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L’America come seconda Yavneh? Cynthia Ozick e la rinascenza ebraica statunitense degli anni Settanta del Novecento

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Academic year: 2021

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Simona Porro

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L’AMERICA COME SECONDA YAVNEH? CYNTHIA OZICK E LA RINASCENZA

EBRAICA STATUNITENSE DEGLI ANNI SETTANTA DEL NOVECENTO

Nel 1977, nell’introduzione al volume Jewish American Stories, Irving Howe ha proclamato il tramonto della letteratura ebraico-americana, a suo avviso fusa in un inestricabile vincolo di dipendenza figurale, tematica e stilistica con il processo migratorio ebraico dall’Europa orientale verso le metropoli del nord (Howe 1977, 10-14), un’esperienza che aveva toccato il picco di massima intensità negli anni Venti del Novecento, per poi ridursi considerevolmente dopo la fine della seconda guerra mondiale, fino a estinguersi.

A detta di Howe, l’esaurirsi del fenomeno storico avrebbe progressivamente intaccato il repertorio di motivi della Jewishness a cui gli autori si erano fino ad allora ispirati. Si tratta del comune patrimonio mnestico – un’eredità frammentaria ma pulsante di vita –, di quella peculiare miscela di valori, tradizioni e costumi che avevano conferito alla prima ondata di migranti approdata sulle coste statunitensi all’altezza del 1890 e, in parte, ai loro immediati discendenti, uno status di marginalità culturale e sociale che, secondo Howe, costituirebbe la cifra distintiva del popolo ebraico (Howe 1946, 361-66). In questa luce, le generazioni successive a Saul Bellow, Bernard Malamud e Philip Roth, essendo cronologicamente distanti dal cuore storico della Yiddishkeit, non disporrebbero più degli strumenti necessari al fine di produrre letteratura genuinamente giudaica. Analoga constatazione è giunta anni dopo, nel 1986, da Leslie Fiedler, anch’egli persuaso che il romanzo ebraico-americano fosse ormai “morto e sepolto, parte della storia più che della vita letteraria” (1986, 97).

Negli Stati Uniti del periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta del Novecento e l’inizio del decennio successivo si assiste, tuttavia, a una reviviscenza culturale su vasta scala, che vede una rinnovata enfasi sulle specificità della tradizione giudaica (De Biasio 1992, 100). L’origine di questo fenomeno è da ricercarsi nel contesto sociale e storico coevo, segnatamente nel progressivo declino del tradizionale ideale americano integrazionista – in altri termini, del melting pot di zangwilliana memoria, ovvero di quell’auspicata fusione di tutte le diversità di origine nell’homo americanus.

Tale periodo è caratterizzato dal fenomeno definito da Michael Novak come l’ascesa di “unmeltable ethnics” (1973, iii). Le lotte per il “potere nero” – specialmente l’azione del movimento separatista afroamericano – aprono, infatti, la strada allo sviluppo di un crescente ethos socioculturale d’impronta particolarista che vede, da parte delle varie componenti etnico-sociali tradizionalmente “ex-centriche,” una riscoperta delle proprie origini, unita a una volontà di riposizionamento sociale dai margini al cuore della Nazione. In tal senso, il Black Power assurge a modello per le rivendicazioni dei movimenti femministi, degli omosessuali e delle molteplici minoranze etniche. Si tratta di culture, come precisa Mark Schechner, “in crisis and in history, whose stories are the records of upheavals that affect not only themselves but the rest of America as well” (1997, 39).

Nell’alveo della comunità giudaica americana, l’anelito alla valorizzazione della differenza, ovvero di un denominatore comune in ambito sociale, culturale e religioso da innalzare a segno distintivo e, nel contempo, a collante identitario, si è inizialmente scontrato con una diversificazione e una parcellizzazione interna tali da inibire la configurazione di una base comune da cui trarre gli elementi fondanti della

Jewishness. Un solido retroterra collettivo è stato, tuttavia, individuato nella consapevolezza che, se non

fosse stato per l’immigrazione dal Vecchio Mondo, gli ebrei trapiantati in America avrebbero condiviso il destino infausto della controparte europea, decimata dalla Shoah (Novick 2000, 7).

L’enorme contrazione della popolazione giudaica nel mondo, cagionata dallo sterminio di sei milioni d’innocenti nei lager nazisti, ha investito di una drammatica urgenza l’imperativo morale di continuità della tradizione culturale e religiosa che da sempre caratterizza gli ebrei della diaspora. A partire dal secondo

* Simona Porro è autrice delle seguenti monografie: L’ombra della Shoah. Trauma, storia e memoria nei graphic memoir di Art Spiegelman. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2012; Dalla teologia alla letteratura: il caso di Arthur A. Cohen. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2013; Angels and Monsters in the House: Essays

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dopoguerra – con un picco nel 1963 a seguito della pubblicazione di Eichmann in Jerusalem: A Report on

the Banality of Evil di Hannah Arendt – si è, infatti, prodotto un imponente fenomeno che Hilene Flanzbaum

ha ribattezzato “americanizzazione” (1999, 91-104) della Shoah, ovvero il progressivo radicamento della lezione morale e della memoria di tali eventi nella coscienza storica degli ebrei statunitensi. Una posizione, questa, condivisa da Peter Novick, secondo cui “The leaders of the American Jewry, who once upon a time had sought to demonstrate that Jews were just like everybody else, except more so, now had to establish, both for Jews and gentiles, what there was about Jews that made them different” (7). L’immane tragedia della Shoah ha così finito per colmare, in via negativa, una lacuna identitaria della comunità ebraica statunitense, producendo un consenso collettivo e assurgendo a simbolo di unione.

