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programma comunista organo del partito comunista internazionale

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vunque nel mondo regnano caos e disordine: se ne ac- corgono, preoccupati, gli stessi “opinionisti” ed “esperti” bor- ghesi. Fra alti e bassi, avanzate e ri- tirate, si acuisce la guerra commer- ciale fra Stati Uniti e Cina, le due principali potenze economiche che peraltro da tempo danno segni evi- denti d’affanno. Intanto, è scoppiato il grave contrasto fra India e Paki- stan per il Kashmir ed è in crescen- te subbuglio l’Estremo Oriente (gli avvenimenti di Hong Kong non so- no di secondaria importanza, visto che toccano la Cina; certo non se la passano bene le ex-tigri asiatiche; e non c’è giorno che Giappone e Sud Corea non si prendano, commer- cialmente parlando, a sberle). Il Me- dio Oriente, poi, con le guerre semi- dimenticate in Siria e Yemen, le rin- novate tensioni intorno allo Stretto di Hormuz e la sempre aperta “que- stione palestinese” (insolubile all’interno del quadro imperialista, ma che costa sangue proletario a non finire), è una polveriera dove basta poco perché la miccia faccia esplodere l’intera area. D’altra par- te, lungo la riva meridionale del Mediterraneo, mentre in Libia non cessa il massacro, il fuoco cova in Algeria come in Marocco, in Tuni- sia come in Egitto e in Turchia, con improvvise fiammate che potrebbe- ro estendersi in maniera incontrolla- bile; la fascia sub-sahariana è un’u- nica martoriata “fabbrica” di dispe- rati che fuggono da situazioni estre- me, economiche, sociali, militari, sanitarie; e tutta l’Africa è preda di appetiti imperialisti che ripetuta- mente si scontrano per procura (al- meno per il momento). L’America Latina (soprattutto Brasile, Vene- zuela e Argentina, ma anche Perù e Cile) e il Centro America sono, giorno dopo giorno, a un passo dal tracollo e a farne le spese sono cen- tinaia di migliaia di proletari o se- mi-proletari, molti dei quali premo- no in maniera drammatica alle porte meridionali degli Stati Uniti. In Eu- ropa, infine, tra angosce e malumo- ri, retorica dominante e fratture profonde, la Gran Bretagna sta per arrivare al dunque della “Brexit”, la Germania (già locomotiva del con- tinente) è in aperta e dichiarata re- cessione, in Francia il caotico movi- mento interclassista dei gilets gialli ha se non altro portato in superficie un grave disagio sociale (che va ad aggiungersi a quello, perenne, delle banlieues da sempre martoriate) – un disagio che si fa sentire anche nei paesi dell’est (Russia in testa) e, con tutte le conseguenze ideologiche e politiche che ben conosciamo, si as- somma a rigurgiti di virulenti nazio- nalismi… Potremmo continuare, e comunque il tempo che passerà fra la stesura di quest’articolo (metà a- gosto) e la sua pubblicazione po- trebbe riservare altre… “sorprese”.

Quanto all’Italia, anch’essa ormai in recessione, l’ennesima, miserabi- le pagliacciata governativo-parla-

il programma comunista

Bimestrale – una copia € 1,00 Abbonamenti:

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Conto corrente postale: 59164889 DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin al-

la fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comuni- sta d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenera- zione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti po- polari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del re- stauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

organo del partito comunista internazionale

www.partitocomunistainternazionale.org info@partitocomunistainternazionale.org

Anno lxvII n. 4, luglio-settembre 2019 Il PROGRAMMA COMUNISTA

Redazione:

Casella Postale 272 20101 Milano

Spedizione 70% - Milano

O

natori britannici e polacchi, dei la- voratori della FIAT, tanto per limi- tarci agli esempi più noti: ma che di- re delle lotte dei proletari latino-a- mericani, sud-africani, sud-coreani, indiani, cinesi, di cui solo deboli e- chi sono giunti al cuore dell’impe- rialismo mondiale, l’area euroame- ricana?). Le fragilità e le ambiguità del sindacalismo di base, nato dalla giusta reazione nei confronti del sindacalismo di regime, ma presto arenatosi, anche nelle sue punte più avanzate, in dinamiche corporative o in fuorvianti equivoci relativi al proprio ruolo (il “sindacato-parti- to”, il “sindacato di classe a tavoli- no”), hanno contribuito non poco a indebolire le prime istintive risposte proletarie.

Intanto, sotto la pressione del capi- tale e della sua crisi strutturale, la nostra classe non ha cessato di attra-

versare trasformazioni e mutazioni che non potevano non avere effetti profondi e, in questa prima fase, an- che disgreganti. Da un lato, s’è al- largata la frattura tra garantiti e non garantiti, lavoratori e lavoratrici, vecchie e giovani generazioni.

Dall’altro, le grandi ondate migrato- rie che si sono rinnovate negli ulti- mi decenni non sono emerse dal nulla, ma sono la conseguenza dell’altra frattura (storica e implici- ta nello “sviluppo ineguale del capi- talismo”) tra aree più o meno svi- luppate o fra “vecchi” e “giovani”

capitalismi, della penetrazione or- mai completa del capitalismo in tut- to il mondo (il processo che i bor- ghesi pudicamente chiamano “glo- balizzazione”) e della chiusura defi- nitiva del ciclo di rivoluzioni nazio- mentare ci può solo servire per ri-

