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Capitolo 6 Le Fratture del Radio e dell’Ulna

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Academic year: 2021

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Le Fratture del Radio e dell’Ulna

6.1 INTRODUZIONE

Le fratture del radio e dell’ulna rappresentano dall’8,5% al 18% delle fratture nei cani e nei gatti (Rudd & Whitehair, 1992).

La consolidazione di queste fratture può risultare problematica e la presenza di complicazioni è relativamente alta. Questo a causa della limitata copertura da parte dei tessuti molli circostanti, dello scarso apporto ematico in questo distretto e della particolare configurazione anatomica (Rudd & Whitehair, 1992).

Tra le complicazioni più frequenti troviamo: unioni ritardate, non unioni, malunioni, disturbi dell’accrescimento, osteomieliti e rigidità articolari. Il 60% delle non unioni avviene, difatti, nelle fratture di radio e ulna, mentre il sito più comune delle unioni ritardate è rappresentato dal terzo distale di questo sistema osseo (Rudd & Whitehair, 1992; Jackson & Pacchiana, 2004). È importante, quindi, considerare costantemente le misure atte a prevenire questi postumi (Brinker et al., 1996).

Spesso le fratture del radio e dell’ulna sono di tipo esposto proprio a causa dello scarso spessore dei tessuti molli che ricoprono la base ossea rispetto alle fratture più prossimali (Johnson & Hulse, 2004c; Boudrieau, 2005).

In questo caso occorre attuare tutte le procedure necessarie per limitare un ulteriore danno all’osso o ai tessuti molli (Grant & Olds, 2005). Il loro trattamento deve sempre tener conto della contaminazione batterica e del periodo d’oro (golden hours) in cui è preferibile ricorrere alla chirurgia. Le golden hours comprendono le 6-8 ore successive all’esposizione dei monconi ossei e rappresentano il tempo che intercorre tra la contaminazione e l’infezione batterica vera e propria; per questo un lavaggio con soluzione

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salina sterile dovrebbe essere attuato il prima possibile per pulire e detergere la ferita. Il courettage del focolaio dell’esposizione è finalizzato all’asportazione dei tessuti necrotici e dei corpi estranei, al fine di ridurre la carica microbica (Denny, 1998; Romeo et al., 2003).

Successivamente si applica sulla ferita gel sterile, che riduce l’esposizione dei monconi ossei e dei tessuti molli all’aria; questa fase deve essere preceduta da un esame colturale dell’eventuale essudato presente sulla superficie, con relativo antibiogramma. Infine, si procede al bendaggio con garze sterili imbevute di soluzione salina, poste direttamente sul sito di frattura e coperte da altre garze asciutte. La fasciatura viene poi completata dall’applicazione di uno strato assorbente e da una benda porosa. La somministrazione di antibiotico, come cefalosporine per via sottocutanea o endovenosa, associate eventualmente ad un aminoglicoside, rappresenta l’opzione terapeutica di prima scelta in attesa dell’esito dell’antibiogramma (Romeo et al., 2003). Le fratture più frequentemente rilevate nell’avambraccio sono trasverse od oblique corte coinvolgendo il terzo distale o il terzo medio delle diafisi di entrambe le ossa (Harasen, 2003a; Johnson & Hulse, 2004c).

Le osservazioni cliniche suggeriscono che il management e la prognosi di queste fratture dipendono in parte dalla taglia del cane coinvolto; infatti, i cani di media e grossa taglia, che di solito riportano questo tipo di fratture in seguito ad investimento, generamente raggiungono la consolidazione indipendentemente dal metodo di stabilizzazione, soprattutto se di giovane età (inferiore ad un anno) (Welch et al, 1997; Harasen, 2003b; Milovancev & Ralphs, 2004).

L’incidenza di queste fratture è particolarmente alta nei cani di piccola taglia e nelle razze toy dopo un trauma di entità apparentemente minimo dovuto a un salto o a una caduta (Larsen et al, 1999; Johnson & Hulse, 2004c); queste fratture possiedono un rischio più alto di andare incontro a ritardi di consolidamento o a non unioni (Welch et al, 1997). La causa non è stata

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identificata ma si pensa sia dovuta all’instabilità meccanica della frattura, alla scarsità della vascolarizzazione metafisaria in confronto a quella dei cani di grossa taglia, e alla limitatezza dei tessuti molli circostanti a supplire la vascolarizzazione extraossea (Welch et al, 1997; Johnson & Hulse, 2004c). Per quanto riguarda l’instabilità meccanica, in seguito alla riduzione, le fratture del terzo distale del radio presentano un minimo contatto dei monconi, a causa della piccola dimensione delle ossa e dell’orientamento obliquo corto o trasverso. L’allineamento anatomico della frattura è inoltre impedito dalla tendenza da parte dei muscoli flessori del carpo e delle dita a creare spostamento caudolaterale del frammento distale (Welch et al, 1997; Milovancev & Ralphs, 2004).

La circolazione normale delle ossa lunghe è formata da un ramo afferente derivante dall’arteria nutritizia principale, dalle arterie metafisarie, prossimale e distale, e dalle arterie periostali che penetrano nell’osso a livello delle grandi inserzioni fasciali (figura 6.1.a). La direzione del flusso ematico attraverso la diafisi è centrifuga, dal canale midollare al periostio (Johnson & Hulse, 2004a).

Nella maggior parte delle fratture delle ossa lunghe, si ha la distruzione della circolazione midollare; inizialmente, per garantire l’apporto ematico all’area lesa vengono accentuate le componenti esistenti della vascolarizzazione normale. Inoltre, si sviluppa una vascolarizzazione extraossea transitoria nei tessuti molli intorno alla frattura per nutrire il callo periostale in fase iniziale di formazione. Man mano che il processo di guarigione dell’osso procede e la stabilità viene ripristinata, si reinstaura anche la vascolarizzazione midollare. La circolazione extraossea, infine, diminuisce e predomina il normale flusso midollare centrifugo (Johnson & Hulse, 2004a).

Il grado di compromissione vascolare non può essere evidente radiograficamente, ma può essere intuito dalla localizzazione della frattura, dal numero e dalla dislocazione dei monconi. La normale vascolarizzazione

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viene riattivata al sito di frattura entro 10 giorni dal trauma, determinando radiologicamente una demineralizzazione dei monconi (Citi et al., 2005).

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La riduzione della frattura a cielo chiuso e l’applicazione dei bendaggi rigidi o dei fissatori esterni minimizza la distruzione dei tessuti molli circostanti e quindi l’apporto ematico extraosseo neoformato, mentre la riduzione a cielo aperto disturba i vasi ossei in via di sviluppo ed ostacola il ripristino del flusso ematico midollare. La manipolazione traumatica dei tessuti molli circostanti impedisce ulteriormente la risposta circolatoria extraossea (Johnson & Hulse, 2004a).

Poiché un adeguato apporto ematico è essenziale per la guarigione dell’osso, questa può essere ritardata da qualsiasi impedimento circolatorio (Johnson & Hulse, 2004a). Come risultato da uno studio effettuato da Welch e collaboratori (1997), la scarsa densità vascolare osservata nelle razze di cane di taglia piccola a livello della giunzione diafisaria-metafisaria nel radio distale può contribuire all’insorgenza di complicazioni per quanto concerne la riparazione delle fratture in questa zona. Anche la limitata presenza di tessuti molli a ricoprire questo segmento scheletrico contribuisce ad una maggior frequenza di unioni ritardate e non unioni in questi cani, in quanto non riesce a supplire la vascolarizzazione extraossea (Welch et al., 1997).

La capacità rigenerativa della vascolarizzazione è, inoltre, direttamente influenzata dal movimento nel sito di frattura. Unioni ritardate o non unioni del radio distale nei cani di razza piccola sono spesso osservate quando queste fratture sono trattate con l’immobilizzazione esterna. La fissazione interna stabile delle fratture del radio distale può quindi essere particolarmente importante nei cani di taglia piccola per promuovere una rivascolarizzazione in quanto consente lo sviluppo di una nuova circolazione midollare (Welch et al., 1997).