Un contributo rilevante ai fini della predetta reviviscenza è giunto altresì da una serie di trasformazioni politiche e sociali occorse in ambito nazionale e internazionale: in primis, la schiacciante vittoria di Israele contro il mondo arabo nella Guerra dei Sei Giorni, nel 1967; in secondo luogo, la dissoluzione della New Left statunitense – la sinistra radicale che aveva annoverato schiere di ebrei tra i propri militanti –, istituzionalizzata e inglobata nei ranghi del partito democratico; in ultimo, la compenetrazione tra nascenti movimenti religiosi ebraici e lo spirito riformista e innovatore della controcultura tipica degli anni Sessanta. Siffatta sinergia ha concorso ad allargare gli orizzonti della rigida liturgia giudaica, infondendovi nuova linfa vitale, grazie soprattutto all’apertura all’universo muliebre di alcuni rituali tradizionalmente maschili (Dickstein 1987, 33).

1. Il primo atto della “Jewish Renaissance”

Appuntando lo sguardo sulla produzione letteraria ebraico-americana tra il 1965 e il 1970, si riscontra, non a caso, una coorte di autori esordienti che, avendo superato le problematiche legate all’esperienza post-migratoria, ossia l’adattamento alla realtà statunitense – specialmente l’annoso conflitto tra gli imperativi categorici propri dell’universo spirituale della patria scritturale e le pragmatiche urgenze di quella d’elezione – si caratterizza per un’intensa pulsione autoreferenziale. In particolare, emerge la volontà comune di riscoprire e riattualizzare, valorizzandole, le proprie radici culturali, ponendo in primo piano la dimensione religiosa.Tra i nomi più autorevoli, figurano Chaim Potok, Hugh Nissenson, Leslie Epstein, Richard Elman, Jerome Weidman, Arthur A. Cohen e Cynthia Ozick, scrittrice a cui è dedicato il presente studio.1

1 Questo revival si manifesta attraverso una serie di interessanti modulazioni. Il rabbino Chaim Potok, per esempio, appunta l’attenzione sui conflitti interni al giudaismo ortodosso statunitense. Il tema, a lui particolarmente caro, è al centro della sua opera prima, The Chosen, pubblicata nel 1967 – in cui realizza un convincente ritratto di una comunità chassidica di origini russe radicata nel cuore di New York City – e dei romanzi successivi. Lo ritroviamo, infatti, nel sequel di The Chosen, intitolato The Promise, pubblicato nel 1969, nonchè, più tangenzialmente, in My Name is Aher Lev, del 1972 e in In the Beginning, del 1975. Hugh Nissenson, invece, scrittore di formazione secolare ma analogamente dotato di una spiccata sensibilità teologica – evidente fin dalla sua opera d’esordio, A Pile of Stones, uscita nel 1965 – concepisce la religione come una sorta di pulsione irrefrenabile, un’urgenza che trascende la specificità confessionale, e resiste al trascorrere del tempo e alle cesure storiche. Per altri autori, in primo luogo Leslie Epstein e Richard Elman, il recupero dello specifico giudaico si attua, invece, su un piano principalmente storico, legato alla rappresentazione degli eventi della Shoah. Un’altra figura interessante è Arthur A. Cohen, teologo di professione approdato alla letteratura nel 1967. Al cuore del suo vasto universo teorico sussiste la convinzione che, all’indomani della Shoah, concettualizzata nei termini di “tremendum,” la cultura letteraria possa e debba assolvere un ruolo di primo piano non solo come contraltare al paradigma etnico che ha lungamente caratterizzato la narrativa ebraico-americana, bensì anche ai fini della stessa sopravvivenza spirituale del popolo ebraico, altrimenti destinato a soccombere alle pressioni del secolarismo della cultura egemone. Nel 1972, Cohen pubblica il suo magnum opus, In the Days of Simon Stern. In una modalità fantastica che ricorda da vicino The Pagan Rabbi di Cynthia Ozick, del 1971, il romanzo rivisita, evocandole, alcune tra le cesure più profonde della storia ebraica: la distruzione del tempio di Salomone, il frantumarsi delle speranze messianiche riposte in Shim’on Bar Kokhba e in Sabbatai Sevi e, ultimo ma certamente non meno importante, il “tremendum.” La narrazione si configura come un tentativo di suturare tali vulnera proponendo, in una modalità omiletica tipica della Aggadah, un paradigma di condotta volto alla continuità del popolo giudaico e alla speranza della redenzione. A tal riguardo, mi permetto di rinviare al mio volume

Dalla teologia alla letteratura: il caso di Arthur A. Cohen. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2016. Il tema messianico introdotto da Cohen viene ripreso, nel 1975, da Jerome Weidman nel romanzo The Temple, incentrato sulla parabola esistenziale di un tycoon ebreo dalle fosche origini, probabile rappresentazione