battere alcuni chiodi. Le democra- zie uscite vincitrici dal secondo massacro mondiale hanno ereditato dal fascismo non solo la sostanza e- conomica-sociale-politica (inter- ventismo statale, misure protezioni- stiche, finanziarizzazione dell’eco- nomia, riformismo interclassista, inquadramento dei sindacati nei gangli dello Stato, becera esaltazio- ne di Patria e Nazione), ma anche, sia pur coperta dall’ingannevole in- volucro democratico, la pratica dit- tatoriale che nel corso dei decenni post-bellici s’è andata via via mani- festando in maniera sempre più e- splicita (esecutivi forti, legislazione per decreto, riordino e centralizza- zione degli apparati repressivi, mi- sure apertamente anti-proletarie, ri- corso alla violenza e al terrorismo nei confronti del movimento ope- raio e delle avanguardie di lotta, e via dicendo). Tutto ciò, che noi ab- biamo dimostrato fin dall’immedia- to secondo dopoguerra1, non può andar giù alle “anime belle”, che si cullano ancora nella rosea illusione della Democrazia e della Costitu- zione, attribuendo i continui giri di vite soltanto al “cattivo di turno” (in ordine chiaramente discendente dal punto di vista della… caratura: An- dreotti? Berlusconi? Salvini? Oppu- re: i “servizi segreti deviati”? o i

“pezzi dello Stato”? Insomma, tutto il fallimentare armamentario ideo- logico dei “sinceri democratici”, più o meno stalinisti o ex-stalinisti o

“riformisti disillusi” o “anime perse della ‘sinistra’”!).

Oggi, poi, di fronte al caos e al di- sordine imperanti (anche al loro in- terno: il “caso Brexit” ne è l’esem- pio più calzante, con la guerra tra fazioni borghesi che finisce per ri- verberarsi sulle mezze classi e su strati protetti del proletariato), è chiaro che le classi dominanti di tut- to il mondo si affannano per cercare di darsi un assetto più solido. Ma fa- ticano a farlo, non riescono a trova- re la “ricetta” per uscire da una crisi che per il momento è solo economi- ca, ma potrebbe di colpo (orrore!) e- volvere in crisi sociale, con i relativi contraccolpi politici; e di conse- guenza non possono far altro che volgersi a un ulteriore irrigidimento delle strutture poliziesche di domi- nio sulla società e in primo luogo sul proletariato: sia sul piano legi- slativo e militare (inasprimento del-

la legislazione eccezionale e delle misure securitarie, capillare con- trollo del territorio, aggravamento delle pene per reati relativi all’ordi- ne pubblico, ecc.) sia su quello i- deologico (incitamento all’aperto razzismo, rozzo sovranismo e pa- triottismo, mobilitazione di mezze classi incarognite, ecc.).

Ma, tra sintomi profondi e fenome- ni di superficie, a chi sappia guar- dare e vedere risulta chiaro che la crisi è del modo di produzione capi- talistico, un nuovo e più grave capi- tolo di quel ciclo apertosi a metà de- gli anni ’70 del ‘900 e caratterizza- to, come tutte le crisi del modo di produzione capitalistico, dalla so- vrapproduzione di merci e capitali:

il meccanismo di accumulazione e auto-valorizzazione s’è inceppato, non riesce più a ruotare con la ne- cessaria velocità e intensità, il mer- cato è saturo, il vulcano della produ- zione ha prodotto la palude. A que- sto stato di cose, il capitale non può porre termine né trovare palliativi: il limite del capitale è nel capitale stesso. Può alzare fin che vuole le barriere del protezionismo, invoca- re più investimenti e innovazione, teorizzare funamboliche autonomie regionali, riesumare le fruste ricette ideologiche appena riverniciate e riadattate del “sovranismo-populi- smo”... Ma ciò non basta, anche perché al proprio interno la classe dominante, sia a livello nazionale che a livello internazionale, è divisa per interessi e prospettive, mentre è unita solo nei confronti del proprio nemico storico, il proletariato. E co- sì, mentre da un lato cresce la re- pressione e dall’altro si fanno acuti i gemiti impotenti (e complici) delle

“anime belle”, sempre più si accu- mulano i materiali esplosivi che porteranno a un prossimo nuovo conflitto mondiale generalizzato.

A fronte di questo panorama, che ne è, per l’appunto, della nostra classe?

I proletari di tutto il mondo pagano con lacrime e sangue decenni e de- cenni di disillusioni e di sconfitte cocenti, i guasti dell’opportunismo in tutte le sue varianti2. L’inganno mostruoso e bastardo del “sociali- smo reale” e di conseguenza l’altra sua faccia, la favola idiota del “crol- lo del comunismo”, ne hanno di- strutto programmaticamente e fisi- camente l’avanguardia e quindi hanno disorientato, confuso e ab- bandonato a sé un movimento ope- raio internazionale che, solo e senza guida, non ha però mai smesso di cercare di battersi per difendersi da- gli effetti dello sfruttamento capita- listico. Partiti e sindacati al servizio della Nazione e dei suoi interessi superiori lo hanno inquadrato e ca- strato: battaglie lunghe e coraggiose sono state stroncate dal pugno di ferro del potere borghese e dalle i- pocrite finzioni di partiti e sindacati

“di lotta e di governo” (non dimen- tichiamo il diffuso fermento operaio degli anni ’60 del ‘900, i conflitti dei controllori di volo USA, dei mi-

Continua a pagina 7

In crisi è il modo

di produzione capitalistico

1. Si vedano almeno i nostri testi “For- za, violenza e dittatura nella lotta di classe” (1946-1948) e “La classe domi- nante italiana e il suo Stato nazionale”

(1946).

2. Sulle storiche ondate opportuniste, di cui la terza, quella in cui abbiamo la sfortuna di vivere e operare, risulta la più lunga e devastante, si veda quanto scrivevamo già nel 1951, nelle “Tesi ca- ratteristiche del partito” (Parte III: On- date storiche di degenerazione opportu- nista), ora in In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni il programma comunista, 1989.