Risulta, quindi, di importanza fondamentale la scelta del corretto mezzo di fissazione al fine di prevenire queste complicanze. L’inserimento di qualsiasi tipo di chiodo endomidollare, per esempio, distrugge la vascolarizzazione midollare. Le placche e le viti, anche se consentono di ottenere la massima

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stabilizzazione della frattura e permettono il rapido ripristino della circolazione midollare, impediscono l’apporto ematico all’osso corticale esterno situato al di sotto della placca, determinando il rimodellamento delle corticali interessate e un aumento della loro porosità. Le placche a compressione dinamica a contatto limitato riducono questo fenomeno (Johnson & Hulse, 2004a).

Infine, il movimento degli impianti allentati, e soprattutto dei fili di cerchiaggio, distrugge la vascolarizzazione in via di sviluppo (Johnson & Hulse, 2004a).

Un’altra possibile complicazione conseguente a fratture di radio e ulna è la crescita alterata di una delle due ossa che può provocare gravi deformazioni negli animali giovani (Boudrieau, 2005).

6.2 ANATOMIA CLINICA E CHIRURGICA

Radio e ulna sono le due ossa lunghe che costituiscono la base scheletrica dell’avambraccio: il radio sul versante craniale, l’ulna sul versante caudale (Gnudi, 2005).

Il peso grava prevalentemente sul radio (Milovancev & Ralphs, 2004), situato tra l’omero e la prima fila di ossa carpali. Esso presenta un corpo e due estremità; il corpo è appiattito in senso dorso-caudale, con due facce e due margini. La faccia dorsale è quasi liscia e convessa trasversalmente; la faccia caudale è piana o leggermente concava (Gnudi, 2005).

L’epifisi prossimale si raccorda al corpo con un tratto più ristretto, il collo del radio, e presenta la superficie articolare per l’omero (Pelagalli & Botte, 1999). All’estremità distale è presente una superficie articolare per l’ulna detta incisura ulnare, concava trasversalmente. La superficie articolare per il carpo è formata da un’ampia cavità glenoidea (Gnudi, 2005).

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Il processo stiloideo del radio è importante per la funzione di attacco del legamento collaterale distale del radio che provvede alla stabilità mediale del carpo (Milovancev & Ralphs, 2004).

L’ulna, sebbene non possieda un ruolo significativo nel sostegno del peso, è una componente importante dell’avambraccio (Milovancev & Ralphs, 2004); è situata caudo-lateralmente al radio e si articola prossimalmente con l’omero e con il radio, attraverso l’incisura radiale, a costituire il gomito dove si inseriscono i muscoli estensori dell’avambraccio. Distalmente si articola con il carpo (Milovancev & Ralphs, 2004; Gnudi, 2005).

L’ulna presenta una faccia craniale liscia, sede del foro nutritizio, ed una faccia mediale. Il margine craniale è caratterizzato da una cresta rilevata ove si inserisce il legamento interosseo. L’estremità distale dell’ulna si collega con il radio mediante un’articolazione diartrodiale (diartrosi) (Gnudi, 2005). L’epifisi prossimale si estende in alto oltre il livello dell’epifisi del radio mediante l’olecrano; questo si comporta come un braccio di leva, servendo da punto di attacco per i muscoli estensori dell’arto: tricipite brachiale, anconeo e tensore della fascia antebrachiale caudalmente; flessore ulnare del carpo, medialmente. Il processo stiloideo dell’ulna è importante per la funzione di attacco dei legamenti collaterale ulnare e del legamento ulnocarpale che provvedono rispettivamente alla stabilità laterale e palmare del carpo (Milovancev & Ralphs, 2004).

Le superfici craniomediale e caudolaterale del radio non sono ricoperte dalla muscolatura e pertanto, è possibile palparle ed esaminarle facilmente, utilizzandole come punti di repere per l’accesso chirurgico. I muscoli estensori si trovano cranialmente al radio, mentre, caudalmente, ci sono i muscoli flessori che possono essere retratti per esporre il segmento osseo. La vena cefalica attraversa la porzione mediale del terzo distale del radio, mentre la porzione laterale della testa del radio può essere palpata al di sotto dei muscoli estensori dell’avambraccio (Johnson & Hulse, 2004c).

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I due terzi distali dell’avambraccio possiedono una limitata copertura muscolare. La maggior parte dell’apporto sanguigno al radio e all’ulna è garantito dalle arterie diafisarie, rami dell’arteria interossea palmare (Milovancev & Ralphs, 2004).

Da un punto di vista clinico ci sono un gran numero di fattori rilevanti da considerare nella guarigione delle fratture di radio e ulna negli animali scheletricamente immaturi. Le loro fisi distali, infatti, sono responsabili della maggior parte della loro lunghezza, per il 60% e l’85% circa rispettivamente. La fisi distale dell’ulna è a forma di cono e conseguentemente predisposta ad un danno asimmetrico causato da forze applicate lateralmente (Milovancev & Ralphs, 2004).

6.3 CLASSIFICAZIONE

Le fratture di radio e ulna possono essere classificate nel modo seguente (Brinker, 1996):

1) Fratture dell’ulna prossimale, coinvolgenti l’incisura trocleare o l’olecrano.

2) Fratture-distacchi dell’epifisi radiale prossimale. 3) Fratture dell’ulna prossimale e lussazione del radio.

a. Fratture dell’ulna prossimale con lussazione della testa del radio e della porzione distale dell’ulna.

b. Fratture dell’ulna prossimale con lussazione della testa del radio e separazione del radio e dell’ ulna (frattura di Monteggia).

4) Fratture della diafisi.

5) Fratture distali del radio e dell’ulna.

a. Fratture della regione articolare distale o dei processi stiloidei.

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6.4 TRATTAMENTO

Nell’applicazione delle varie tecniche di fissazione, si deve considerare la configurazione anatomica del radio e dell’ulna, sia come ossa singole che come sistema appaiato (Boudrieau, 2005).

Numerosi sono i metodi che possono essere utilizzati nella riparazione di queste fratture, ciascuno dei quali possiede una serie di indicazioni e controindicazioni. Valutando e scegliendo il metodo di fissazione appropriato, possono essere evitate molte delle complicazioni a cui è particolarmente soggetto questo tipo di fratture (Rudd & Whitehair, 1992).

La valutazione della tecnica di fissazione prende in considerazione soprattutto la taglia del paziente, la stabilità meccanica della frattura, patologie muscolo-scheletriche concorrenti e le condizioni dei tessuti molli circostanti (Sardinas & Montavon, 1997).

6.4.a Fratture diafisarie del radio e dell’ulna

TRATTAMENTO MEDICO O CONSERVATIVO

Il trattamento medico degli animali con fratture radiali od ulnari comprende la somministrazione di analgesici e di antibiotici (Johnson & Hulse, 2004c). Il trattamento conservativo delle fratture diafisarie di avambraccio consiste nell’applicazione di gessi, stecche e bendaggi ed è riservato alle fratture chiuse, non dislocate o a legno verde degli animali giovani. È importante immobilizzare le articolazioni prossimali e distali (gomito e carpo) rispetto alla linea di frattura (Johnson & Hulse, 2004c).

Di solito si consiglia l’immobilizzazione esterna per le fratture semplici, traverse od oblique corte in due pezzi, che non sono immediatamente vicino ad un’articolazione (Boudrieau, 2005).

Talvolta, può essere richiesta da proprietari che non possono affrontare l’impegno economico dell’intervento chirurgico; l’immobilizzazione esterna

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viene quindi spesso presa in considerazione e può risultare efficace se propriamente applicata (Harasen, 2003a).

La riduzione viene effettuata combinando forze di trazione, controtrazione e manipolazione digitale (Brinker et al., 1996b). Solitamente non si raggiunge una riduzione anatomica precisa, ma si deve ottenere un minimo di sovrapposizione dell’osso del 50% (Milovancev & Ralphs, 2004; Boudrieau, 2005).

