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3. Il Default Mode Network

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Academic year: 2021

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Riassunto

Il Default-Mode Network (DMN) è una rete di aree cerebrali maggiormente attive durante il riposo (resting) che vanno incontro a calo dell'attività (deattivazione) quando il cervello è chiamato a eseguire dei compiti. Queste aree svolgerebbero quindi una

"attività di fondo" destinata ad un lavoro mentale principalmente introspettivo e di elaborazione di piani, progetti e azioni.

In questa tesi si vuole esaminare la relazione esistente tra l'attività a riposo e la rete di working memory (WM), che invece ha lo scopo di gestire informazioni sensoriali ed utilizzarle rapidamente per ottenere una risposta immediata. Molti studi hanno verificato l'esistenza di una relazione inversa tra le attività di DMN e WM: ad un aumento dell'attività di un sistema corrisponde un calo dell'attività dell'altro.

Un altro aspetto che si vuole esaminare è la dipendenza di questa interazione dal carico di lavoro che la WM deve svolgere. Per questo gli esperimenti di Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) sono stati eseguiti sfruttando un task con vari livelli di difficoltà e di impegno per le aree collegate alla WM.

I dati sono stati acquisiti mediante uno scanner fMRI presso il Dipartimento di Neuroscienze Cognitive della facoltà di Psicologia e Neuroscienze dell'Università di Maastricht.

L'analisi dei dati successiva all'acquisizione è stata finalizzata a studiare la connettività funzionale, cioè la correlazione temporale tra due eventi neurofisiologici che si verifica in modo indipendente dalla connessione anatomica tra le aree ad essi collegate, per ottenere dei dati di base che confermino la validità del paradigma sperimentale.

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Abstract

The Default-Mode Network (DMN) is a network of brain areas which are more active during resting states. They undergo a decrease in activity when the brain is involved in tasks. These areas may be involved in a wide range of spontaneous, self-oriented activities and thoughts, like envisioning the future, thinking about past or planning future actions.

This thesis aims to examine the relationship between this default activity and the working memory network, which is instead involved in the management of sensory information, processed and rapidly used to obtain immediate responses. Many studies have assessed the existence of an inverse relationship between the activities in DMN and WM: an increase in the former's activity is related to a decrease in the latter's.

A further feature we intended to examine is the dependence of this DMN-WM relationship on the amount of work that the WM network is called to do. For this reason the fMRI experiments were conducted using a multi-load task, which stimulated WM to different extents.

The reported data were acquired using a fMRI scanner at the Department of Cognitive Neuroscience of the Faculty of Psychology and Neurosciences at Maastricht University.

The data analysis following acquisition aimed to study the functional connectivity, i.e.

the temporal correlation between two neurophysiological events which undergoes independently from their anatomical connections.

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1. Introduzione

Il lavoro di questa tesi è stato svolto presso il Dipartimento di Neuroscienze Cognitive dell'Università di Maastricht (Paesi Bassi).

Il presente studio si inserisce nell'ambito di un progetto triennale dal titolo "The functional role of the brain's "Default-Mode Network": a simultaneous TMS-fMRI study" le cui ricerche hanno avuto inizio nel Febbraio 2010.

Il Default-Mode Network è una rete di aree cerebrali identificata di recente, che sarebbe responsabile dell'attività mentale "basale", cioè quella che avviene in assenza di stimoli esterni. Le indagini su questo tipo di attività a riposo sono iniziate solo negli ultimi anni ed hanno portato ad ipotizzare un coinvolgimento di questa rete nella memoria ed in altre funzioni cerebrali fisiologiche e patologiche.

Per analizzare l'attività di questa rete viene impiegato un nuovo tipo di studi di Risonanza Magnetica Funzionale, detta Resting State fMRI (rsMRI), che comporta l'indagine di immagini acquisite durante lo stato di riposo per studiare l'attività non derivante da stimoli esterni.

Un recentissimo filone di ricerca è quello dell'indagine delle relazioni tra il Default- Mode Network ed altri sistemi neuronali come la Working Memory, rete che ha la funzione di utilizzare le informazioni acquisite dal cervello per ottenere risposte rapide.

La ricerca in corso presso il Dipartimento di Neuroscienze Cognitive si propone di investigare con un approccio metodologico innovativo e multidisciplinare le relazioni tra il Default-Mode Network e la Working Memory, utilizzando dapprima la fMRI per identificare le aree cerebrali che costituiscono queste reti e i rapporti che esse hanno in condizioni basali, per poi proseguire con l'impiego combinato della fMRI e della Stimolazione Magnetica Transcranica (Transcranial Magnetic Stimulation, TMS). Infatti la TMS è una metodica di indagine funzionale che consente di inattivare temporaneamente alcune aree utilizzando campi magnetici localizzati, per valutare l'effetto che la funzione di queste aree ha sulla capacità del soggetto di rispondere agli stimoli.

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Un fondamento delle indagini del Default Mode Network è l'analisi della connettività intrinseca, cioè la correlazione funzionale tra le singole aree cerebrali che lo compongono. Il progetto di ricerca ha in programma di esaminare la connettività dapprima in condizioni basali, per studiare successivamente gli effetti della TMS, applicata ad alcune aree del Default Mode Network, sulla connettività intrinseca di questa rete.

Pertanto il mio lavoro di tesi si è inserito nelle fasi preliminari di questo progetto, comprendenti la validazione del metodo e la ricerca delle aree su cui svolgere l'indagine durante le fasi successive dello studio.

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2. La Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI)

Uno studio di fMRI prevede l'acquisizione di due tipi di immagini: un'immagine anatomica statica in 3D (vmr), a cui si sovrappone l'immagine funzionale (fmr) mediante un processo detto coregistrazione. L'immagine funzionale non ha alta risoluzione spaziale ma è dinamica, ovvero contiene informazioni sull'attività delle aree cerebrali nel tempo, mentre l'immagine anatomica è statica e ad alta risoluzione, pertanto unendo le due si può ottenere uno studio dell'attività metabolica su un'immagine ben definita.

a. Principi fisici e creazione delle immagini in RMN

La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) è una tecnica che utilizza campi magnetici e onde a radiofrequenza per ottenere immagini digitali.

Il fenomeno fisico della risonanza magnetica fu osservato per la prima volta da Bloch (Bloch et al. 1946) e Purcell (Purcell et al. 1946) ma divenne applicabile solo negli anni '70, dopo la scoperta, da parte di Paul Lauterbur (1973), di una tecnica per codificare l'origine spaziale del segnale, in tutto simile a quella che Hounsfield nello stesso periodo stava mettendo a punto per la TAC.

Alla base del fenomeno c'è la capacità di alcuni nuclei atomici di assorbire energia quando sono immersi in un campo magnetico uniforme. Questa proprietà è influenzata dal numero di protoni nel nucleo degli elementi in questione: sono eccitabili gli atomi con un numero dispari di protoni. Nel corpo umano, gran parte dei protoni eccitabili appartengono agli atomi di idrogeno, e le fonti principali di questo elemento sono acqua e lipidi.

Caratteristica dei protoni non eccitati è quella di possedere uno spin, cioè di ruotare attorno ad un asse centrale. In assenza di campi magnetici esterni, gli spin hanno disposizione casuale, cioè sono distribuiti in modo equo tra tutte le direzioni possibili.

Se invece si immergono questi atomi in un campo magnetico esterno B di intensità

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elevata, gli spin dei nuclei tendono ad allinearsi al campo, cioè assumerne la direzione, con verso parallelo o opposto (antiparallelo) a quello del campo (Fig. 1). I nuclei che si dispongono con spin parallelo sono in numero maggiore di quelli con spin antiparallelo, e il rapporto tra le due popolazioni di nuclei dipende direttamente dall'intensità del campo magnetico B0 come affermato dalla legge di distribuzione di Boltzmann.

Il rapporto n2

n1 è assimilabile al rapporto tra la popolazione di nuclei a spin parallelo e quella a spin antiparallelo, la sua dipendenza dall'intensità del campo B è intuibile perché tutti i valori oltre a B0 sono costanti (γ = momento giromagnetico, costante dipendente dall'elemento chimico; h = costante di Planck, k = costante di Boltzmann, T

= temperatura assoluta in gradi Kelvin).