Le recenti mobilitazioni di giovani, nate dall’iniziativa della fin troppo nota ragazzina svedese e poi coagulatesi in un “movimento” internazionale chia- mato “Fridays for Future” (FFF: i “venerdì per il futuro”), sono state ogget- to di una vasta campagna mediatica perché se ne debbano qui riassumere i contenuti, per altro alquanto vaghi e generici. Eppure, qualcosa va detto, specie a quei giovani che scendono o scenderanno ancora in piazza, prede di una sincera angoscia per il futuro, ma chiusi dentro un drammatico vico- lo cieco, privo di prospettive.

Il “movimento” dichiara di rivolgersi agli alunni e agli studenti, invitandoli a “scioperare” e manifestare un giorno alla settimana (per l’appunto, il ve- nerdì: una delle manifestazioni più numerose s’è tenuta a Milano, il 15 mar- zo scorso). Si tratta dunque, programmaticamente, di un “movimento” ge- nerazionale, che rispolvera in parte – forse senza nemmeno saperlo – un vecchio e abusato slogan anni ’60: “Non fidarti di nessuno sopra ai 30 anni”

(dunque, “giovani” e “adulti”, come se si trattasse di altrettante categorie sociali); e che, però, si rivolge poi ai “governi” (notoriamente composti da

“adulti”), perché riconoscano l’urgenza del problema e prendano final- mente i provvedimenti adeguati. Vale a dire, in sintesi: “100% di energia pulita, utilizzo di fonti rinnovabili e aiuti ai rifugiati e migranti climatici”.

Queste le richieste originarie, che in seguito si sono sì ampliate, restando però sempre in questo quadro di riferimento.

La tentazione di far dell’ironia su motivazioni e obiettivi è forte, ma voglia- mo resistervi e invece tentare di far ragionare quei pochissimi “giovani”

che, per avventura, incrocino la nostra stampa e siano disposti a fermarsi con attenzione su questi temi e problemi.

I “giovani” di FFF si preoccupano per il futuro: bene, è giusto. Dicono: “Che senso ha andare a scuola e apprendere nozioni, quando siamo sull’orlo del baratro e forse non esisterà nessun futuro?”. E già qui il limite è evidente:

un limite, per così dire, “corporativo”. “Partiamo dalla nostra condizione di studenti”, dicono: e poi vi rimangono chiusi dentro, quasi che il “futuro”

(che “potrebbe non esserci più, di qui a pochi anni”) riguardasse soltanto loro. Non si tratta però soltanto di un “corporativismo generazionale”. In- fatti, quando si parla di “aiuti ai rifugiati e migranti climatici”, di nuovo si ta- gliano fuori tutti coloro che “climatici” non sono: i “rifugiati e i migranti” per motivi economici e sociali, o bellici e politici… loro no? e tutte le altre vitti- me dello sfruttamento che deriva direttamente dal modo di produzione ca- pitalista? In tutto ciò, il carattere, originariamente senza dubbio sincero, ma subito orientato in senso ultra-riformista e di accettazione supina della società del profitto (solo un po’ ritoccata!), balza agli occhi: il “100% di e- nergia pulita” e l’“utilizzo di fonti rinnovabili” basteranno ad assicurarci (a tutti noi oggi e alle generazioni che verranno dopo!) un futuro? E di che fu- turo si tratterà? un futuro ancora dominato dalla legge del profitto, dalla produzione per la produzione, dal denaro e dalle leggi del mercato, e via di- scorrendo – cioè un futuro tutto dentro al modo di produzione capitalistico che è all’origine dei disastri che si vorrebbero sanare?

Potrebbe esserci dell’ignoranza, alla base di queste ingenuità: forse, i “gio- vani” hanno studiato poco e male. Ma soprattutto, se prendiamo in consi- derazione anche l’enorme campagna mediatica che si è sviluppata intorno a questo “movimento”, il favore, l’interesse e le premure con cui – a livello generale – esso è stato accolto e soprattutto incoraggiato, propagandato, blandito, omaggiato, be’, possiamo davvero dichiarare che… “il re è nudo”!

Vogliamo dire che questo dei FFF è l’ennesimo strumento ideologico de- stinato, partendo da preoccupazioni più che legittime sullo “stato del

E MERGENZA CLIMATICA O PREPARAZIONE

RIVOLUZIONARIA ?

Continua a pagina 6

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L’esperienza della lotta di lavoratori per migliorare le proprie condizioni economi- che, in particolare quelle sala- riali, ha insegnato che “per vincere bisogna resistere un minuto in più del padrone”.

Mentre la borghesia, la classe che organizza in modo collet- tivo gli interessi di chi gesti- sce le aziende indipendente- mente dal fatto che queste sia- no di proprietà del singolo, di una società, di una cooperati- va, di una multinazionale o dello Stato, ha perfettamente imparato questa lezione, e non la dimentica, la nostra classe, quella di chi per vivere e sopravvivere deve vendere la propria forza lavoro, fa fati- ca a ricordarla e applicarla.

Certo, la borghesia ha il col- tello dalla parte del manico.

Anzi, ha più di un coltello: è infatti classe dominante e le sue armi di dominio sono molteplici e centralizzate nel moderno Stato, imperialista non solo e non tanto perché aggressivo, guerrafondaio, monopolista, vessatore delle borghesie nazionali più debo- li ecc., quanto perché capace di esercitare la più ferrea dit- tatura su tutte le altre classi sociali – in primo luogo, la nostra. Una dittatura ferrea (capace di diventare feroce e sanguinaria quando è il caso) che si esercita anche attraver- so il controllo dell’insanabile conflitto economico delegato al sistema di sindacati ”uffi- ciali”, ormai tutti più o meno integrati e collusi con lo Sta- to. Naturalmente, collusione e integrazione variano a secon- da delle necessità dei singoli Stati, del loro sviluppo econo- mico, delle capacità di resi- stenza e combattimento (ef- fettivo, potenziale e passato) della nostra classe e dei suoi singoli segmenti. In ogni ca- so, questo sindacalismo, che non organizza più le lotte dei lavoratori ma le immobilizza (così inquadrando l’insieme dei lavoratori in un inerme serbatoio di forza lavoro più o meno utilizzato, sempre divi- so e da dividere in categorie e professionalità da cui separa- re e nutrire un’aristocrazia di lavoratori illusi economica- mente, vezzeggiati social- mente e usati politicamente per conservare l’orrido esi- stente come se fosse l’unico e migliore dei mondi possibili) questo sindacalismo si dà un gran da fare per annullare e far dimenticare ogni esperien- za (vicina o lontana) che ne rompa il monopolio e ripre- senti ai lavoratori stessi il mo-

do più utile per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro.

