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Diritto delleRelazioniIndustriali

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(1)

Diritto delle

Relazioni

Industriali

Rivista trimestrale già diretta da

MARCO BIAGI

Pubblicazione T

rimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) arti

colo 1, comma 1, DCB (V

ARESE)

RiceRche La solidarietà intergenerazionale nella tutela pensionistica

inteRventi La “soggettivazione regolativa” nel diritto del lavoro

RelazioniindustRialieRisoRseumane Contratto di rete e disciplina dei rapporti di lavoro Democrazia e libertà endosindacale OSSERVATORIO DI GIURISPRUDENZA ITALIANA Opinioni a confronto sulla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 Licenziamento illegittimo e trasformazione volontaria del rapporto a termine Prime pronunce sul nuovo art. 4 della l. n. 300/1970 Malattia derivante da vessazioni sul lavoro ed indennizzabilità Discriminazioni di genere, inquadramento giuridico e tutela sostanziale

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo Sul principio di buon andamento nei rapporti di lavoro nelle PA La violazione dei termini contrattuali del procedimento disciplinare

legislazione, pRassiamministRativeecontRattazionecollettiva Il diritto alle ferie nel lavoro a domicilio penitenziario Il “decreto dignità” e la nuova disciplina del contratto a termine Contrattazione e collaborazioni ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015

giuRispRudenzaepolitichecomunitaRiedellavoRo Sull’abuso del contratto a termine nella PA

N. 1/XXIX - 2019

In questo numero

Diritto delle Relazioni Industriali

1

2019

Diritto delle Relazioni Industriali fa parte della

International Association of Labour Law Journals

(2)

Rivista fondata da Luciano Spagnuolo Vigorita e già diretta da Marco Biagi

Direzione

Tiziano Treu, Mariella Magnani, Michele Tiraboschi (direttore responsabile) Comitato scientifico

Gian Guido Balandi, Francesco Basenghi, Mario Biagioli, Andrea Bollani, Roberta Bortone, Alessandro Boscati, Umberto Carabelli, Bruno Caruso, Laura Castelvetri, Giuliano Cazzola, Gian Primo Cella, Maurizio Del Conte, Riccardo Del Punta, Raffaele De Luca Tamajo, Pietro Ichino, Vito Sandro Leccese, Fiorella Lunardon, Arturo Maresca, Luigi Mariucci, Oronzo Mazzotta, Luigi Montuschi, Gaetano Natullo, Luca Nogler, Angelo Pandolfo, Roberto Pedersini, Marcello Pedrazzoli, Giuseppe Pellacani, Adalberto Perulli, Giampiero Proia, Mario Ricciardi, Mario Rusciano, Giuseppe Santoro-Passarelli, Franco Scarpelli, Paolo Sestito, Luciano Spagnuolo Vigorita, Patrizia Tullini, Armando Tursi, Pier Antonio Varesi, Gaetano Zilio Grandi, Carlo Zoli, Lorenzo Zoppoli.

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Corso Strada Nuova, 65 – 27100 Pavia (Italy) – Tel. +39 0382 984013; Fax +39 0382 27202. Indirizzo e-mail: dri@unipv.it

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Direttore responsabile: Michele Tiraboschi

Rivista associata all’Unione della Stampa Periodica Italiana

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(3)

Il diritto stocastico.

La disciplina italiana dei licenziamenti

dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018

(e “decreto dignità”)

Armando Tursi

Sommario: 1. La Corte costituzionale italiana e il Conseil constitutionnel francese:

discrezionalità dei giudici o discrezionalità del legislatore? – 2. L’indennità e il

risarcimento. – 3. Un regime sanzionatorio geneticamente risarcitorio, ma

fun-zionalmente indennitario. – 4. L’ircocervo dell’indennità calibrata su parametri

oggettivi tipici, ma con struttura risarcitoria. – 5. Il diritto stocastico, le sue cause,

i suoi rimedi.

1. Secondo la Corte costituzionale italiana (1), la disciplina sanzionatoria del

licenziamento individuale ingiustificato, introdotta dal c.d. Jobs Act (2) per i

lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015 (3), «nella parte in cui determina

l’indennità in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di rife-rimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servi-zio”», contrasta con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza: con il pri-mo, «sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse», essendo l’indennità «uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità», mentre «il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori», dei quali «l’anzianità nel lavoro […] è […] solo uno dei tanti»; con il secondo, «sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiu-dizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente».

* Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano.

(1) Per una esauriente esposizione dei profili di costituzionalità scrutinati, si veda

M.T.CARINCI, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche

per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, Working Paper

CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 378. (2) Art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015.

(3) Per una esauriente esposizione dei profili di costituzionalità scrutinati, si veda

(4)

Non è invece irragionevole il differenziato regime applicabile ai lavoratori as-sunti, rispettivamente, fino al, o dopo il, 6 marzo 2015 (4); né l’importo

dell’indennità è da considerarsi esiguo alla luce del principio costituzionale di tutela del lavoro (5) e di quello europeo di congruità dell’indennizzo (6).

Il vulnus costituzionale imputabile al Jobs Act si anniderebbe, insomma, nella

modalità di determinazione dell’indennità, e precisamente nel suo essere basa-ta sull’«unico criterio dell’anzianità di servizio», anziché aperto ad una «plu-ralità di fattori» dei quali «l’anzianità nel lavoro […] è […] solo uno dei tan-ti»; e nel suo essere «automatico» (ossia, calcolabile aritmeticamente), mentre avrebbe dovuto essere aperto alla «discrezionalità valutativa del giudice». Colpisce come ciò sia l’esatto contrario di quanto affermato dal Conseil con-stitutionnel con la sentenza 5 agosto 2015, n. 715.

Chiamata a scrutinare la validité (inter alia) dell’articolo 266 della Loi Ma-cron (7) – che commisurava l’indennità per licenziamento ingiustificato a

mensilità retributive determinate in base a scale (barèmes) delimitate da

mas-simali (plafonnements) e minimali, a loro volta fissati in funzione

(4) Infatti, ad avviso della Consulta la differenziazione della disciplina dei

licenzia-menti a seconda che il recesso venga intimato nei confronti di un lavoratore assunto a decorrere dal 7 marzo 2015 o prima di tale data, sarebbe giustificata «dallo scopo, di-chiaratamente perseguito dal legislatore, di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione». Si veda M. CAVINO, Il contratto di lavoro a tutele crescenti al vaglio della Corte Costituzionale,

in AA.VV., La normativa italiana sui licenziamenti: quale compatibilità con la

Costi-tuzione e la Carta Sociale Europea? Atti del seminario in previsione dell’udienza pubblica della Corte Costituzionale del 25 settembre 2018 sulla questione di costitu-zionalità sul d. lgs n. 23/2015, Università degli Studi di Ferrara, 2018, § 5.

(5) Artt. 4 e 35, primo comma, Cost.

(6) Art. 24 della Carta sociale europea, che viene in rilievo quale norma interposta nel

giudizio di conformità della norma scrutinata rispetto agli artt. 76 e 117, primo com-ma, Cost. A tal proposito, non può passare inosservato, e appare francamente sconcer-tante, come la Corte, pur avendo affermato, in motivazione, che l’indennizzo minimo di quattro mensilità (diventate sei per effetto del c.d. “decreto dignità”) «è suscettibile di minare, in tutta evidenza, la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del dato-re di lavoro», e che «non dato-realizza un equilibrato contemperamento degli intedato-ressi in gioco», finendo «per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore in-giustamente licenziato», conclude poi in senso opposto nel dispositivo, laddove la censura di inadeguatezza dell(a misura minima dell)’indennizzo non viene accolta, giudicandosi incostituzionale il solo criterio dell’“anzianità crescente”. Si veda, sul punto, P.ICHINO, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta (nota a C. cost. 26 settembre 2018, n. 194/2018), in RIDL, 2018, n. 4, II, § 5.