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Tale fenomeno, una rinascenza giudaica a tutti gli effetti, è stato oggetto di una serie di puntuali ricognizioni generali, pubblicate a partire dal 1973. Alvin Rosenfeld è stato il primo critico a notare sostanziali novità (1977, 15-30), individuando, infatti, nell’ambito del romanzo ebraico-americano del periodo, un notevole interesse spirituale, preludente a una letteratura animata dall’obiettivo di sollevare interrogativi che, in passato, erano stati prerogativa esclusiva della teologia; sulle medesime posizioni si è attestata, nel 1976, Ruth Wisse (1976, 40-45). Qualche anno dopo, anche Alan Berger ha evidenziato il profondo impegno teologico inscritto nella produzione dell’epoca, impegno incentrato su questioni assurte a rilevanza cruciale dopo la cesura storica della Shoah: “the contemporary divine-human encounter reveals a diminished deity; the necessity of a contemporary restatement of the meaning of covenant (…), and a search for redemption” (1990, 232).2

Pur pregevoli, queste rassegne non hanno, tuttavia, approfondito l’analisi del contributo individuale dei vari esponenti, in tal modo trascurando il ruolo di teorizzatrice e portavoce esercitato da Cynthia Ozick nell’ambito della predetta rinascenza, funzione assolta efficacemente attraverso l’ampio repertorio saggistico che ha contraddistinto la scrittrice fin dagli esordi, avvenuti alla fine degli anni Sessanta.

Una lacuna, questa, che ci proponiamo di colmare nel presente studio. In primo luogo, daremo conto di come Ozick abbia saputo formalizzare l’esigenza, presagita nel clima culturale e letterario statunitense tra il 1965 e il 1970, del già citato recupero dei principi spirituali e religiosi caratteristici dell’ebraismo, lanciando un vero e proprio appello programmatico agli intellettuali e scrittori coevi, suoi correligionari, affinché valorizzassero tale eredità in ambito letterario, per assicurare la continuità di una tradizione altrimenti a rischio di scomparsa. In secondo luogo, affronteremo la riflessione, condotta sempre da Ozick, sulla figura dello scrittore ebreo impegnato in questa riviviscenza teologica, ruolo, a suo dire, problematico, in quanto sostanzialmente antinomico. L’autrice rileva, infatti, una tensione tra le opposte istanze della Legge e dell’arte, ossia tra il divieto di idolatria proprio del monoteismo giudaico e le dinamiche dell’atto creativo, il quale sottende una forma di invenzione ex-nihilo contraria al secondo comandamento. Inizialmente ritenute inconciliabili, tali dimensioni trovano, secondo Ozick, un terreno comune in una forma di “iconografia immaginativa” di matrice romantica.

2. Ozick e la formulazione programmatica

Nel 1970, Cynthia Ozick ha intrapreso un viaggio a Rehvotov, in Israele, per partecipare a un convegno, di ricorrenza annuale, incentrato sullo stato dei rapporti fra la comunità ebraica statunitense e quella locale. La sua relazione, intitolata “America: Toward Yavneh,” pubblicata nello stesso anno sulla rivista Judaism, costituisce una replica di carattere antinomico alle tesi espresse due anni prima nella medesima sede da George Steiner.

Il tema fondante dell’intervento steineriano è una concezione diasporica dell’ethos giudaico: a suo giudizio, il popolo ebraico avrebbe avuto, nel corso dei secoli, una sola, vera patria – radicata, dunque, nel tempo, e non nello spazio – la Torah. In virtù di questa comunanza esclusivamente religiosa, Steiner definisce i propri correligionari come

della tradizione del Messia della guerra, figura a cui è ascritto uno spiccato talento finanziario che gli consente di conquistare una posizione di leadership illuminata nel mondo. L’uomo si propone l’impresa di edificare un analogo del Tempio di Re Salomone nel cuore dello Stato di New York, in un’area residenziale esclusiva, tradizionalmente prerogativa di gentili conservatori e antisemiti. Sempre negli anni Settanta, si affaccia sulla scena letteraria nazionale un ulteriore nucleo di esordienti di talento, quali Mark Helprin e Jay Neugeboren, scrittori anch’essi accomunati dall’intento di promuovere e valorizzare le comuni radici ebraiche, in questo caso appuntando l’attenzione sulla catastrofe della Shoah.

2 Del medesimo avviso sono: Alvin Hirsch Rosenfeld. “The Progress of the American Jewish Novel.”

Response 7 (1973): 115-130; Lothar Kahn. “American-Jewish Literature after Bellow, Malamud, and Roth.”

Jewish Book Annual, 45 (1987-1988): 5-18; Adam Meyer. “Putting the ‘Jewish’ Back in ‘Jewish American Fiction.’ A Look at Jewish American Fiction since 1977 and an Allegorical Reading of Nathan Englander’s

The Gilgul of Park Avenue.” Unfinalized Moments: Essays in the Development of Contemporary Jewish

American Fiction. A cura di Derek Royal. West Lafayette: Purdue University Press, 2011. 153-68; Lillian S.

Kremer. “Post-Alienation: Recent Directions in Jewish-American Literature.” Contemporary Literature 3 (1993): 571-591.