Il sindacalismo colluso con lo Stato è soprattutto un sinda- calismo concertativo e di con- ciliazione – conciliazione, per la quale l’interesse principale è quello dell’economia nazio- nale, cioè dell’insieme delle aziende presenti tra i sacri confini della patria, a cui i bi- sogni dei lavoratori devono essere subordinati, poiché la mistificazione borghese capo- volge la realtà della “creazio- ne” della “ricchezza delle na- zioni”. Tanto è vero che, an- che nel linguaggio quotidia- no, chi compra la forza-lavoro viene definito “datore di lavo- ro”… Quindi, il sindacalismo colluso gestisce il “prezzo”

della forza-lavoro per render- lo più vantaggioso, non all’in- sieme dei suoi possessori, cui si garantisce nel migliore dei casi poco più del minimo ne- cessario per vivere e consu- mare le merci del capitale, ma a chi la compra, per utilizzarla nella macchina della valoriz- zazione del capitale. Perché mai si dovrebbe danneggiare, se non in modo simbolico e surrettizio, il “padrone”? E

“perché mai resistere un mi- nuto di più”? La lotta, lo scio- pero, diventano così atti di u- na commedia con un copione rigidissimo e una regia a inter- pretazione univoca.

Ma il materialismo è una brutta ma vivacissima bestia:

per quanti sforzi faccia il “si- stema” per cancellare o/e ge- stire i conflitti di interesse tra le classi, questi conflitti co- munque esplodono improv- visi e spesso radicali. E allora torna la necessità della lotta, dello sciopero, della resisten- za fino, se non proprio alla vittoria, almeno alla conqui- sta di un contratto onorevole e vantaggioso. Scioperare dunque ritorna a essere una necessità e una vera e propria modalità di lotta. Lo sciopero non è più un’astratta liturgia che si completa con una via crucis per le vie della città, con sosta alla cappella del Sindaco, del Prefetto, del Mi- nistro e dell’Associazione degli imprenditori, ma diven- ta una prova di forza ad altis- simo dispendio energetico: se da un lato i lavoratori sanno che per raggiungere i propri obiettivi non possono far al- tro che interrompere la pro- duzione e la movimentazione di merci e servizi, causando significative perdite econo- miche alla controparte, dall’altro sanno che, nell’im-

mediato, scioperare significa sospensione totale di ogni sa- lario diretto e indiretto. Per di più, mentre il “padrone” può contare su una consistente ri- serva economica, i lavoratori non possono farlo e il loro

“credito al consumo” è limi- tato alla prospettiva del solo salario (l’esplodere e il pro- gredire di una crisi economi- ca volatizzano nel giro di un paio di decenni al massimo le illusioni di ricchezza dell’ari- stocrazia operaia: le case di proprietà, il risparmio, il mi- cragnoso investimento finan- ziario, l’agognata pensione, la mutua, la figlia che diventa dottoressa…).

Come dunque tradurre e ri- portare in vita il motto “resi- stere un minuto in più del pa- drone”? Certo, si lotta perché l’esito positivo della vertenza porti, oltre al miglioramento previsto, il totale recupero di quel che si sta perdendo. Ma nel frattempo non si può vi- vere d’aria e la frazione com- merciante della borghesia credito non ne fa più: al su- permercato, non si può chie- dere, come al caro vecchio bottegaio, “segna, ti pago a fine mese”! Bisogna quindi tornare a una solidarietà eco- nomica che non sia più solo un’immediata “società di mutuo soccorso” di stampo caritatevole o, ancora peggio e sulla falsariga del ricatto ti- pico dei sindacati ufficiali, a una distribuzione clientelare di “assegni di sostegno”. Bi- sogna riscoprire e ripristinare sia casse di sostegno per ogni singola vertenza sia una cas- sa di resistenza che deve ser- vire alla lotta generale e

all’organizzazione stabile di tutti i lavoratori.

Troppo spesso sentiamo chiacchierare di “sindacato di classe” e nella migliore delle ipotesi questa chiacchiera è la riproposizione, più o meno in buona fede, di slogan che vol- garizzano senza spiegare pa- role d’ordine antiche e sacro- sante, oppure ripropone la no- stalgia (attitudine questa tutta angustamente italica) della stagione delle lotte sindacali degli ultimi decenni del ‘900, portate alla sconfitta proprio della parte più “sinistra” dei sindacati ufficiali (ricordate il

“Sindacato dei consigli”, i Co- mitati unitari di base e simili democratiche allucinazioni?).