Questo processo e la differenza esistente tra il numero dei protoni aventi spin parallelo ed antiparallelo, portano ad una magnetizzazione netta del mezzo: il campo risultante, Fig. 1: Effetto sulla materia dell'immersione in un campo magnetico esterno. a. senza campo magnetico gli spin sono diretti indifferentemente in tutte le direzioni. b. Il campo magnetico determina una magnetizzazione con direzione parallela a quella del campo.

c. Moto di precessione risultante dall'applicazione del campo. (da Goebel 2007)

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M0 , avrà direzione parallela al campo B0 e inensità proporzionale alla differenza tra le due popolazioni, n2 e n1, aventi spin opposti. L'allineamento degli spin al campo magnetico non è perfetto e non assume esattamente la direzione del campo: gli spin infatti tendono a ruotare attorno ad un asse leggermente deviato, che a sua volta ruota attorno all'asse del campo magnetico con un moto detto di precessione. La frequenza di rotazione dello spin è detta frequenza di precessione o di Larmor ( ω0 ). Anche questa frequenza, che tende sempre a mantenersi nel range delle radiofrequenze (RF) è direttamente proporzionale all'intensità del campo magnetico B0 , come confermato dalla sua equazione

ω0=γB0

La frequenza di precessione è importante perché è alla base del fenomeno della risonanza: un impulso con frequenza pari a ω0 , infatti, causa l'eccitazione del protone e l'assorbimento dell'energia portata dall'impulso. L'assorbimento di energia fa si che gli spin passino da un orientamento parallelo all'asse del campo magnetico ad uno perpendicolare ad energia più alta (Fig. 2), che viene mantenuto finchè è presente l'impulso a radiofrequenza. Il vettore M0 viene ora a trovarsi su un piano trasversale rispetto a quello di equilibrio.

Fig. 2: A sinistra è mostrato il vettore magnetizzazione del mezzo, scomposto nei tre assi cartesiani X,Y,Z. A destra: l'impulso RF porta il vettore a massimizzare la

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Quando l'impulso è cessato, il vettore ritorna nella situazione di equilibrio dando luogo al fenomeno del rilassamento, che avviene sia nella componente longitudinale che in quella trasversale.

La componente trasversale del vettore M0 tende a scomparire (Fig. 3), visto che il campo torna ad avere direzione longitudinale rispetto a B0. La componente longitudinale, invece, si è annullata e, terminato l'impulso, ritorna al valore iniziale.

Parametri fondamentali in risonanza magnetica, quindi, sono i tempi di ritorno delle componenti del vettore M0 alla situazione di equilibrio.

Si hanno quindi:

- Il tempo di rilassamento (ovvero di "scomparsa") della componente trasversale del vettore M0 detto anche tempo di rilassamento spin-spin, o T2 , del valore approssimativo di 10−4 secondi.

- Il tempo di rilassamento (ovvero di "ricomparsa") della componente longitudinale del vettore M0 , detto anche tempo di rilassamento spin-reticolo, o T1 del valore approssimativo di 300-2000 msec. Quindi T2 è sempre minore o uguale a T1 .

Fig. 3: Rilassamento della componente trasversale del vettore di magnetizzazione, in funzione del tempo. La curva assume l'aspetto di una funzione esponenziale ad esponente negativo. (da Buxton 2009)

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Impulsi RF dati periodicamente producono quindi una serie di cicli di eccitazione- rilassamento. Una delle basi dell'utilizzo clinico di questo fenomeno è che il processo di rilassamento comporta la cessione di energia sotto forma di onda a radiofrequenza, che può quindi essere letta da una bobina esterna. Altro fondamento dell'utilità clinica della risonanza è la capacità di discriminare sostanze diverse: quando avviene il rilassamento, gran parte dell'energia incamerata dai nuclei viene ceduta, come già detto, sotto forma di onda RF e una parte minore è ceduta ai nuclei vicini. Questo fenomeno si chiama rilassamento spin-lattice e la quota di energia ceduta in questo modo è specifica per ogni elemento chimico. Perciò, mentre l'energia somministrata dalle onde RF in partenza è sempre la stessa, quella dell'onda di ritorno varia a seconda delle sostanze che quest'onda ha incontrato e permette la visualizzazione dei diversi elementi con tonalità differenti di grigio.

Per la formazione delle immagini sono necessari altri passaggi. Uno è l'eccitazione selettiva di una sezione (slice) da esaminare, l'altro è la localizzazione spaziale degli impulsi di ritorno, per dedurre dal segnale la zona della slice in cui questo è stato prodotto. Questa localizzazione avviene mediante i cosidetti gradienti di campo, scoperti da Lauterbur e Mansfield nel 1973, che per questa scoperta hanno ricevuto il premio Nobel. Una bobina, detta bobina di gradiente, aggiunge al campo magnetico statico B0

un ulteriore campo, la cui intensità varia linearmente in rapporto alla distanza dalla bobina che lo emette. Siccome le frequenze di precessione dipendono dal campo magnetico, anche esse varieranno con la distanza dalla bobina. Quindi, un impulso RF ad una certa frequenza andrà ad eccitare tutti i nuclei che compiono moto di precessione a quella frequenza e si trovano ad una certa distanza dalla bobina. In questo modo avviene la selezione di una slice corrispondente ad una data distanza dalla bobina.

Variando la frequenza dell'impulso RF si può via via coprire tutto il range delle frequenze di precessione e così si ottiene un'immagine di tutto il volume desiderato, divisa in slices che possono essere prese in ogni direzione: trasversali, sagittali, oblique.

Nel caso di un uso "pratico" della RMN si può anche modificare lo spessore delle slices, variando il campo emesso dalla bobina di gradiente. La lettura vera e propria delle slices avviene mediante un secondo gradiente, detto frequency encoding gradient o gradiente

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di lettura (read out), che con un meccanismo analogo a quello descritto sopra suddivide una slice in colonne di ampiezza costante, eccitate da impulsi di intensità graduale, ciascuna delle quali ha una frequenza di stimolo differente dalle altre. Nell'ambito di una di queste colonne, una terza frequenza detta phase encoding gradient (gradiente di codifica di fase) identifica le varie posizioni. La colonna, quindi, è suddivisa in pixel singoli. Le frequenze entrano in azione in maniera sequenziale e si ottiene quindi un unico segnale che somma gli echi di ritorno emessi da tutti i pixel del singolo strato. Per separarli si utilizza l'analisi di Fourier, così da ogni singola onda vengono estratte le varie frequenze, corrispondenti alle varie posizioni. Lo spazio che così si ottiene è detto k-spazio, e contiene una rappresentazione bidimensionale di tutte le posizioni della slice così ricostruita. Il tempo trascorso tra l'erogazione dell'impulso e il picco di segnale eco è detto tempo eco (Echo Time, TE), parametro importante in fMRI. Quando tutto il volume è stato acquisito il processo di eccitazione e scansione riprende da capo.

L'intervallo tra due scansioni successive della stessa regione, cioè il tempo che trascorre prima che un'area venga acquisita successivamente, è detto risoluzione temporale. In buona parte degli studi questo tempo ammonta a circa 1,5-2 secondi.

La sequenza di scansione più comunemente usata negli studi di fMRI dell'encefalo è detta GE-EPI (Gradient-Echo Echo Planar Imaging). Questa richiede macchine sofisticate in grado di applicare i tre gradienti di impulso descritti sopra in successione molto rapida e quindi consente una scansione molto veloce con TE molto basso: l'intero volume, infatti, è acquisito in circa 50-100 ms. Il prezzo da pagare per questa rapidità di scansione è la presenza di artefatti, soprattutto legati al movimento, che necessitano di essere aboliti durante la postproduzione delle immagini.

b. Il volume rendering (VR) e l'acquisizione di immagini tridimensionali

Una scansione funzionale del SNC richiede la creazione di un'immagine anatomica, ovvero un'immagine tridimensionale dell'encefalo a cui sovrapporre i dati funzionali ottenuti. La scansione RM tridimensionale differisce dalla RM tradizionale per vari aspetti. Il più importante è l'assenza di slices: nella RM tridimensionale infatti manca il

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gradiente di slice e il volume è acquisito tutto insieme. Il k-spazio in questo tipo di risonanza non è planare ma tridimensionale. Un gradiente di slice è applicabile successivamente per avere dati ripartiti in slices dette partizioni, che sono molto più sottili delle slices 2D: si arriva quasi ad avere voxel isotropici, cioè con tutte e tre le dimensioni uguali (Fig. 4).