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by definition, conscientious objectors: to the vulgar mystique of the flag and the anthem, to the sleep of reason which proclaims “my country, right or wrong,” to the pathos and eloquence of collective mendacities on which the nation-state – be it mass-consumer mercantile technocracy or a totalitarian oligarchy – builds it power and aggression. (1985, 21)

Il pensatore franco-statunitense concepisce il Galut – l’esilio da Israele – non già come un doloroso limite, quanto invece come un privilegiato stato ontologico: segnatamente, nei termini di un’intrinseca, imprescindibile missione, il cui compimento contribuisce a realizzare pienamente le potenzialità ebraiche. A suo dire, lo stato di perenne sradicamento e la relativa posizione di marginalità – egli descrive i suoi correligionari come Luftmenschen – preluderebbero a una prospettiva obliqua sulla realtà, favorendo uno sguardo oggettivo e distaccato: una visione universale – e, come tale, nobile – libera dal rischio di miopi localismi. L’esilio, secondo Steiner, costituirebbe, dunque, la chiave di volta del successo riscosso nei più svariati ambiti da figure di origine ebraica: da Marx a Freud, da Chomsky a Kafka, da Spinoza a Heine (Ozick 1983, 155-157).

Riflettendo sullo stato della coeva letteratura ebraico-americana, Cynthia Ozick si scaglia contro questa esaltazione della diaspora, una cultura, a suo avviso, fondata su una presunzione di supremazia assoluta della civiltà occidentale e della tradizione cristiana (1983, 157) su quella giudaica. Nello specifico, Ozick contesta la concezione steineriana del Galut come forza propulsiva di un preteso universalismo, che la scrittrice ritiene invece una forma estrema di “provincialismo” ebraico. La sua disapprovazione non si limita, tuttavia, al solo pensiero di Steiner, ma si estende a una schiera di intellettuali e scrittori – tra cui annovera Leslie Fiedler, Allen Ginsberg e Philip Roth – ai suoi occhi, rei di aver negato il valore delle proprie origini, poiché vittime del Jewish self-hatred, la ben nota propensione ebraica all’autodenigrazione (1983, 171). Secondo l’autrice, la sola forma di universalismo compatibile con la tradizione ebraica è di matrice teologica; ogni altra declinazione costituirebbe una violazione del secondo comandamento, il culto idolatrico di un’entità altra da Dio:

When George Steiner speaks of universalism and calls it Jewish ... I agree that universalism is of course a Jewish impulse… Jewish universalism emphasizes that the God of Israel is also the God of mankind-in-general. It does not claim that mankind-in-general must be the god of Israel. To celebrate what the "harrying" of Diaspora does for the Jew is somehow also to celebrate the harrying. You cannot praise the consequences without having some of your praise stick to its brute instrumentality. An idol is a-thing-that-subsists-for-its-own-sake-without-history; significantly, that is also what a poem is; and even universalism can become tainted if it is turned into an idol or a poem. (1983,155)

In questa luce, la scrittrice ribadisce la propria contrarietà a posizioni che risolvano la storia ebraica nel Galut (Brown 66). Non a caso, puntualizza come, nel corso del tempo, i vertici espressivi in ambito letterario siano stati raggiunti a partire da tradizioni locali, nel rispetto delle peculiarità culturali; a tal riguardo, adduce illustri esempi: “Dante made literature out of an urban vernacular, Shakespeare spoke to a small island people, Tolstoy brooded on upper-class Russians, Yeats was the kindling for a Dublin-confined renascence” (1983, 168). “(…) Who is more narrow in scope than Don Quixote, hailed as the most universal of character types?” (Statlander-Slote e Farkas 94).

Al contrario, prosegue Ozick, un eventuale livellamento, sul piano tematico e/o formale, dei tratti specifici di una cultura, in ossequio a malriposte ambizioni di grandeur universalistica, non avrebbe altro esito se non una rapida dissoluzione della tradizione stessa. Scrive, infatti, l’autrice: “The annihilation of idiosyncrasy assures the annihilation of culture (...). Whenever we in Diaspora make a literature that is of-the-nations, relying on what we have in common with all men, what we fashion turns out to be a literature of instinct, not of singularity of culture; it does not deserve perpetuation” (1983, 168-169).

Sulla scorta di queste premesse, Ozick lancia un appello programmatico ai suoi correligionari scrittori e intellettuali, esortandoli a unire le forze allo scopo di restituire centralità alla dimensione ebraica del Paese. L’autrice chiarisce i termini della proposta formulando un auspicio di particolare valore simbolico per la sua gente: intraprendere coralmente una rigenerazione culturale, finalizzata a trasformare l’America in una

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“seconda Yavneh” (1983, 174), replica della prestigiosa accademia fondata dal Rabbino Yohahan ben Zakkai, ultima roccaforte del culto del Libro ed estremo lacerto della patria scritturale del popolo ebraico. In una nazione come gli Stati Uniti, “where people speak a Gentile language and breathe a Gentile culture” (Ozick 1983,174), tale impresa può, secondo Ozick, compiersi unicamente attraverso una massiccia “contaminazione giudaica,” da realizzarsi in primo luogo sul piano linguistico. La scrittrice auspica, infatti, la creazione di una lingua letteraria e culturale rispettosa dell’esperienza ebraica negli Stati Uniti, “spoken to Jews by the Jews, written by Jews for Jews” (Ozick 1983, 174): un’unione creativa e feconda tra la tradizione e l’innovazione, ossia tra l’yiddish e l’inglese – rispettivamente, l’idioma comune del popolo ebraico nell’epoca precedente il vulnus della Shoah, e quello materno della maggior parte dei giudei della diaspora. A questo ibrido linguistico, Ozick attribuisce l’ambizioso appellativo di “New Yiddish,” una forma di “anglo-giudaico” atto a esprimere e rappresentare “our need, our possibility, our overwhelming idea” (1983, 174-175). Una soluzione di compromesso, questa, volta per un verso a evitare un alienante arroccamento degli intellettuali ebrei sulla propria tradizione – fenomeno che avrebbe favorito l’espressione nella sola lingua yiddish – e, per converso, tesa a scongiurare una resa incondizionata di questi ultimi all’egemonia della cultura anglofona.