Gli elementi che la sostengo- no, in questa volontaristica a- strazione, non hanno capito e non vogliono capire che la sconfitta che la nostra classe ha subito nel corso di una plu- ridecennale controrivoluzione non può essere esorcizzata con la nostalgia di un tempo che fu, che si pretende far ri- nascere ripetendo parole e for- mule il cui significato è ormai noto solo a una ristretta cer- chia di persone che pensano di essere rivoluzionarie, mentre agiscono come un circolo di i- niziati di una società esoterica autoreferenziale. L’esperienza storica delle lotte che abbia- mo combattuto e combattia- mo ci ha insegnato che la ri- presa su vasta scala di un grande movimento di asso- ciazioni a contenuto econo- mico, che non solo compren- da un’imponente parte del proletariato, ma che si sia scrollato di dosso anche la ne- fasta esperienza di tutta la

gamma di misure riformiste di assistenza e di previdenza, quella ripresa non si compie solo per l’esaurimento delle risorse (briciole) con la cui re- distribuzione i sindacati col- lusi e complici giustificano il proprio agire reazionario. I- noltre, quella ripresa non sarà un percorso lineare, con un accumulo ordinato di energie, esperienze, organizzazione:

assisteremo invece, su scala locale e internazionale, a una serie di lotte che coinvolge- ranno poche o tante aziende, più o meno numerose masse di lavoratori, lotte esplosive o lotte silenziose, soprattutto lotte con vittorie effimere e clamorose sconfitte. Sulla ba- se di queste esperienze, che il Manifesto del Partito Comu- nista già identificò nella de- scrizione della nostra classe come “massa disseminata per tutto il paese e dispersa a cau- sa della concorrenza”, massa di “operai [che] cominciano con formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario”, i proletari che si sono organiz- zati nel Partito Comunista de- vono operare affinché, con metodi e contenuti ben defini- ti, possano rinascere “sinda- cati di classe”, che in una pro- spettiva di contrasto sociale e politico alle contraddizioni della società del Capitale pos- sano perfino diventare “sin- dacati rossi” e addirittura strumenti di agitazione e pre- parazione rivoluzionaria.

Rimaniamo ancora al Manife- sto. Gli operai – leggiamo –

“fondano perfino associazio- ni permanenti per approvvi- gionarsi in vista di quelle e- ventuali sommosse”. Nell’al- ternarsi delle prime esperien- ze, più o meno vittoriose, di lotte e vertenze svincolate dalla tutela dei sindacati col- lusi e integrati risulta evidente che la prospettiva che porti a un’organizzazione di difesa stabile e permanente deve mettere in assoluta evidenza la questione di un sostegno e- conomico che, a differenza di quel che accade nelle prime lotte dell’oggi, non può essere improvvisato e organizzato all’ultimo minuto. “Resistere un minuto in più del padrone”

significa resistenza da pianifi- care in anticipo, organizzan- do, ben prima dell’inizio di u- na vertenza, una Cassa Scio- pero che sostenga, senza di- stinzioni arbitrarie, tutti i la- voratori coinvolti e coloro che dipendono dai loro salari.

Non si tratta di stabilire una somma che sostituisca una quota di salario da distribuire individualmente, ma di sfrut- tare quell’immediata pratica di allenamento alla lotta di classe per vivere esperienze che contrastino l’individuali- smo a cui ci costringe la vita

della società borghese. La Cassa Sciopero andrà dunque organizzata con un sistema di acquisti collettivi, per il soste- gno della vita quotidiana de- gli scioperanti e di tutte le persone che dipendono dai lo- ro salari, e gestita da un Co- mitato costituito da elementi scelti e fidati, delegati dagli stessi lavoratori in lotta, af- fiancati da altri iscritti al sin- dacato con funzioni di solo supporto amministrativo. An- che dal punto di vista del suo finanziamento, un “Sindacato di classe” si deve distinguere e quindi dovrà rompere (o cercare di rompere) con le modalità di azione e organiz- zazione dei sindacati collusi e complici dell’economia na- zionale. Oggi può sembrare velleitario, idealistico, “poco furbo”, rivendicare che l’ade- sione all’organizzazione im- plichi anche un sostegno di ti- po economico, che deve esse- re gestito direttamente dai la- voratori fiduciari sul luogo di lavoro o nel distretto o com- parto in cui si organizza la struttura sindacale territoriale, senza alcuna delega al “pre- lievo” sulla busta paga di una quota da versare (come se fosse una tangente!) al sinda- cato… Ma è anche in questa sola prospettiva che si può strutturare un’organizzazione libera dai ricatti e dalle pres- sioni dello Stato.

D’altra parte, anche nell’oggi dei primi tentativi di (ri)orga- nizzazione autonoma, pur es- sendo costretti a subire le in- teressate leggi che regola- mentano la “libertà” di orga- nizzazione sindacale, la que- stione del tesseramento, prin- cipale forma di finanziamen- to, deve essere limpida, im- mediata, accessibile a tutti gli iscritti. Intendiamoci bene: il nostro Partito è ben lontano dalla leggendaria utopia no- stalgica dell’anarcosindacali- smo iberico (strangolatosi da se stesso infilando il collo nella forca staliniana, quando si è arruolato nel Fronte re- pubblicano della guerra di Spagna!), che rivendicava di essere un’organizzazione di centinaia di migliaia di iscrit- ti con “un solo funzionario pagato”. Ma proprio da una contabilità precisa al centesi- mo parte la principale Cassa di Resistenza: cioè quanto è destinato per l’organizzazio- ne che ha bisogno di sostene- re i migliori e più combattivi lavoratori e metterli in grado, senza trasformarli in profes- sionisti della carriera sinda- cale, di portare avanti la pro- pria attività ordinaria: struttu- ra, propaganda, mobilitazio- ne, servizi di consulenza e as- sistenza giuridico-lavorativa e tutto quanto serve, per non parlare poi dei costi del soste- gno diretto in tutte le forme a chi subisce la repressione del- lo Stato, a partire dalle spese legali.

Qualunque discorso sul “sin- dacato di classe” che non im- posti e difenda questa pro- spettiva – pratica, concreta, vitale – è solo un demagogico parlare a vanvera.