Il tempo richiesto per la scansione tridimensionale è molto più lungo, visto che la mole dei dati da acquisire arriva a essere anche migliaia di volte superiore. Questo rende necessario il ricorso a sequenze veloci come la EPI, che abbassano la durata delle scansioni.

Un altro problema che si crea nell'imaging 3D è il dover rappresentare un'immagine tridimensionale su una superficie bidimensionale come uno schermo. Per risolverlo si possono utilizzare varie strategie: lo slicing (suddividere l'immagine in strati, come se fosse un'immagine 2D), il surface rendering (creare uno sviluppo della superficie) e il volume rendering (dare opacità, colori e ombreggiature per ottenere un effetto Fig. 4: Slice 2D e partizioni 3D. Nella scansione tridimensionale la terza dimensione dei voxel è molto ridotta, arrivando ad essere uguale alle altre (voxel isotropico).

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tridimensionale). Ciascuna di queste metodiche ha i suoi vantaggi e svantaggi rispetto alle altre e negli studi di fMRI vengono utilizzate tutte e tre.

Nel surface rendering, l'immagine viene dapprima elaborata per rimuovere gli artefatti del segnale, poi si procede con un'operazione detta segmentazione, definibile come la messa in evidenza della parte dell'immagine su cui si vuole lavorare. Un metodo per eseguire la segmentazione è la ricerca di una soglia di intensità (thresholding): si fissano dei valori-limite e tutti i pixel di intensità inferiore o superiore a questi valori sono eliminati. Si può anche procedere con il masking (selezione in blocco di pixel anche distanti con intensità simile), la selezione dei contorni delle aree e così via. Nella fMRI dell'encefalo la segmentazione si usa soprattutto per selezionare la sostanza bianca separandola dalla grigia (Fig. 5). Dopo la selezione avviene la creazione dello sviluppo vero e proprio, con una tecnica di approssimazione (marching cubes) che consente di

"appiattire" il volume tridimensionale tenendo conto delle distanze e delle proporzioni.

Nel volume rendering (che nella fMRI dell'encefalo è meno usato) non c'è il passaggio ad uno sviluppo bidimensionale e l'immagine acquisita dallo scanner è direttamente elaborata come immagine 3D. Appositi algoritmi permettono di rappresentare le Fig. 5: Esempio di segmentazione: dopo la selezione dei voxel corrispondenti alla sostanza bianca (a sinistra) si procede al loro isolamento e separazione dal resto dell'encefalo (a destra).

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distanze, le sfumature di grigio e le superfici interne. Questo tipo di elaborazione è indicato se si deve lavorare su dati puramente anatomici, ma nella fMRI renderebbe molto difficile la sovrapposizione tra volume anatomico e dati funzionali, che sono di tipo diverso.

Un problema che si ha con questo tipo di immagini è quello delle coordinate spaziali: è impossibile che i dati prodotti dagli scanner RM siano confrontabili, perché la posizione del soggetto non è mai identica in tutti gli esperimenti. Le immagini 3D dell'encefalo vanno quindi tutte portate in un sistema standard di coordinate per essere poi utilizzate o fuse (coregistrate) con immagini funzionali. La mappa stereotassica standard per l'encefalo è quella di Talairach (Talairach e Tournoux 1988) che sfrutta sei punti differenti per effettuare una normalizzazione del volume encefalico in modo da rendere possibili i confronti tra set di dati differenti e gli impieghi pratici successivi (Fig. 6, Tav.

1).

Fig. 6: Trasformazione delle coordinate dell'immagine in coordinate standard.

Nell'immagine non trasformata (a sinistra) la griglia che rappresenta le coordinate standard di Talairach non coincide con i contorni dell'encefalo. Una volta applicata la trasformazione (a destra) la griglia si adatta e le nuove coordinate sono quelle standard .

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c. L'effetto BOLD e l'acquisizione di immagini funzionali

La tecnica BOLD (Blood Oxygen Level Dependent, Ogawa et al. 1990) è particolarmente adatta ad essere impiegata in uno studio fMRI a causa dell'assenza di invasività e della praticità d'uso, derivante dal fatto che questo tipo di RM non necessita di un mezzo di contrasto e può essere eseguito su tutti i comuni macchinari per RM. Il principio su cui si basa questa tecnica è semplice: il maggior lavoro di una certa area cerebrale, inteso come maggior flusso di potenziali, di mediatori sinaptici etc. porta ad un accelerato metabolismo, che causa un aumentato fabbisogno di glucosio, ossigeno e metaboliti nell'area attivata. È soprattutto a livello delle sinapsi che cresce l'internalizzazione del glucosio, quindi in quella zona si ha un aumento del flusso ematico locale che in alcune aree è correlato linearmente all'aumento di necessità, mentre in altre il rapporto è "disaccoppiato". Il principio di funzionamento del BOLD è semplice: l'attivazione di un'area causa aumento di flusso sanguigno, qundi un calo relativo della concentrazione della desossiemoglobina, che causa un aumento locale del segnale. Per valutare meglio un meccanismo simile sono indicati test con andamento

"on-off", ovvero stimolazioni non continue dell'area in esame. Un aspetto da considerare è l'esistenza di una latenza: dopo la stimolazione di un'area occorrono in media 6 secondi prima di avere il picco massimo di segnale.

Fig. 7: Cinetica del segnale BOLD. Sotto il grafico è rappresentato uno stimolo e la curva mostra la conseguente variazione del flusso sanguigno. Notare la risposta ritardata. (da Goebel 2007)

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Anche i dati ottenuti con BOLD-fMRI sono particolarmente soggetti ad artefatti legati al movimento del soggetto, che quindi devono essere eliminati con una apposita metodica (3D Motion Correction) (Thacker et al. 1999). Un altro passaggio importante nell'elaborazione di queste immagini è la coregistrazione, cioè la sovrapposizione dell'immagine funzionale (fmr) ad un'immagine anatomica a risoluzione molto più alta (vmr). Il risultato quindi è un'immagine anatomica in cui è visibile anche il pattern di attivazione, ovvero quali aree hanno modificato la loro attività e come questa è variata nel tempo.

Fig. 8: Un esempio di tracciato di attività (time course). Nell'immagine a destra è selezionato un volume di interesse (VOI) visibile all'incrocio degli assi, il grafico a sinistra esprime la variazione del segnale BOLD di questo volume.

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3. Il Default Mode Network

Il concetto di Default-Mode Network (DMN o Default Network, DN) si è affermato di recente per identificare un sistema specifico e anatomicamente definito che entra in funzione quando l'attività mentale dell'individuo non è orientata verso l'ambiente esterno.

a. Scoperta del DMN.

Le prime osservazioni di attività mentale nello stato di riposo iniziarono vari decenni fa, visto che generalmente si utilizzava il riposo come condizione di controllo durante gli esperimenti e si disponeva perciò di una notevole mole di dati. Si potè notare quindi che l'attività di alcune aree che venivano attivate durante certi compiti (task) restava costante anche dopo la conclusione dei task medesimi. In particolare Ingvar (1979) notò che in alcune aree frontali (PFC) l'attività a riposo era addirittura superiore rispetto a quella registrata durante i task. Nel decennio successivo arrivarono i risultati di alcuni studi PET che confermarono questo fenomeno, definito task-induced deactivation (TID) perché in queste aree l'attività nelle condizioni-controllo (il riposo) è maggiore di quella rilevata durante il task, perciò si dice che queste aree si "deattivano" durante il task.

