesa anglicana. Ora un “ceto”, un tipo sociologico, è suscettibile soltanto di descrizione psicologica, dove le idee in tanto sono importanti in quanto elementi di una data mentalità.

Era presupposto, dunque, un rapporto tra il ceto e una determinata etica religiosa. È questo rapporto, che il Weber esamina negli studi sull’etica economica delle religioni mondiali66.

Questi studi non analizzano come l’etica economica determini l’ordine economico-sociale, ma come ne è determinata. Il professore triestino dice che Weber fa emergere la determinazione delle idee e della vita religiosa da parte degli interessi economico-politici di un ceto sociale: le etiche non sono altro che proiezioni di quelle esigenze.

Per Antoni, quindi, la sociologia delle religioni dell’intellettuale tedesco si dimostrerebbe particolarmente affine al materialismo storico – salvo che per la sostituzione del concetto di ceto a quello di classe economica – e con amarezza scrive: «Questa sociologia è la forma più coerente di storiografia d’un epoca che ha cessato di credere nella storia ed ha relegato le idee di sviluppo, svolgimento, progresso tra i miti dell’ottimismo. Il Weber confina infatti siffatti “sensi” della storia nel regno non scientifico dei “giudizi di valore”. La storiografia deve allora ridursi a una galleria di ritratti, di “tipi” di civiltà»67.

Concludiamo l’esame di questo articolo di Antoni con una sua riflessione sull’interpretazione weberiana del materialismo storico in opposizione a quella di Croce. Se per il filosofo napoletano il materialismo storico può essere considerato solo alla stregua di un canone euristico, Weber nega la validità di una simile revisione in senso metodologico. L’intellettuale tedesco considera quella dottrina 65 Il fine delle azioni degli uomini è aumentare la gloria di Dio. La gloria del Signore significa fare la sua volontà ed Egli vuole che gli uomini lavorino senza consumare la ricchezza accumulata oltre le necessità proprie di un austero stile di vita. Considerando il lavoro come “gloria del Signore” – la quale è fine a se stessa – l’attività economica, la produzione, diventa un valore autonomo, al quale l’uomo deve asservirsi; ed in quanto quella “gloria” la si deve sempre aumentare, si scopre il concetto del progresso tecnico-economico e il suo senso.

66 Antoni C., Dallo storicismo alla sociologia, cit., pp. 164-165. 67 Ibidem, p. 171.

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