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267, su cui il Consiglio è chiamato ad esprimere parere ai sensi dell'art

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Academic year: 2022

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Parere richiesto dal Ministro della giustizia sul disegno di legge recante “Modifiche urgenti al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante disciplina del fallimento”, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 1° marzo 2002.

(Deliberazione del 25 luglio 2002)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 25 luglio 2002, ha approvato il seguente parere:

«Il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge recante modifiche al R.D. 16 marzo 1942 n. 267, su cui il Consiglio è chiamato ad esprimere parere ai sensi dell'art. 10 della L.195/58.

E' necessario preliminarmente osservare come gran parte degli operatori del settore avverta oggi l'esigenza di una riforma complessiva ed organica della legge fallimentare la quale non solo (e non tanto) si attenga alle novità legislative ed alle pronunce della Corte Costituzionale che non ne hanno intaccato la coerenza ed unitarietà della struttura ma ne ripensi l'impianto generale sulla scorta della mutata realtà economico-sociale del Paese rispetto al tempo della sua approvazione.

Il disegno di legge in esame e l'allegata relazione sembrano, viceversa, proporci - in luogo di un intervento incisivo sulla natura, struttura e regolamentazione delle procedure concorsuali - marginali modifiche per lo più connesse all'intento di adeguare la normativa fallimentare alle decisioni della Corte Costituzionale e di rendere più efficiente e tempestiva la procedura per il tramite anche dell'abrogazione di norme ormai desuete.

Fermo restando che appare di per sé condivisibile un tale intento, l'idea di una miniriforma della Legge Fallimentare desta, comunque, qualche perplessità, specie in considerazione dell'esistenza di una Commissione istituita dal Ministro della Giustizia nell'ottobre 2001 che sta lavorando ad un progetto di riforma complessivo delle procedure concorsuali: taluni degli interventi innovatori, infatti, potrebbero forse rimanere, più coerentemente, rimessi alla futura normativa generale o ricevere comunque una più compiuta disciplina.

Colpisce la circostanza che, come già era accaduto per il disegno di legge di riforma del processo civile, si sia in presenza di una sorta di anticipazione di un provvedimento più ampio, che resta sullo sfondo, di cui non si conoscono le linee guida, i contenuti, i confini; di tal che la prima perplessità che emerge è data proprio dal fatto che non si possa valutare in che misura, più o meno prodromica, queste prime innovazioni si inseriscano nel più ampio disegno riformatore.

In particolare, se la riforma urgente è destinata ad operare solo temporaneamente, in attesa della completa riscrittura della Legge Fallimentare, va sicuramente tenuto nel debito conto come alcune delle modifiche proposte, anche alcune di quelle determinate dalle sentenze costituzionali, siano verosimilmente destinate a produrre rilevanti ripercussioni sulla struttura degli Uffici giudiziari sub specie di un aumento delle incombenze di cancelleria - ad esempio tutti gli adempimenti connessi alla trasmissione del fascicolo fallimentare e dei giudizi conseguenti a seguito della dichiarazione d'incompetenza (art. 3), alla convocazione comunque e sempre delle parti (art. 5), alla delimitazione del termine entro il quale i creditori potranno presentare le domande di ammissione al passivo, che determinerà un conseguente aumento delle tardive (artt. 6 - 21), alla previsione della notificazione della sentenza dichiarativa di fallimento al debitore in luogo della comunicazione per estratto (art. 7), alla previsione espressa di comunicazione o notificazione dei provvedimenti del G.D. anche al curatore, al quale nella prassi attuale è fatto onere di informarsi sui provvedimenti adottati dal G.D. in merito alle sue proposte (art. 9), alla comunicazione a cura della cancelleria del decreto di fissazione dell'udienza dei giudizi ex artt. 98 e 100-102 L.F. anche conseguenti alla procedura di liquidazione coatta amministrativa (artt. 26 ss. e 55, etc.) - .