Il progetto, animato da fervidi intenti utopistici ma di ardua realizzazione pratica (Wisse 1976, 41), è stato ben presto ridimensionato dalla stessa Ozick. Già nel 1976, nella prefazione a Bloodshed, la scrittrice ha riconosciuto, non senza amarezza, il carattere irriducibilmente “cristiano” dell’inglese e la sua conseguente resistenza alle profondità della tradizione ebraica: “there is no way to hear the oceanic amplitudes of the Jewish Idea in any... word of phrase” (Ozick 1976, 9-10). In una nota a “Toward a New Yiddish,” pubblicata alcuni anni dopo, Ozick ha sminuito ulteriormente la teoria del “New Yiddish,” definendola “an invention, a literary conceit calculated to dispel pessimism” (1983, 152).

3. La scrittura “liturgica”

Se l’utopia linguistica è immediatamente sfumata, il proposito di valorizzazione in chiave religiosa dello specifico giudaico nel panorama culturale statunitense è stato, tuttavia, perseguito con forza dalla scrittrice nel corso della sua lunga e feconda carriera. Il suo macrotesto, narrativo e saggistico, si distingue, infatti, per l’incondizionata devozione a un nucleo programmatico sintetizzato nei termini di “Jewish Idea.”

Secondo Ozick, una produzione letteraria che ambisca a rappresentare il popolo del Libro non può che attingere alla liturgia:

Liturgy has a choral voice, a communal voice: the echo of the voice of the Lord of History. (...) In all of history the literature that has lasted for Jews has been liturgical. The secular Jew is a figment; when a Jew becomes a secular person he is no longer a Jew. This is especially true for makers of literature. It was not only an injunction that Moses uttered when he said we would be a people attentive to holiness: it was a description and a destiny. When a Jew in Diaspora leaves liturgy (…) literary history drops him and he does not last. (1983, 168-169)

Come emerge dal saggio “Bialik’s Hint” (1989, 224) Ozick intende, infatti, la letteratura come la rammemorazione e celebrazione del “Covenant,” l’Alleanza, nonché dei rituali, comandamenti e valori fondanti dell’ebraismo, ovvero quel patrimonio scritturale che, da sempre, svolge la funzione di collante identitario privilegiato, patria e “casa” comune.

Di conseguenza, Ozick ricusa recisamente concezioni, particolarmente in voga nella cultura postmoderna, fondate sull’autonomia del testo letterario, inteso come universo in sé conchiuso e autoreferenziale. Condannando tali forme come “narcisistiche” (1983, 87), enfatizza la centralità assoluta del senso: “What literature means is meaning… literature is for the sake of humanity” (246-247). La sua idea di romanzo contempla, infatti, una forma omiletica ed edificante, profondamente radicata nell’esperienza umana (245-246), a cui impartisce l’appellativo di “Novel of the Deed” (87); la funzione didascalica del medium romanzesco, puntualizza inoltre l’autrice, è imprescindibile poiché strumentale al sacro obiettivo finale ebraico della redenzione (245).

Nel suo studio “Innovation and Redemption: What Literature Means” l’autrice spiega come l’ideale di riferimento della sua produzione sia di origine biblica, segnatamente l’Aggadah (1983, 194-195), la

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“principale forma letteraria” del popolo ebraico e la “classica espressione del suo spirito” (Bialik e Ravnitzky 1992, 4-5). L’Aggadah si incentra sulle verità e gli insegnamenti più profondi della tradizione, originariamente trasmessi “dai Sapienti alle loro comunità a partire dal legame che univa il predicatore agli ascoltatori” (Fraenkel 1). Si tratta di un patrimonio di stampo rabbinico costituito da racconti, aneddoti, cronache storiche e folkloriche, esortazioni morali, midrashim – vale a dire, interpretazioni dei passi biblici più significativi – nonchè da una serie di indicazioni pratiche estese a ogni aspetto dell’esistenza.Tra le sue caratteristiche principali vi è un’intensa propensione edificante, una vocazione alla divulgazione di densi principi teologici attraverso un linguaggio essoterico e suggestivo (Bialik e Ravnitzky XIX).

4. La fisionomia ossimorica dello scrittore ebreo

In conformità con il modello aggadico, l’ideologia letteraria di Cynthia Ozick si fonda su due pilastri gemelli, rispettivamente l’osservanza della tradizione e la vocazione moralistica. La scrittrice si richiama, infatti, esplicitamente, sia all’imperativo categorico alla memoria, sia all’ingiunzione biblica, inscritta nel quinto comandamento, al rispetto per i propri padri. In questa luce, promuove una concezione della letteratura all’insegna della continuità. Questa enfasi sulla tradizione genera un conflitto tra le opposte esigenze della religione ebraica e dell’arte, conflitto che si attesta al cuore dell’intera produzione, narrativa e saggistica, della scrittrice americana.