Ulteriori studi (Andreasen et al. 1995) portarono a definire l'attività del resting state come "generazione e manipolazione di immagini mentali, ricordo di esperienze passate basate sulla memoria episodica e pianificazione di azioni". L'inizio della ricerca concentrata sul DMN è avvenuto nel 2001, con il primo di una serie di articoli (Raichle et al. 2001) che hanno tentato di individuare quali, tra le aree soggette a deattivazione task-indotta, sono parti del DMN e quali invece non lo sono. Il primo nucleo di aree comprende: la corteccia prefrontale ventro-mediale (VMPFC), la corteccia cingolata posteriore (PCC), il lobulo parietale inferiore (IPL) e la formazione dell'ippocampo (HF) (Appendice a). Il sistema default, così caratterizzato anche da un punto di vista anatomico, può essere esaminato come un sistema autonomo e definito, proprio come il sistema visivo, quello uditivo etc.

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b. Anatomia del DMN

I primi esperimenti che hanno indagato il DMN sono stati eseguiti tramite la PET, sfruttando paradigmi detti "blocked tasks", necessari perché questa metodica ha un tempo di acquisizione di un minuto, perciò occorre un "blocco" di trials della durata complessiva di almeno un minuto per poter ottenere un'immagine funzionale dell'attività delle aree. Con l'avvento della fMRI, è stato possibile mappare il DMN mediante studi di connettività funzionale (Greicius et al. 2003, Greicius e Menon 2004). Il vantaggio di questo tipo di studi è un'analisi indipendente dal task: si possono infatti identificare aree che sono funzionalmente connesse a parti del DMN senza che mostrino necessariamente una deattivazione indotta dal task. Questi studi hanno confermato lo schema creato dai primi studi PET, segnalando anche il ruolo importante della formazione dell'ippocampo nel DMN: tutte le aree neocorticali che fanno parte del DMN sono, infatti, funzionalmente connesse all'ippocampo e questa connessione è stata dimostrata in studi condotti con tutti i differenti paradigmi sperimentali. Un altro gruppo di studi condotti con indagini di anatomia comparata ha portato a formulare ipotesi che sono state poi verificate nell'uomo. Sono stati trovati collegamenti tra la PCC e il lobo temporale mediale, il lobulo parietale inferiore (aree di Brodmann 39-40, appendice a).

L'ippocampo e la PCC sembrano avere il compito di gestire ed elaborare queste connessioni. Questo sistema di aree costituirebbe il nucleo posteriore del DMN. L'altra parte, il nucleo anteriore, avrebbe come punto centrale la MPFC e sarebbe composta da una serie di aree situate vicino alla linea mediana frontale. Le aree connesse con la vMPFC sarebbero l'area 10 (parte della corteccia frontale), la corteccia cingolata anteriore e l'area 9, parte della corteccia prefrontale (PFC). Lo schema derivante dagli studi di FC propone quindi tre nodi (PFC, IPL, vMPFC, Figg. 9, 10) a cui sono collegate tutte le altre regioni, che sono anche reciprocamente connesse. La dMPFC e l'HF, invece, sono connessi ai nuclei ma sono separati reciprocamente e questo fa pensare che siano parte di due sistemi distinti nell'ambito del DMN. Tutti questi dati portano ad una conclusione: il DMN non è un sistema monosinaptico con un pattern di connessioni preciso, ma è costituito da una serie di aree connesse tra loro ed organizzate attorno a tre nodi, collegati con tutte le regioni che costituiscono questa rete. Questa organizzazione

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interna del DMN fa notare l'importanza del comprendere quale sia il contributo di ciascuna delle singole aree che lo compongono alla sua funzione complessiva.

Fig. 9-10: Nodi del DMN. La figura in alto mostra come le tre aree identificate come nodi (IPL, vMPFC, PCC) hanno il maggior numero di connessioni, essendo collegate a tutte le restanti aree. In basso, rappresentazione grafica dei nodi e delle connessioni.

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c. Fisiologia del DMN

Il DMN, come già accennato, ha attività maggiore quando il pensiero del soggetto non è diretto verso l'esterno. Si è quindi subito ipotizzata la sua relazione con attività come la fantasia, il cosiddetto daydreaming (lett. "sognare di giorno"), attività comprendenti la pianificazione di atti futuri e il richiamo alla memoria di episodi passati. Questo tipo di attività, descritte fin dall'epoca greca, sono state solo da poco ritenute dei processi mentali attivi: inizialmente, infatti, non si pensava che fossero delle funzioni a sé stanti, ma un deficit del funzionamento di altre, in questo caso il mantenimento dell'attenzione.

Oltre a inquadrare questo tipo di attività, detta spontaneous cognition (cognizione spontanea) adesso è via via più chiara l'importanza che essa ha nella pianificazione delle azioni da compiere.

Sono molti gli studi ed i passaggi che hanno portato a ipotizzare un legame fra l'attività mentale spontanea e il DMN.

La prima osservazione è stata quella dei SITs (Stimulus Independent Thoughts), che sono momenti in cui il soggetto pensa a qualcosa che non è collegato al task che sta svolgendo. Il modo più pratico per identificarli è chiedere al soggetto quante volte durante il task si è impegnato in attività mentale di questo tipo. I SITs non si verificano solo durante i task, ma anche durante il riposo e sono stati sistematicamente studiati tra gli anni '60 e '70 (Antrobus et al. 1966, 1970), mentre altri gruppi esaminavano genericamente i cosiddetti lapses of attention (vuoti di attenzione), cioè dei momenti in cui il soggetto non riusciva a mantenere l'attenzione su quello che stava compiendo, estremizzati in uno stato detto absent-mindness, in cui questi momenti sono particolarmente frequenti. Studi di neurofisiologia su questi stati di disattenzione hanno fornito possibili spiegazioni: prima di un vuoto di attenzione, si nota un calo dell'attività di alcune aree cerebrali collegate all'attenzione stessa, come la corteccia del cingolo dorsale anteriore e la corteccia prefrontale (PFC). Successivamente, durante il periodo di disattenzione, si nota un aumento di attività in alcune aree che compongono il DMN, come la PCC (Fox et al 2005) . Studi sui SITs hanno dimostrato un aumento dell'attività del DMN nel corso di esperimenti durante i quali il soggetto riferiva di aver avuto molti SITs (Buckner et al. 2008).

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Con la fMRI è stato possibile studiare l'attività e le eventuali connessioni di queste aree e cercare correlazioni con i vuoti di attenzione e l'attività cerebrale spontanea. Un rilievo fondamentale è stato quello di un'attività sincrona a riposo della PCC e della MPFC, entrambe componenti del DMN (Fox et al. 2005).

La sincronizzazione di queste aree è un fenomeno molto marcato, evidente soltanto a riposo: l'esecuzione di un task attenua molto questo fenomeno. Questa sincronizzazione ha, inoltre, una forte correlazione positiva con i SITs e i vuoti di attenzione. Così si sono dimostrati sia il legame positivo tra attività del DMN ed i momenti di distrazione e di calo di attenzione, che la sincronizzazione dei due nodi del DMN, molto maggiore durante il riposo.

Oltre alle modalità di attivazione del DMN, le ricerche finora compiute hanno tentato di chiarire anche il tipo di attività, le funzioni del DMN e le informazioni che gestisce durante la sua attività. Una prima osservazione importante è la scoperta che il DMN non è legato ad aree primarie dei sistemi sensitivi, mentre ha legami con il sistema del lobo Fig. 11: Correlazione tra l'attività della MPFC e della PCC, dimostrata dalla sovrapposizione perfetta dei tracciati segnale-tempo (time courses). (da Fox et al. 2005)

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temporale mediale, legato alla memoria. L'attività del DMN spesso ha dimostrato anticorrelazione con quella dei sistemi sensitivi e questo ha reso possibili alcune ipotesi sull'attività di questa rete, che deve necessariamente svolgere funzioni che non necessitano di un contributo importante dei sistemi sensitivi specializzati.

Esiste una "ipotesi sentinella", secondo cui il DMN avrebbe una funzione importante nel mantenere l'attenzione del soggetto attiva ma diffusa; quando si svolge un compito l'attenzione è concentrata verso di esso, mentre durante il riposo l'attenzione sarebbe diretta verso tutto l'ambiente circostante, seppure ad un livello più basso di quello che si mantiene durante un task. Il DMN avrebbe un ruolo nel sostenere questo "stato di esplorazione" (Shulman et al. 2007) che tiene poco impegnato il cervello mentre altri sistemi possono entrare in gioco pianificando azioni o riflettendo sul passato, cioè compiendo la vera e propria "attività mentale dello stato di riposo".