Il proletariato o è rivoluzionario

o non è nulla Dal mondo

Chiuso in tipografia 28/08/2019

Edito a cura dell’Istituto Programma Comunista Direttore responsabile: lella Cusin Registrazione Trib. Milano 5892/ottobre 1952 Stampa: Arti Grafiche Fiorin SpA, Sesto Ulteriano (Milano)

Resistere un minuto in più del padrone

Peccato non aver potuto aggiungere, all’articolo su Lan- dini uscito nel numero scorso di questo giornale (“Lavori forzati”), anche questa perla, tratta da un suo intervento a un recente convegno di Fincantieri a Monfalcone (cfr. Il Sole-24 ore del 12/5). Si sa, costoro parlano, parlano, par- lano, ed è difficile stargli dietro! Comunque, ecco la perla.

Dice il gran capo CGIL: “Fincantieri è un grande gruppo che facendo sviluppo internazionale ha rafforzato il suo ruolo nel mondo, ma ha continuato a difendere i suoi can- tieri in Italia”. Viva dunque la Multinazionale fintanto che tiene alta nel mondo la gloria industriale italica e dà lavo- ro ai figli della Patria! Vero è che la meritoria Fincantieri fa largo uso di manodopera immigrata in subappalto: ma è anche grazie a questo che la sua stella risplende lumi- nosa sui mercati mondiali! Aggiungiamo, interpretando il pastone ideologico che caratterizza questa sinistra nazio- nale, che… meritano tutti di essere chiamati Italiani quan- ti vengono a farsi sfruttare qui, anche in subappalto, dal- le più remote lande del mondo per la gloria del capitale nostrano. Se poi si considera che il suddetto gruppo pro- duce anche armi e navi da guerra (quanto di più antiuma- no e distruttivo si possa annoverare tra i frutti della mo- derna industria) e navi da crociera (quanto di più stupido e dissipatorio), abbiamo un bel quadro delle priorità del- la “sinistra” figliata dalla lunga controrivoluzione. Per il momento, abbiamo continue conferme: certi esponenti della sinistra borghese, politici o sindacalisti che siano, sono peggio di certi fascisti dichiarati!

Di nuovo (ahinoi!) Landini...

(3)

del lavoro

Sono una lavoratrice del Settore Integrazione Scolastica del Comune di Bologna. Anni fa mi iscrissi al sindacato Usb poiché un importante numero delle mie colleghe e colleghi trovarono una sponda aggregante in quel sindacato. Come militante co- munista non ritengo rilevante in quale sigla sindacale si orga- nizzi la parte più agguerrita del segmento della classe sul mio luogo di lavoro. Ho sempre ritenuto che lottare sul luogo di la- voro fosse indispensabile, benché nel nostro settore la confu- sione regni sovrana e non sia mai stato un settore combattivo:

questo, nonostante i peggioramenti contrattuali, il miscono- scimento economico, l’intermittenza del salario, la mancata e- rogazione del pasto a scuola (a fronte di un insignificante rim- borso di 3,50 euro, come dire “O panino o acqua”!), nonostan- te i problemi dei cambi d’appalto per l’assegnazione dei servi- zi e i ridicoli trucchetti di monte ore fasulli… Mi sono impegna- ta seriamente a contrastare la proposta vergognosa della

“mensilizzazione a banca ora”, partecipando a tutte le assem- blee per spiegare che i mesi estivi dovevano essere pagati co- munque a ogni contratto a tempo indeterminato (cosa che an- cora oggi non avviene) e questo doveva avvenire a spese della cooperativa, e di sicuro non di tasca nostra. Mi ricordo tutte le assemblee CGIL in cui si provava a convincerci che non c’era al- tra soluzione: abbiamo combattuto per dimostrare quanto fosse vantaggioso accantonare porzioni dei nostri soldi…per la cooperativa, non certo per noi! Molte colleghe e alcuni colle- ghi mi hanno visto fare interventi in più assemblee e mi cono- scono perché sempre presente alle iniziative di lotta a fine an- no scolastico, quando il termometro si scalda perché nessuno sa dirci di che cosa dovremmo vivere nei mesi estivi, da quan- do l’appalto per i servizi integrativi è divenuto un mercato a ri- basso per il migliore offerente (ma le nostre buste paga segna- no zero ore).

Da dieci anni si firmano casse integrazioni o fondi di integra- zione salariale al limite della legalità (ci richiedono addirittura una reperibilità gratuita o ci ricattano chiedendoci di metterci

“spontaneamente” in aspettativa non retribuita…), come se la soluzione dovesse necessariamente gravare sulle nostre vite.

L’attore sindacale all’apparenza più “radicale”, accogliendo i nostri sfoghi e le nostre richieste, è stato USB. Ma devo dire a tutte e a tutti: che cosa siamo riuscite o riusciti ad ottenere?

Niente! A fronte di una crisi che si prolunga oramai da dieci an- ni molte di noi hanno deciso di riqualificarsi, di cercare altre strade, ma per coloro che continueranno a fare gli educatori e le educatrici come lavoro la situazione sarà sempre più dura, soprattutto per chi non ha scelta né modo per riqualificarsi nel breve periodo. Non ha alcun senso identificarsi in questa man- sione lavorativa, né in una sigla sindacale per ottenere qualco- sa. L’unico modo per raggiungere i nostri obiettivi (dal miglio- ramento delle condizioni di lavoro all’aumento del denaro ri- cevuto) è lottare. Per lottare dobbiamo capire che noi faccia- mo parte di una fetta grandissima di lavoratrici e lavoratori di tanti settori, che lavorano per cooperative sociali: facchini, donne delle pulizie, OSS, bibliotecari, assistenti domiciliari, o- peraie e operai agricoli, manovali; e che il vantaggioso sistema delle cooperative ha inghiottito enormi settori di lavoro diven- tati poco remunerativi per il settore privato, aumentando la fonte dei guadagni di pochi sulle spalle di quelli che chiamano

“soci lavoratori”, ma che in verità rappresentano proletarie e proletari da spremere, con l’imbroglio di coinvolgerci nella de- curtazione del nostro salario.