(7) Loi n° 2015-990 du 6 août 2015 pour la croissance, l’activité et l’égalité des

(5)

dell’anzianità di servizio del lavoratore e della dimensione dell’impresa (8) – i

Sages hanno giudicato «legittima la norma che correla l’indennizzo

all’anzianità del lavoratore licenziato», ma «contrario al principio costituzio-nale di uguaglianza» «il criterio della dimensione dell’impresa», perché del tutto scollegato con il «pregiudizio subito dal lavoratore a causa della perdita dell’impiego»; risultandone così legittimato un assetto legislativo in cui l’anzianità di servizio viene a costituire l’unico criterio al quale è correlata l’indennità di licenziamento.

Dunque, per la Consulta italiana la disparità di trattamento e l’irragionevolezza derivano proprio dall’adozione di quel criterio dell’anzianità di servizio, che il Conseil francese ha invece ammesso come

criterio unico di determinazione dell’indennità in questione; nonché dal man-cato utilizzo di altri criteri, tra i quali la Consulta ricomprende quello della «dimensione dell’azienda», che la sua gemella d’oltralpe ha ritenuto invece inconferente con il pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento ingiustificato.

Non basta.

Con la successiva sentenza 7 settembre 2017, n. 751, il Conseil francese ha

escluso che la legge delega recante «mesures pour le renforcement du dialo-gue social» violasse i principi costituzionali di «riparazione integrale del

dan-no», di «separazione dei poteri», e di «uguaglianza di trattamento» degli ille-citi contrattuali subiti dai lavoratori, «a seconda che essi siano indennizzati a causa di un licenziamento illegittimo ovvero a causa di altro illecito civile»: «rafforzando la prevedibilità delle conseguenze della rupture du contrat de travail», il legislatore francese ha legittimamente perseguito «un objectif

d’intérêt général»; e «il solo fatto di prevedere un parametro obbligatorio per il risarcimento del pregiudizio derivante da un licenziamento ingiustificato e

(8) Rivedendo al ribasso (di un terzo) le previsioni dell’art. 1235-3 del Code du

Tra-vail (soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio superiore a 2 anni), la “four-chette minimaliste” dell’art. 266 della Loi Macron prevedeva quanto segue: a) nelle

(6)

non per quello derivante da altri illeciti civili» non costituisce, in sé, «une at-teinte au principe d’égalité devant la loi»; sicché deve affermarsi la «constitu-tionalité du mécanisme de barémisation».

In tal modo, è stata data via libera alla successiva ordonnance n. 2017-1387 –

significativamente intitolata à la prévisibilité et la sécurisation des relations de travail (9) – la quale, all’articolo 2, reca una tabella di indennità vincolante

che fissa gli importi minimi e massimi dell’indennità per licenziamento sans cause réelle et sérieuse, in base all’anzianità di servizio del dipendente.

Una così drastica differenza di vedute dei giudici costituzionali di due Paesi non solo entrambi membri dell’Unione Europea, ma altresì dotati, in materia di licenziamento (e non solo), di discipline giuridiche diverse ma non certo antitetiche, è segno sia di persistenti incertezze sistematiche, sia di divarica-zioni culturali nella lettura di principi a elevata connotazione politica, quali sono quelli aventi a oggetto la materia della stabilità del rapporto di lavoro. A ben vedere, il punto di maggiore interesse nella comparazione tra le due sentenze non riguarda la divaricazione culturale (di cui si può solo prendere atto), ma il diverso approccio che la Consulta ha seguito nell’affrontare la questione della “prevedibilità” dei costi del licenziamento.

Nell’esaminare tale questione, la Corte costituzionale ha molto insistito sulla “discrezionalità” che dovrebbe necessariamente connotare la funzione giusdi-cente, quasi che la “dissuasività” (per il datore di lavoro) della sanzione in-dennitaria riposi (non tanto sull’ammontare (10), quanto) sull’imprevedibilità e

non misurabilità ex ante degli effetti (anche economici) della norma (11).

(9) Per un’informativa sull’accidentato percorso delle riforme Macron, si veda F.F A-VENNEC-HERY, Le droit du licentiemment et les ordonnances portant securisation des

relations de travail, in La Semaine Juridique, 2017, n. 39; F.CHHUM, Décision n°

2017-751 DC du 7 septembre 2017 sur la loi d’habilitation des ordonnances Macron (Communiqué du Conseil constitutionnel), in Blogavocat.fr, 7 settembre 2017.

(10) Ciò spiega perché la Corte, pur avendo in motivazione sollevato il problema

dell’adeguatezza dell’indennizzo (anche alla luce dell’art. 24 della Carta sociale euro-pea), non ne abbia poi tratto alcuna conseguenza nel dispositivo.

(11) In questa logica si pone chi rimprovera il legislatore di essersi ispirato a «una

sin-golare miscela di legolatria neoilluministica e di pedagogia da Law & Economics»,

riducendo il giudice «ad un contabile, più che alla bouche de la loi di montesquieuana

memoria»: così S.GIUBBONI, Il licenziamento del lavoratore con contratto «a tutele crescenti» dopo l’intervento della Corte costituzionale, Working Paper CSDLE

“Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 379, 4. Di diverso avviso, G. ZILIO GRANDI,

Prime riflessioni a caldo sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, in Lavoro Diritti Europa, 2018, n. 2, 9, che, pur condividendo nel merito la sentenza,

(7)

Il punto è stato efficacemente colto dal Governo francese, il quale, nella me-moria depositata nell’ambito del procedimento intentato con reclamo colletti-vo dalla Cgil contro l’Italia davanti al Comitato europeo dei diritti sociali, in relazione alla presunta violazione da parte dell’Italia dell’articolo 24 della Carta sociale europea, ha osservato che «sanzione per il datore di lavoro non consiste nell’incertezza intorno alla misura dell’indennità da corrispondere, ma nel dovere di corrisponderla» (12).

È soprattutto sotto questo profilo che, a nostro avviso, la sentenza della Con-sulta italiana tradisce un’eccedenza del discorso politico (o se si vuole, dell’attitudine giusdicente) sull’interpretazione costituzionale: ciò si riflette in una difettosa calibratura teorico-concettuale, oltre che esegetica; e si risolve nell’introduzione di un regime sanzionatorio dei licenziamenti ingiustificati, irrazionale e intrinsecamente instabile (13).

2. Il ragionamento svolto dai giudici costituzionali ruota attorno a due assunti, apparentemente consequenziali, così riassumibili:

1. l’«indennità» che l’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 riconosce al lavoratore licenziato in assenza di giusta causa o di giustifica-to motivo, avrebbe natura di «risarcimengiustifica-to del danno»;

2. la determinazione di tale danno sarebbe costituzionalmente illegittima perché basata sulla sola anzianità di servizio, e non anche sulle «dimen-sioni dell’azienda», sul «comportamento delle parti», sulle «loro condi-zioni economiche» e «altre circostanze rilevanti per la quantificazione del pregiudizio sofferto dalla persona licenziata in concreto».