Secondo l'altra ipotesi principale, il DMN avrebbe un ruolo attivo nel creare l'attività mentale dello stato di riposo, che è diretta verso il soggetto (introspettiva) e non verso l'ambiente esterno, ed è perciò definita internal mentation. Questa attività ha molte componenti: quando un soggetto a riposo è lasciato libero di pensare può richiamare alla memoria precedenti episodi della sua esistenza, progettare e immaginare situazioni future, immaginare il suo comportamento in certe occasioni e in genere compiere un'attività detta mental simulation (simulazione mentale), ovvero la costruzione di situazioni ed eventi ipotetici.

Molti sono gli elementi che suggeriscono un coinvolgimento del DMN in questa attività:

è stato dimostrato il coinvolgimento della formazione dell'ippocampo, che unisce il DMN e la memoria, facendo parte di entrambi i sistemi. Un aumento di attività in parti del DMN come dMPFC, IPL, PCC è stato segnalato anche in esperimenti di memoria autobiografica, in cui il soggetto doveva pensare al proprio passato (Andreasen et al.

1995) ed in esperimenti di theory of mind (mentalizing), in cui il soggetto doveva pensare e immaginare le intenzioni ed il comportamento di altre persone in situazioni che gli venivano via via descritte (Saxe e Kawnisher 2003, Svoboda et al. 2006). Molte altre attività di questo genere (immaginare azioni future, confrontare possibili comportamenti alternativi) hanno dato attivazioni di questo gruppo di aree, che sono

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anche le aree impiegate nel retrieval della memoria autobiografica, avvalorando con ciò l'ipotesi secondo cui il DMN avrebbe la funzione di immaginare e ipotizzare eventi futuri utilizzando informazioni del passato personale dell'individuo.

Fig. 12: Diverse attività inerenti l'introspezione e la pianificazione di azioni attivano le stesse aree del DMN: la PCC e la (d)MPFC. (da Buckner et al. 2008)

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d. DMN e invecchiamento cerebrale

L'ipotesi di alterazioni della funzione del DMN derivanti dall'età è stata formulata da vari anni ed ormai esistono vari studi che confrontano l'attività del DMN in controlli sani giovani ed in soggetti anziani. Sono state esaminate sia le funzioni della rete che la connettività funzionale tra le aree che la compongono e gli studi a disposizione attualmente permettono di avere una visione di come l'attività (risposta ai task) e le connessioni interne al DMN variano con l'età (Sambataro et al. 2008).

Come è noto, il DMN ha attività maggiore quando il soggetto non svolge compiti specifici. I cali del segnale BOLD che i task inducono nelle aree di questa rete sono detti TID (Task Induced Deactivations). Confrontando soggetti anziani sani con controlli giovani, Lustig et al. (2003) hanno dimostrato un andamento lineare della profondità delle deattivazioni della mPFC e della PCC nel corso di esperimenti di WM di diversa natura. Quindi, con il procedere dell'età, cala la capacità di deattivare il DMN quando il cervello è impegnato a svolgere dei compiti. Oltre a ciò, le analisi della connettività tra le aree dimostravano un indebolimento delle connessioni intrinseche nel DMN ed un calo delle LFOs (Spontaneous Low Frequency Oscillations), oscillazioni dell'attività cerebrale a riposo sincrone e pertanto correlabili con la connettività stessa.

Nell'ambito degli esperimenti, quasi sempre si rilevava nel gruppo dei volontari anziani un peggioramento dell'accuratezza dei risultati dei trials e dei tempi di risposta. Era possibile identificare una correlazione positiva tra accuratezza ed entità delle deattivazioni, quindi il calo della profondità e dell'ampiezza delle deattivazioni era correlato ad un calo nell'accuratezza del task, che aumentava con il livello di difficoltà e con le risorse che era necessario allocare per compierlo. Una insufficiente deattivazione del DMN porterebbe quindi ad un'allocazione di risorse insufficiente per il task richiesto (Sambataro et al. 2008), perché se il DMN si deattivasse completamente, tutte le risorse da esso impiegate sarebbero a disposizione del task. Questa cosa invece non accade ed è stato ipotizzato che la ridotta capacità di destinare risorse alle attività cerebrali sia alla base della graduale distrazione e incapacità di concentrarsi sulle attività che si nota negli anziani e culmina poi nelle alterazioni dell'attenzione della malattia di Alzheimer.

Il ruolo di alcune aree del DMN come la PCC nel retrieval della memoria episodica e nel

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trasferimento nella memoria a lungo termine è stato messo in relazione col documentato declino di queste capacità nell'età senile (Kobayashi e Amaral 2003). Anche questa è un'alterazione che può restare sotto livelli compromettenti per la qualità della vita del soggetto ma, a causa dell'aumentata vita media, sempre più spesso giunge a livelli clinicamente evidenti portando alle alterazioni della memoria tipiche delle demenze.

e. Il DMN nell'MCI e nell'AD

La malattia di Alzheimer (Alzheimer's Disease, AD) è attualmente la principale demenza acquisita, con un'incidenza del 15-20% nella popolazione di età superiore ad 80 anni. Si tratta di un deterioramento graduale delle funzioni cognitive associato ad una serie di alterazioni anatomopatologiche tipiche: atrofia corticale con appiattimento delle circonvoluzioni e allargamento dei solchi, presenza di placche extracellulari di β- amiloide e di aggregati neurofibrillari intraneuronali costituiti da proteina τ, angiopatia amiloidea (congofila) (Kumar et al. 2010). Questa malattia è diagnosticabile solo in fase piuttosto avanzata grazie a scale come il MMSE (Mini Mental State Examination, Folstein et al. 1975). La storia clinica alla diagnosi è in genere giunta ad uno stadio piuttosto avanzato e la sopravvivenza media è di 6 anni. Recentemente è stato descritto un differente disturbo cognitivo, il MCI (Mild Cognitive Impairment, Petersen et al.

2001), che può essere definibile come un declino cognitivo non correlato all'età e che non altera le attività della vita quotidiana. Più del 50% dei soggetti con MCI però sviluppano AD in 5 anni (Petersen et al. 2001). L'inefficacia delle terapie farmacologiche iniziate in pazienti con AD conclamato hanno portato ad un maggiore interesse verso l'MCI e verso le alterazioni che possono essere evidenti già in questo stadio. È stata dimostrata la presenza di placche e di aggregati neurofibrillari (Petersen et al. 2006). Lo sviluppo delle alterazioni anatomopatologiche nell'AD assume una distribuzione molto simile a quella del DMN, con un coinvolgimento iniziale di PCC, IPL e LTC anteriore all'insorgenza dei sintomi (Klunk et al. 2004) e questo ha aumentato l'interesse sul ruolo di questa rete nella patogenesi dell'AD.

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Gli studi compiuti finora hanno cercato alterazioni della connettività tra i nodi del DMN e anomalie di funzionamento delle aree. Sono state evidenziate ridotte TID (Task Induced Deactivations) della PCC e della mPFC (Sorg et al. 2009) e alterazioni della connettività dei nodi del DMN posteriore con una serie di aree con ruolo nella memoria come il lobo temporale mediale (MTL) (Sorg et al. 2007). Altre alterazioni sono state rilevate a carico dei lobi parietali, con una diminuizione tra le correlazioni dello spessore corticale, altra metodica per studiare la connettività funzionale (Stam et al. 2007).