Le limitazioni di questo trattamento per le fratture di radio e ulna devono essere identificate ed esposte chiaramente al proprietario; deve essere informato dei potenziali problemi legati al management dei bendaggi o gessi e della possibilità di complicazioni come unioni ritardate o non unioni (Harasen, 2003a).

L’immobilizzazione esterna delle fratture di radio e ulna nei cani di piccola taglia non è consigliata, in quanto determina unioni ritardate o non unioni nell’80% dei casi (Harasen, 2003a; Boudrieau, 2005).

La fissazione esterna nelle fratture dell’avambraccio è più efficace per le fratture traverse, in quanto neutralizza le forze di flessione e riduce le forze di torsione. Risulta, invece, poco efficace nell’eliminare le forze compressive, traverse e di tensione. Le fratture oblique e spirali spesso non consolidano se trattate solo con l’immobilizzazione esterna (Milovancev & Ralphs, 2004). Tutte le volte che viene applicata una fissazione esterna, si dovrebbe controllarla ad intervalli periodici e l’attività fisica dell’animale deve essere limitata; se l’attività fisica non viene contenuta, le protesi esterne possono perdere la loro funzione o causare l’insorgenza di aree ulcerate (Brinker et al., 1996b).

Nel periodo postoperatorio il carpo ha la tendenza ad iperestendersi, a sviluppare deviazioni valghe e a ruotare verso l’esterno, a causa della perdita di tono del gruppo dei muscoli flessori. Sono fattori contribuenti anche le posizioni del piede nella stazione e nella deambulazione nel tentativo di non

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usare l’arto. Per prevenire questo sviluppo sfavorevole quando si applica una fissazione esterna, il piede dovrebbe essere posto in una posizione di leggero varismo, in flessione moderata ed appena ruotato verso l’interno (Brinker et al, 1996b).

TRATTAMENTO CHIRURGICO

Per determinare quale sia il migliore approccio ad ogni singolo caso è importante soppesare i vantaggi e gli svantaggi della riduzione a cielo chiuso rispetto a quella a cielo aperto (Johnson & Hulse, 2004c).

Solitamente, tramite la stabilizzazione del radio, si riesce a supportare indirettamente l’ulna; tuttavia, si può stabilizzare l’ulna per apportare un ulteriore sostegno ad una frattura radiale comminuta, soprattutto in un cane di grossa mole e per ottenere la riduzione anatomica del radio e dell’ulna per le performance future di un animale atleta (Johnson & Hulse, 2004c).

Quando è richiesto l’intervento chirurgico, le opzioni migliori sono l’applicazione di fissatori esterni o placche da osteosintesi, soprattutto quando sono presenti fratture del terzo distale di radio, ulna o entrambi. Tuttavia anche la fissazione con chiodi centromidollari viene riportata (Muir & Manley, 1994; Larsen et al, 1999; Harasen, 2003b).

I cani di piccola taglia necessitano di una riduzione anatomica e di una adeguata stabilità per minimizzare la possibile insorgenza di malunioni o non unioni; nei cani di grossa taglia, invece, non è richiesta una perfetta riduzione anatomica (Milovancev & Ralphs, 2004).

Principi di applicazione

La prima considerazione da tener presente è il tipo di approccio: attuare una riduzione a cielo aperto, chiusa o semichiusa (Rudd & Whitehair, 1992). La riduzione è il processo di ricostruzione delle ossa fratturate per riportarle alla loro normale configurazione anatomica e/o ripristinare l’allineamento

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normale dell’arto. Quest’ultimo si ottiene riportando alla normalità la lunghezza dell’arto, mantenendone l’orientamento spaziale e recuperando l’allineamento delle articolazioni adiacenti alle ossa fratturate (Johnson & Hulse, 2004a).

Il ripristino anatomico dei monconi e dei frammenti ossei costituisce l’obbiettivo ideale; non sempre, però, è necessario un allineamento accuratissimo, soprattutto nelle fratture delle diafisi. Importante è evitare sempre un allineamento scorretto e la rotazione. Particolare attenzione deve essere posta in caso di frattura articolare: in questo caso i frammenti articolari vanno ridotti anatomicamente, in modo da ricostruire la congruità articolare e da eliminare o ridurre al minimo le alterazioni della funzionalità articolare e l’osteoatrosi secondaria (Brinker et al., 1996a).

Dopo la frattura di un osso, si attivano diversi processi naturali che servono ad aumentare la stabilità della lesione in previsione della sua guarigione. In risposta ad un evento traumatico, i muscoli inseriti sui frammenti ossei prossimali e distali e posti attraverso la frattura si contraggono. Questa contrattura determina la sovrapposizione dei frammenti diafisari scontinuati, causando un accorciamento del braccio di leva agente sul focolaio di frattura ed un aumento della stabilità. Gli arti fratturati sono dolenti e gli animali tendono ad usarli il meno possibile, favorendo ulteriormente la stabilizzazione (Johnson & Hulse, 2004a). La contrazione spastica del muscolo è aumentata dal danno ai tessuti molli della regione. La trazione provocata dallo spasmo muscolare è costante e continua, anche sotto anestesia generale. All’inizio, la contrazione e la sovrapposizione dei monconi sono esclusivamente muscolari e rispondono all’anestesia generale, alla contro-trazione e ad alcuni farmaci miorilassanti. Dopo qualche giorno, la reazione infiammatoria nell’area coinvolta dal trauma, rende la contrazione di natura più permanente a causa delle evoluzioni proliferative che accompagnano il processo flogistico; per

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questo motivo si incontrano maggiori difficoltà nei tentativi di riduzione (Brinker et al., 1996a).

Le tecniche utilizzate per la riduzione delle fratture o l’allineamento degli arti devono vincere questi processi fisiologici (Johnson & Hulse, 2004a).

La riduzione a cielo aperto prevede l’impiego di un approccio chirurgico per esporre i segmenti ossei in modo da consentirne la ricostruzione anatomica e l’immobilizzazione in posizione con gli opportuni impianti. Questo approccio presenta numerosi vantaggi (Johnson & Hulse, 2004a) come:

1. visualizzazione e contatto diretto con i frammenti ossei, facilitando la ricostruzione anatomica;

2. possibilità di inserimento diretto degli impianti;

3. ricostruzione dell’osso che permette la suddivisione dei carichi fra ossa ed impianti, con conseguente aumento della robustezza della frattura; 4. possibilità di ricorrere all’innesto di osso spongioso per facilitare la

guarigione.

Tuttavia, questa tecnica comporta anche degli svantaggi (Johnson & Hulse, 2004a):

1. incremento del trauma operatorio a carico dei tessuti molli e dell’apporto vascolare;

2. aumento del rischio di introduzione di batteri contaminanti.

Quindi, la riduzione a cielo aperto conduce, di solito, ad un’accurata riduzione della frattura, ma compromette i tessuti molli circostanti e l’apporto ematico, di importanza fondamentale per il processo di riparazione (Rudd & Whitehair, 1992).

La riduzione a cielo chiuso consiste nel ridurre le fratture o allineare l’arto senza esporre chirurgicamente le ossa fratturate; questo apporta diversi

vantaggi (Johnson & Hulse, 2004a):

1. conservazione dei tessuti molli e dell’apporto vascolare che accelera la guarigione;

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2. riduzione della possibilità di indurre infezioni; 3. minore durata dell’intervento.

Il principale svantaggio di questa tecnica è invece rappresentato dalla difficoltà ad arrivare ad una riduzione accurata senza visualizzare i segmenti ossei e i frammenti di frattura (Johnson & Hulse, 2004a). La riduzione viene solitamente ottenuta manualmente insieme all’applicazione di trazione e controtrazione. Sarebbe questa la tecnica ideale di riduzione di una frattura (Brinker et al., 1996a); i tempi di consolidamento, infatti, sono generalmente inferiori rispetto alla riduzione a cielo aperto (Rudd & Whitehair, 1992). La tecnica semichiusa consiste nell’accesso solo al focolaio di frattura, ma permette l’applicazione di pinze da ossa e l’inserimento di innesti ossei, se necessari; minimizza in questo modo il danno tissutale e la distruzione dell’apporto ematico, permettendo un discreto allineamento dei frammenti ossei (Rudd & Whitehair, 1992).