«La qualificazione come “indennità” dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015» – afferma la Corte – «non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento. Quest’ultimo, an-che se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui “il licenziamento del prestatore

(12) Sulla vicenda, si veda S.NADALET, L’applicazione dell’art. 24 della Carta

Socia-le Europea: il punto di vista dell’ordinamento francese, in AA.VV., La normativa

ita-liana sui licenziamenti: quale compatibilità con la Costituzione e la Carta Sociale Europea? Atti del seminario in previsione dell’udienza pubblica della Corte Costitu-zionale del 25 settembre 2018 sulla questione di costituzionalità sul d. lgs n. 23/2015,

cit., 123 ss.; M.CAVINO, op. cit., 4 ss., il quale ricorda come l’interesse francese alla

vicenda discenda dalla recente riforma della disciplina del licenziamento individuale senza giusta causa (ord. n. 2017-1387 del 22 settembre, ratificata dalla loi n° 2018-217 du 29 mars 2018, anch’essa oggetto di reclamo collettivo da parte della CGT-FO,

n. 160/201838) che ha recepito oltralpe la stessa logica alla base della legislazione ita-liana.

(8)

di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Co-dice civile o per giustificato motivo” (art. 1 della legge n. 604 del 1966)». L’affermazione non è tanto criticabile in sé, quanto per le conseguenze che la Corte ne fà scaturire.

È probabilmente corretto affermare che il titolo risarcitorio vada riconosciuto in tutte le ipotesi in cui l’attribuzione patrimoniale a favore del lavoratore consegua all’illegittimità del licenziamento: sia che si tratti di dichiarazione giudiziale di illegittimità del recesso con prosecuzione del rapporto contrat-tuale (tutela reale), sia che si tratti di dichiarazione giudiziale di estinzione del rapporto con imposizione al recedente di un obbligo risarcitorio (tutela inden-nitaria); potendosi, anzi, osservare che il vero discrimine non corre tra tutela reale e tutela indennitaria del licenziamento illegittimo, bensì tra risarcimento da recesso illegittimo e indennizzo da recesso lecito, giacché l’obbligo risarci-torio resta comunque distinto dall’«obbligo indennitario che eventualmente consegua al recesso inteso come esercizio di uno ius poenitendi, ossia come

atto lecito» (14).

È dunque, in sé, ineccepibile ricollegare la natura risarcitoria dell’indennità da licenziamento illegittimo, al suo derivare da un illecito contrattuale (15).

Tuttavia, ciò che la Consulta non ci pare abbia adeguatamente considerato, è che non esiste un nesso univoco tra la natura risarcitoria di un’attribuzione pa-trimoniale e il suo regime giuridico, differenziandosi quest’ultimo in funzione delle diverse fattispecie disegnate dal legislatore: così come accade, per l’appunto, nel caso dei licenziamenti illegittimi, dovendosi «evidenziare la no-tevole differenza, prevista dalla legge nella relativa quantificazione, tra le

(14) F.ROSELLI, Il recesso dal contratto, in AA.VV., Il contratto in generale,

Giappi-chelli, 2002, vol. V, cap. 7, § 11.

(15) Ciò si riflette sul piano dell’imponibilità fiscale e contributiva: «Ove il giudice

faccia applicazione della tutela indennitaria […], non è previsto alcun versamento contributivo, posto che rimane fermo l’effetto estintivo del rapporto […]. La natura risarcitoria della somma, che non costituisce un’indennità ottenuta a titolo di risarci-mento del danno consistente nella perdita di un reddito, giustifica la non imponibilità fiscale» (M.TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo. Lavoro privato e

pubblico, Cedam, 2015, 124). Invero, l’indennità in parola pare assoggettabile, ex art.

17, comma 1, lett. a, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR), alla c.d. “tassazione separata”,

appli-cabile, oltre che al TFR, sia alle «indennità e somme percepite una volta tanto in di-pendenza della cessazione dei predetti rapporti», sia alle «somme e i valori comunque percepiti […] anche se a titolo risarcitorio […], a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavo-ro»: si veda, in tal senso, N.CENTOFANTI, Artt. 1-12, in G.AMOROSO, V.DI CERBO,

A.MARESCA (a cura di), Diritto del lavoro. Volume II. Lo statuto dei lavoratori e la

(9)

tesi in cui è previsto il diritto del lavoratore anche alla reintegrazione, rispetto alle ipotesi nelle quali il giudice dichiara estinto il rapporto» (16).

Quanto all’indennità risarcitoria da tutela reale – e sempre che non si aderisca alla piana osservazione che trattasi di una «speciale misura compensativa e di riequilibrio distinta dal risarcimento del danno» (17) – non si dubita che esso

sia governato dalle regole auree:

– della colpa in senso oggettivo come criterio di imputabilità dell’inadempimento (articolo 1218 c.c.);

– della compensatio lucri cum damno (articolo 1223 c.c.), con conseguente

deducibilità dell’aliunde perceptum (18) e, nel caso di licenziamento

in-giustificato, anche dell’aliunde percipiendum (19);

– del concorso del fatto colposo del creditore (articolo 1227, secondo com-ma, c.c.).

Nemmeno si dubita, però, che si tratti di un regime risarcitorio «di diritto spe-ciale», giacché a favore del lavoratore opera l’esonero da qualsiasi onere pro-batorio in punto di lucro cessante (20) e la eccezionale previsione di una

(16) M.G.MATTAROLO, Le conseguenze risarcitorie ed indennitarie del licenziamento

illegittimo, in F.CARINCI, C. CESTER (a cura di), Il licenziamento all’indomani del

d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti),

ADAPT University Press, 2015, 126 ss. In verità, questa stessa A. afferma la sussi-stenza di «una differenza anche concettuale, relativa alla natura delle corrispondenti attribuzioni patrimoniali, dato che nel primo caso il lavoratore ha diritto al “risarci-mento del danno” o comunque ad una “indennità risarcitoria”, mentre nel secondo gli spetta una mera “indennità”, non altrimenti definita». Tuttavia non è al nomen iuris

legale che può attribuirsi rilievo decisivo ai fini dell’individuazione del regime giuri-dico delle indennità in parola: se, infatti, nel d.lgs. n. 23/2015 la contrapposizione terminologica tra “risarcimento del danno” da tutela reale e “indennità” da tutela ob-bligatoria, è anche vero che l’art. 8 della l. n. 604/1966, sia prima che dopo la novella del 2012, definisce l’indennità ivi disciplinata in termini di “risarcimento del danno”, e che lo stesso art. 18 della l. n. 300/1970, pur dopo la novella del 2012, qualifica l’“indennità” da tutela obbligatoria come “risarcitoria”.

(17) G.AMOROSO, Tutela del lavoratore per licenziamento illegittimo, in G. A MORO-SO,V.DI CERBO,A.MARESCA, Diritto del Lavoro. Lo Statuto dei lavoratori e la

di-sciplina dei licenziamenti, Giuffrè, 2014, vol. 2, 701 ss.

(18) Si veda l’art. 18, secondo comma, della l. n. 300/1970 e l’art. 2, comma 2, del

d.lgs. n. 23/2015.

(19) Si veda l’art. 18, quarto comma, della l. n. 300/1970 e l’art. 3, comma 2, del d.lgs.

n. 23/2015.

