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Un padre artista e schermidore: Domenico Tempesti.

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Capitolo 1.

Un padre artista e schermidore: Domenico Tempesti.

1- Non fu un cicisbeo. Nei pur scarsi accertamenti biografici su Domenico Tempesti – e quei pochi, complicati dal bisticcio col suo omonimo perfetto, il più celebre pittore fiorentino a lungo suo contemporaneo -, l’immagine che ne emerge è di uno di quei geni di provincia che tanta fortuna raccolsero nel Settecento, e che sarebbero piaciuti ai protagonisti di qualche pericolosa liaison.

Nato a Pisa il 26 luglio 1692

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, agli esordi del XVIII secolo Domenico entrò a far parte dell’accademia privata di Domenico Ceuli, artista dilettante di nobile famiglia (allievo a sua volta del francese Jean-François de Troy e di Camillo Gabrielli), che ad inizio secolo aveva “aperta nella propria casa ai suoi giovani Concittadini utilissima Scuola di Pittura, Architettura, e Musica, onde uscirono pregevoli Artisti”, ovvero “una virtuosa palestra a dolcemente et utilmente insieme occupare la Pisana gioventù”

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.

Domenico dunque, sebbene “nato per la pittura”, seguì anche la musica, la poesia, il ballo, “la scherma in cui fu eccellente, e per cui nella prima gioventù ebbe alcune brighe”. Certo, non seguì alcuna formazione veramente accademica, ma “alla mancanza degli studi si aggiungeva la velocità incredibile, con cui dipingeva, immerso nel suo naturale entusiasmo e intollerante di tutto ciò, che poteva ritardare il caldo immaginare della fervida sua fantasia, senza cartoni, senza disegnare …”

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Quali furono i preliminari di Domenico nella bottega del Ceuli, al di fuori dell’encomiastica non è dato di sapere, perché dal confronto tra la pratica pittorica e la vantata cultura artistica vi fu in questi una evidente separazione, come spesso nei dilettanti. Se infatti la sua sensibilità artistica fu così forbita da consentire al Ceuli di entrare in contatto col Magalotti, di scrivere di arti figurative e                                                                                                                

1 Così Spinelli sulla base del libro dei battezzati (SPINELLI 2000, p. 20), che consente anche di correggere la testimonianza del Mariti che, dicendo morto il pittore a Pisa nel 1766 a 78 anni, lo avrebbe fatto nascere nel 1688 (MARITI 2001, p. 117).

2 TEMPESTI 1792, pp. 533-34; cfr. anche TEMPESTI 1787, p. 141 n.; DA MORRONA 1812, II, pp. 533-34. Il De Troy, destinato ad una importante carriera romana nell’Accademia di Francia, tra Seicento e Settecento abitò a Pisa, protetto dall’importante famiglia Grassulini, dove lasciò opere che non passarono inosservate alla storiografia locale, oggi purtroppo perdute o distrutte (CIARDI 1997; LERIBAULT 2002).

3 Così il figlio Ranieri, in una bellissima lettera da Crespina a Giovanni Mariti: BMOF, Bigazzi 185.5, in data 14.12.1788.

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di diventare un interlocutore assiduo e credibile dei fratelli Melani

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, la qualità dei suoi dipinti fu, per dirla con una ipocrisia che sarebbe piaciuta nei salotti dell’epoca, non proprio eccelsa.

Domenico Ceuli, come chi sapeva di non doversi guadagnare la vita con i pennelli, operò moltissimo in città e nella sua campagna in modo gratuito con tele di formato piccolo o mezzano, raffiguranti santi isolati e nell’azione del martirio, che risentivano del patetismo seicentesco fiorentino – Furini e Cecco Bravo, ma con un tenebrismo alla Livio Mehus -, con concessioni alla ritrattistica impaludata e a macchinose composizioni d’altare, ostiche e ostili

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, dove era possibile rintracciare quel cortonismo di seconda mano che aveva appreso dal Gabrielli

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. Eppure dal Ceuli Domenico Tempesti apprese anche il tentativo di raccordare storie ed emozioni, di pensare insomma in grande, al quadro come possibilità allegorica e narrativa (fatta dunque di episodi concatenati e di personaggi dai gesti franchi e decisivi), che probabilmente il nobile dilettante ricavò da Gabbiani, che gli aveva fatto anch’egli da maestro

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.

In questo ambiente febbrile e, a dispetto del sangue del caposcuola, un poco rustico, crebbe Domenico Tempesti, facendo in tempo a costruire di sé un’immagine da personaggio ‘romantico’ o almeno da cappa e spada, dal fare sprezzato e segnato da una geniale trascuratezza, perché, come si ricava dal rapido profilo tracciato dal Mariti, Domenico “dipingeva con una velocità incredibile […]. Incominciava da un piede, da un panno, o di dove gli veniva voglia senza cartone e senza disegnare neppure sulla calcina fresca; insomma faceva come il capriccio gli dettava”, e di lui era

“particolar pregio non meno l’epopea o sia l’invenzione. Creava rapidamente, e variava con una felice fantasia”

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.

L’arte solidamente intrecciata alla vita, con un vezzo di autocompiacimento esistenziale che fatalmente lo portò ad esagerare, e che fu destinata ad essere riformulata nelle notti pisane al crivello della mitografia. Perché la vita di Domenico parve vissuta così ad oltranza che finì con                                                                                                                

4 MARITI 2001 a, pp. 81-2: “Egli aveva molto scritto sulle Belle Arti, ma prima di morire, per la somma sua umiltà dette i suoi scritti alla fiamme. Fu molto amico dei celebri Melani: erano stati scolari di uno stesso maestro. Anzi questi illustri professori avevano con esso tanta amistà e corrispondenza, che gli comunicavano spesso i loro pensieretti e cartoni, deferendo moltissimo del di lui parere, essendo un conoscitore profondo quanto altri mai”.

5 V. ad esempio la coppia di tele inedite ancora esistenti nella cappella di famiglia a Cevoli, raffiguranti L’Adorazione dei pastori; Il Compianto sul Cristo morto.