La riduzione a cielo aperto è indicata per (Johnson & Hulse, 2004a; Johnson & Hulse, 2004c):

• fratture articolari;

• fratture semplici che possono essere ricostruite anatomicamente;

• fratture diafisarie comminute che necessitano di un trapianto di osso spongioso.

Per ridurre il danneggiamento ai tessuti molli e alla vascolarizzazione provocati da questa tecnica è opportuno rispettare i seguenti principi generali (Johnson & Hulse, 2004a):

1) seguire le normali separazioni tra i muscoli;

2) ottenere un’adeguata esposizione delle ossa fratturate;

3) trattare delicatamente i tessuti molli e preservare le inserzioni sui frammenti ossei;

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Le fratture adatte ad essere trattate con la riduzione a cielo chiuso sono (Johnson & Hulse, 2004a; Johnson & Hulse, 2004c):

• fratture a legno verde e fratture senza dislocazione dei monconi;

• fratture semplici da trattare mediante inserimento di un chiodo a cielo chiuso;

• fratture diafisarie comminute che non possono essre ricostruite anatomicamente.

Quando si utilizza questo tipo di riduzione, raramente è possibile ottenere la ricostruzione anatomica delle fratture ma si può ripristinare la lunghezza dell’osso e l’allineamento dell’arto (Johnson & Hulse, 2004a).

Applicazione di chiodi centromidollari

Generalmente, nel radio si sconsiglia l’impiego del chiodo centromidollare perché l’accesso per l’inserimento del chiodo è difficile da ottenere senza danneggiare le superfici articolari (Boudrieau, 2005).

La curvatura craniale, la sezione trasversale ovale ed il canale midollare relativamente piccolo limitano la dimensione del chiodo e il suo punto d’appoggio, e quindi non si rende disponibile una sufficiente resistenza alle forze di curvatura o trasversali (Boudrieau, 2005).

Di conseguenza, sebbene siano descritte diverse tecniche di applicazione di chiodi endomidollari per le fratture del terzo distale del radio, queste non apportano una stabilità tale da giustificare un intervento invasivo e il rischio di danneggiamento iatrogeno all’articolazione radiocarpica (Harasen, 2003b). Complicazioni come l’angolazione, la distrazione, la rotazione, l’osteomielite, la malattia articolare degenerativa del gomito e del carpo, unioni ritardate e non unioni vengono riportate nell’80% delle fratture distali di radio e ulna trattate con chiodi endomidollari (Larsen et al, 1999; Johnson & Hulse, 2004c).

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I cani delle razze toy con fratture del radio trattati con chiodi endomidollari presentano un’elevata frequenza di complicazioni (Johnson & Hulse, 2004c). L’inchiodamento centromidollare dell’ulna, invece, rappresenta un’opzione adeguata per l’allineamento dell’ulna, per stabilizzare le fratture ulnari semplici e per fornire un supporto addizionale a mezzi di sintesi primari in fratture radiali comminute. L’infibulo deve essere introdotto nel canale midollare partendo dalla superficie prossimale dell’olecrano ed essere spinto, in senso anterogrado, fino alla linea di frattura; compiendo questa manovra bisogna stare attenti a mantenere l’infibulo parallelo all’ulna, in modo da tenerlo all’interno del canale midollare. Dopo aver allineato la frattura, occorre spingere distalmente il chiodo, il più possibile, senza però penetrare nell’osso corticale; si provvede poi a tagliare l’infibulo al di sotto del piano cutaneo, sopra la porzione prossimale dell’ulna. Le radiografie possono essere utili per fare una stima della lunghezza e diametro adeguati del chiodo (Johnson & Hulse, 2004c; Milovancev & Ralphs, 2004).

Applicazione dei fissatori esterni

La fissazione scheletrica è un metodo particolarmente utile per trattare una grande varietà di fratture diafisarie del radio (Johnson & Hulse, 2004c). La mancanza relativa di muscolatura nella regione dell’avambraccio permette un accesso quasi illimitato per il posizionamento del chiodo da fissazione (Boudrieau, 2005).

L’applicazione di un chiodo ad espansione per la fissazione deve tener conto dell’anatomia del radio e dell’ulna; poiché il diametro craniocaudale del radio nel terzo prossimale dell’osso è più piccolo di quello distale, si devono usare chiodi da fissazione relativamente piccoli per prevenire le fratture iatrogene in questa zona. Inoltre, il radio prossimale ha anche una curvatura craniale e una rotazione esterna, caratteristica che può creare dei problemi nell’allineamento dei chiodi in alcuni piani durante la fissazione (Boudrieau, 2005).

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Le complicazioni associate all’applicazione di fissatori esterni includono mobilità dei chiodi, drenaggio di materiale, infezioni, valgismo o malallineamneto rotazionale, unioni ritardate e non unioni (Larsen et al, 1999).

L’allentamento dei chiodi può avvenire per diverse ragioni, tra cui l’eccessivo micromovimento a livello del punto di contatto fra impianti ed osso, i danni termici e meccanici di quest’ultimo al momento dell’inserimento del chiodo ed il cedimento alla fatica della corticale nella zona di contatto fra chiodo ed osso (Johnson & Hulse, 2004a).

La fissazione scheletrica esterna offre il vantaggio di evitare l’apertura del focolaio di frattura; un accesso a cielo chiuso evita, infatti, l’ulteriore rottura delle aree fratturate in modo comminuto o la presenza di ferite aperte, conservando meglio l’apporto ematico regionale. Si evita in questo modo l’ulteriore devitalizzazione dei tessuti molli che si determina con una via d’accesso a cielo aperto. Il focolaio di frattura non viene invaso con impianti metallici che aumentano il rischio di infezioni in caso di fratture esposte; infine, permette, una volta avvenuta la consolidazione, una rimozione semplice dell’impianto, consigliata nel caso di fratture esposte (Milovancev & Ralphs, 2004; Johnson & Hulse, 2004c; Boudrieau, 2005; Grant, Olds, 2005). Si può semplificare la riduzione della frattura chiusa appendendo saldamente l’arto, in maniera sufficiente da sospendere leggermente il paziente; la distrazione così ottenuta, generalmente, è in grado di riallineare la frattura in modo soddisfacente. Se la riduzione non può essere determinata con accuratezza a causa della tumefazione dei tessuti molli, si può eseguire una via d’accesso chirurgica limitata per assicurare il migliore allineamento della frattura (lo scopo della via d’accesso limitata è di assicurare solo l’allineamento - “guardare ma non toccare”) (Boudrieau, 2005).

I fissatori esterni permettono di realizzare mezzi di fissazione in grado di soddisfare le iniziali esigenze di stabilizzazione meccanica della frattura e in

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seguito possono essere modificati o destabilizzati (“dinamizzazione”) per ottenere un’immobilizzazione ottimale ed accelerare la guarigione ossea (Johnson & Hulse, 2004a; Boudrieau, 2005).

La rigidità del fissatore e la sua capacità di resistere alle forze di carico assiali, di curvatura e di rotazione associate al carico della parte sono influenzate da fattori legati ai chiodi (tipo, dimensioni, numero, posizionamento, lunghezza) ed alla configurazione del fissatore stesso (monolaterale, bilaterale, biplanare). I chiodi filettati si impegnano nell’osso e resistono alla trazione e all’allineamento. Aumentandone il diametro se ne incrementa la rigidità, ma non bisogna superare il 20% del diametro dell’osso (Johnson & Hulse, 2004a).