(20) Essendo sufficiente, ai fini dell’indennità risarcitoria da tutela reale, la mancata

prova, da parte del datore di lavoro, della giusta causa o del giustificato motivo, non-ché dell’aliunde perceptum e, se del caso, percipiendum. La massima «di diritto

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inadempimen-danna in futuro (21), qual è quella a corrispondere le retribuzioni dovute «dal

giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione»; speciali-tà rafforzata poi, nel caso della tutela reale c.d. “piena”, dalla previsione di un minimo garantito pari a cinque mensilità, cui fa da contrappeso quella di un massimale di dodici mensilità in caso di tutela reale c.d. “ridotta”.

Proprio a cagione della predetta specialità, il risarcimento “da tutela reale” non garantisce la copertura integrale del danno da “lucro cessante” effettiva-mente subito, e dunque le retribuzioni effettivaeffettiva-mente perdute: non solo perché nel caso della tutela reale ridotta opera un massimale di dodici mensilità, ma

to e danno), per il sorgere del diritto al ristoro dei danni ed alla reintegrazione patri-moniale, in tema di responsabilità civile da inadempimento di contratto, non è suffi-ciente la prova dell’inadempimento del debitore, ma deve altresì esser provato il pre-giudizio effettivo e reale incidente nella sfera patrimoniale del contraente danneggiato e la sua entità» (Cass. n. 608/1973). Particolarmente incisiva App. L’Aquila 16 mag-gio 2013, n. 501, relativa a un caso di illegittimo recesso da un contratto di appalto: «allorché […] il recesso anticipato dei committenti dal contratto determini lo svincolo dell’altra parte contrattuale dall’impegno assunto con quel contratto e, dunque, la pos-sibilità per quest’ultima di utilizzare le proprie capacità produttive per conseguire ugualmente il profitto che l’esecuzione del contratto le avrebbe garantito, ai fini dell’accertamento della sussistenza del danno de quo, è onere della parte che ha subito il recesso allegare e provare di aver per questo ottenuto minori profitti rispetto a quelli che sarebbero derivati dall’effettuazione dell’originaria obbligazione assunta». In mancanza di una siffatta prova, non è possibile ricorrere alla liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c. cui, infatti, può ricorrersi solo a condizione che l’esistenza del danno sia comunque dimostrata e sulla scorta di elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione. Tanto ciò è vero che chi propone una domanda di con-danna al risarcimento dei danni da accertare e liquidare nel medesimo giudizio, ha l’onere di fornire la prova certa e concreta del danno, così da consentirne la liquida-zione, oltre che la prova del nesso causale tra il danno ed i comportamenti addebitati alla controparte. In materia di danno da licenziamento illegittimo nelle ipotesi di c.d. “tutela reale di diritto comune”, si veda, da ultimo, V.DI CERBO, D.SIMEOLI, Art. 8,

in G.AMOROSO, V.DI CERBO, A.MARESCA (a cura di), op. cit., 1753 ss.: «in ipotesi

di licenziamento viziato per la mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore – non applicandosi la disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 8 legge 604 del 1966 (propria della diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo), ma, comunque, vertendosi in tema di contratto a prestazioni cor-rispettive –, l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni ma-turate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni». (21) L.NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del

bilancia-mento tra i «principi» costituzionali, in DLRI, 2007, n. 116, § 11. Da ultimo, D.D AL-FINO, Le novità per il processo civile del 2009 e il rito del lavoro, in www.judicium.it,

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anche perché la base di calcolo del risarcimento, per un verso, è legata all’“ultima retribuzione” – con esclusione degli incrementi retributivi interve-nuti dopo il licenziamento – e, per l’altro, è commisurata alla retribuzione an-nuale utile per il calcolo del TFR, la quale, come noto, è suscettibile di dimi-nuzioni ad opera della contrattazione collettiva (22).

Senza dire della questione, tuttora aperta, della risarcibilità del c.d. “danno ul-teriore”: sia che lo si voglia intendere come riferito al danno patrimoniale c.d. “emergente” (per esempio, sfratto, necessità di prestiti a tassi onerosi, spese di trasloco), sia che si faccia riferimento alla fattispecie, peraltro marginale, del danno non patrimoniale derivante, tipicamente ma non esaustivamente, da «li-cenziamento ingiurioso» (23); questione che, ancora di recente, condivisibil-mente si propone di dirimere affermando che «l’attuale disciplina esprime la volontà di esaurire il risarcimento dovuto imponendo in modo più o meno marcato una forfetizzazione del danno, ferma restando, naturalmente, la re-sponsabilità risarcitoria del datore di lavoro per fatti che possono, per così di-re, essere scorporati dal licenziamento e qualificarsi di per sé illegittimi in quanto lesivi della dignità della persona o addirittura di rilevanza penale» (24).

Non è questa la sede per approfondire il tema: qui interessa solo ricordare che esso si pone – e sempre è stato posto, fino ad oggi – in termini del tutto diver-si quando il lavoratore illegittimamente licenziato non abbia «diritto alla rein-tegrazione e ad una indennità esplicitamente definita dal legislatore come ri-sarcitoria», giacché il «licenziamento illegittimo (perché perché privo di giu-sta causa o giustificato motivo o per vizi formali o procedurali) produce egualmente la estinzione del rapporto di lavoro e il mero diritto ad una ‘in-dennità’ non altrimenti definita» (25).

(22) M.G.MATTAROLO, op. cit., 127ss.

(23) Si veda M.TATARELLI, op. cit., 83, che osserva come il licenziamento ingiurioso

possa essere causa anche di danno patrimoniale. Per altre ipotesi di risarcibilità del danno ulteriore, sia patrimoniale che non patrimoniale, si veda N.CENTOFANTI, op.

cit., 2082-2083, 2119: ma si tratta, a ben vedere, sempre di danno emergente, e mai di

lucro cessante, posto che «l’indennità risarcitoria spettante al dipendente indebitamen-te licenziato è destinata a ristorare (ed esaurire) il danno economico intrinsecamenindebitamen-te connesso all’impossibilità materiale di eseguire la prestazione lavorativa».

(24) M.G.MATTAROLO, op. cit., 128, che opportunamente ricorda la risarcibilità ex

lege del danno non patrimoniale prevista per il licenziamento discriminatorio dall’art.

28, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 150/2011. Si veda, per una analisi più approfondita, M.V.BALLESTRERO, Art. 2119 – Recesso per giusta causa, in O.CAGNASSO, A.V AL-LEBONA (a cura di), Dell’impresa e del lavoro. Artt. 2118-2187, Utet, 2013, § 6.2.

(25) M.G.MATTAROLO, op. cit., 129; V.BRINO, La tutela reintegratoria per i nuovi

assunti tra novità e conferme, in L.FIORILLO, A.PERULLI (a cura di), Contratto a

tu-tele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Giappichelli,

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In questo caso, le norme codicistiche sulla responsabilità contrattuale vengono in rilievo solo ai fini della definizione dell’illecito (violazione contrattuale e sua imputabilità per colpa oggettiva), ma non ai fini della definizione e quan-tificazione del danno.