Non a caso, nel macrotesto di Ozick si riscontra una concezione del Jewish writer nei termini di un paradosso,3 “a contradiction in terms” (Materassi 1992, 90). In un’intervista rilasciata nel 1993, Ozick ha illustrato una fondamentale discrepanza tra l’essere ebreo e l’essere scrittore: “To be a Jew is an act of the strenuous mind as it stands before the fakeries and lying seductions of the world, saying no and no again as they parade by in all their allure. And to be a writer is to plunge into the parade and become one of the delirious marchers” (Kauvar 393). Il nodo problematico, secondo l’autrice, è quello della poiesi: da ebrea osservante, crede fermamente che la creazione sia prerogativa esclusiva del Divino; in tal senso, qualunque invenzione ex-nihilo si configura come una forma di idolatria.

Tale tema è stato ampiamente dibattuto anzitutto nella tradizione giudaica. Nel volume Idolatry, Moshe Halbertal e Avishai Margalit hanno compilato una rassegna delle principali declinazioni della categoria di

Avodah Zarah, in ebraico “il culto estraneo, anomalo.” Tra queste, essi rilevano, in primo luogo, la rappresentazione tipica delle narrazioni bibliche, che vede l’idolatria come la rottura dell’esclusività in una metaforica relazione erotico-amorosa fra l’essere umano e il Divino, un’infedeltà commessa attraverso la venerazione di un falso dio. In seconda istanza, citano la lettura filosofico-razionale di Maimonide, secondo cui l’idolatria sarebbe il portato di un errore metafisico, innanzi tutto l’errore collettivo delle masse che, fuorviate dalla propria stessa immaginazione, si creano un’immagine falsa di Dio. A essa segue la concezione di Nachmanide, nei termini di venerazione “ribelle” di vari elementi creati dal Divino stesso: rispettivamente, angeli, demoni e costellazioni. Ultima, ma non meno significativa, è la visione di Jehudà Ha-Levì, che rileva l’idolatria in tutte le forme di adorazione aliene a quelle stabilite da Dio.

Alla luce di queste interpretazioni, gli autori pervengono alla conclusione che, sebbene la concezione generica di idolatria, e la relativa proibizione, siano fondamentali ai fini dell’auto-definizione dell'ebraismo, una formulazione più precisa non sia possibile. Halbertal e Margalit attribuiscono tale circostanza all’instabilità, nel tempo, della concezione del Divino e, di conseguenza, anche della sua negazione e/o distorsione, vale a dire i falsi dei (Halbertal e Margalit 1992, 7-8).

Non sorprenderà, dunque, come, nell’elaborare la propria visione, Cynthia Ozick si astenga da un tentativo – si è visto, titanico, se non impossibile – di classificazione specifica, limitandosi a qualificare l’idolatria come una pratica antitetica alla civiltà: “to work at idol-making” – ovvero, quanto, nei suoi termini, è creazione letteraria – “is not only to go against the world’s grain but to consort with it in the most ancient, intimate, sibylline and Delphic way” (1983, 198). L’autrice appunta, non a caso, l’attenzione sugli aspetti barbarici, primitivi e retrivi dell’idolatria, richiamandosi esplicitamente alle antiche liturgie sacrificali dedicate al dio

3 Un filone critico ha esplorato la dimensione conflittuale dell’ideologia letteraria di Ozick. Si vedano, a tal riguardo, Victor Strandberg. Greek Mind/Jewish Soul. The Conflicted Art of Cynthia Ozick. Madison: The University of Winsconsin Press, 1994; Daniela Fargione. “Cynthia Ozick. A Jewish Woman Writer and her Many Paradoxes”. Studi e Ricerche. Quaderni del Dipartimento di Scienze del Linguaggio e Letterature Moderne Comparate dell’Università degli Studi di Torino. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2008. 149-169.

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Moloch, che prevedevano la morte espiatoria di infanti. Una deliberata soppressione di ogni forma di pietà umana (1983, 190), questa, il cui riflesso è riscontrabile, secondo Ozick, in ogni atto idolatrico, anche in quello in apparenza più innocente:

Like a toy or like a doll – which, in fact, is what an idol is – it lures human beings to copy it, to become like it. It dehumanizes. When we see a little girl who is dressed up too carefully in starched flounces and ribbons and is admonished not to run in the dirt, we often say, She looks like a little doll. And that is what she has been made into: the inert doll has become the model for the human child – dead matter rules the quick. That dead matter will rule the quick is the single law of idolatry. (1983, 189)

Ozick ha affrontato con maggiore completezza la questione nell’articolo del 1979 intitolato “Literature as Idol: Harold Bloom,” dove ha contestualizzato la problematica dell’idolatria (e il relativo divieto) nell’ambito peculiare dell’arte, in primis nella creazione letteraria. A tal riguardo, ha esaminato l’opus di Harold Bloom, al cui interno rileva il germe del sopra richiamato Avodah Zarah – non a caso, assimila la figura dello studioso statunitense a quella di un moderno Terach.