Il numero dei chiodi di fissazione nei principali frammenti prossimali e distali influenza la rigidità del fissatore ed influisce sulla distribuzione dei carichi fisiologici fra i chiodi stessi. La stabilizzazione della frattura e il mantenimento dell’integrità dell’interfaccia tra chiodo e osso sono tanto più efficaci quanto più elevato è il numero dei chiodi di fissazione per frammento, fino al limite di quattro chiodi per frammento principale prossimale e distale. Posizionando i chiodi sia vicino alla frattura che alle estremità dell’osso si aumenta la rigidità della fissazione e si diminuisce il movimento a livello del focolaio di frattura; in pratica, bisogna porre un chiodo 1-2 cm prossimamente ed uno 1-2 cm distalmente alla frattura; i chiodi più prossimali e distali vengono inseriti nelle rispettive metafisi, mentre quelli restanti sono uniformemente distribuiti nei frammenti prossimali e distali (Johnson & Hulse, 2004a).

Riducendo la distanza fra osso e morsetti di fissazione si aumenta la rigidità del fissatore; la robustezza e la rigidità aumentano anche con l’incremento delle dimensioni e del numero delle barre di connessione esterne. Poiché le ossa sono soggette ad incurvarsi su due piani (mediolaterale e craniocaudale), la resistenza ai carichi di curvatura fisiologici opposta dai fissatori biplanari è

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maggiore di quella che si ha nelle configurazioni in cui le barre di connessione sono allineate su un singolo piano (Johnson & Hulse, 2004a). Nella scelta della configurazione del fissatore esterno, bisogna tener presente che una configurazione non abbastanza robusta e duratura sarà probabilmente causa di complicazioni, mentre una troppo rigida potrà sempre essere “alleggerita” e sostituita con una più leggera col procedere della guarigione (Johnson & Hulse, 2004a).

Tra tutti i tipi di fissatori esterni, quelle che più spesso vengono applicate alle fratture del radio e dell’ulna sono quelli di tipo Ib o il tipo II (Boudrieau, 2005).

I fissatori tipo Ia (monolaterale-monoplanare) vengono solitamente applicati sulla superficie craniomediale del radio; questo permette di evitare di attraversare le maggiori masse muscolari, riducendo la morbilità associata all’applicazione dei chiodi trapassanti (Johnson & Hulse, 2004c). Generalmente, questa fissazione non è sufficientemente rigida da essere utilizzata nei cani di grossa taglia (Boudrieau, 2005). L’applicazione dei fissatori tipo Ia è limitata a fratture stabili che presumibilmente non andranno incontro a complicazioni o come mezzo supplementare di una fissazione interna (Rudd & Whitehair, 1992).

Per collocare un fissatore tipo Ib (monolaterale-biplanare), bisogna cercare di inserire i chiodi in aree di osso coperte dal minore spessore possibile di muscoli, solitamente sulle superfici craniomediale e craniolaterale (Johnson & Hulse, 2004c). Questa fissazione risulta, di solito, semplice da applicare ed è abbastanza rigida per poter essere utilizzata nei cani di grossa mole (Boudrieau, 2005); inoltre, resiste meglio alle forze trasversali e di flessione rispetto alla configurazione tipo II (Rudd & Whitehair, 1992).

Utilizzando un fissatore esterno tipo II (bilaterale-monoplanare) è inevitabile penetrare nelle masse muscolari di maggiori dimensioni, tuttavia spesso viene scelta questa configurazione perchè offre una maggiore rigidità. Questa

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fissazione tollera le forze compressive assiali, prevenendo il collasso della frattura (Rudd & Whitehair, 1992).

Se ancora si desidera una maggiore rigidità dell’apparato di fissazione si può costruire una configurazione di tipo III (bilaterale-biplanare) (Johnson & Hulse, 2004c). Questa fissazione è indicata per fratture altamente instabili, nelle quali la stabilizzazione dipende interamente dal fissatore; quando il quadro radiografico attesta un inizio di consolidazione, si può progressivamente destabilizzare per incrementare lo stress sull’osso in via di guarigione (Rudd & Whitehair, 1992).

Infatti, il vantaggio iniziale di elevata stabilità richiesta in alcune fratture, può risultare deleterio con l’avanzare della riparazione; un carico progressivo stimola l’ossificazione, facilita il rimodellamento osseo, ed è importante per la sopravvivenza di eventuali innesti ossei dopo la loro vascolarizzazione. La destabilizzazione può, in genere, iniziare 2-3 mesi dopo l’intervento chirurgico, quando il danno ai tessuti molli è stato riparato, ovvero quando è iniziata la consolidazione e la vascolarizzazione degli innesti ossei. Si converte, quindi, la configurazione di tipo III in tipo II e successivamente in tipo I. Il fissatore esterno può essere completamente rimosso quando la frattura mostra clinicamente e radiograficamente i segni di un’unione avvenuta (Rudd & Whitehair, 1992).

Per accertarsi della corretta riduzione della frattura, dell’esatta collocazione dei chiodi e dell’allineamento delle articolazioni, bisognerebbe eseguire delle radiografie postoperatorie. Le angolazioni in varo e valgo possono essere corrette allentando i morsetti del fissatore e distraendo il lato appropriato dell’arto. Per rimediare alle lievi rotazioni si può invertire il lato dei morsetti sul giusto lato della barra di fissazione, a livello del moncone distale (Johnson & Hulse, 2004c).

Un’alternativa versatile ai sistemi standard di fissazione esterna è costituita dall’applicazione di chiodi per fissazione collegati tra di loro da una barra di

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polimetilmetacrilato (PMMA), che permette di acquistare un’ottima stabilità senza preoccupazioni sulla compatibilità tra i chiodi e i morsetti o la collocazione monoplanare dei chiodi. Questo è molto interessante per stabilizzare rigidamente le fratture diafisarie distali dei cani di piccola taglia (Milovancev & Ralphs, 2004).

Anche i fissatori esterni circolari rappresentano un’opzione, ma il loro impiego necessita di un piano preoperatorio ben studiato (Milovancev & Ralphs, 2004). Vengono per lo più utilizzati in caso di fratture fortemente comminute che non possono essere ricostruite anatomicamente; facilitano il management delle ferite dei tessuti molli e possono essere utilizzate in associazione alla fissazione interna, come chiodi endomidollari o cerchiaggi (Anderson et al., 2002).

Applicazione di placche e viti da ossa

Le placche da ossa rappresentano un mezzo eccellente per stabilizzare le fratture diafisarie del radio e dell’ulna (Johnson & Hulse, 2004c).

La fissazione con placca viene effettuata per promuovere una consolidazione diretta e un precoce ritorno alla funzionalità dell’arto (Glennon et al., 1994). Le placche si applicano facilmente al radio (e all’ulna se necessario) e forniscono una fissazione rigida che permette il carico precoce del peso riducendo la frequenza di patologie da frattura. Questo mezzo di sintesi molto stabile risulta vantaggioso specialmente nel trattamento delle fratture distali del radio e dell’ulna negli animali di piccola taglia e toy, al fine di prevenire una ritardata unione o non unione (Larsen et al, 1999; Boudrieau, 2005). Per la ricostruzione della frattura e per l’applicazione della placca è necessaria un’ampia esposizione della frattura stessa e dell’osso sano (Johnson & Hulse, 2004c). Va eseguito, quindi, approccio chirurgico standard e questo porta degli svantaggi legati al danneggiamento dei tessuti molli e della vascolarizzazione, ma facilita la riduzione dei frammenti ossei, l’applicazione

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della placca e permette un eventuale innesto di tessuto osseo (Milovancev & Ralphs, 2004).

Nelle fratture diafisarie mediane e distali, le placche vengono in genere applicate, mediante un approccio craniomediale, sulla faccia craniale del radio, che è ampia e piatta (Sardinas & Montavon, 1997; Boudrieau, 2005). È possibile, tuttavia, l’applicazione della placca sulla superficie mediale del radio che offre numerosi vantaggi rispetto al più comune approccio craniale. Il paziente deve essere posto in decubito laterale in modo che il decubito dell’animale sia dalla parte dell’arto fratturato; questa posizione permette una più facile riduzione e applicazione dell’impianto, con minor necessità di assistenza intraoperatoria (Sardinas & Montavon, 1997).