Nell'MCI è stata evidenziata una alterazione a carico della connettività della PCC e della mPFC simile a quella tipica dell'AD e questo ha portato a ipotizzare che questa alterazione sia uno dei markers più precoci di sviluppo dell'AD (Buckner et al. 2008). La precocità delle alterazioni del DMN ha favorito la formulazione di nuove ipotesi patogenetiche dell'AD che poggiano sulla centralità del DMN nello sviluppo di questa patologia. Una di queste è la cosiddetta ipotesi metabolica: la degenerazione delle strutture colpite dall'AD sarebbe conseguenza diretta di prodotti tossici del metabolismo e colpirebbe aree collegate alla memoria a causa della loro plasticità, che comporta processi metabolici continui (Mesulam 2000). Anche il DMN sarebbe implicato in processi simili: anche questa rete, essendo attiva a riposo e coinvolta in una serie di Fig. 13: Localizzazione delle aree del DMN confrontata con la distribuzione dell'atrofia e delle placche di amiloide in vari stadi della malattia di Alzheimer. Si nota una corrispondenza tra la distribuzione delle placche nei primi stadi dell'AD e il DMN

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funzioni, ha un metabolismo sostenuto ed è attiva per lungo periodo. La deposizione di β-amiloide e di aggregati neurofibrillari nelle aree del DMN potrebbe derivare quindi dalla spiccata attività metabolica di questa rete. Questa ipotesi è molto promettente e sono in corso molti studi per verificarla. Uno di essi (Cirrito et al. 2005) ha dimostrato deposizione di β-amiloide in topi sottoposti a continua stimolazione dell'attività cerebrale, mentre altri autori hanno confrontato la mappa della glicolisi nello stato di riposo e quella della deposizione delle placche di β-amiloide rilevando consistenti analogie (Mintun et al. 2006).

f. Il DMN negli ASD (Disturbi dello Spettro Autistico)

I disturbi dello spettro autistico sono alterazioni dello sviluppo che hanno tre criteri diagnostici fondamentali: disturbo nelle relazioni sociali; disturbo del linguaggio (sia percepito che parlato); riduzione del repertorio comportamentale e dell'immaginazione con reazioni stereotipate agli stimoli esterni. Alla base di questi disturbi ci sarebbe una ridotta capacità di immaginare e rappresentare gli stati mentali altrui, quindi un problema nella theory of mind. Questo porta immediatamente a sospettare un coinvolgimento di strutture collegate al DMN nell'autismo, visto che una loro funzione è quella di risolvere i problemi di theory of mind e i cosiddetti dilemmi morali. In particolare la MPFC è il nodo del DMN che ha la maggior correlazione con attività di questo tipo. Studi caso-controllo condotti su gruppi di pazienti autistici confrontati con volontari sani hanno evidenziato varie possibili alterazioni, ma il difetto più frequentemente osservato è un'aumentata attività della PFC e un calo delle sue deattivazioni. Lesioni della PFC portano ad una mente eccessivamente aperta verso l'esterno e priva di introspezione (Mundy 2003) e questo ha fatto supporre che iperattivazioni di quest'area diano eccessiva introspezione, uno dei caratteri tipici degli ASD. Alla base di questa iperattivazione potrebbe esserci un aumento della materia grigia in queste aree corticali (Waiter et al. 2004). Ma, malgrado un'aumentata attività delle singole aree, il DMN nel suo insieme e la connettività tra i nodi sarebbero alterati negli ASD: vari studi (Kennedy et al. 2006) hanno rilevato anomalie della connettività a riposo nei soggetti autistici, con riduzione delle LFOs. È stato ipotizzato un legame tra

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questi tracciati e l'alterata attività mentale introspettiva tipica degli ASD, ma queste indagini non hanno ancora portato a risultati definitivi, in particolare sulla relazione causa-effetto tra le alterazioni del DMN e la difficoltà nei problemi di theory of mind.

g. Il DMN nella schizofrenia

La schizofrenia è una patologia psichiatrica caratterizzata da una molteplicità di sintomi raggruppati in due grandi categorie: i sintomi positivi (allucinazioni visive, uditive, comportamento disorganizzato, disturbi dell'eloquio) e i sintomi negativi (alterazioni della memoria e dell'attenzione). La patogenesi e l'eziologia non sono chiare, ma è stato ipotizzato il coinvolgimento di alcune aree che fanno parte del DMN, come la PCC, oltre all'ACC e al cervelletto. Inoltre, alcuni dei sintomi positivi, come i deliri persecutori e le allucinazioni, sembrano derivare da un'alterata attribuzione dei pensieri e delle intenzioni altrui. Questo ha suggerito di portare avanti studi per valutare la connettività tra le aree del DMN in soggetti schizofrenici confrontandola con volontari sani. Studi recenti (Bluhm et al. 2007) hanno analizzato la connettività tra le aree del DMN, evidenziando una ridotta correlazione tra le fluttuazioni spontanee (LFOs) del segnale BOLD a riposo nella PCC e in altre regioni come il LPL, la mPFC e il cervelletto. Questa ridotta connettività del DMN sarebbe il corrispettivo neurofisiologico di una diminuita attività introspettiva, possibile base dei sintomi positivi della schizofrenia. L'attività della PCC sarebbe aumentata, in correlazione con la presenza e la gravità di sintomi positivi. Per quanto riguarda i sintomi negativi, è stata segnalata una correlazione tra le LFOs nella PCC e nel tronco cerebrale. Esisterebbero, infatti, delle vie a partenza dal tronco encefalico che regolano circuiti talamocorticali che potrebbero avere un ruolo nella genesi dei sintomi negativi. La PCC potrebbe far parte di questo circuito, ma questa ipotesi necessita di ulteriori verifiche.

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4. La Working Memory

La Working Memory (WM) è una funzione cognitiva che permette di trattenere e manipolare informazioni in brevi periodi di tempo per ottenere risposte immediate. Deve essere distinta dalla short-term memory (STM) che è la capacità di trattenere informazioni per brevi periodi, senza rielaborarle, quindi un corrispettivo delle sole funzioni di storage (capacità) della WM. Sono stati compiuti studi per indagare la sua entità, quali sono i meccanismi di memorizzazione e se è una capacità che può essere incrementata con l'esercizio. Tale capacità sembra, infatti, molto limitata: è stata stimata in 7 ± 2 unità e può essere aumentata solo applicando particolari strategie di memorizzazione, come il clustering (raggruppamento) delle informazioni, che permette di elaborare più dati come se fossero uno solo. Un esempio di task di STM è la memorizzazione (e la successiva ripetizione) di gruppi di cifre che possono essere appresi tutti insieme o raggruppati in base a criteri come la ripetizione o la presenza di cifre consecutive, aumentando quindi la performance e il numero delle cifre che possono essere apprese (Linden 2007).

Il concetto di WM è stato molto discusso perché, se le funzioni e il ruolo sono ormai note e condivise, non è ancora stato possibile trovare un modello per il suo funzionamento che fosse accettato da tutti. Evento importante nello studio della WM è stata senza dubbio la formulazione di un modello standard che ha provato a spiegarne l'attività. Questo modello è stato poi la base di ulteriori studi che ne hanno determinato, negli anni, una revisione, trovando al contempo varie ipotesi alternative.

a. Evoluzione del concetto di Working Memory - I modelli neuropsicologici

Le ricerche di un modello standard di WM cominciarono quando si iniziarono a dare fondamenti fisiologici ad alcuni concetti derivanti dalla psicologia, come quelli di memoria “immediata” e memoria “transitoria”. Il primo studio fu quello di Jacobsen (1936) che notò gravi alterazioni nella risposta ritardata (cioè evocata dopo una certa latenza rispetto allo stimolo iniziale) in scimmie a cui erano state praticate lesioni

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bilaterali della corteccia prefrontale, mentre una lesione unilaterale non lasciava reliquati comportamentali. Altri autori seguirono poi la strada aperta da questo importante studio, che segnalava la regione frontale e prefrontale come determinante per il funzionamento della memoria “immediata”.

Un altro importante passo arrivò con la descrizione del modello multicomponente della WM (Baddeley e Hitch 1974). Tale modello ipotizzava l'esistenza di due differenti tipi di memoria, uno per le informazioni verbali e uno per le informazioni visuospaziali, collegati ad un esecutore centrale che regolava l'attenzione e gestiva le informazioni di entrambi i tipi.

Più tardi si ipotizzò (Goldman-Rakic 1987, 1996) che i due tipi di memoria descritti dagli psicologi e l'attività della PFC durante i periodi di latenza osservata da vari neuroscienziati (Funahashi et al. 1989, 1990) avessero lo stesso fenomeno alla base, ottenendo così un modello che unificasse i due approcci. Ulteriori studi portarono a suddivisioni delle entità esposte finora e si arrivò allo schema definitivo, cioè il modello multicomponente della WM, (Baddeley 2000).