Ozick appunta l’attenzione, in primo luogo, sulla peculiare metodologia ermeneutica di Bloom, fondata su

collages di connessioni extratestuali (1983,180). Il primo rilievo di Ozick si incentra anzitutto sull’impiego, da

parte di Bloom, di categorie interpretative di matrice giudaica, in modalità e contesti secondo l’autrice inappropriati poiché in aperta violazione dei princìpi religiosi dell’ebraismo stesso – in specie del già citato secondo comandamento. Si prenda ad esempio la Kabbalah, che Bloom spoglia del suo spirito originario, mistico ed esoterico, e trasforma in un sistema ermeneutico autonomo. Nell’ottica dell’autrice, egli attribuisce in tal modo all’oggetto “creato” un valore di realtà ultima, valore in aperto contrasto con l’esistenza e le prerogative del Creatore. L’apparato concepito dall’intellettuale americano non avrebbe, infatti, titolo a tale consistenza, non essendo consustanziale né all’umano, né al divino. Per un verso, infatti, è alieno al mondo e all’umanità in generale ma, al contempo, anche a Dio. Frapponendosi tra questi due ambiti, esso assume, secondo Ozick, l’inconfondibile e sinistra fisionomia di un idolo.

All’interno del saggio, Ozick appunta altresì l’attenzione sulla teoria dell’influenza poetica sviluppata dal critico statunitense. Si consideri quanto Bloom scrive in Kabbalah and Criticism:

A modem poem begins with a clinamen that depends upon the renunciation of an earlier poem. But this renunciation must be dialectical. The earlier poem (or poet) is concentrated (which means also contracted) and made to vacate part of himself. Since the precursor has been internalized, a crucial mental space in the ephebe is being voided. Creation begins therefore with an element in the self contracting to a primordial point. (2005, 40-41)

Bloom riconosce il debito dell’artista nei confronti della tradizione: senza un rapporto con l’eredità dei propri precursori, la stessa sfera poetica non potrebbe esistere. Tuttavia, secondo lui, il poeta tenderebbe a sgravarsi del peso di questa influenza, distanziando la propria opera da quella precedente e contraendo il linguaggio “fino a renderlo differente da sé, creando un nuovo idioma simile a quello precedente, e tuttavia assolutamente diverso” (Orsini 2008, 4).

Ozick bolla queste posizioni bloomiane nei termini di una “dialettica del revisionismo” (1983, 183), ossia “a breaking off with the precursor; a violation of what has been transmitted; a deliberate offense against the given, against the hallowed” (1983, 185). Essendo radicata nella discontinuità, tale concezione poetica, precisa Ozick, risulta incompatibile con la tradizione ebraica, fondata sulla memoria e sul relativo auspicio di “recapture the strength, unmediated, of Abraham and Moses” (1983, 195), ovvero di recuperare la visione originaria. “In Jewish thought,” ella puntualizza, “there are no latecomers... Transmittal signifies the carrying-over of the original strength” (1983, 194).

In questa luce, prosegue Ozick, attribuire a un precursore un ruolo di modello ispiratore – in termini cari all’autrice, “nutrimento” (1983, 191) a cui attingere significato e, al contempo, da cui distanziarsi ai fini dell’atto creativo – equivale a conferirvi una consistenza semantica propria, qualificandolo come un sistema autonomo, in sé conchiuso, dotato di “vita” propria e, in tal modo, innalzato, sempre nell’ottica di Ozick, alle

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proporzioni di un idolo – una sfida al monoteismo giudaico. “Just as an idolator takes away from his contemplation of an idol whatever his psychological hunger requires,” scrive Ozick, “so does the new poem take from the older poem whatever it needs for life” (1983, 191).

Questa linea di ragionamento precluderebbe, dunque, agli ebrei il ruolo poetico: “Based on Bloomian premises,” spiega l’autrice, “it comes down to this: no Jew may be idolator or idol maker; poems are the products of strong imaginations, and poets are dangerously strong imaginers, vampirishly living on the blood of earlier imaginers, from Moloch to Moloch; no Jew ought to be a poet” (1983, 193).

Nella sua accurata analisi del macrotesto in oggetto, Ozick si sforza, nondimeno, di intravedere uno spiraglio anti-idolatrico. Appuntando l’attenzione su The Anxiety of Influence, infatti, ella enuclea un commento di Bloom in merito alle “umane lettere.” Tale accostamento, a giudizio del critico newyorchese, risulterebbe antinomico: “(…) the living labyrinth of literature is built upon the ruin of every impulse most generous in us. (…) We are wrong to have founded a humanism directly upon literature itself, and the phrase ‘humane letters’ is an oxymoron…. The strong imagination comes to its painful birth through savagery and misrepresentation” (Ozick 1983, 192). Il giudizio di inconsistenza etica ivi formulato è interpretato da Ozick come una condanna morale della poiesi.

La scrittrice termina la sua ricognizione sottolineando la fisionomia fondamentalmente ambivalente delle posizioni bloomiane nei confronti della creazione letteraria, caratterizzate da una tensione tra un atteggiamento idolatra, assimilabile a quello del già citato patriarca Terach, e un rigore iconoclasta paragonabile a quello di suo figlio Abramo. Entrambe le dimensioni paiono inoltre inscindibili, vincolate in una relazione dialettica tra l’atto creativo, definito dall’autrice, con terminologia tipicamente romantica, “conjuring” e l’atto redentivo, il “purifying”: “If there can be such a chimera as a ‘Jewish writer,’ it must be the kind of sphinx or gryphon (part one thing, part another) Bloom himself is, sometimes purifying like Abraham, more often conjuring like Terach, and always knowing that the two are icily, elegiacally, at war” (Ozick 1983, 198).