Lo spessore mediolaterale del radio è maggiore rispetto a quello craniocaudale, per cui permette un maggior presa delle viti, che acquistano una maggior resistenza alla mobilizzazione, e una ridotta spaziatura tra i fori per le viti, in quanto permette di applicare una placca più piccola o più stretta in confronto ad una placca impiegata sulla faccia craniale; questo comporta la possibilità di applicare un maggior numero di viti (Sardinas & Montavon, 1997; Boudrieau, 2005).

Il diametro delle viti non deve essere superiore al diametro della cavità midollare in cui vengono inserite, onde evitare l’insorgenza di fratture iatrogene. Inoltre, il rischio di inserimento iatrogeno delle viti nell’ulna, che può interferire con la pronazione e supinazione dell’arto, è ridotto nell’approccio mediale (Sardinas & Montavon, 1997; Boudrieau, 2005). Un altro aspetto da considerare è che le viti applicate sulla superficie craniale del radio possono danneggiare l’apporto vascolare intraosseo in maggior misura rispetto all’approccio mediale (Sardinas & Montavon, 1997).

Nelle fratture del terzo distale del radio c’è la tendenza alla rotazione esterna e all’insorgenza di valgismo del frammento distale a causa dell’approccio craniale e della retrazione dei muscoli estensori. Nell’approccio mediale non è

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necessaria la retrazione tendinea e il mantenimento della riduzione dei frammenti di frattura è semplificato, per cui l’insorgenza di questa complicanza è inferiore (Sardinas & Montavon, 1997).

Infine, l’utilizzazione della placca sulla superficie mediale dell’osso fornisce una rigidità assiale comparabile a quella ottenuta dall’applicazione craniale della placca (Sardinas & Montavon, 1997; Boudrieau, 2005).

In caso di fratture prossimali del radio, invece, è raccomandato un approccio craniale (Sardinas & Montavon, 1997).

L’applicazione delle placche alle fratture prossimali risulta più difficoltosa a causa della dimensione più piccola dell’osso a questo livello, della ridotta esposizione e dell’inserzione del muscolo pronatore e supinatore (Boudrieau, 2005).

Nelle fratture d’avambraccio, la procedura chirurgica usuale per l’applicazione di una placca da osteosintesi è di posizionarla sul radio, in quanto, se il radio è ben stabilizzato, la fissazione dell’ulna non è in genere necessaria, anche se può essere raccomandata nei cani di razza grande o gigante. L’applicazione di due placche di dimensioni più piccole su entrambe le ossa, al posto di una singola grossa placca sul radio, permette una più facile riduzione della frattura e una migliore chiusura dei tessuti molli; inoltre minimizza il rischio di interferenza con il movimento dei tendini dei muscoli estensori e assicura una fissazione più rigida. L’applicazione di una singola placca sulla faccia caudale dell’ulna in una frattura prossimale comminuta di radio e ulna ha riportato ad una consolidazione soddisfacente senza l’insorgenza di complicazioni (Muir & Manley, 1994).

I tipi di placche che possono essere utilizzati sono numerosi; generalmente, in caso di fratture trasverse sono raccomandate delle placche da compressione. Le fratture oblique lunghe e quelle spiraliformi devono essere ricostruite e la linea di frattura deve essere compressa con delle viti da trazione. Le fratture diafisarie comminute, che non possono essere ricostruite, possono essere

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trattate tramite la distrazione della frattura stessa, il riallineamento dell’arto e l’applicazione a ponte di una placca da sostegno. Per le fratture più distali, può essere utile l’applicazione di una placca a T (Milovancev & Ralphs, 2004; Johnson & Hulse, 2004c).

Allo scopo di migliorare la guarigione dell’osso, si può prendere in considerazione l’autotrapianto di osso spongioso. Questo viene in genere prelevato dal terzo prossimale dell’omero, dall’ileo o dalla tibia ipsilaterali (Johnson & Hulse, 2004c).

Le complicazioni che si possono verificare con l’osteosintesi con placca includono rottura dell’impianto, angolazioni, infezioni, osteopenia da “stress protection”, conduzione termica e irritazione (Larsen et al, 1999).

Per quanto riguarda l’osteoporosi che deriva dall’applicazione delle placche ossee bisogna prendere in causa numerosi fattori. Innanzitutto, la riduzione a cielo aperto, necessaria per l’osteosintesi con placca, determina un danneggiamento dell’apporto vascolare; durante la riduzione della frattura si crea un’ulteriore compromissione del periostio e della muscolatura, che apportano una vascolarizzazione extraossea durante la riparazione di una frattura. La compressione creata dalla placca sulla corticale dell’osso compromette ulteriormente l’apporto vascolare. L’ischemia locale sotto la placca esita in necrosi con conseguente rimodellamento osseo, che porta ad una precoce temporanea osteoporosi. Il ristabilimento dell’apporto vascolare alla corticale sotto la placca avviene dopo circa 20 settimane dall’applicazione. Infine, lo “stress protection”, effettuato dalla placca sull’osso sottostante, determina rimodellamelo osseo secondo la legge di Wolff; in questo modo il tessuto osseo può diventare osteoporotico (Glennon, 1994; Sardinas & Montavon, 1997).

L’osteopenia indotta da stress protection viene spesso menzionata con l’uso di placche da osteosintesi, soprattutto nei cani di taglia piccola e toy (Milovancev & Ralphs, 2004).

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Il posizionamento della placca sulla faccia mediale del radio piuttosto che sulla superficie craniale limita questa complicanza per il minor contatto della placca con l’osso (Sardinas & Montavon, 1997).

Applicazione del “sistema epibloc”

In una frattura del terzo distale del radio e dell’ulna di un nostro paziente è stato applicato il “sistema epibloc”, metodo utilizzato in chirurgia traumatologica umana per alcune fratture metaepifisarie.

Il sistema è composto da fili di differente calibro a seconda del segmento da trattare e da una piastra esterna di fissaggio, che serve a bloccare gli stessi all’esterno del segmento leso. La piastra è costituita da due componenti speculari recanti sulla superficie interna due coppie di tracce o solchi atti a contenere le estremità dei fili metallici (Poggi & Rognoni, 1995).

La tecnica di fissaggio consiste nella introduzione, previa riduzione incruenta la più anatomica possibile, di due o più fili attraverso punti giacenti al di fuori della articolazione nel punto di massima larghezza dell’epifisi, secondo una congiungente che si avvicini al centro dell’epifisi stessa. Gli aghi vengono sospinti mediante battitore oltre la rima di frattura fin nel canale midollare integro. Sarebbe necessario a questo punto verificare il giusto posizionamento dell’impianto e, in seguito, arretrare i fili leggermente al di fuori del piano cutaneo e ripiegarli di circa 90°. Viene quindi effettuata una seconda piegatura di circa 100° ad una distanza dalla prima tale da sovrastare il piano cutaneo e secondo una direttrice ortogonale a quella della prima piegatura, la quale a questo punto, viene posta a contatto con il punto di introduzione a livello osseo. In questo modo, i due fili sono stati trasformati in due sistemi dinamici, i quali vengono caricati o messi sotto tensione allontanandoli l’uno all’altro (Poggi & Rognoni, 1995).

Vengono così fissati dalla piastra metallica una volta che le loro estremità siano state alloggiate nei solchi contenuti nella stessa.

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Dopo esame radiologico di conferma della riduzione e della stabilità della frattura, segue un’accurata medicazione e nessuna immobilizzazione rigida; anzi, viene incoraggiata la mobilizzazione attiva immediata in seconda giornata, al fine di stimolare la formazione di callo osseo riparativo (Poggi & Rognoni, 1995).