6 Da Cosimo III 1990, pp. 21-2, schede di R. P. Ciardi; CARLETTI-GIOMETTI 2009, pp. 44-9; v. anche CEULI 1966, p. 37.

7 BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovanni Mariti, Crespina 25.10.1789.

8 MARITI 2001, pp. 114-17.

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l’essere riletta come quella dell’artista non chiuso da limiti, capace di realizzare ovunque se stesso per un eccesso di vitalismo. Così, quando nel 1725 Domenico decise di trasferirsi a Volterra, dove in modo intermittente rimase fino al 1735, il suo nuovo agio venne descritto come costretto dal bando impostogli per una circostanza fatale: l’aver ferito a duello di spada e per nobilissime questioni di donne un giovane carovanista, nipote nientemeno di Bandino Panciatichi, Commissario di Pisa

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. Non era un cicisbeo.

Bella storia evidentemente, se non fosse che Bandino Panciatichi divenne Commissario della città una cinquantina di anni dopo

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, e che l’unico membro dell’illustre famiglia pistoiese fattosi Pisano negli anni Venti fu un certo Giovanni, funzionario di mediocre livello dei Cavalieri di S. Stefano, e che del processo che determinò il bando non vi è traccia nelle pur fitte carte processuali dell’Ordine.

Circostanza che fa allora pensare che se duello vi fu tenne molto della baruffa, e che di bando non si poté parlare, ma di amichevole consiglio a cambiare aria per qualche tempo, giusto per far calmare le acque: il bando con la pacca sulla spalla.

Se tanto abbiamo insistito su questa vicenda è perché l’amplificazione retorica cui fu sottoposta nascondeva e mostrava qualcosa. Nascondeva certo la banale normalità dell’uomo e delle sue voglie; ma rivelava anche l’urgenza della cultura locale di costruirsi un Parnaso di eroi, o almeno di uno solo, che, come vedremo, servirà a render vanto ulteriore al vero eroe del racconto: perché si scriveva Domenico, ma nei decenni successivi dei corredi biografici, tutti intendevano Giovanni Battista.

                                                                                                               

9 GRASSINI 1838. Per altri il motivo dell’esilio fu leggermente diverso: “In quest' ultima città [Volterra] appunto nacque Giovanni Battista; perché il di lui padre per aver avuto da dire in Pisa con un cavaliere Carovanista per gelosia, lo sfidò al duello, mentre allora ogni ordine di cittadini cingevano spada, e non avendo il cavaliere voluta accettare la disfida, li diede dei colpi sulle spalle colla spada, per cui fu rilegato a Volterra, ove si trattenne due anni …” (GIULI 1841, p. 485). Anche in questo caso però controlli da noi fatti sulle fonti documentarie dell’archivio stefaniano hanno dato esiti nulli. I Carovanisti erano i giovani che frequentavano l’Istituto della Carovana, il corso di studi di tre anni che si teneva a Pisa allo scopo di addestrare i figli della nobiltà (non solo toscana) a diventare Cavalieri di S. Stefano, l’importantissimo Ordine militare fondato nel 1562 da Cosimo I dei Medici, che ebbe sede fino all’Unità nell’omonima piazza di Pisa.

10 Bandino Panciatichi fu ad esempio citato come Commissario di Pisa assieme alla moglie Clarice Aulla da Giovanni De Lazara, come una delle persone illustri conosciute durante il suo “Viaggio in Italia”; l’anno, per l’appunto, era il 1783 (BCL, Archivio Giovanni De Lazara, A.6.1.1, Busta 4, “Conoscenze fatte nel Viaggio d’Italia” dal De Lazara, iniziato il 29.10.1783).

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2- Il soggiorno volterrano per Domenico fu comunque, come dicevamo, assai industrioso e ricco perfino di qualche gloria. Fino a quella data ben poco sappiamo del resto dell’attività dell’artista, se escludiamo tre grandi disegni con Vedute dei lungarni di Pisa firmati Domenico Tempesti e datati ai primissimi del Settecento, che gli studiosi hanno via via pensato di assegnare al Pisano piuttosto che al Fiorentino, ma non sulla base di una deliberata scelta critica, ma semmai per sottrazione, perché l’impianto stilistico sembrava poco familiare alla fisionomia del secondo

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. Eppure quelle Vedute sono di qualità così alta, da consigliare di espungerle dalle prime pagine del carnet del Pisano, che mai, per quanto se ne sappia dalle fonti e dalle opere sue certe, si misurò con le vedute urbane, specie se confrontate con la sua prima opera nota: la tela con la Madonna col Bambino e i SS.

Domenico, Caterina, Giuseppe e Rocco, ancora oggi nella chiesa della Compagnia della Madonna di Serrazzano, presso Pomarance, nel volterrano

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In quest’opera, databile con sicurezza al 1726, Domenico si rivelò come un pittore complessivamente di gusto ancora provinciale e di una qualità così discontinua, che solo parzialmente poteva giustificarsi con la documentata costrizione di un’impellente consegna, dunque col probabile impiego di un allievo. Si trattava di un’opera senza respiro, che attingeva alle formule più corrive della pittura d’altare di tradizione primo seicentesca. Costruita con scorci e posture poco disinvolte e la memoria ben viva di Camillo Gabrielli, ma con un’applicazione compositiva affaticata, che si compiaceva di rispecchiarsi in tanta pittura di primo Seicento, incapricciata forse di cose romane, con i santi a castello a mostrare lo scorcio del paesaggio e la finestra aperta sulla Madonna. Niente a che vedere allora con le supposte sue Vedute, e neppure con quanto di più alla

                                                                                                               

11 I tre fogli, stilisticamente omogenei, rappresentano Una veduta di Pisa con il varo di una galera (GDSU, n. 900 p);

Veduta del lungarno di Pisa col Gioco del Ponte (GSDU, n. 901 p); una Veduta della città di Pisa (Musée des Beaux- Arts d’Orléans, n. 1631), vista anch’essa dai lungarni. Dal momento che l’ultima reca una iscrizione coeva con un esplicito riferimento al suo autore, al tempo e alla circostanza della sua esecuzione (“Veduta della Città di Pisa fatta d’acquarello l’anno 1683/da Domenico Tempesti p[er] metteri in intaglio/in congiuntura delle festa fattasi/della Transazione di/S. Stefano P[apa] e M[artire]”), non vediamo come l’attribuzione possa essere spostata – come pure si è tentato di fare – sul Tempesti pisano, tanto più che il Fiorentino fu davvero l’autore dei disegni per le stampe eseguite in occasione della traslazione delle reliquie del corpo di S. Stefano. Su questo v. Pisa 2003, p. 462, scheda di F. Paliaga (orientata verso una paternità non pisana dei disegni); Livorno e Pisa 1980, p. 189, scheda di F. Angiolini; ivi, p. 204, scheda di A. Caleca; Dessins Italiens 2003, pp. 81-3, scheda di E. Pagliano; SPINELLI 1991, p. 45 n. Sulle stampe del Tempesti fiorentino per i Cavalieri di S. Stefano cfr. PALIAGA 1985.