Si profila, altresì, un ampliamento dell'impegno dei giudici, sia pure con una rinnovata, ma non particolarmente significativa in termini quantitativi, distribuzione dei compiti tra giudice monocratico e collegiale.

In proposito va rilevato come sia stata estesa la competenza del giudice in veste monocratica: nel corso dell'istruttoria prefallimentare l'attività di audizione ed indagine può essere delegata al relatore (art. 5), per i provvedimenti ex art. 35 L.F. è stato innalzato il valore per il quale la competenza è del G.D. (art. 11).

A prescindere, pertanto, dalla valutazione nel merito dei singoli interventi, non può non rilevarsi, in vista delle prevedibili ricadute ordinamentali, come sia opportuno che tali modifiche: a) ricevano concreta attuazione solo se destinate a non essere immediatamente travolte dalle riforme prossime venture con possibili dannose conseguenze sull'assetto organizzativo degli uffici; b) siano accompagnate, per garantire un positivo risultato anche in termini di efficienza, da un adeguato rafforzamento delle sezioni fallimentari sia

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per quanto riguarda l'organico dei magistrati che del personale amministrativo.

La scelta di valorizzare i principi del giusto processo - fra l'altro, attraverso l'opzione per un contraddittorio non solo cartaceo (artt. 5 - 41), l'accurata disciplina del doppio grado di giudizio interno alla procedura fallimentare (art.9), la riscrittura del giudizio di impugnazione dei crediti ammessi (art. 28), la necessaria previsione dell'obbligo di comunicazione a cura della cancelleria del decreto di fissazione di udienza per i giudizi susseguenti all'approvazione dello stato passivo (art. 28 e ss.), la ripetuta audizione del debitore prevista nel corso delle fasi della procedura per concordato preventivo (artt. 43, 44, 46, 47), non sembra neanch'essa conseguibile senza costi aggiuntivi in termini di riorganizzazione degli uffici e maggior impegno della forza lavoro nè è seriamente ravvisabile un sufficiente correttivo nella potenziale deflazione del numero delle procedure, derivante in ipotesi da una più ampia applicazione della deroga prevista per il P.I. ovvero dalla modifica di disposizioni marginali.

Non può condividersi, pertanto, la modifica della disciplina in materia di deposito di somme (art.10), la qua le pur mirando a snellire i rapporti curatore - G.D. - cancelleria in merito alle disposizioni sulle somme, appare troppo "libera" e foriera di sicure difficoltà interpretative ed applicative. Altrettanto poco convincente risulta la scelta di non prevedere più il deposito delle scritture contabili del fallito presso la cancelleria del Tribunale senza altrimenti disciplinare la materia (art. 18); e di affidare la redazione dell'inventario esclusivamente al curatore (art. 19).

Quanto all'idea che si tratterebbe di una riforma a costo zero non essendo stati previsti relativi stanziamenti di bilancio va detto senza mezzi termini che l'attuazione a costo zero non appare realizzabile se non a prezzo di ricadute sull'efficienza del servizio giustizia e di possibili effetti negativi sulla durata ragionevole dei procedimenti.

L'esame in dettaglio dell'articolato consente di effettuare ulteriori osservazioni su alcune delle disposizioni contenute nel d.d.l. che appaiono maggiormente significative.

Come si può agevolmente rilevare il fulcro dell'art. 1 del d.d.l. è dato dalla soppressione del comma 2 dell'art. 1 della L.F., con rilevanti effetti in ordine alla nozione di piccolo imprenditore.

L'intervento lascia adito a qualche perplessità o per meglio dire - se è vero che la ratio complessiva della riforma è costituita dall'esigenza di un adeguamento della normativa agli interventi della Corte Costituzionale - sembra andare addirittura ultra petita. Invero, la Corte Costituzionale ha di fatto soppresso i punti della disposizione normativa al proprio esame (art. 1 L.F.) relativi al piccolo imprenditore, ma ha anche più volte affermato come la parte finale del suddetto comma "In nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali" non sollevi alcun problema di costituzionalità.