Il compito della piastra è quello di mantenere costante lo stato delle forze di tensione e di distribuirle in modo spaziale sul segmento scheletrico con l’opportunità di possibili modificazioni; esso pertanto potrebbe essere assimilato ad una molla costantemente caricata a tensione.

Per ottenere una maggiore spinta dinamica bisogna aumentare la lunghezza dei fili di sintesi; il grado di tensione che occorre imprimere ai fili metallici è quello necessario alla stabilizzazione della frattura (Poggi & Rognoni, 1995). L’andamento del processo riparativo nella maggior parte dei casi consente una consolidazione della frattura in un tempo decisamente breve. Per quanto riguarda la motilità articolare, questa viene incoraggiata fin nell’immediato postoperatorio; la posizione della piastra non ostacola il range di movimento articolare e la motilità attiva consente mediante stimolazione biomeccanica la formazione di callo osseo riparativo, nonchè il ripristino completo della motilità articolare (Poggi & Rognoni, 1995).

Esistono in traumatologia delle “fratture limite” in cui, per la coesistenza di più fattori negativi sia locali che generali, il trattamento si presenta arduo e difficile facendo affidamento su metodiche tradizionali; in tali situazioni il sistema epibloc può risultare la scelta terapeutica migliore (Poggi & Rognoni, 1995).

La rimozione del sistema deve avvenire quando l’evoluzione radiografica mostra una sufficiente quantità di callo osseo tale da ritenere la frattura consolidata.

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TRATTAMENTO POSTOPERATORIO

Per documentare la corretta riduzione o il riallineamento della frattura e la collocazione degli impianti bisogna eseguire dei radiogrammi postoperatori. I bendaggi necessitano di attente cure da parte del proprietario e di frequenti valutazioni da parte del veterinario. Spesso, infatti, si verificano abrasioni e ferite provocate dal bendaggio stesso.

Il trattamento di queste complicazioni prevede la rimozione del bendaggio e le terapie della soluzione di continuo. La precoce destabilizzazione della frattura per la cura delle ferite può provocare un ritardo del consolidamento e pseudoartrosi (Johnson & Hulse, 2004c).

Dopo aver collocato un fissatore esterno, bisognerebbe applicare per alcuni giorni un bendaggio morbido imbottito, per controllare l’edema e dare supporto si tessuti molli. Dopo una riduzione a cielo aperto con applicazione di un fissatore esterno, bisognerebbe tenere coperta l’incisione, lasciando però all’esterno del bendaggio le barre di connessione. Per colmare lo spazio tra la barra di fissazione e la cute intorno ai chiodi si usano tamponi di garza aperti ed imbottiti e poi assicurati in posizione con un bendaggio intorno al fissatore. Bisognerebbe trattare le ferite aperte quotidianamente, con un bendaggio umido su secco, fino a quando non si sia formato il tessuto di granulazione; a questo punto si copre la ferita con un’imbottitura non adesiva e si cambia il bendaggio ogni volta che è necessario (Johnson & Hulse, 2004c).

L’idroterapia quotidiana aiuta a pulire le ferite aperte, riduce l’edema postoperatorio e mantiene puliti i punti in cui penetrano i chiodi trapassanti dei fissatori esterni.

Bisognerebbe istruire il proprietario in modo che limiti l’attività fisica del paziente, ed eviti traumatismi al fissatore. Se il bendaggio del fissatore esterno viene mantenuto, bisogna sostituirlo ad intervalli settimanali. Bisogna fissare la visita di controllo dopo due settimane, per rimuovere i punti di

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sutura e per la valutazione del fissatore esterno ed ogni 4 o 6 settimane per la valutazione radiografica (Johnson & Hulse, 2004c).

Per alcune settimane dopo l’asportazione dei mezzi di sintesi si può applicare un bendaggio od una steccatura per proteggere l’osso in via di guarigione. Dopo l’applicazione di una placca su una frattura diafisaria, bisognerebbe supportare l’arto con un bendaggio imbottito per due o tre settimane, allo scopo di ridurre l’edema; in questo arco di tempo l’animale dovrebbe riacquistare completamente l’appoggio sull’arto interessato (Johnson & Hulse, 2004c).

Il successo di qualsiasi procedura ortopedica si basa sull’attuazione di adeguati programmi fisioterapici.

La manipolazione passiva, il calore ed il freddo sono importanti fattori da prendere in considerazione per la riabilitazione delle lesioni muscoloscheletriche (Johnson & Hulse, 2004a).

L’applicazione del freddo è indicata nelle fasi acute delle lesioni o durante i primi due o tre giorni dopo l’intervento. I suoi effetti benefici sono rappresentati dal controllo della tumefazione e dall’azione analgesica. L’applicazione sulla parte va effettuata per 20 minuti tre volte al giorno (Johnson & Hulse, 2004a).

Il trattamento con il calore, sotto forma di impacchi caldi, è indicato nella fase cronica della guarigione. Determina attenuazione del dolore e miglioramento della circolazione. Il calore non riduce la tumefazione e non va utilizzato nei primi 3-4 successivi all’intervento. La termoterapia, che deve essere attuata per un tempo non superiore ai 20 minuti, è anche utile per rilassare la muscolatura prima di iniziare le manipolazioni passive (Johnson & Hulse, 2004a).

La fisioterapia passiva può essere descritta come lo stiramento controllato di muscoli, tendini e legamenti (Johnson & Hulse, 2004a).

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Le articolazioni situate prossimalmente o distalmente all’area in questione vengono delicatamente flesse ed estese. L’entità dei movimenti viene gradualmente aumentata fino a raggiungere un’escursione quasi normale, o quella concessa dai limiti di tolleranza al dolore del paziente.

La fisioterapia passiva è efficace per mantenere il movimento articolare ed evitare il disagio del paziente, ma non aumenta il tono e la forza della muscolatura; per questa ragione, deve essere associata alla fisioterapia attiva (Johnson & Hulse, 2004a).

Permettere al paziente di restare in stazione sull’arto operato è la forma più semplice di fisioterapia attiva e deve iniziare durante la prima settimana postoperatoria. È possibile concentrare il carico del peso dell’animale sull’arto operato sollevando delicatamente quello sano dal suolo. La posizione va mantenuta per 1-2 minuti. La durata del periodo di sollecitazione attiva va gradualmente aumentata fino a che il paziente non inizi a caricare l’arto operato senza aiuto (Johnson & Hulse, 2004a).

Anche il nuoto è una forma eccellente di terapia attiva, sempre che la temperatura ambiente lo consenta e se si dispone di una struttura adatta, perchè favorisce la motilità articolare ed il rafforzamento della muscolatura, senza gli effetti negativi del peso del corpo dell’animale. La fisioterapia mediante nuoto deve iniziare con sessioni di 2-3 minuti di durata, da aumentare gradualmente, in funzione della tolleranza del paziente. Bisogna fare attenzione quando l’animale entra o esce dall’acqua, per evitare che scivoli, esponendo al rischio di traumi l’arto operato (Johnson & Hulse, 2004a).

Immediatamente dopo l’intervento, si possono iniziare delle lente passeggiate al guinzaglio, da continuare fino al termine della riabilitazione e della guarigione (Johnson & Hulse, 2004a). L’esercizio fisico deve, comunque, esser controllato fino a che non sia possibile evidenziare radiologicamente la formazione di callo osseo (Johnson & Hulse, 2004c).

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Una volta avvenuta la guarigione dell’osso può essere necessario rimuovere gli impianti, se questi interferiscono od irritano i tessuti (Johnson & Hulse, 2004c).

6.4.b Fratture metafisarie ed epifisarie del radio e dell’ulna

Le fratture molto distali o prossimali richiedono delle tecniche speciali per la stabilizzazione (Boudrieau, 2005).