12 Sul dipinto SPINELLI 2000.

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moda il pittore avesse potuto trovare a Volterra: i dipinti che il pisano Ranieri del Pace e Camillo Sagrestani avevano lasciato nel 1709 sulle pareti della centralissima chiesa di S. Dalmazio

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.

Infatti nella prima tela volterrana di Domenico è possibile leggervi semmai un esercizio sui toscani di più basso profilo e di altro genere e natura, segnatamente di Domenico Salvi, che farebbe allora dire come quel clima imbambolato del dipinto di Serrazzano e le figure storte e un poco depresse, significassero la ripresa di un etimo arcaizzante e provinciale ma che a Volterra aveva avuto basi saldissime e gagliarde, e che forse si appoggiarono alla pressoché coeva indulgenza verso la Maniera espressa da Pellegrino Antonio Orlandi nel suo Abecedario pittorico, ma che trovarono un riscontro in quel recupero quattrocentesco che caratterizzò, in quegli stessi anni, la pittura d’altare romana

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.

Una simile compiaciuta aderenza alla cultura figurativa seicentesca è possibile riscontrarla anche nell’altra opera volterrana attestata dalle fonti: il ciclo di affreschi del monastero di S. Andrea, dove grazie alla collaborazione di Pietro Forzoni

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, Domenico arricchì le pareti con ventinove sovraporte prospettiche, includenti altrettanti busti di pontefici. Si trattò anche in questo caso di un’opera priva di aperture innovative e di soluzioni che non fossero ammanierate, in bilico tra il mestiere e la rinuncia ad aperture coraggiose e colte

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, a conferma di come il percorso di Domenico fosse ancora di tipo riassuntivo, per quanto non completamente risolto in questa indulgente quotidianità artistica.

Volterra nel XVIII secolo non era territorio sconosciuto al mondo. Se può parere arbitrario presumere un incontro a Pisa tra il pittore e Mario Guarnacci, quando questi nel 1720 vi frequentò l’Università, non è imprudente immaginare come il confino dell’artista avesse avuto come viatico qualche conoscenza profittevole. Mario Lisci ad esempio, appassionato etruscomane destinato a diventare difensore delle glorie scientifiche di Curzio Inghirami, vicario vescovile a Volterra, ma                                                                                                                

13 BARBERA 1979; SPINELLI 1995, pp. 113-14.

14 ORLANDI 1704. Nota in Orlandi è la giustificazione dei linguaggi manieristi, in precoce controtempo con le più affilate rivalutazioni del tardo Settecento. Sulla pittura d’altare a Roma nel primo Settecento segnata da impostazioni arcaizzanti v. STRINATI 2009.

15 Forzoni, volterrano e allievo di Tempesti, collaborò con questi agli affreschi di Chianni (cfr. più avanti), come si ricava in MARITI 2001 b, p. 138. V. pure MARRUCCI 1997, pp. 996-97; FURIESI-GUELFI 1997, pp. 506, 638.

Svolse anche un’attività di restauratore (SOLAINI 1907). Nel 1764 tornò a lavorare in S. Andrea, questa volta in chiesa, confermando la sua mediocre statura (BATTISTINI 1928, pp. 39-41). La sua fama durò pochissimo e non travalicò i limiti locali: quando nel 1775 Francesco Bartoli informò Innocenzo Ansaldi sui suoi studi volterrani, chiederà allarmato, nel timore gli fosse sfuggito qualcuno che meritava: “Vorrei sapere del Forzoni che dipinse in Sant’Andrea, il nome e la patria” (PELLEGRINI 2008, p. 173).

16 Sugli affreschi v. BATTISTINI 1928, p. 37.

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anche canonico della Cattedrale di Pisa, scrittore ridondante ma fiero, informato sui fatti artistici antichi quanto bastava per non trasformarli in pura erudizione ma in sensibilità e perfino in gusto, e che probabilmente fu conoscente diretto del Tempesti

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. Eppoi i dibattiti storiografici, come quello che giusto negli anni della permanenza volterrana dell’artista videro il pisano Flaminio Dal Borgo scambiare una fitta corrispondenza con Lorenzo Aulo Cecina sulle origini della città etrusca

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. Pare poi arduo ritenere che Domenico, appena un anno dopo il suo arrivo a Volterra, non si fosse accorto della pubblicazione del De Etruria Regali di Thomas Dempster, testo che era stato scritto a Pisa nel Seicento anche in base a fonti manoscritte – sebbene apocrife - conservate dal canonico Alessandro Roncioni, e che avevano assunto una certa importanza presso gli ambienti antiquari come presunta testimonianza dell’antichità di Pisa, e, soprattutto, della Toscana, e della sua primazia culturale concepita in chiave antiromana

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.

Un soggiorno dunque arricchito da incontri e probabilmente da letture. Il tentativo di stabilire un perimetro al curriculum volterrano di Domenico non risponde infatti all’esigenza di attribuire un senso alle minuzie, ma a quella di sciogliere un nodo di grande importanza. Perché se è vero che i riscontri pittorici del Pisano non furono indimenticabili, altrettanto non può dirsi del rapporto che stabilì con uno dei più importanti intellettuali toscani del XVIII secolo: Anton Francesco Gori.

Nel 1731, alla notizia della scoperta di un ipogeo etrusco in un podere di proprietà del canonico e vicario vescovile Pietro Fanceschini, nella località del Portone, il brillante etruscologo fiorentino si precipitò a Volterra dove, come lui stesso scrisse in una prosa latina che sembrava anticipare una sensibilità preromantica (ma che narrativamente si riallacciava invece ai racconti delle prime perlustrazioni nella Domus Aurea), per giorni al solo lume delle torce fece disegnare tutte le urne che era possibile documentare. L’autore di questo importantissimo lavoro fu Domenico Tempesti, e

                                                                                                               

17 LISCI 1739.

18 PESCETTI 1946.

19 DEMPSTER 1723-24 (sui manoscritti Roncioni v. pp. 21, 31, 41); NAPOLITANO 2005, p. 2005. Thomas Dempster aveva scritto il De Etruria dal 1616 al 1619 a Pisa, quando era stato insegnante di Pandette all’Università. Il testo, concepito con una forte motivazione lealistica nei confronti di Cosimo II, e teso a dimostrare il primato politico e culturale della Toscana nel teatro politico italiano, rimase manoscritto fino al secolo successivo. In pieno revival neoetrusco le carte vennero acquistate da Thomas Coke e da questi pubblicate a Firenze nel 1726. Su Dempster v. ora DE ANGELIS 2009.