L’articolo su Bloom non esaurisce la riflessione di Ozick sul tema dell’idolatria, oggetto di una lunga gestazione conclusa soltanto nel 1987 con un’intervista rilasciata a Tim Teicholz per la Paris Review:

Until quite recently I held a rather conventional view about all this. I thought of the imagination as what its name suggests, as image-making, and I thought of the writer’s undertaking as a sovereignty set up in competition with the sovereignty of – well, the Creator of the Universe. I thought of imagination as that which sets up idols, as a rival of monotheism. I’ve since reconsidered this view. I now see that the idol-making capacity of imagination is its lower form, and that one cannot be a monotheist without putting the imagination under the greatest pressure of all. To imagine the unimaginable is the highest use of the imagination. I no longer think of imagination as a thing to be dreaded. Once you come to regard imagination as ineluctably linked with monotheism, you can no longer think of imagination as competing with monotheism. Only a very strong imagination can rise to the idea of a noncorporeal God. The lower imagination, the weaker, falls into the proliferation of images. (Teicholz 1987,167-168)

Il ragionamento di Ozick si basa sul presupposto che la religione ebraica, fondata sul principio dell’aniconismo – il Comandamento divino di non rappresentabilità del mondo imposto a Mosé sul Sinai – costituisca di per sé una sfida monumentale per la facoltà immaginativa, costretta da sempre a concepire “l’essenza senza attributo, senza ritratto” (Kauvar 394). L’autrice sembra riferirsi a problematiche rilevanti quali la traduzione e trasmissione sia delle profezie, sia della parola rivelata, e alla tradizione della verità invisibile, complessità che il linguaggio non sarebbe sempre in grado di affrontare e restituire in maniera soddisfacente. Ozick pare affermare come la religione ebraica compensi tale mancanza attraverso l’immaginazione – ovvero grazie a una forma di rappresentazione mentale che potremmo arrischiarci a definire di “iconografia immaginativa.” Tale facoltà, che l’autrice, richiamandosi nuovamente alle teorie dei poeti romantici, qualifica come “higher imagination,” si configurerebbe come “the imagination that can imagine the imaginable, the imagination that invented monotheism – this posits God” (Kauvar 1993, 395). In questa luce, non costituirebbe una violazione del secondo comandamento, di fatto legittimando, ai sensi delle Sacre Scritture, l’esistenza del Jewish writer – non più nei termini di una “chimera,” ma una figura in

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carne e ossa, radicata nella storia, nel mondo reale, investita della missione di realizzare la peculiare simbiosi tra letteratura e teologia al cuore dell’ideologia di Cynthia Ozick.

5. Conclusioni: il Kaddish può attendere…

Per quanto ambiziosa, a tratti irrealizzabile, la formulazione di Ozick ha avuto il merito di attirare l’attenzione degli intellettuali statunitensi suoi correligionari sulla necessità di un mutamento di paradigma ai fini della continuità della tradizione giudaica nel Paese.

Grazie all’innesto fecondo di elementi propri del comune patrimonio spirituale e religioso, la letteratura ebraico-americana – ben lungi dall’esaurirsi, come invece annunciato dalle “cassandre” Howe e Fiedler – ha, infatti, acquisito nuova linfa vitale. Non a caso, il predetto Jewish literary revival degli anni Settanta è stato seguito, a partire dal decennio successivo, da una nuova fase evolutiva, definita da Alan Berger (1990, 121-122) e Susanne Klingenstein (1999, 83-92) come il terzo e, a loro giudizio, il più ricco, atto della letteratura ebraico-americana.

Tra le linee figurali di spicco, Berger, Klingenstein e Thomas Friedman (1989, 67-77) hanno rilevato un rilancio dell’ortodossia – una questione rilevante, già lungamente esplorata dagli autori di prima generazione (specie per quanto attiene all’ardua esperienza d’immigrazione e integrazione negli Stati Uniti, da Abraham Cahan e da Anzia Yezierska) e ripresa, con successo, negli anni Settanta, da Chaim Potok. Un tema che, negli anni Ottanta, è rielaborato da una schiera di nuove voci letterarie – tra cui citiamo Steve Stern, Melvin Bukiet, Rebecca Goldstein, Anne Roiphe – interessate, in particolare, al rapporto tra l’ortodossia e le sfide, sempre più pressanti, della modernità.

Nello stesso decennio, si riscontra, inoltre, un ulteriore approfondimento delle problematiche relative alla Shoah, interesse che si traduce in una serie di opere realizzate per lo più da una prospettiva di seconda generazione: oltre alla novella di Cynthia Ozick The Shawl, del 1980, ricordiamo Damaged Goods di Thomas Friedmann, del 1984, la pluripremiata graphic novel di Art Spiegelman Maus: A Survivor’s Tale, del 1986, Summer Long-a-Coming di Barbara Finkelstein e White Lies di Julie Salamon, entrambi del 1987. Questa riviviscenza religiosa ha continuato a dare i suoi frutti anche negli anni Novanta, quando hanno fatto la loro comparsa sulla scena letteraria nazionale autori di talento, a tutt’oggi attivi, del calibro di Nathan Englander e Allegra Goodman.

In questa luce, ci sembra plausibile affermare che, nel caso della letteratura ebraico-americana, il tempo del Kaddish non sia ancora giunto.

Opere citate

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