Phonological store & articulatory loop

Episodic buffer

Visuospatial sketchpad (Taccuino visuospaziale).

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Questo modello multicomponente è quello ritenuto attualmente più influente tra i neuropsicologi. In questo modello la PFC rivestiva ancora un ruolo centrale: si riteneva che immagazzinasse e elaborasse le informazioni di ogni tipo (visive, uditive, verbali...) oltre a utilizzarle per preparare le risposte e le azioni. Molti dati sperimentali hanno però messo in dubbio la centralità della PFC e altri fondamenti del modello multicomponente.

Ad esempio, ogni tipo di stimolo poteva essere suddiviso in vari sottotipi da elaborare separatamente: nel caso di stimoli verbali si potevano separare il contenuto (le parole) e il carrier (tono di voce etc.), informazioni diverse che necessitavano di rielaborazioni diverse (Wilson et al. 1993). Non è stata dimostrata un'attività della PFC compatibile con la rielaborazione separata di queste informazioni. Il modello multicomponente e in genere le teorie basate sulla centralità della PFC si sono rivelate quindi troppo semplici per descrivere una funzione così importante e con così tante informazioni da gestire.

b. Nuove proposte e modelli attuali.

Altri dati che suggerivano la necessità di rivedere i modelli di WM sono giunti da studi di lesione (Petrides 2000) i quali hanno evidenziato che danni alla PFC portavano a un declino delle capacità di compiere scelte tra più oggetti o più situazioni in tempi brevi, mentre era inalterata la capacità di compiere scelte tra due oggetti in un tempo più lungo.

Queste osservazioni sono state la base per un nuovo modello, che attribuisce alla PFC la funzione di elaborare e confrontare più rappresentazioni mnemoniche, avendo quindi un ruolo più nel ragionamento e nell'attenzione che nella memoria vera e propria. Per svolgere questo ruolo, la PFC dovrebbe essere collegata ad aree posteriori e inferiori, come la corteccia infero-temporale (IT) e altre aree sensoriali secondarie. A sostegno di questa ipotesi anche alcuni studi di lesione che hanno osservato che soggetti con danni alla PFC anche notevoli hanno una limitazione della capacità e della rapidità nel prendere decisioni, ma non della capacità di memorizzare informazioni. Inoltre, se un'area ha un ruolo di memorizzazione attiva, la sua attività deve crescere mano a mano che il task diventa più impegnativo e implica la gestione di più informazioni. Nella PFC non è stata dimostrata un'attività di questo tipo, che invece è reperibile in altre zone come il lobulo parietale superiore (SPL) e quello inferiore (IPL).

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Quindi l'attuale modello vede la WM come una funzione data dall'interazione tra aree associative, che sono le stesse aree deputate all'elaborazione secondaria degli stimoli specifici (visivi, uditivi, verbali) e vengono attivate nel periodo in cui le informazioni sono necessarie per svolgere un certo compito (Rucklin et al. 2003). Il ruolo della corteccia prefrontale è discusso, ma vari studi di lesione hanno segnalato una riduzione della performance di soggetti con difetti della PFC in task di WM se erano presenti stimoli distraenti (Chao e Knight 1995, Jensen et al. 2002). Il compito principale della PFC quindi sarebbe quello di selezionare le informazioni rilevanti per il compito da svolgere, evitando l'elaborazione di stimoli distraenti esterni o interni (abolizione dell'interferenza proattiva: ciò a cui il soggetto stava pensando prima del test). La capacità di filtrare le interferenze è determinante nel mantenimento dell'attenzione, che quindi sarebbe un importante compito della PFC (Kane e Engle 2003).

c. Relazione tra WM e altri sistemi corticali.

La memorizzazione delle informazioni passa attraverso tre fasi fondamentali: la codifica (encoding), il mantenimento (storage) e la decodifica (retrieval). Ad esse si aggiunge la fase esecutiva, cioè l'applicazione dello stimolo e la risposta effettrice. Queste fasi sono studiate dai task di WM e devono essere studiate quando si esaminano i risultati dell'esperimento, perché l'attività cerebrale è diversa in ognuna di queste fasi.

Il presente studio ha lo scopo di indagare la relazione tra WM e DMN. La composizione e le modalità di attivazione dei due sistemi sono in apparenza molto diverse: il DMN si deattiva durante i tasks, ha attività maggiore nello stato di riposo e non ha collegamenti con aree sensitive, mentre la WM si attiva maggiormente quando ci sono informazioni da gestire ed è collegata ad aree sensitive specifiche (visive, uditive etc). Si possono anche osservare analogie, come un andamento della deattivazione del DMN, che va in funzione della difficoltà dei task di WM a cui il soggetto è sottoposto. Questo spostamento da una rete all'altra, paragonabile ad un passaggio dell'attività cerebrale che da introspettiva diventa rivolta all'esterno, è evidenziabile studiando l'attività del DMN durante un esperimento di working memory: così infatti si può vedere come l'attivazione della WM necessaria per svolgere il task influenza il DMN.

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Un'altra osservazione è quella di un cambiamento dell'equilibrio tra le attività delle varie parti del DMN, indotta sempre dai task di WM. Infatti, aumentando la difficoltà del task e l'impegno che esso costituisce per la corteccia del soggetto, si nota che l'attività del DMN tende a spostarsi verso i nodi anteriori e l'ACC mostra attività maggiore rispetto alla PCC (Esposito et al. 2006).

La scoperta di questa correlazione inversa fra le attività dei due sistemi apre poi alcuni interrogativi: come avviene il passaggio tra le fasi di maggiore attività del DMN e quelle di dominio della WM? È un sistema che si autoregola oppure ci sono centri esterni che regolano l'attività di WM e DMN?

Le conclusioni dei più importanti studi (Fox et al. 2005) hanno escluso la presenza di esecutori centrali che regolano il rapporto tra le due reti anticorrelate: la connettività intrinseca ai due sistemi renderebbe possibile una regolazione reciproca senza la mediazione di altri circuiti.

Recenti studi (Vincent et al. 2008) hanno però ipotizzato la presenza di un sistema di controllo facente capo alla corteccia frontopolare (corteccia prefrontale anteriore, aPFC), un'area che svolge la funzione di organizzazione gerarchica dell'attività cerebrale: è in grado di mettere in pausa alcune operazioni quando il cervello deve compierne altre più urgenti, per poi riprenderle (Badre e D'Esposito 2007).

Questo sistema di controllo sarebbe costituito da una rete che parte dalla aPFC, comprende altre aree prefrontali come la DLPFC, oltre alla PCC, all'IPL e a parte dell'insula e del cervelletto. L'IPL è connesso all'ippocampo ed è parte del DMN, come la PCC, e sono sistemi collegati alla memoria autobiografica e al retrieval di informazioni memorizzate. Il sistema frontoparietale comprende aree che hanno un ruolo nella memoria a lungo termine e nel retrieval di situazioni familiari e ripetute, ma si attiva anche durante task di working memory (Crone et al. 2006). Questo sistema sembra interposto tra il circuito di WM anteriore (PCC, DLPFC, LPL) e quello posteriore (IPL, SPL). Il suo ruolo potrebbe essere quello di acquisire informazioni sia recenti che remote, unificarle e rielaborarle (Vincent et al. 2008). La presenza di rapporti anatomici col DMN è una caratteristica che non è stata ancora indagata e apre la strada a molte interessanti prospettive.

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5. Materiali e Metodi

Per questa fase dello studio sono stati impiegati nove volontari sani destrimani (range di età 21-40 anni, mediana 23 anni), con visione normale o corretta, privi di malattie neurologiche o psichiatriche importanti e non dediti ad alcol o sostanze d'abuso. I soggetti hanno firmato il consenso informato e sono stati istruiti sullo scopo dello studio.