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i risultati furono così brillanti da consigliare al Gori di tradurne all’acquaforte ben ventuno, pubblicate nel primo volume del Museum Etruscum

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.

Dalla vasta corrispondenza esistente alla Marucelliana di Firenze si ricava che la collaborazione tra Tempesti e Gori non fu relativa alle sole urne del Portone, ma si allargò ad una collaborazione che fu importante e che meriterebbe uno studio peculiare

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. Tempesti tornò diverse volte a Pisa durante il suo soggiorno volterrano e venne impiegato dal Gori per cavare disegni di marmi antichi anche a Pisa, come il celeberrimo vaso del Talento. Fornì tavole, rilievi e suggerimenti, e il suo nome fu in così alta considerazione presso lo stesso Gori e Ippolito Cigna (uno dei più assidui collaboratori del Gori), da tenere spesso i due col fiato sospeso sui tempi e modi della sua partecipazione all’impresa di documentazione grafica delle antichità

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.

I rapporti del Tempesti con il Gori furono dunque assai più intensi di quanto si fosse ritenuto, così da ipotizzare che si fossero sviluppati anche in rapporto alla progettazione dei tre volumi dell’Inscriptiones Antiquae dell’antiquario fiorentino, dove ci resta una “Descrizione della città di Pisa con molte iscrizioni che vi sono”, che non è improprio ritenere redatta nei sopralluoghi avvenuti nel periodo di frequentazione del pittore pisano, e magari sfruttando i suoi frequenti ritorni in patria

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. Senza contare che Tempesti fu probabilmente colui che in una data appena successiva al                                                                                                                

20 GORI 1737, I, pp. XVI-XVII: “Sub terra, in tophaceo lapide excavatum, columnaque i medio suffultum, sedili bus undique ornatum, quibus urnae impositae erant, latebra fere Romanos pedes viginti. In eo accensis facibus, per multas quatuor dierum horas delitui cum Domenico Tempestio Pictore Volaterrano, qui me praesente ac monente, urnas omnes anaglypho opere & perraro emblemate insignes, accuratissime ac pazientissime delineavit”. Le tavole disegnate da Tempesti non sono firmate, ma sono state individuate con sicurezza da Enrico Fiumi: tavv. CXXII 1-2; CXXIII;

CXXXII, CXXXIII 1-2, CXL, CLIII, CLIIII, CLVI, CLXX, CLXXI 1-2, CLXXIIII 1-2, CLXXVIII, CLXXXVIIII, LXXXIIII 1, CLVI 2, CLXVIIII 1, CLXX 2 (FIUMI 1977, p. 16n.). Sulla vicenda la bibliografia è comunque piuttosto folta: DEZZI BARDESCHI 1976, p. 251; CATENI 1999, pp. 35-6; CRUCIANI FABOZZI 1976; CRISTOFANI 1981, p. 70; CRISTOFANI 1983, p. 65; CATENI-FIASCHI 1984, p. 10; L’Accademia etrusca 1985, pp. 207-8, scheda di D.

Levi; MARRUCCI 1997, p. 1027; PRUNAI FALCIANI 1999, p. 202, scheda di M. M. Angeli. Da segnalare che anche Mario Lisci attestava che Gori era sceso nell’ipogeo del Portone assieme ad un pittore (Tempesti, evidentemente), allo scopo di preparare le tavole per una pubblicazione specifica, v. LISCI 1739, pp. 1-2.

21 Su questo v. BRUNI 2004.

22 BMF, ms A XIII, II, cc. 499, 505, 511, 532, 535, 543, 587, 614, 615, 618, 624, 632-34 (vari corrispondenti del Gori dal 1731 al 1734 relativi alle opere disegnate da Tempesti a Pisa e a Volterra,); ms. CCLXXIV, c.7 (lettera del Tempesti al Gori, Volterra, marzo 1732). Altre lettere dell’epistolario del Gori alla Marucelliana, relative alla collaborazione con Domenico Tempesti nel 1735 sono pubblicate in http://stud.unifi.it:8000/gori.

23 La “Descrizione” è in BMF, Ms. A CCVI.2, cc. 48-53 e passim. A c. 91 Gori descrive un monumento costituito da statue dell’Europa, Asia, Africa, America, che non è altrimenti attestato da alcuna fonte.

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1738 fornì al Gori i disegni delle lastre marmoree già facenti parte del pulpito della chiesa pisana di S. Michele di Borgo (una documentazione che il Fiorentino attendeva con impazienza per redigere un’opera sulle sculture e pitture sacre “le più antiche che io posso”); e in anni imprecisabili, ma non troppo distanti, anche i disegni riproducenti i bellissimi capitelli romani conservati nella chiesa di S.

Felice

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, sempre a Pisa.

La vicenda della relazione di Domenico col Gori è interessante perché attesta che quello che Tempesti perdeva sul piano dell’autonoma ricerca pittorica, dell’invenzione e dell’approfondimento linguistico, veniva riequilibrato dalle sue capacità grafiche, dalla sua abilità – degna di un pittore esercitatosi a lungo su esemplari ‘antichi’ in casa del Ceuli, magari – di adeguare il proprio genio a quella della restituzione di un oggetto preesistente

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.

Quanto basta allora per immaginare che la collaborazione tra Gori e Tempesti non sia stata solo il frutto di una circostanza casuale, perché quelle urne copiate dall’artista pisano, e quei reperti allineati in tombe e collezioni (a Volterra come a Pisa) che questi documentò con grande zelo, dovevano probabilmente riallacciarsi alla memoria visiva dell’artista. Senza scomodare i Cenotaphia di Enrico Noris (lettura erudita e davvero troppo specialistica e perfino ostica)

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, le urne e i sarcofagi che intorno al 1703 avevano cominciato ad occupare i corridoi del Camposanto di Pisa, e ad essere poi impressi come oggetti da museo nelle tavole del Theatrum Basilicae Pisanae del Martini, non poterono non attirare l‘attenzione di Domenico

27

.