In questa situazione troppe sono le decisioni sbagliate che il sindacato USB sta prendendo, in primis nella vertenza sulla

“Legge Iori”. Attento a non offendere il ministro Di Maio, ci chiede di aspettare, aspettare perché ad ottobre una delega- zione incontrerà questo o quel ministro, che poi ritroverà in novembre e mese dopo mese finchè arriverà il cambio appalto e noi non avremo più possibilità di difenderci realmente… Co- sa dobbiamo chiedere? Noi lo sappiamo bene. Molte e molti

base (mettendo in atto un protagonismo in contrasto con gli interessi di unità della classe lavoratrice), nell’autunno 2018 si astiene anche dall’indire quello rituale. L’autunno caldo deve essersi sfreddato parecchio dopo la firma del Testo Unico per la Rappresentanza e nonostante le richieste di chiarimento dalla base: piuttosto che rischiare di chiamare in piazza i mal- contenti, USB non indice nessuno sciopero, ma al contrario ini- zia una processione di incontri con varie personalità e inizia a tessere alleanze, tralasciando di svolgere l’unica mansione per cui ha senso che esista: gli interessi della sua base! Infatti, se vi- sualizziamo tutti gli scioperi dal 2010 (l’archivio non permette di andare oltre) sul sito della Commissione di Garanzia Sciope- ro5, possiamo notare come in quest’anno 2018, rispetto agli anni precedenti, USB abbia assunto una tendenza piuttosto cauta per quanto riguarda la proclamazione di scioperi, so- prattutto nazionali (unica eccezione, il trasporto ferroviario, con lo sciopero indetto per il 23 novembre, le telecomunica- zioni, con quello del 18 ottobre, e altri due scioperi di presta- zione straordinaria per il settore aereo).

E per inciso attendiamo ancora l’indizione degli scioperi inter- categoriali nazionali per la morte di Soumaila Sacko, braccian- te assassinato in Calabria nella zona combattiva di Rosarno (la tendopoli di San Ferdinando), e contemporaneamente ricor- diamo a USB che l’obiettivo delle lotte dei braccianti non è quello di “rompere il silenzio tombale di Salvini e Di Maio”6: non ci consolano le paroline di Conte, il suo ipocrita e parla- mentare “commosso pensiero”, né ci incantano gli applausi di quei mandanti morali che di giorno siedono al Parlamento Ita- liano e di sera si trattengono a cena con i parenti degli ‘ndran- ghetisti. Ricordiamo a USB che il responsabile della Lega a Ro- sarno (non a caso record di voti alle ultime elezioni) è stato per anni in associazione con uomini legati al clan Pesce e con uo- mini vicini ai Belocco, chiaro segnale che Stato e mafie hanno trovato il modo di ricattare e sfruttare in quei territori i lavora- tori immigrati, clandestini o regolari che siano per noi poco im- porta. Sempre più sporche, le mani, anche pensando alle vi- cende “questuranti” di Piacenza, sulle quali si trovano detta- gliate descrizioni nel sito del Si Cobas.

In conclusione, mi rivolgo a tutte le mie colleghe e a tutti i miei colleghi. Il sindacato non è un’identità che ci viene cucita ad- dosso, non è una scelta politica, è uno strumento che deve es- sere utilizzabile proprio da noi. La scelta di strappare la tesse- ra nasce dalla consapevolezza che quella utilizzabilità è oramai venuta a mancare, perché il vertice del sindacato, staccato e diverso dalla base, non agisce nei suoi interessi ma segue cri- teri opportunisti. Il sindacato non è un partito politico, né la stanza di uno psicanalista a cui raccontare frustrazioni e avve- nimenti. Se non cominciamo ad interrogarci sulle nostre con- dizioni di lavoro, corriamo il rischio di perdere di vista anche le vertenze, e ritrovarci poi al cambio d’appalto senza essere in grado di difendere quella parte di noi, di noi 450 tutte, che ri- schiano nella peggiore delle ipotesi il licenziamento, nella mi- gliore un demansionamento. Corriamo il rischio di considerare l’emergenza come la normalità e di smettere anche di vedere un problema, una contraddizione, nel fatto che abbiamo tutte contratti a tempo indeterminato ma nessun salario nei mesi e- stivi. Il presentimento che le questioni salienti siano passate in secondo piano è ormai una certezza. Vi invito a riflettere e spe- ro che da questa mia lettera possiate trarre qualche dubbio u- tile al ragionamento.

svolgono questo lavoro da una vita intera e grazie a questa leg- ge che “riconosce l’enorme professionalità” della sigla L-191, tutti coloro che non hanno 50 anni compiuti o più, con almeno 10 di servizio a tempo indeterminato, saranno obbligati a…pa- gare 60 CFU presso Università, istituti privati anche telematici (alla faccia della professionalità!), un vero racket organizzato che colpirà la fascia intermedia delle colleghe, schiacciate da un lato dai neolaureati e dall’altro dai pre-pensionati. Questo chiaro tentativo di far spazio nel mondo del lavoro a categorie

“più meritevoli”, dal punto di vista della classe dirigente, è in- dirizzato ad escludere dal mercato del lavoro una parte di noi che non riusciranno a pagare i corsi, proprio perché i nostri sti- pendi sono troppo bassi… o che non riusciranno a studiare, proprio perché il nostro lavoro è troppo usurante! Lasciando a margine la banalità di quel discorso (doloroso e imbarazzante) che riguarda la nostra condizione contrattuale: è ridicolo che ci chiedano di “studiare”, o meglio “comperare”, più di quello che ci pagano!