E infatti:

– non operando la compensatio lucri cum damno, è esclusa in radice la

de-ducibilità sia dell’aliunde perceptum che dell’aliunde percipiendum;

– non rilevando il concorso del fatto colposo del creditore, l’indennità spetta integralmente anche a fronte della negligenza del lavoratore nel ricercare una nuova occupazione;

– l’importo dell’indennità (come in Francia, ma con limiti assai più genero-si, anche prima del “decreto dignità”) è compreso tra un minimo (quattro mensilità col Jobs Act, diventate sei col decreto dignità) e un massimo

(ventiquattro mensilità col Jobs Act, diventate trentasei);

– tale importo è da considerarsi “omnicomprensivo” (26).

3. Ma v’è di più. A ben vedere, c’è qualcosa che accomuna il regime risarcito-rio speciale “da tutela reale”, a quello risarcitorisarcito-rio-indennitarisarcito-rio “da tutela ob-bligatoria”: questo tratto comune ai regimi sanzionatori del licenziamento il-legittimo, che ne connota ab imis la “specialità” rispetto al diritto comune,

at-tiene all’individuazione del bene protetto, e quindi all’oggetto del c.d. “risar-cimento”. Come osservato in dottrina con riferimento al regime risarcitorio “da tutela reale”, l’inadempimento che il legislatore mira a sanzionare non è tanto la violazione dell’obbligo di eseguire il contratto (27), quanto la

viola-zione dell’«obbligo di ricorrere al potere di licenziamento solo in presenza delle relative condizioni d’efficacia (art. 1218 c.c.) […]. La condanna al

(26) Si veda M.G.MATTAROLO, op. cit.: «nei casi che stiamo esaminando – in cui il

licenziamento illegittimo è sanzionato con una mera indennità – mi pare radicalmente esclusa, a maggior ragione, la possibilità per il lavoratore di richiedere danni ulteriori derivanti dal licenziamento stesso, sia perché la legge si guarda bene dall’affermare che al lavoratore spetta un risarcimento, sia per la chiarissima volontà legislativa, co-me si è detto, di rendere certi e predeterminati costi del licenziaco-mento illegittimo». L’omessa statuizione dell’omnicomprensività dell’indennità negli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23/2015, lungi dal configurare un’irrazionale differenza rispetto all’art. 18 della l. n. 300/1970, si spiega, ad avviso dell’A., perché «quel termine può avere un significa-to per limitare il risarcimensignifica-to del danno o l’indennità esplicitamente definita come risarcitoria, ma non è necessario nel momento in cui la legge fa esclusivo riferimento ad una indennità da ritenersi di carattere sanzionatorio piuttosto che risarcitorio». Si veda pure V.DI CERBO, D.SIMEOLI, op. cit., 1759; M.TATARELLI, op. cit., 94 ss.; O.

MAZZOTTA, I licenziamenti, Giuffrè, 1992, 493; P.SANDULLI, A.VALLEBONA, C.P I-SANI, La nuova disciplina dei licenziamenti individuali, Cedam, 1990, 50.

(27) Rendendo possibile – e dunque retribuendo – la prestazione del lavoratore;

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cimento del danno, quantificato nella misura delle retribuzioni perse dal gior-no del licenziamento a quello della effettiva reintegra, è compensativa del danno generato dalla lesione del diritto della controparte alla continuità del rapporto di lavoro. Tale risarcimento trova giustificazione nell’illecito civile (illegittimo uso del potere) compiuto dal datore di lavoro fino al momento della sentenza e, successivamente a quest’ultima, nell’inadempimento da ri-tardo dell’obbligo di far lavorare o di ottemperare all’ordine di reintegrazio-ne» (28).

Questa notazione consente di mettere meglio a fuoco il nostro tema: se il dirit-to violadirit-to è, in sé, quello alla “continuità del rappordirit-to di lavoro” – o, se si vuole, alla titolarità del “posto di lavoro” – si delinea con chiarezza l’idea che il danno da licenziamento illegittimo altro non sia che il danno da perdita del posto di lavoro, e che il suo contenuto e ammontare tendano a identificarsi, nella prospettiva giuslavoristica, col valore economico del posto di lavoro. Orbene, non v’è dubbio che il discorso sopra condotto, sviluppato in termini problematici con riferimento al risarcimento “da tutela reale”, si attagli alla perfezione alla tutela risarcitorio-indennitaria: non solo e non tanto sul piano concettuale o di teoria generale, quanto sul piano del diritto positivo.

L’ubi consistam della tutela obbligatorio-indennitaria, infatti, sta nel suo

esse-re «un’ipotesi di tipizzazione legale del danno, rientrante nella disponibilità del legislatore, nella valutazione globale della complessiva disciplina da ap-prontare» (29): ne è ben consapevole la Corte costituzionale, quando ricorda

che «l’esigenza di un contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro […] resta […] affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto al-la scelta dei tempi e dei modi» (30).

Benché, però, dalla citata statuizione non si desuma la necessità che il rimedio contro il licenziamento illegittimo debba assumere i caratteri del risarcimento del danno civilistico da responsabilità contrattuale, la Corte precisa trattarsi «di una tutela non specifica dell’interesse del lavoratore all’adempimento del contratto di lavoro […] ma per equivalente, e, quindi, soltanto economica». L’errore del legislatore starebbe allora in ciò: che, nonostante si tratti di «tute-la per equivalente», ossia di risarcimento del danno, esso ha connotato l’indennità in parola, «oltre che come “certa”, anche come “rigida”, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio»; e ha sancito «l’impossibilità di incrementare l’indennità, fornendo la relativa prova».

(28) Così L.NOGLER, op. cit., §§ 12 e 13, richiamando la nota ricostruzione di M.N A-POLI, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1980, 35.

(29) M.TATARELLI, op. cit., 94.

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Eppure da sempre – ossia, fin da quando, con la legge n. 604/1966, venne in-trodotta tale forma di tutela “speciale” contro il licenziamento ingiustificato – il legislatore ha mostrato la netta propensione, non solo a quantificare l’indennità facendo ricorso a forchette di valori aritmetici predefiniti (con buona pace del “mito” del risarcimento effettivo e integrale), ma anche a mo-dellarla su parametri – quali il «numero dei dipendenti occupati», «le dimen-sioni dell’impresa», «l’anzianità di servizio del prestatore di lavoro», «il com-portamento e» le «condizioni delle parti» – che nulla hanno a che fare con le componenti del «danno civilistico» (danno emergente e lucro cessante). Ci pare evidente – e forse non è stato abbastanza sottolineato – che l’indennità “da tutela obbligatoria” segni il punto di massima distanza del regime sanzio-natorio del licenziamento illegittimo rispetto alla ordinaria responsabilità da violazione contrattuale: una distanza che origina in apicibus dalla stessa

defi-nizione del bene protetto (icasticamente: il “posto di lavoro”), e di qui, a ca-scata, si riproduce nella quantificazione del danno (aritmetica, sia pure entro ristrette forchette “amministrate” dal giudice), nella prova del medesimo (non richiesta), nella stessa sua composizione interna (non avendo, a ben vedere, alcun senso distinguere un “danno emergente” da un “lucro cessante”, laddo-ve laddo-venga in rilievo la valorizzazione economica del “posto di lavoro” perdu-to).

La verità è che l’indennità di licenziamento “da tutela obbligatoria” (31) non si

basa sul “danno emergente” e sul “lucro cessante” conseguenti al venir meno del sinallagma contrattuale prodotto dall’illegittimo (ma efficace) recesso (32),

(31) Quindi, non solo quella prevista dagli artt. 3, comma 1, 4 e 9 del d.lgs. n. 23/2015,

ma anche quella prevista dall’art. 18, quinto, sesto e settimo comma, terzo periodo, della l. n. 300/1970 e dell’art. 8 della l. n. 604/1966.