Ci fu tutto il tempo evidentemente per mettere insieme una esperienza che non fu sterile e presto dimenticata, ma che si strutturò in una dimestichezza con le forme almeno più evidenti della scienza antiquaria, come documentato dal congedo di Domenico dal territorio volterrano.

                                                                                                               

24 Su queste vicende BRUNI 2004 (ma per i rilievi del pulpito v. anche CARRARA-NOFERI 2006). Agli studiosi della fortuna settecentesca dei capitelli della chiesa di S. Felice è sfuggito un importante affare relativo alla loro ‘scoperta’, corredata da importanti incisioni di Antonio Gregori su disegni di Giuliano Giusti: ASF, Malaspina di Filattiera 39, due lettere alle date 14.7.1766; 17.12.1766.

25 Per il disegno ad acquerello ed inchiostro v. Porro 2007, pp. 56-7. Da rivedere l’assegnazione a Domenico di una Andata al Calvario conservato alla Riccardiana (I disegni 1999, p. 166, scheda di M. Chiarini), mentre più plausibile è l’attribuzione di una matita e penna di soggetto non identificabile, conservato nel Gabinetto degli Uffizi (n. 114789), ma proveniente dalla collezione Roncioni di Pisa (Dieci anni 1995, schede di M. Sframeli, pp. 42-3).

26 NORIS 1681. Sull’importanza del testo per la cultura antiquaria pisana del primo Settecento v. MILONE 2004, pp.

186-87.

27 MARTINI 1705. Sulla formazione delle collezioni settecentesche del Camposanto cfr. DONATI 1993; MILONE 1993.

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Intendiamo riferirci alla decorazione ad affresco della sede della Compagnia della SS. Annunziata di Chianni, dipinta tra il 1739 e il 1741 assieme all’allievo Forzoni e al suo eterno collaboratore pisano, il quadraturista Jacopo Donati

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.

Nella Natività posta sulla volta, la figura di S. Giuseppe, appoggiato ad un cippo, ha lo sguardo intenso e la posa svagata di uno dei tanti etruschi distesi lungo i coperchi dei sarcofagi; così come i più allungati profeti laterali rivelano una meditazione su un repertorio d’immagini antiche assunto ormai a modello. Erano modi per dire che il lavoro di trascrizione degli alabastri antichi si era strutturato in un sistema di pensare le forme che si esprimeva anche in quelle originali dell’invenzione.

Con questo lavoro Domenico si congedò dall’ambiente volterrano, da dove del resto si era già distanziato – risiedendo di nuovo a Pisa dal 1735 - probabilmente con altri lavori di minore entità, che servirono ad attutire il trapasso dalla periferia al centro e a soddisfare commissioni contratte da tempo .

Al 1740 sarà da datare allora il S. Ranieri su legno sagomato “a guisa di statua” tuttora esistente nella piccola chiesa di S. Lucia a Luciana (presso Fauglia), verosimilmente sopravvissuto ad un ben più ampio apparato festivo ‘effimero’, sul modello di quelli dei fratelli Melani

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. Ad anni assai vicini, se non coincidenti, sarà da collocare l’intervento di rifacimento di due affreschi con altrettanti Apostoli nella Badia di Morrona, perché nel S. Bartolomeo impaludato e un poco greve, che teneva molto del S. Ranieri di Luciana, si evidenziava un superamento di quelle incertezze che una quindicina di anni prima ne avevano compromesso l’esordio a Serrazzano

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. Segno che la pratica di bottega, il far da maestro – con un’esigenza didattica che funzionò anche come elemento di emancipazione personale - e il confronto filologicamente motivato con l’antico, avevano affinato la mano e la cultura di Domenico. Così che di lì a poco, quando il figlio Giovanni Battista cominciò a porre delle domande, avrà ben saputo cosa rispondergli.

                                                                                                               

28 Sulla decorazione (ora compromessa da recenti ed estese ridipinture) v. MARITI 2001 b, p. 240; FABBRI 1985-86, pp. 125-26; LEONARDI 1994, pp. 158-60. La decisione di dipingere la sede della Compagnia venne presa il 27 luglio 1739 (ASF, Compagnie Religiose Soppresse da Pietro Leopoldo 2897, aff. 2). I lavori si conclusero nel maggio di due anni dopo. Forzoni e Tempesti collaborarono probabilmente anche nell’esecuzione della Madonna del Rosario della chiesa di S. Donato a Terricciola, v. MARITI 2001 b, p. 138.

29 MARITI 2001, p. 185. La chiesa venne inaugurata nel 1740, ed è probabile che l’apparato festivo sia stato dipinto in occasione della conclusione dei lavori.

30 MARITI 2001 b, p. 27.

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Queste figure isolate come di santi e di profeti intabarrati, rivestiranno infatti una certa importanza anche in relazione ad una buona parte della pittura del figlio, che la sua frequente ostensione di tutta un’umanità di persone dipinte a monocromo ma per l’appunto isolate, scandite sul vuoto di una parete di una chiesa o di un palazzo, ebbero come prima occasione di confronto proprio queste soluzioni di Domenico, ben prima d’essere integrate con quelle poi imparate nella bottega dei Melani. Era assai giovane a queste date Giovanni Battista (essendo nato nel 1729), ma grande a sufficienza per seguire il padre sui ponteggi, per mettere mano a cose minute, per capire i consigli del padre e per seguirli.

Del resto che il soggiorno volterrano non sia stato un vero esilio, e che le frequentazioni dei controversisti e degli antiquari lo avessero emancipato, lo attesta l’insistito suo impegno professionale nei luoghi frequentati da quell’architetto elegante e intraprendente che fu il veronese Ignazio Pellegrini. Domenico dipinse infatti nella villa degli Upezzinghi di Capannoli, giusto quando Jacopo Upezzinghi ne risarciva le strutture approfittando dei sopralluoghi del Veronese.

Domenico vi dipinse nel 1744 delle sovrapporte, architettate dal solito Jacopo Donati, includenti delle cartelle con dei paesaggi compendiari ma distesi, dove sarebbe arduo parlare di spirito arcadico, ma semmai di uno spiccato gusto decorativo, di cui si ricorderà in futuro il figlio, che forse avrà partecipato, lui quindicenne, a qualche fase dei lavori, o che almeno ne sarà stato al corrente

31

.

Questi anni furono importanti per la futura biografia artistica di Giovanni Battista anche per un motivo meno poetico, ma ugualmente significativo: l’opportunità che si creò per il più giovane dei Tempesti di entrare direttamente in contatto con gran parte di quelle famiglie pisane che di lì a poco diventeranno sue committenti

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.