Ancora si deve osservare come la modifica apportata all'art. 1 L.F., che tocca direttamente profili di diritto sostanziale, non sembra adeguatamente coordinata con le norme civilistiche. In proposito va rilevato che la scelta di eliminare i parametri di individuazione del P.I., seppur per certi versi condivisibile, non scioglierà tutti i possibili dubbi interpretativi. Di contro, la scelta di non escludere in modo più drastico le società commerciali dalla disciplina del P.I. finirà con l' aumentare il tasso di dubbio in modo geometrico.

La problematica in discorso - fortemente avvertita nelle aule giudiziarie - avrebbe meritato un intervento normativo ben più articolato e coordinato anche con le norme codicistiche, e non un semplice tratto di penna. L'intervento infatti rischia di essere senza effetto, in concreto, poichè molte delle disposizioni codicistiche in tema di piccolo imprenditore non appaiono direttamente applicabili alle società. Se è vero che la disposizione dell'art. 2083 c.c., recante criteri di individuazione del piccolo imprenditore, potrebbe essere piegata ed adattata alle società di persone, ciò sembra molto più difficile per le società di capitali, malgrado anche per queste ultime si avverta l'esigenza di limitare l'ambito di applicazione del fallimento. Sembra quindi che più che una abrogazione occorresse una riscrittura della norma con la fissazione di nuovi parametri.

La soppressione nell'ultima parte del comma II dell'art. 1 L.F., rivolta nell'intenzione del legislatore ad eliminare una disparità di trattamento tra le società artigiane e le altre società che gestiscono imprese di piccole dimensioni, trascura di considerare tuttavia che, da un lato, secondo una parte della dottrina, la disparità di trattamento non esiste, in quanto le società artigiane sarebbero sottoposte al fallimento; e che dall'altro l'abrogazione della norma consentirebbe forse di escludere definitivamente dal fallimento le società artigiane solo qualora si ritenesse che la qualifica di artigiano basti di per sè ad evitare l'applicazione delle procedure concorsuali, ma non sarebbe sufficiente a sottrarre al fallimento le società di piccoli commercianti in ordine alle quali manca una definizione legislativa. In tal modo verrebbero escluse dal fallimento le società che gestiscono una piccola impresa ma non quelle di piccoli commercianti.

L'art. 3 del d.d.l. introduce l'art. 9 bis alla L.F.. Attualmente l'incompetenza territoriale del tribunale

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che ha dichiarato il fallimento comporta la nullità della sentenza. Le attività processuali compiute nell'ambito della procedura e le iniziative giudiziali prese dal curatore vengono poste nel nulla. Il d.d.l. intende ovviare alla gravità delle conseguenze, come esattamente illustrato nella relazione, con la previsione di una nuova disposizione secondo la quale la sentenza di fallimento emessa da tribunale incompetente è idonea a dar luogo ad una procedura valida. L'accertamento dell'incompetenza comporterebbe soltanto il trasferimento della procedura e la riassunzione del giudizio di opposizione innanzi al tribunale competente. Si prevede altresì l'interruzione dei giudizi in corso, nei quali sia parte il curatore del fallimento aperto dal tribunale incompetente. Poiché il Tribunale incompetente è comunque competente per tutte le azioni che derivano dal fallimento, eccettuate le azioni reali immobiliari, è poi previsto, in caso di prosecuzione o riassunzione del giudizio, il rilievo, anche d'ufficio, dell'incompetenza, non oltre il primo grado del processo.

A fronte di queste modifiche occorre in primo luogo rilevare che la salvezza della validità della sentenza pronunciata dal giudice incompetente difficilmente può indurre a ritenere appannato il principio costituzionale del giudice naturale giacché l'incompetenza territoriale non costituisce istituto immediatamente riferibile alla precostituzione del giudice, e di contro può contribuire all'effettività del principio della ragionevole durata del processo.