(32) Ove il danno risarcibile al lavoratore illegittimamente licenziato fosse quello

civi-listico, il suo diritto non sarebbe dissimile da quello, per es., del prestatore d’opera, che, in caso di recesso del committente, dev’essere «tenuto indenne […] delle spese, del lavoro eseguito e del mancato guadagno» (art. 2227 c.c.). Pur non derivando da un inadempimento, «l’obbligo a cui è tenuto il committente che recede ex art. 2227 cod.

civ. ricorda molto da vicino un risarcimento del danno»: così, richiamando la dottrina civilistica, F.TOFFOLETTO, Il recesso nel contratto d’opera e nel contratto di lavoro

autonomo di durata, in G.DE NOVA (a cura di), Recesso e risoluzione nei contratti,

Giuffrè, 1994, 970 ss. Al medesimo risarcimento sarebbe tenuto, sia pure in applica-zione diretta dell’art. 1218 e non dell’art. 2227 c.c. (si veda ancora F.TOFFOLETTO,

op. cit., 983 ss.), il committente che recedesse (illegittimamente) da un «contratto

avente a oggetto una prestazione continuativa […] senza congruo preavviso» (art. 3, comma 1, l. n. 81/2017), ovvero ante tempus da un contratto di lavoro autonomo di

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man-bensì sul valore obiettivamente assegnabile, in un dato contesto macro-economico e in una data situazione contrattuale, alla condizione occupaziona-le del singolo.

La riconduzione, all’illegittimo recesso del datore di lavoro, di un regime san-zionatorio geneticamente risarcitorio, ma funzionalmente indennitario, lungi dal penalizzare il debitore dell’obbligazione di lavoro subordinato (33),

realiz-za una tutela di miglior favore (anche sul piano sostanziale, oltre che proces-suale) per il lavoratore, generata, sì, da un illecito contrattuale, ma costruita su un modello ben diverso da quello della responsabilità contrattuale: quello di un ristoro oggettivamente calibrato su parametri socio-economici – e perciò forfettizzato – ma soggettivamente standardizzato.

Si tratta, in fondo, di una logica non troppo distante da quella – se si vuole, economicistica o da law & economics – del severance cost inteso come

in-dennizzo per il licenziamento economico indipendentemente dalla liceità del recesso (34); ed è forse questo il timore che ha spinto la Consulta a erigere una sorta di barriera “in prevenzione”: il timore, cioè, che potesse maturare nor-mativamente il passaggio dal regime del risarcimento a quello del severance cost (almeno per i licenziamenti dovuti a ragioni economiche) (35), in spregio

dato a titolo oneroso (art. 1725 c.c.), o alla revoca dell’amministratore da parte dell’assemblea (artt. 2383 e 2466 c.c.), In quest’ultimo caso, il risarcimento dell’amministratore ingiustamente revocato può essere ridotto «sulla base del le occa-sioni economiche che lo stesso è riuscito a sfruttare nel periodo differenziale anche in conseguenza della cessazione dalla carica, nonché, in via equitativa, […] tenendo conto anche dei correlativi vantaggi patrimoniali in termini di risparmi di spese e di energie lavorative»: si veda Trib. Milano 15 settembre 1986 e App. Napoli 27 gennaio 2011, n. 165.

(33) Fino a farne, col Jobs Act, «il debitore più penalizzato del nostro ordinamento

giuridico»: così, ma con riferimento, appunto, al regime indennitario del Jobs Act, L.

NOGLER, I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nel

d.lgs. n. 23 del 2015, in ADL, 2015, n. 3, 508.

(34) Si veda, tra i tanti scritti dell’A. in materia, P.ICHINO, La questione di

costituzio-nalità della nuova disciplina dei licenziamenti, in www.pietroichino.it – NWSL, 7

agosto 2017, n. 448, dove si osserva come «non avrebbe senso differenziare l’indennizzo in relazione alla “gravità della colpa” della datrice di lavoro: la funzione dell’indennizzo, qui, non è quella di punire quest’ultima, ma soltanto quella duplice di stabilire un “massimale assicurativo” a suo carico e a beneficio del dipendente». (35) Ci si riferisce alla nota proposta di O.BLANCHARD, J.TIROLE, Contours of

Em-ployment Protection Reform, MIT Department of Economics Working Paper, 2003, n.

03-35. Per la tesi secondo cui, dalla legge Fornero del 2012 fino al Jobs Act, si

sareb-be registrato un «recepimento progressivo nel nostro ordinamento» della teoria del

severance cost, si veda, tra gli altri, L.VALENTE, La riforma del licenziamento per

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al “primato lavoristico” che esige, sul piano dei principi, la prevalenza dei “valori” sull’economia (36).

A ben vedere, i criteri di stampo socio-economico che determinano l’indennità per licenziamento ingiustificato non sono che il riflesso, sul piano sanzionatorio, del parametro di “proporzionalità” che, secondo una feconda dottrina (37), imporrebbe al datore di lavoro di «arrecare il minor pregiudizio

possibile» all’interesse del prestatore di lavoro.

Infatti – e diversamente dal «controllo di ragionevolezza» che attiene alla scelta organizzativa dell’impresa – «il controllo di proporzionalità», per un verso «può influenzare […] la scelta tra i potenziali destinatari» dell’atto di gestione aziendale, «attraverso la verifica che l’adozione dello stesso sia stata tale da colpire» il lavoratore «meno debole da un punto di vista sociale»; e per l’altro, «permette di appurare se, dopo l’adozione di una determinata scelta tecnico-organizzativa […] fosse ancora possibile “assorbire”, sulla base dell’assetto organizzativo dell’impresa, il lavoratore destinatario di quell’atto, adibendolo a mansioni alternative» (38).

Vengono così in rilievo “parametri sociali” – quali i “carichi di famiglia”, l’“anzianità anagrafica o di servizio”, le “dimensioni dell’azienda” – i quali, se sul piano sostanziale condizionano o possono condizionare la legittimità del licenziamento (39), sul piano sanzionatorio fungono da criteri di

quantifi-cazione dell’indennizzo (40).

Jobs Act, in G.SANTORO-PASSARELLI (a cura di), Il diritto dell’occupazione dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016, 55 ss., §§ 6-8.

(36) Robustamente attestato su questa linea “costituzionale” di difesa dei valori

lavori-stici rispetto alla law & economics, S.GIUBBONI, op. cit., spec. § 2.

(37) S.BRUN, Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse alla

stabilità, Cedam, 2012, 24 ss. e 29.

(38) Ivi, 30.

(39) Si veda, per i licenziamenti collettivi, l’art. 5 della l. n. 223/1991 con riferimento

ai carichi di famiglia e all’anzianità di servizio; ma anche le dimensioni dell’azienda rilevano sul piano sostanziale, costituendo presupposto di applicabilità della relativa disciplina. Quanto ai licenziamenti individuali, detti criteri, quando non sono applica-bili direttamente o per analogia (come nel caso dei licenziamenti economici “plurimi” di lavoratori fungibili), possono diventarlo ai fini dell’applicazione del cd. “obbligo di

repêchage” (nel cui ambito può assumere rilievo la dimensione occupazionale o

eco-nomica dell’impresa, e perfino l’anzianità di servizio, nei limiti in cui essa si rifletta sulla professionalità del lavoratore e quindi sulla sua idoneità a ricoprire altre posizio-ni aziendali). Infine, la rilevanza di cennati criteri “sociali” non è da escludersi nem-meno per i licenziamenti disciplinari: si pensi alla rilevanza dell’anzianità aziendale ai fini della valutazione della gravità della negligenza commessa.