                                                                                                               

31 ASP, Upezzinghi 16, c. 211, 11.10.1744: si paga il calesse che ha trasportato nella villa di Capannoli Tempesti e Donati “che sono colà andati per dipingere i sopraporti di quel salotto”; c. 213, 21.10.1744: Jacopo Upezzinghi “vigila il buon risarcimento della detta villa” di Capannoli, con la “buona compagnia” d’Ignazio Pellegrini, che assiste ai lavori. Ma i rapporti della famiglia con Domenico datavano almeno all’anno precedente, quando questi venne pagato anche per aver “acconciato due buoni quadretti in tela che erano nella nostra villa di Capannoli” (Ivi, c. 150, .1.1743).

Ancora aperta è invece la questione dell’attribuzione delle scene affrescate sulle pareti e sulla volta della sala della villa.

L’architetto Ignazio Pellegrini (1715-1790) intorno alla metà del secolo a lungo lavorò a Pisa (oltre che a Firenze), diventando l’interprete del tardo barocco più conteso dall’aristocrazia locale (Agostini, Ruschi, Lanfranchi Lanfreducci etc), che volentieri se ne varrà per ristrutturare le proprie residenze (CHIARELLI 1966).

32 Ad ulteriore esempio si considerino gli impegni assolti da Domenico e dal Donati per la famiglia Roncioni, specie per la villa di Pugnano, che poi vedrà anche Giovanni Battista impegnatissimo in opere significative: RASARIO s. d., p. 57

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E’ certo difficile resistere all’esercizio di attribuire al giovane Giovanni Battista un qualche ruolo in tutto quel gran daffare di suo padre, scegliendo fior da fiore e individuando in qualcuno di essi l’incunabolo del suo prossimo mestiere. Sarebbe a nostro giudizio un compito sostanzialmente disonesto, perché fondato su di una lettura tendenziosa, che rischierebbe di appoggiarsi non già su riferimenti certi seppur parziali (non ve ne sono per quelle date), ma alla sola volontà d’attribuire allo studente il capodopera giovanile. Qui basti allora constatare come in tutto quel lavoro vi fossero elementi che ritorneranno con forza nella pittura del figlio, a testimoniare come il dressage artistico del figlio si fosse di certo appoggiato agli insegnamenti del padre.

Uno degli interventi più difficili da giudicare, anche a causa della sua impervia visibilità, fu ad esempio quello assai complesso che Domenico e Jacopo realizzarono nella bellissima villa Dal Borgo a Pugnano, nel lungomonte tra Pisa e Lucca. Restituita finalmente ai loro legittimi autori da indagini recentissime

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, l’impresa venne eseguita dal 1754 al 1757

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, concretizzandosi in due zone di grande fascino e complessità: nelle due pareti del salone, e nella volta del vestibolo del salone, alla sommità del vano scale. Nella volta Domenico, raccontando la vicenda della Nascita di Arlecchino in un mondo popolato dai personaggi della commedia dell’arte

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, bene mostrò un aggiornamento sulle ultime grida di una pittura – quella burlesca e da commedia dell’arte - che non poteva certo non conoscere, fosse solo perché il pittore che in Toscana più vi insisteva, Giovanni Domenico Ferretti, era di casa a Pisa, e che aveva prodotto una serie di sedici arlecchinate per Orazio Sansedoni, che come è noto fu uno dei principali committenti dei fratelli Melani

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. Ma Ferretti era anche nipote – ed interlocutore – di quell’Anton Domenico Gori che come abbiamo visto tanto si era valso dei servigi del Tempesti, suggerendo insomma una costellazione di

                                                                                                               

n. (ma v. anche ASP, Roncioni (135) 15, 12.12.1747, dove si documenta un pagamento ai due ricevuto da Francesco Roncioni “per averli dipinto una caroza (sic) lumegiata (sic) a oro”).

33 Il Settecento 2001, pp. 164-70, schede di M. Burresi e A. Mercurio.

34 L’inizio dei lavori, così come il committente, si ricava da una iscrizione posta nel vano scale; il loro termine, da una ricevuta di pagamento firmata da Domenico e da Jacopo Donati, conservata nell’archivio privato dei Dal Borgo: Il Settecento 2001, pp. 164-70, schede di M. Burresi e A. Mercurio, p. 164.

35 Conosciamo la volta solo attraverso riproduzioni fotografiche parziali. Nelle ultime indagini la scena è stata identificata come raffigurante una Scena allegorica con Minerva, Diana, Mercurio, Venere, Amore, cfr. Il Settecento 2001, pp. 165-66, scheda di M. Burresi e A. Mercurio.

36 Quanto al soggiorno pisano del Ferretti, che fu assai intenso e operoso proprio a partire dagli anni Quaranta:

BALDASSARI 2002, pp. 190-94. Sulle arlecchinate del Ferretti v. SOTTILI 2008. Sui Melani e i Sansedoni v.

PETRIOLI 2004.

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circostanze ed intenti pressoché coincidenti, e comunque troppo vicini per poter essere frutto di casuali necessità

37

.

Tuttavia in quel clima festoso e bizzarro emergeva anche un altro fatto di grande importanza. Il mondo della commedia dell’arte fu infatti caro al committente degli affreschi, Pio Dal Borgo, di cui abbiamo notizia di una intensa attività di commediografo, che negli anni che precedettero gli affreschi in esame condivise addirittura a Pisa con Carlo Goldoni dentro la solenne cornice della Colonia Alfea (il serbatoio pisano dell’Arcadia), in quel suo lungo soggiorno in città dove, con straordinaria puntualità cronologica, l’avvocato veneto compose celeberrimi testi centrati sull’estro di Arlecchino

38

.

Ecco allora che anche le due vaste scene sulle pareti del salone, alludenti a nozze e a viaggi di nozze, commentate da un’umanità bizzosa e liminare, che distruggevano sotto il velo di una corrosiva ironia tutta la solenne impalcatura dei mariage, sembravano alludere a tutti i matrimoni di convenienza, di soppiatto, di forza e a tradimento, di cui è piena la tradizione teatrale italiana settecentesca, e di cui Pio fu un seppur secondario esponente. Questi affreschi sono dunque significativi proprio perché in qualche modo lasciavano intravedere un rapporto tra mondo delle lettere – e dell’Arcadia, di cui Pio era esponente – e della pittura, che tornerà prepotente nella carriera di Giovanni Battista Tempesti: non solo come dato meramente biografico (anche questi verrà ammesso per l’appunto all’Arcadia), ma come indicazione di lavoro, perché se vi fu un principio estetico che Giovanni Battista affermerà ripetutamente in numerosi suoi cicli di affreschi, sarà proprio quello classicista della aequa potestas delle arti, della nobile gara tra discipline diverse come mezzi espressivi, ma analoghe come finalità filosofiche ed estetiche.