E' quindi apprezzabile l'intento di salvaguardare l'attività di gestione del fallimento già svolta dal tribunale incompetente, perseguito proprio attraverso la salvezza degli effetti della sentenza dichiarata dal tribunale incompetente. Tuttavia l'obiettivo di ottimizzare le risorse professionali ed i risultati già conseguiti meriterebbe una disciplina più dettagliata in considerazione della complessità degli effetti stessi. Sembra infatti che la mera previsione de "l'immediata trasmissione degli atti" dal Tribunale incompetente a quello competente (art. 3 che introduce l'art. 9 bis L.F.), trascuri la circostanza che il fascicolo della procedura fallimentare - a differenza di quello del giudizio di opposizione - è nella disponibilità del giudice delegato.

Sarebbe pertanto opportuno chiarire se contestualmente alla dichiarazione di incompetenza il Tribunale debba revocare il G.D. ed il curatore, ovvero limitarsi ad ordinare al primo la trasmissione degli atti.

Non può non sottolinearsi poi come particolarmente delicata sia la fase del passaggio degli atti: in proposito sarebbe opportuno garantire, attraverso una disciplina espressa degli atti urgenti, che il passaggio di competenza da un G.D. all'altro e da un curatore all'altro avvenga senza soluzione di continuità, in considerazione della necessità di assicurare sempre la puntuale gestione della procedura.

Va altresì rilevato come lo spostamento dei giudizi in corso, attratti alla competenza del Tribunale fallimentare, potrebbe determinare problemi per le difese legali già conferite.

La riforma appare comunque incompleta in quanto prevede la salvezza degli atti precedentemente compiuti, cosa che già, come si è accennato, in punto di principio, solleva qualche perplessità, ma nel momento in cui comunque opta per un principio di salvezza degli atti in questione, non si fa conseguentemente carico della salvezza degli effetti prodotti dalla dichiarazione di insolvenza, ad esempio ai fini del periodo sospetto delle revocatorie.

L'art. 4 stabilisce che le società non possano esser dichiarate fallite dopo un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. L'opportunità della norma appare alquanto dubbia, poiché in tal modo si verrebbe ad attribuire alla pubblicità nel registro delle imprese un'efficacia parzialmente costitutiva.

A detta norma si ricollega concettualmente l'articolo 41, che prevede l'impossibilità di dichiarare falliti i soci illimitatamente responsabili, trascorso un anno dall'iscrizione dell'atto dal quale consegue la perdita della responsabilità illimitata.

Oltre all'accennato profilo relativo alla cosiddetta pubblicità costitutiva, sorge il dubbio che quest'ultima norma sia eccessivamente permissiva perché un anno di tempo per un evento quale quello della fuoruscita del socio che non ha l'evidenza propria di altre vicende - come ad esempio la cessazione d'impresa, la cui visibilità è ben maggiore - è forse troppo poco.

In ordine, poi, agli effetti riabilitanti della chiusura del fallimento, c'è da chiedersi quali conseguenze potrà avere tutto questo sulla bancarotta semplice.

La modifica, ad opera dell'art. 5, dell'art. 15 L.F. (applicabile anche alle società con soci illimitatamente responsabili - art. 147 L.F. -), che introduce il principio del contraddittorio orale obbligatorio, costituisce sicuramente un punto di rilievo del disegno di legge.

Con la nuova formulazione si intende adeguare la disciplina della c.d. istruttoria pre-fallimentare ai principi stabiliti dal nuovo testo dell'art. 111 Cost. che, come prontamente rilevato in dottrina, pongono la questione della carente formalizzazione dei procedimenti in camera di consiglio. Tale adeguamento, nella modifica proposta, si fonda sostanzialmente sull'obbligo dell'audizione del fallendo e sulla previsione di un'apposita udienza a tal fine.