Le fratture del terzo prossimale dell’ulna, che sono più spesso viste nei cani giovani, possono verificarsi singolarmente od accompagnate alla dislocazione della testa del radio (frattura di Monteggia) e possono coinvolgere la superficie articolare e l’incisura trocleare. A causa della forza di trazione esercitata dal tricipite brachiale, si verifica la dislocazione del moncone ulnare prossimale e pertanto, per la guarigione della frattura, è necessario neutralizzare questa trazione mediante una fissazione interna. Esistono numerosi metodi al riguardo, ma la fissazione con chiodi, cerchiaggi di tensione con filo metallico e l’applicazione di placche e viti rappresentano i metodi di scelta (Milovancev & Ralphs, 2004; Johnson & Hulse, 2004c). La continua trazione esercitata sulla linea di frattura dal tricipite brachiale o dai legamenti collaterali può provocare una pseudoartrosi (Johnson & Hulse, 2004c).

Le fratture del terzo prossimale del radio sono piuttosto rare perché l’epifisi radiale è ben protetta dalla muscolatura che la circonda. Comunque le fratture di questo segmento osseo possono essere extrarticolari od intrarticolari; quelle intrarticolari devono essere ridotte anatomicamente e stabilizzate rigidamente. Solitamente le fratture intrarticolari interessano l’epicondilo mediale e provocano la distruzione del supporto legamentoso del carpo; inoltre, l’inserzione legamentosa epicondiloidea provoca la dislocazione del frammento che deve essere ridotto tramite una fissazione interna. Le fratture

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del processo stiloideo dell’ulna provocano un’alterazione simile, che però interessa la parte laterale del carpo. Queste fratture possono essere stabilizzate con cerchiaggi di tensione o con viti da trazione e filo di Kirschner, se la frattura necessita di una più lunga stabilità (Johnson & Hulse, 2004c).

Si può stabilizzare una frattura prossimale del radio applicando il mezzo di fissazione attraverso entrambe le ossa: fissato distalmente al radio e prossimamente all’ulna. Ciò si ottiene più facilmente con la fissazione scheletrica esterna (Boudrieau, 2005).

Le fratture del radio distale, spesso incomplete, si possono invece stabilizzare applicando un dispositivo transarticolare, sia come fissazione temporanea sia in modo permanente come parte di un’artrodesi (Milovancev & Ralphs, 2004; Boudrieau, 2005).

Visto che i cani di piccola taglia hanno un rischio maggiore di ritardata unione o non unione, necessitano di una fissazione interna stabile, di importanza fondamentale per favorire una rivascolarizzazione adeguata e la conseguente guarigione dell’osso (Boudrieau, 2005).

In seguito a fratture articolari si possono verificare delle patologie articolari degenerative che possono essere anche gravi se non è stato possibile ridurre anatomicamente e fissare rigidamente una frattura articolare (Johnson & Hulse, 2004c).

TRATTAMENTO POSTOPERATORIO

Per il trattamento postoperatorio valgono le regole generali di gestione delle ferite e contenimento del soggetto, necessari dopo un intervento ortopedico. Per questo tipo di fratture va inoltre ripristinata il prima possibile la funzionalità articolare, per cui è indicata la fisioterapia. In alternativa, se l’iperattività costituisce motivo di preoccupazione, è possibile applicare una stecca per sostenere la fissazione per 6 settimane (Johnson & Hulse, 2004c).

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Per trattare l’insorgenza di malattia articolare degenerativa si può inizialmente ricorrere ad una terapia conservativa, che prevede riposo, esercizio fisico moderato e somministrazione di antinfiammatori non steroidei (FANS). Per trattare i cani con instabilità articolare progressiva, zoppia e dolore che non rispondono al trattamento medico, si può ricorrere all’artrodesi (Johnson & Hulse, 2004c).

Bisogna istruire il proprietario sulla necessità di limitare l’esercizio fisico del paziente fino a che non sia possibile evidenziare radiologicamente la formazione del callo osseo.

Una volta avvenuta la guarigione dell’osso può essere necessario rimuovere gli impianti, se questi interferiscono od irritano i tessuti (Johnson & Hulse, 2004c).

6.4.c Trattamento delle pseudoartrosi

Nelle fratture del radio e dell’ulna una delle complicazioni più frequenti che si possono riscontrare è la pseudoartrosi.

Per ottenere la risoluzione di una non unione, si deve determinare la causa che l’ha provocata (Millis & Jackson, 2005).

In caso di pseudoartrosi vitale non infetta, la causa più comune è una inadeguata stabilizzazione della frattura. Generalmente c’è un tentativo di formazione del callo a livello dei capi ossei e un tentativo di unire a ponte lo spazio della frattura.

Il successo dell’unione, in questi casi, dipende strettamente dall’offrire una stabilità e compressione maggiore al focolaio di frattura.

Per questi motivi, la placca a compressione dinamica rappresenta il metodo di prima scelta nel favorire la calcificazione dell’unione fibrosa.

Uno degli svantaggi che però presenta questa tecnica è quello di compromettere l’apporto sanguigno al focolaio di frattura.

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Bisogna inoltre tener presente che le procedure chirurgiche multiple comportano un maggior rischio di infezione.

I fissatori esterni offrono il vantaggio di creare minor danno ai tessuti molli circostanti e alla vascolarizzazione, e possono essere aggiunti come dispositivi ai mezzi di fissazione interna esistenti.

Gli svantaggi sono legati alla difficoltà di applicare un’adeguata compressione sul focolaio di frattura, a meno che non si utilizzino fissatori esterni circolari.

L’applicazione di innesti di osso spongioso è raccomandata in caso di formazione di callo poco evidente, mentre nel caso di formazione di callo esuberante la sua applicazione è facoltativa (Millis & Jackson, 2005).

In caso di pseudoatrosi non vitali non infette è necessario effettuare un’adeguata stabilizzazione rigida, associata alla rimozione del tessuto fibroso formatosi nel focolaio di frattura e all’innesto di osso spongioso.

Gli impianti allentati devono essere rimossi, deve essere ripristinata l’apertura del canale midollare mediante un trapano e va effettuata una ricruentazione delle estremità sclerotiche delle ossa, per ristabilire l’apporto sanguigno all’area.

Devono essere inoltre eseguiti dei tamponi per la coltura batterica e l’antibiogramma, anche se l’area non appare infetta.

I mezzi di fissazione consigliati sono gli stessi utilizzati per la risoluzione delle pseudoartrosi vitali; la stabilizzazione con placca rimane il metodo preferibile anche perché, in questo caso, è necessaria comunque l’apertura del focolaio di frattura per effettuare la rimozione del tessuto fibroso e l’alesatura delle estremità dei monconi (Millis & Jackson, 2005).

Le pseudoatrosi vitali o non vitali, infette richiedono un trattamento più aggressivo.

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Poiché un’infezione contribuisce ad alterare la vascolarizzazione dell’area, tutti i metalli allentati, i sequestri, i frammenti ossei avascolari e i tessuti molli infettati devono essere rimossi.

Sebbene sia importante effettuare una pulizia chirurgica del focolaio, uno sbrigliamento della frattura eccessivo può causare un ulteriore danneggiamento della vascolarizzazione e conseguentemente ridurre la penetrazione degli antibiotici nella regione.

Vanno eseguiti dei tamponi per la citologia e la coltura batterica e, in attesa dell’esito dell’antibiogramma, è consigliabile iniziare una profilassi con antibiotici a largo spettro.

La ferita può essere chiusa per prima intenzione, ma se è ancora visibile un’infezione macroscopica, può essere lasciata aperta e applicato un drenaggio; è necessaria in questo caso l’applicazione di un appropriato bendaggio dell’area e l’innesto di osso spongioso deve essere rimandato fino alla definitiva chiusura della ferita.

La possibilità di applicare dei fissatori esterni è presa in considerazione quando si voglia fornire una maggiore stabilità. I chiodi di fissazione vanno inseriti lontano dal focolaio di frattura per evitare il materiale estraneo presente e perché la loro presenza nel sito di frattura può contribuire al perdurare dell’infezione (Millis & Jackson, 2005).

Figura

Figura  6.1.a:   Rappresentazione  della  vascolarizzazione  dell'osso.    A:  normale;  B:  immaturo;  C:

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