Fu evidentemente un successo, questo di Domenico Tempesti. Se vogliamo dar retta al figlio Ranieri, gli affreschi appena terminati vennero particolarmente apprezzati dal conte di Richecourt, che volentieri li andava a vedere ogni volta che si trovava a passar le acque nei vicinissimi Bagni di

                                                                                                               

37 Non sarà allora un dato meramente erudito ricordare come nel 1750 Goldoni scriverà La famiglia dell’antiquario, che trarrà ispirazione proprio dalla figura del Gori, comune amico suo, del Dal Borgo e del Tempesti (BRUNI 2008).

38 Su Pio Dal Borgo, canonico del Duomo, cavaliere stefaniano, avvocato, manca ancora uno studio relativo alla sua attività teatrale, che fu molto intensa sebbene oggi pressoché dimenticata, anche a causa della difficile reperibilità di alcuni dei suoi testi a stampa, ma soprattutto perché gran parte delle sue opere, rimaste manoscritte, sono tuttora conservate nell’inaccessibile archivio di famiglia. Aderì alla Colonia Alfea di cui fu animatore e fu amico del Goldoni pisano. Su di lui v. SILICANI 1992 (ma anche l’interessante necrologio in “Gazzetta Toscana” n. 49, 1785, pp. 195- 96).

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S. Giuliano, luogo frequentato da tutta l’aristocrazia europea

39

. Eppure, se per lungo tempo quegli affreschi furono attribuiti con sicurezza a Giovanni Battista, non fu solo per una errata interpretazione della loro data di esecuzione

40

(che avrebbe reso ben possibile l’intervento del più giovane talento), ma anche perché le rubriche stilistiche qui adottate non erano sostanzialmente in conflitto con la maniera conosciuta di Giovanni Battista.

3- I veri capisaldi della collaborazione tra il padre e il figlio sono sempre state considerate però le due ampie storie che arricchiscono il salone centrale di palazzo Ruschi a Pisa, l’Acqua e la Terra, che completano il ciclo dei Quattro Elementi iniziato degli anni Cinquanta da Agostino Veracini con il Fuoco e l’Aria

41

. Sono storie eleganti, tra le migliori mai eseguite da Domenico, che del resto già aveva già lavorato nel palazzo nel decennio precedente con episodi variati e celebrativi, d’intonazione rivolta verso la lingua fiorentina primo settecentesca (e forse aiutato dal figlio)

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. Qui nei due episodi del salone, liberato dalla necessità di collaborare col Donati e dunque di stupire con illusionismi prospettici, riconsegnava la pittura ad un linguaggio dove meno impellente si faceva il gioco spaziale, per tornare invece alle ragioni di una pittura neoseicentesca, dove evidente era l’emersione di un cortonismo cavato da palazzo Pitti e piegato ad esiti meno monumentali ma eleganti

43

. Solo che questi dipinti, attribuiti prima a Giovanni Battista eppoi a Domenico in

                                                                                                               

39 BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri a Giovanni Mariti, Crespina, 14.12.1788: a Pugnano per i Dal Borgo Domenico dipinse “la nascita d’Arlecchino, vaghissima e corretta opera, che il conte di Richecourt, andava sovente a veder dai Bagni espressamente”. Richecourt come è noto venne eletto Presidente del Consiglio di Reggenza del Granducato nel 1749, ad affreschi da poco terminati.

40 GIUSTI 1990, p. 655 (che leggeva un ‘1778’ in un cartiglio – circostanza che rendeva plausibile l’attribuzione degli affreschi a Giovanni Battista - dove invece vi sono tracciati solo degli scarabocchi).

41 Per la ricostruzione documentaria degli interventi del Veracini in palazzo Ruschi (iniziati nel 1745 con lo sfondo del salone e altri lavori, e terminati nel 1751) v. PANAJIA 2001, pp. 68-73 (ma anche BALDASSARI 1992, pp. 159-61). A Pisa (anzi, nella Certosa di Calci) il Veracini nel 1751 dipinse un S. Gorgonio con S. Francesco di Sales e il Beato Niccolò Albergati; poco dopo licenziò per la chiesa di S. Nicola una Madonna col Bambino e S. Nicola. Il primo lavoro pisano del Veracini sarà però da mettere in relazione alla committenza degli Upezzinghi, che intorno al 1745-46 impiegarono l’artista nell’esecuzione di alcuni restauri di quadri conservati nelle loro collezioni di Pisa e di Capannoli, come risulta in ASP, Upezzinghi 16, c. 89, 8.6.1746; c. 104, 25.8.1746; c. 135, 17.3.1746; c. 154, 3.6.1747 e 5.6.1747.

42 Sui cicli svolti da Domenico assieme a Jacopo Donati nel 1746-49 (per i quali esistono i pagamenti), v. qui cap. 3.

43 Sul cortonismo di Domenico insisté anche il figlio Ranieri: BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri a Giovanni Mariti, Crespina, 14.12.1788.

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collaborazione col figlio

44

, sono invece opera del padre. Non solo infatti la presunta partecipazione di Giovanni Battista non è mai stata citata dalle fonti (comprese quelle di famiglia: Ranieri parlava dei lavori per il palazzo come opera del solo genitore), e neppure dai documenti, che parlano sempre di “Tempesti e Donati”, di Domenico e di Jacopo, per l’appunto

45

. Ma la ragione ultima e dirimente è che quando gli affreschi vennero eseguiti Giovanni Battista era a Roma, al pensionato accademico, e dai carteggi non si ha mai notizia di un suo provvisorio ritorno pisano allo scopo di aiutare il padre negli affreschi per i Ruschi

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. Dettaglio del resto confermato dalle ragioni dello stile, che tradiva l’intenzione di dissimulare una omogeneità stilistica che, al confronto col Veracini, non compromettesse la regolata varietas dell’insieme, senza significative aperture romane. Ne uscirono storie a loro modo grandiose e solenni, che toccarono i vertici dell’arte di Domenico, sorretta da orientamenti fiorentini: Anton Domenico Gabbiani, e la vasta schiera dei dandiniani.