(40) L’anzianità di servizio e la condizione familiare del lavoratore sono contemplate

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appli-Altri parametri utilizzati in passato dal legislatore ai fini della determinazione dell’indennizzo, potrebbero apparire, invero, privi di rilevanza sociale, come nel caso del “comportamento delle parti” (41), ovvero pertinenti al solo profilo

sanzionatorio, come nel caso delle “condizioni delle parti” (42).

Ma ad una più approfondita analisi si comprende che il “comportamento delle parti” cui alludono le norme citate non è riferito, o almeno non è solo riferito, al profilo psicologico dell’illecito (disciplinare), bensì a qualsiasi condotta che possa rilevare ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto all’illecito: ciò appare chiaro laddove si consideri che il cennato criterio è uti-lizzato indifferentemente per il licenziamento disciplinare così come per quel-lo per giustificato motivo oggettivo (43).

A definitiva conferma della connotazione social-tipica e non psicologica del criterio del “comportamento delle parti”, può farsi riferimento alla previsione di cui al settimo comma dell’articolo 18, legge n. 300/1970, che, nel discipli-nare l’indennità a fronte del licenziamento privo di giustificato motivo ogget-tivo, contempla il criterio aggiuntivo (operante in senso riduttivo dell’indennità) delle «iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione»: questa, che parrebbe un’applicazione della regola civili-stica di cui all’articolo 1227, secondo comma, c.c., e quindi indice della natu-ra risarcitoria dell’indennità in parola, assurge invece a prova del contnatu-rario, ove solo si consideri che la norma si riferisce a un’ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo, e che non è replicata con riferimento al licenziamento di-sciplinare.

Non se ne può concludere se non che l’indennità per licenziamento ingiustifi-cato, nel nostro ordinamento, e già prima del decreto legislativo n. 23/2015, era basata su criteri lontanissimi dal danno civilistico, e ribadire che il regime sanzionatorio di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, così come quello di cui agli articoli 18, quinto e settimo comma, del-la legge n. 300/1970 e 8 deldel-la legge n. 604/1966, è geneticamente risarcitorio, ma funzionalmente indennitario.

4. Appare a questo punto evidente l’errore commesso dalla Corte costituzio-nale: essa ha preteso di innestare in un indennizzo basato su criteri sociali, che il legislatore nel 2015 ha voluto drasticamente semplificare, altri criteri di cui la stessa Corte non ha colto la natura sociale, ricollegandoli scorrettamente al

cazione dell’art. 18 della l. n. 300/1970); sia dall’art. 18, quinto comma, della l. n. 300/1970 (tutela indennitaria nel campo di applicazione dell’art. 18). La dimensione. (41) Criterio adottato sia nell’art. 8 della l. n. 604/1966 che nell’art. 18, quinto comma,

della l. n. 300/1970.

(42) Anche questo criterio è contemplato da entrambe le norme sopra citate.

(43) Compara, ancora, gli artt. 8 della l. n. 604/1966 e 18, settimo comma, della l. n.

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danno civilistico: essa ha così finito per creare un ircocervo privo di razionali-tà e sostanzialmente iniquo (44).

Beninteso, ove il legislatore volesse introdurre elementi di personalizzazione dell’indennizzo, idonei a riflettere le concrete condizioni economiche in cui versa chi vive del proprio lavoro, ben potrebbe farlo, così come effettivamente ha fatto in passato; ma nessun vincolo costituzionale, internazionale o sovra-nazionale, gli impedisce una scelta diversa e semplificatrice, quale quella, pe-raltro perseguita su largissimo scala nel panorama europeo e internazionale, di ancorare l’indennità in maniera rigida al solo criterio dell’anzianità di servi-zio; nessun vincolo, che non sia quello dell’adeguatezza quantitativa (peraltro dalla Corte non negata) e – in questo senso – della “dissuasività”; e a patto che non si confonda tale vincolo con la presunta necessità che l’ammontare dell’indennità non sia conoscibile e calcolabile ex ante dai cittadini, dovendo

invece essere rimessa ad una malintesa “discrezionalità” del giudice.

Peraltro, la stessa impostazione seguita dalla sentenza n. 194/2018 esclude che possa ad essa imputarsi l’aver trasformato l’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 in una norma inapplicabile: al contrario, la Consulta, come è stata chiarissima nel vietare al legislatore una regolamentazione dell’indennità da licenziamento ingiustificato, che sia basata sul solo criterio aritmetico dell’anzianità di servizio, altrettanto chiara è stata nel riconoscere al giudice il potere di determinare l’ammontare dell’indennità applicando, nell’esercizio della “discrezionalità” illegittimamente compressa dal legislato-re, non solo i criteri positivamente rinvenibili nell’ordinamento – quali le “dimensioni dell’azienda”, il “comportamento delle parti” e le loro “condizio-ni economiche” – ma anche tutte le «altre circostanze rilevanti per la quantifi-cazione del pregiudizio sofferto dalla persona licenziata in concreto» (45).

(44) A questa critica, che si muove sul terreno dello stesso diritto, fa eco, sul piano

del-la law & economics, la critica di chi osserva che «sarebbe controproducente rispetto

alle finalità di protezione perseguite dal legislatore commisurare l’indennizzo alla si-tuazione particolare di bisogno o di difficoltà della singola persona, adottando come indice il suo carico di famiglia, e/o la sua età anagrafica: una siffatta scelta legislativa, infatti, avrebbe l’effetto di aumentare il contenuto assicurativo a cui ha inderogabil-mente diritto la persona con maggiori carichi di famiglia o maggiore età, finendo col condannarla a una minore appetibilità, coeteri sparibus, nel mercato del lavoro; cioè

riducendo la sua employability»: così, P.ICHINO, La questione di costituzionalità del-la nuova disciplina dei licenziamenti, cit.

(45) Bene ha fatto, dunque, Trib. Bari 11 ottobre 2018, ad applicare

(19)

Lascia perplessi, semmai, la mancata indicazione, tra i criteri che il giudice ordinario dovrebbe amministrare “discrezionalmente”, delle «iniziative assun-te dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione» (articolo 18, setti-mo comma, terzo periodo, legge n. 300/1970); tanto più se si considera che il suddetto criterio evoca fortemente (sia pure in senso svantaggioso per il lavo-ratore) la regola del «fatto colposo del creditore» (articolo 1227 c.c.), e per-tanto appare in sintonia proprio con l’approccio della Consulta, che muove da una assimilazione dell’indennità in parola al risarcimento del danno civilisti-co.

Fatto sta che a seguire la logica della sentenza n. 194/2018, nonché le prime indicazioni applicative dei giudici ordinari, il criterio delle «iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione» dovrebbe includersi a pieno titolo tra quelli amministrabili “discrezionalmente” dal giudice: e non solo nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ma anche, ed anzi a fortiori, in quelli disciplinari.