Prima dell'esperimento i volontari sono stati sottoposti ad un training di cinque minuti affinchè si esercitassero al computer sul task che avrebbero poi svolto all'interno dello scanner RM.

a. Task di WM

Il task di WM impiegato nel presente studio è basato in parte sullo studio riportato da Mottaghy et al. (2002). In questo task si presenta al soggetto uno stimolo (tra diverse possibili varianti) e si richiede poi di valutare se uno stimolo-controllo era stato o meno presentato nella fase precedente. Nel presente studio gli stimoli erano rappresentati da cerchi di uguale diametro che possono comparire in tre colori e venti posizioni.

Dapprima il volontario vede nello schermo una croce del colore su cui dovrà concentrare la sua attenzione, poi una serie di dieci cerchi di tre colori (giallo, rosso, blu) disposti ad anello. Possono comparire uno, due o tre cerchi del colore visualizzato in precedenza e questo corrisponde a tre differenti livelli di difficoltà del task.

Successivamente avviene la fase di riconoscimento: quando un cerchio bianco compare in una certa posizione il soggetto deve premere un pulsante se nella stessa posizione era precedentemente comparso un cerchio del colore della croce.

Le fasi del trial sono rappresentate nella figura seguente.

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L'esperimento consisteva in 90 trials, equamente ripartiti nei tre livelli di difficoltà (load). Per ogni load, i numeri dei trial in cui il soggetto doveva dare risposta affermativa e negativa erano uguali, avendo quindi 15 trials a risposta negativa e 15 a risposta positiva. I trials dei tre livelli di difficoltà erano presentati in ordine casuale per tutta la durata dell'esperimento.

Ogni trial era quindi scomponibile in più fasi, il cui segnale BOLD doveva essere analizzato separatamente.

Si potevano identificare queste fasi, con diverse durate:

1. Comparsa della croce colorata, che restava sullo schermo per 500 msec.

2. Dalla comparsa dello stimolo (i cerchi colorati disposti ad anello) fino al target (comparsa del cerchio bianco), della durata di circa 3,5 s.

stimulus (load 3)

500 ms

target response

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3. Dalla comparsa del target fino alla risposta (affermativa o negativa) del soggetto. La durata di questa fase era il reaction time, tempo di risposta, durante il quale avveniva il retrieval, cioè il richiamo dell'informazione riguardante la posizione del cerchio colorato.

4. Inter-Trial Interval (ITI), il tempo che intercorreva tra la fine di un trial e l'inizio del successivo, della durata di circa 13 s.

Tutti i dati relativi all'esperimento venivano memorizzati in un file detto protocollo e raggruppati secondo le condizioni (load, esito della risposta, fase del task) e secondo le possibili risposte (corretta-errata). Nel protocollo venivano anche salvate le durate di tutte le fasi dei singoli trials.

Per valutare l'attendibilità del task sono state calcolate le percentuali di accuratezza ottenute dai singoli soggetti e le medie complessive, suddivise nei vari livelli di difficoltà del task. Questa operazione viene eseguita per scongiurare la possibilità che i soggetti abbiano dato risposte casuali: se un soggetto ha risposto casualmente, la percentuale di risposte corrette tenderà al 50%, visto che i casi possibili erano due (stessa posizione-posizione differente). L'accuratezza deve essere quindi superiore al 50% in ogni load se si vuole escludere questa ipotesi.

In seguito devono essere esaminati i tempi di reazione: aumentando la difficoltà del task il tempo che il soggetto impiega a rispondere deve aumentare. Se non si nota questo effetto si deve sospettare che il soggetto abbia dato risposte casuali, quindi i dati non sono attendibili e devono essere esclusi. I tempi di reazione sono stati estratti dal protocollo e inseriti in tabelle per poterli confrontare.

b. Acquisizione dei dati

L'acquisizione dei dati è stata eseguita con un macchinario per RM Siemens Allegra 3T.

I dati funzionali sono stati ottenuti con la sequenza T2* gradient echo planar (EPI) con voxel di 1*1*1 mm, TR = 1500 ms, TE = 30 ms. L'acquisizione durante il resting state invece consiste di 240 volumi con sequenza GR-EPI e slices di 4mm (durata della scansione: circa 8'). L'immagine anatomica di base sfrutta una sequenza magnetization- prepared rapid gradient echo (MP-RAGE) 3D T1 w (durata della scansione: circa 7.5').

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Insieme alle immagini sono stati rilevati anche i movimenti oculari, un EEG e l'attività cardiaca mediante una derivazione ECG. Queste funzioni fisiologiche interferiscono con l'esperimento e devono essere registrate per eliminare la loro influenza, durante la rielaborazione dei dati.

c. elaborazione dei dati anatomici

I dati di fMRI sono stati elaborati con il programma BrainVoyager QX (Brain Innovation, Maastricht) versione 2.2 (Goebel et al. 2006).

Le immagini anatomiche e quelle funzionali sono state elaborate separatamente.

I dati anatomici (file .vmr) sono stati segmentati, in modo da aumentare il contrasto tra la sostanza bianca e la corteccia, poi si è provveduto ad una operazione di cleaning (ripulitura) con eliminazione del frame e di altre componenti dell'immagine inutili ai fini del lavoro, poi sono stati trasformati spazialmente adattandoli alla mappa di Talairach (Talairach e Tournoux 1988) (Tavola 1).

Un ulteriore stadio di questa operazione è stata la creazione di uno sviluppo 3D della corteccia cerebrale e della sostanza bianca, mediante la funzione Automatic Segmentation di Brain Voyager QX. Questo sviluppo è necessario per sovrapporre i dati funzionali a quelli anatomici, ottenendo una visione 3D delle attivazioni corticali (Tavola 2).

d. Elaborazione dei dati funzionali

L'elaborazione dei dati funzionali è preceduta da una fase di preprocessing che prepara i dati per l'analisi successiva, eliminando da essi rumore, interferenze ed artefatti inevitabilmente prodotti durante la scansione. Questa fase è costituita da:

- Slice scan time correction: questa fase "armonizza" i dati ottenuti eliminando le inomogeneità di segnale dovute al ritardo tra le scansioni delle singole slices

- 3D-motion correction, cioè eliminazione di oscillazioni derivanti dai piccoli movimenti del soggetto nella macchina.

- Spatial Smoothing, filtraggio passa-basso, aumenta il rapporto segnale/rumore (SNR).

- Linear Trend Removal, eliminazione di grossolani artefatti ed interferenze come onde

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lente derivanti dal funzionamento dello scanner, movimenti ritmici derivanti dalla respirazione del soggetto etc.

I dati relativi all'ECG e ai movimenti oculari del soggetto, raccolti durante la scansione, vengono invertiti e sommati al segnale RM, in modo da annullare, tramite interferenza distruttiva, queste componenti di disturbo.

- Ricerca delle attivazioni e analisi della connettività funzionale, a loro volta suddivisibili in passaggi sequenziali.

1. Selezione dei volumi di interesse (VOI), cioè dei volumi di cui si devono studiare le connessioni.

2. Visualizzazione, per ogni VOI, dei time courses, grafici che esprimono la variazione del segnale BOLD in funzione del tempo.

3. Misura della correlazione tra il segnale nei vari VOI, mediante metodi statistici. Questa correlazione è la connettività funzionale, cioè la connessione tra il funzionamento di due aree cerebrali, esaminata indipendentemente dai rapporti anatomici tra esse,

- Selezione dei Volumes Of Interest (VOI)

La connettività funzionale (Functional Connectivity, FC), uno dei tipi di connettività cerebrale, è definibile come l'attivazione concorde di due aree. Questo concetto si basa sulla presenza di un rapporto di natura solo funzionale e metabolica, mentre la connettività anatomica (Anatomic Connectivity, AC) presuppone l'esistenza di un collegamento nervoso tra due aree. Il terzo tipo di connettività è la connettività effettiva (Effective Connectivity, EC) che è identificata da una traslazione tra i tracciati di attivazione di due aree, facendo ipotizzare l'esistenza di un rapporto causa-effetto tra la prima area e quella che si è attivata in ritardo.

Con gli studi di connettività funzionale si cerca la correlazione tra l'attività di due aree analizzando i loro tracciati di attivazione, che devono essere studiati e confrontati mediante algoritmi statistici. Il procedimento prevede la selezione di una regione di partenza (seed region) che fornisce il tracciato di base che viene confrontato con quello

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