Ma un intervento di Giovanni Battista tuttavia ugualmente vi fu, e sarà da identificare nella redazione dei cartoni, nell’invenzione delle storie, perché le ragioni della declinazione stilistica di quelle scene indicano una raffinatezza espressiva che fu estranea a Domenico, una gestualità e una prossemica che tradiscono l’invenzione del figlio, che a quelle date, verso la fine degli anni Cinquanta, aveva già cominciato con successo a dare prova di sé come artista indipendente, grazie anche alla disciplina che in quegli stessi anni aveva imparato nella bottega dei Melani, dove Giovanni Battista era stato come vedremo come assiduo scolaro

47

.

                                                                                                               

44 Sull’attribuzione delle due scene a Giovanni Battista BELLINI PIETRI 1913, p. 215; FROSINI 1981, p. 149. Dubbi erano già venuti a Ciardi, che non a caso parlava di opere frutto di una collaborazione tra i due (CIARDI 1990 c, p.

111), ipotesi accettata anche di recente: Il Settecento 2011, p. 98, scheda di B. Moreschini.

45 I documenti, resi noti in anni non lontani, parlano infatti di pagamenti a Tempesti e Donati per gli affreschi di palazzo Ruschi senza alcuna indicazione dei nomi di battesimo: ma è noto che Domenico fu appunto costantemente coadiuvato nella sua attività artistica da Jacopo Donati, quadraturista, che invece non risulta aver mai lavorato (mai, neppure una volta) con Giovanni Battista. I nomi di battesimo allora risultavano pressoché inutili: ognuno nella Pisa del Settecento avrebbe capito l’identità della coppia di artisti (PANAJIA 2001, pp. 69-75). Del resto anche Da Morrona aveva indicato con sicurezza il nome di Domenico tra gli autori degli affreschi del palazzo (DA MORRONA 1812, II, p. 546), e così il figlio Ranieri, in una corrispondenza neppure troppo tarda (BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri a Giovanni Mariti, Crespina, 14.12.1788). Ugualmente fece Mariti, che sebbene in corrispondenza con lo stesso Ranieri, aggiunse elementi d’inedita chiarezza (MARITI 2001, pp. 114-17).

46 Sul pensionato romano di Giovanni Battista, v. infra.

47 Su questo v. infra.

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La collaborazione tra i due ebbe però almeno un’occasione importante, ricostruibile con sufficiente certezza. Tra le primissime opere certe di Giovanni Battista, quasi un esordio, vi fu un affresco della fine degli anni Quaranta nel convento dei frati Cappuccini di Pisa, in S. Donnino. Nei primissimi anni del decennio Domenico aveva anticipato l’intervento del figlio nel convento con un ciclo di affreschi – purtroppo distrutto nell’ultima guerra – di soggetto sconosciuto e non documentato da referti fotografici, ma che riteniamo di veder almeno parzialmente testimoniato da due disegni d’identica mano passati in asta in anni piuttosto recenti, raffiguranti Due frati Cappuccini in un eremo (attribuito a Domenico), un Paesaggio con figure e un frate Cappuccino (ritenuto di Giovanni Battista)

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. Le identiche dimensioni e la prossimità del soggetto non lasciano infatti molti dubbi sul fatto che si trattassero di due preliminari grafici per un ciclo, e la presenza dei frati aiuta ad ipotizzarne la destinazione. Dal momento che la mano è appunto la stessa, e che il primo di essi si trovava in origine nella raccolta Gabburri, l’esecutore non può che essere identificato nel padre Domenico, giacché nel 1742, anno di morte del collezionista fiorentino, il più giovane dei due pittori aveva solo tredici anni, assai pochi per un ciclo così importante. Ma la doppia assegnazione antiquariale dei due disegni sono la spia di una prossimità stilistica non casuale, che sfidava il gioco attribuzionistico. Una vicinanza insomma tra i due che renderà anche conto di alcune mature sperimentazioni di Giovanni Battista nel genere paesaggistico (criticamente affatto inedite e quasi inaspettate), che lascia immaginare come in questi affreschi si fosse esercitata l’inesperta mano del Nostro (che in una pittura fatta di alberi e di rupi, avrà trovato il vezzo giusto per scegliersi il dove e il quando), e soprattutto per ribadire come il padre non fu nei confronti del figlio un genitore disattento, e che il suo ruolo nella formazione di Giovanni Battista fu importante, sebbene non esclusivo e intermittente.

L’oscillazione attributiva di questi dipinti - una volta del padre, l’altra del figlio -, rivelava anche l’esigenza da parte della critica di sciogliere in modo credibile quello che si è configurato come un vero paradosso della biografia artistica tempestiana, dettato dalla necessità di riempire con qualche esemplare una carriera che per i primi due decenni risultava vuota di opere. Segno evidente che in quel periodo (almeno verso la fine degli anni Quaranta), se anche i più sensibili e avvertiti biografi coevi all’artista non avevano ritenuto di dover indicare date e circostanze capaci di ritagliare un’autonoma personalità in formazione, questo accadde perché nel suo lungo esordio i meriti di Giovanni Battista si confusero con quelli dei suoi maestri, del padre in particolare.

                                                                                                               

48 Si tratta di due disegni ad acquerello e inchiostro, con misure pressoché identiche (cm 40 X 27; 40,4 X 27,7). Per il primo, indicato come proveniente dalla collezione Gabburri, v. Porro 2007, pp. 56-7. Per il secondo disegno cfr.

ALDEGA-GORDON 1987, pp. 78-9

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Abitarono sempre sotto lo stesso tetto, Domenico e Giovanni Battista, fino alla morte del padre

49

: discussioni ne avranno prese, punti di vista saranno stati condivisi. E quando il figlio, spedito dal genitore a bottega da altri per completare una formazione che aveva bisogno di essere integrata nei lunghi momenti di assenza del padre da Pisa, tornava a casa dagli studi dei Melani e del Tommasi, avrà ben discusso di esperienze professionali che era interessante poter confrontare con quanto imparato in famiglia, e sentirne il rinnovato consiglio del genitore, fosse solo perché ne potesse misurare gli incrementi e l’emancipato sapere.

Era una famiglia di artisti, qualcosa avrà voluto dire.

                                                                                                               

49 Sulle case abitate dalla famiglia Tempesti a Pisa v. infra.

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