5. L’impatto sistematico di questa sentenza può apprezzarsi sotto tre profili che, in ordine di decrescente criticità, possono declinarsi come incostituziona-lità patenti, incostituzionaincostituziona-lità latenti, irrazionaincostituziona-lità: sovrastando a tutto ciò l’impressione di un sistema di regole casualmente giustapposte, in quanto de-private dell’unitario indirizzo di politica del diritto che solo il legislatore può dettare; un diritto che si potrebbe definire stocastico.

Al novero delle norme afflitte da incostituzionalità patente, perché direttamen-te consequenziale al decisum della Consulta, va ascritta, innanzi tutto, quella

che ancora (per poco) conserva il criterio censurato dalla Corte costituzionale: si tratta dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 23/2015, relativo ai licenzia-menti, intimati in regime di Jobs Act, affetti da vizio formale/procedurale.

Ma seriamente indiziate sono anche quelle norme del regime statutario, che adottano criteri anch’essi unici ed esclusivi, benché diversi dall’anzianità di servizio: quale, ad esempio, sempre in tema di violazioni formali/procedurali, il sesto comma dell’articolo 18, che espropria la “discrezionalità” del giudice imponendogli di tener conto della sola «gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro», così vietandogli di considerare le “condizioni delle parti”, le “dimensioni dell’impresa”, e perfino quell’anzianità di servizio che la Corte costituzionale ha sì censurato quale criterio esclusivo, ma onorandolo pur sempre del ruolo di criterio “certamente rilevante”.

(20)

Seguendo la logica della sentenza n. 194/2018, verrebbe retoricamente da chiedersi se il «concreto pregiudizio subito dal lavoratore» sia meno meritevo-le di considerazione qualora l’ilmeritevo-lecito commesso dal datore di lavoro fosse di natura formale o procedurale; se, cioè, il danno “civilistico” (danno emergente e lucro cessante) muti forse a seconda della natura dell’illecito che lo ha pro-dotto, privando il lavoratore, comunque, del posto di lavoro.

A ciò si aggiungono gli effetti combinati del decreto dignità, che, elevando da quattro a sei e da ventiquattro a trentasei, rispettivamente, il limite minimo e il limite massimo dell’indennità per licenziamento ingiustificato nel regime del

Jobs Act, ha prodotto un eccessivo (e quindi, probabilmente, irragionevole)

divario tra – ancora una volta – il licenziamento affetto da vizio forma-le/procedurale (in cui la forchetta resta fissata tra il minimo di due e il massi-mo di dodici mensilità), e quello ingiustificato: adesso la sanzione per vizi formali e procedurali è pari a un terzo (prima era metà) di quella prevista per l’ingiustificatezza (46).

Ma molte altre sono le irrazionalità che sortiscono dal combinato effetto della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e della legge n. 96/2018 (47);

pressoché tutte integranti ipotesi di incostituzionalità latenti; e molte di esse, riguardanti il sopravvenuto scoordinamento (con conseguente, ingiustificata disparità di trattamento) rispetto al regime statutario.

Un problema di ingiustificata irragionevolezza può porsi, per esempio, con riferimento all’abnorme differenza che oggi – per effetto del decreto dignità – si è venuto a creare, nei licenziamenti ingiustificati, tra la forchetta statutaria e quella del Jobs Act: forchetta che nel regime del Jobs Act si attesta tra il

mi-nimo di sei e il massimo di trentasei mensilità, mentre nel regime statutario resta fissata tra dodici e ventiquattro mensilità; così conseguendone la doppia anomalia di un minimo che nel regime statutario è pari al doppio del contratto a tutele crescenti (12 vs 6), e di un massimo che nel regime del contratto a

tu-tele crescenti è invece superiore di un terzo (24 vs 36).

In questo disordinato e confuso assetto normativo, diventa addirittura impos-sibile valutare, in astratto, se il regime del Jobs Act sia meno o più favorevole

rispetto all’articolo 18 statutario: con conseguente, grave incertezza circa la sorte dei c.d. “accordi in deroga” al Jobs Act, che si sono discretamente diffusi

nella prassi delle relazioni di lavoro individuali e collettive, al fine di sottrarre i rapporti di lavoro instaurati dopo il 6 marzo 2015 al regime delle tutele cre-scenti e assoggettarli al “più favorevole” articolo 18 della legge n. 300/1970.

(46) Ciò non potrà che accentuare la già manifestata propensione della giurisprudenza

a minimizzare l’applicazione dei vizi formali/procedurali a favore di quelli sostanzia-li, come da noi preconizzato in A.TURSI, Il licenziamento individuale ingiustificato

irrogato per motivi soggettivi, in M.T.CARINCI, A.TURSI (a cura di), Jobs Act. Il

con-tratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 89 ss.

(21)

Per non dire – e qui l’irrazionalità è ascrivibile proprio al combinato disposto del decreto dignità e della sentenza n. 194/2018 – della sconsiderata latitudine (tra sei e trentasei mensilità) del perimetro in cui il giudice (che dubitiamo ne sia felice) si troverà a dover amministrare “discrezionalmente” l’indennità per licenziamento ingiustificato, senza quel prezioso stabilizzatore sistemico che è il criterio “aritmetico” dell’anzianità (48).

È difficile immaginare come un siffatto quadro giuridico possa evolversi. Dubitiamo che le rilevate incoerenze scaturenti dalla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale, dalla legge n. 96/2018, e dal loro combinato dispo-sto, possano superarsi in via interpretativa.

Quanto all’intervento del legislatore: è difficile credere nelle sue virtù tauma-turgiche, perché non si scorgono, al momento, indirizzi di politica del diritto idonei a ricondurre a razionalità il quadro normativo che si è “stocasticamen-te” venuto a creare.

Perché maturino le condizioni per una simile impresa, sarebbe, tra l’altro, ne-cessario sanare la frattura che, almeno a partire dalla riforma Biagi, si è venu-ta a creare creavenu-ta tra il legislatore e larga parte del ceto accademico-forense (49).

Solo a questa condizione sarebbe possibile, per esempio, superare le asperità dottrinali e giurisprudenziali in cui si era arenata la legge Fornero nella sua fase applicativa, così inducendo il legislatore a reagire in maniera a tratti scomposta, costringendolo a varare una riforma, quella del Jobs Act, che

mi-rava a riproporre in forma più precisa e chiara quanto, della riforma del 2012, era rimasto invischiato nella sabbie della law in action, venendo invece

inter-pretata e applicata come se fosse il superamento della prima.

(48) In dottrina si è ipotizzato che il giudice possa utilizzare il parametro dell’anzianità

di servizio come «base di partenza della quantificazione dell’indennità risarcitoria»: così, S.GIUBBONI, op. cit., § 1 e nota 5. Ma la tesi – se con essa, come pare, s’intende

affermare che l’indennità «resta […] inderogabilmente fissata (ovviamente entro la soglia minima e il tetto massimo di legge, in due mensilità per ogni anno di servizio» – ci sembra francamente insostenibile, avendo la sentenza n. 194/2018, cit., eliminato dal testo dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 proprio le parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». A meno che non si attribuisca alla “discre-zionalità” del giudice la virtù taumaturgica di farle rivivere reinterpretandole in termi-ni di “base di calcolo” derogabile in melius.

(49) Si veda, se vuoi, A.TURSI, Dalla riforma dell’art. 18 al Jobs Act: riproposizione

o ricomposizione della frattura tra il legislatore e i suoi interpreti?, in M.T.CARINCI,

A.TURSI (a cura di), op. cit., XXV ss.; e già A.TURSI, Le riforme del mercato del

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