In proposito - se il senso della modifica proposta è quello, più volte ribadito nella relazione

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illustrativa, di innalzare il tasso delle garanzie di difesa, così come sembra chiedere l'art. 111 Cost., e di imporre conseguentemente l'audizione dell'imprenditore fallendo, togliendo quindi legittimità alle prassi costituitesi - può ben ritenersi che tale previsione delegatrice appaia incoerente con lo spirito dell'intera riforma, giacché è piuttosto evidente che il contraddittorio per essere veramente tale dovrebbe investire l'organo giudicante nella sua totalità e non appare possibile un frazionamento del modo in cui il contraddittorio in concreto si attua.

Dal punto di vista sistematico si può altresì osservare come sarebbe opportuno un raccordo diretto tra il contenuto normativo dell'art. 5 del d.d.l. e l'art. 6 L.F. (che disciplina l'iniziativa), ovvero una previsione più organica e completa del "procedimento" (così è rubricato l'articolo nella nuova formulazione), in modo da non lasciare dubbi sul fatto che - fuori dai casi di procedimento ex officio - la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza competa al ricorrente.

C'è da chiedersi inoltre se nei casi di palese inammissibilità sia comunque necessario prevedere la convocazione delle parti.

Anche l'art. 18 recante modifiche agli artt. 84, 85, 86 L.F. suscita alcune perplessità. Ed infatti non sembra condivisibile la scelta di conferire al Curatore la competenza esclusiva in ordine all'attività di apposizione dei sigilli ai beni del fallito.

Pur nella consapevolezza del fatto che tale attività è ormai largamente caduta in disuso, emergono aspetti di principio che non sembrano possano essere pretermessi. L'apposizione di sigilli ha una sua articolata regolamentazione negli artt. 752 ss. c.p.c. e trova nella figura del giudice un momento di garanzia di non secondaria importanza. Basti pensare alle ipotesi di cui all'art. 755 c.p.c. di forte intromissione nella sfera soggettiva dei destinatari di tale attività, per comprenderne la sicura rilevanza costituzionale delle competenze attribuite al giudice. La scelta legislativa appare quindi, in ultima analisi, contraddittoria rispetto all'esigenza di un innalzamento all'interno del corpus normativo di diritto fallimentare del tasso di garanzia.

Analogamente non sembra condivisile l'eliminazione di cui all'art.18 dell'attività del cancelliere nelle operazioni di inventario previste dall'attuale art. 87, e ciò anche a tutela del curatore a fronte di possibili contestazioni sulla reale consistenza dei beni inventariati.

Infine ulteriori riflessioni sollecitano le modifiche introdotte dagli artt. 28 e 29 che modificano l'art.

100 e 101 della L.F..

In merito al contenuto normativo dell'art. 28 si osserva come la prevista attribuzione al Curatore della legittimazione all'impugnazione dei crediti ammessi nella fase della verifica del passivo, che pure presenta dei profili delicati, potrebbe essere condivisa laddove si rilevi che, in qualche modo, una legittimazione di analogo tenore è già ravvisabile nell'art. 26.

Viceversa suscita perplessità la possibilità attribuita al curatore di impugnare i crediti ammessi in via tardiva, atteso che il G.D. non può emettere il decreto di ammissione, se non con il parere favorevole del curatore, dovendo diversamente aprire la fase contenziosa.

Con riguardo all'art. 29 può ritenersi opportuno il riferimento all'art. 180 c.p.c, ma occorrerebbe una più attenta riflessione, che analizzi il problema della effettiva necessità o meno di iscrivere a ruolo e di svolgere l'udienza per tutte le domande tardive, anche per quelle alle quali conseguirà il parere positivo e quindi l'immediata cancellazione. Probabilmente un'esigenza di snellimento, anche con riguardo ai servizi amministrativi non direttamente connessi alle procedure fallimentari (ufficio del ruolo cancelleria degli affari contenziosi), dovrebbe sollecitare soluzioni che consentano l'iscrizione a ruolo solo delle domande tardive per le quali non vi è deliberazione positiva.»

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