La base delle lavoratrici e dei lavoratori è divisa: da una parte, giovani ed inesperte neolaureate spingono nel mercato del la- voro, terrorizzate dallo spettro di una lunga disoccupazione;

d’altra, lavoratrici e lavoratori a tempo indeterminato senza ti- tolo sono messe in concorrenza con questa “carne da macello”

che non conosce i diritti più elementari e che accetta condizio- ni di lavoro ridicole (monte ore di 15 h/settimanali e servizi fra- zionati sull’arco della giornata). Quanti scioperi abbiamo fatto per impedire questo mostruoso disegno?

Nessuno. Il sindacato andrà a parlare con Di Maio, o con il suo cagnetto, profumatamente retribuito. Due funzionari hanno pubblicato su Facebook2una foto dove sorridono con la sena- trice Vanna Iori, proprio quella della legge, forse per dimo- strarci come lavorano per noi, visto che dell’incontro che han- no definito “proficuo” ci rimane solo questa immagine.

Ci dicono che si vedrà e che non possiamo fare niente di diver- so, ma è proprio per queste scelte fallimentari ed in contrasto con la decantata radicalità di cui si fregiano funzionari e dele- gati che bisogna uscire da USB. Questo non è più un sindacato, ma un’agenzia verticistica che funge da agenzia di collocamen- to per pochi che, stanchi di essere usurati da mansioni di bas- sa manovalanza, scelgono di ingrassare la burocrazia facendo i sindacalisti di professione. Non si può continuare a pagare un sindacato che in modo poco chiaro sostiene fallimentari cam- pagne politiche come quella di Potere al Papero. Ma cosa han- no a cuore i delegati che ambiguamente propinano suggeri- menti di voto alle assemblee delle lavoratrici? La lotta o la pol- trona (loro o di chicchessia!)? Le assemblee retribuite ci servo- no, tra le altre cose, per decidere e discutere cosa fare nell’im- mediato per salvaguardare i nostri interessi, non per essere informati a proposito di incontri a porte chiuse (dei quali non e- siste nessuna traccia scritta, e siamo in buona fede…) con Van- na Iori, in cui si cerca “una convergenza” relativa alla salva- guardia dei sistemi del Welfare.

Funzionari USB che non si capisce (o lo si capisce fin troppo be- ne?) per quale ragione vadano a firmare accordi vergognosi come quello dell’Ilva di Taranto (Arcelor Mittal), a braccetto con CIGIL, CISL E UILM, invece di sostenere chi in quella fabbri- ca di cancro, morte e veleno non vuole più metterci piede.

Questi stessi operai che iniziano a vedere “Il governo del cam- biamento” come una massa di bugiardi decadenti, che in cam- pagna elettorale promettono la chiusura, salvo cambiare idea appena occupata la poltrona, come tutti gli esponenti politici passati (alla faccia del cambiamento!) della classe dirigente borghese e i loro scagnozzi che fanno da sponda, a destra e a sinistra. I lavoratori che Il sole 24 ore definisce “I furbetti dell’Il- va”3hanno ottimi motivi per preferire la cassa integrazione all’accordo Arcelor/Mittal. Invitiamo Sergio Bellavita di USB4, uno dei firmatari del buon accordo in pessime condizioni, ad abbandonare i tavoli con Gigino, le conferenze stampa e i ra- gionamenti difficilissimi sul “bene dell’economia del paese”! La valutazione dell’economia del paese non è uno dei suoi man- dati! Se non ha capito il motivo per cui inspiegabilmente gli oc- cupati calano “in via volontaria”, dovrebbe in via volontaria ri- tornare in fabbrica come metalmeccanico, proprio lì, all’Ilva, in modo che possa ricordare il sapore dell’ottimo accordo sulla sua busta paga e sulla sua salute!

Ma sugli occhiolini al potere USB ha davvero le mani sporche:

dopo aver chiamato per due anni consecutivi uno sciopero ge- nerale da solo, ovvero non con le altre sigle del sindacalismo di

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Lettera di una lavoratrice del Settore Cooperative Sociali

alle colleghe e ai colleghi di Bologna

1. È il codice del corso di laurea Scienze dell’educazione.

2. https://www.facebook.com/usb.coopsociali/po- sts/2066118657015870?__tn__=K-R

3. Da: https://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2018- 09-21/i-furbetti-dell-ilva-meglio-restare-cassa-integrazione-che- farsi-assumere-arcelormittal-195140.shtml?uuid=AE27Vd5F 4. Il video della conferenza stampa dopo l’accordo:

https://www.youtube.com/watch?v=2I_ewGPq0-I 5. https://www.cgsse.it/web/guest/elenco-scioperi

6. Dal sito stesso del sindacato, i ringraziamenti alle istituzioni:

http://www.usb.it/index.php?id=1132&tx_ttnews[tt_news]=1029 09&cHash=00e6669cff

Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari

Forme di organizzazione, metodi e obiettivi di lotta

Con questo titolo, è a disposizione delle sezioni, dei singoli militanti, dei simpatizzanti e dei lettori, un pie- ghevole di 4 pagine, che presenta le nostre posizioni, le indicazioni e gli orientamenti di lotta sul terreno della difesa immediata economica e sociale.

Può essere richiesto gratuitamente, scrivendo a:

Edizioni il programma comunista, Casella postale 272, 20101 Milano

(4)

Il progetto cinese di una “Nuova Via della Seta” coinvolge 65 paesi, prevede investimenti per almeno 900 miliardi di dollari finanziati da fondi specifici e dalla Banca

Asiatica di Investimento, e la creazione di una rete di infrastrutture di

comunicazione dalla Cina all’Europa attraverso tre direttrici terrestri:

una raggiunge il Baltico passando per Kazakistan, Russia e Polonia;

la seconda utilizza la Transiberiana;

la terza giunge al Golfo Persico passando per Pakistan e Iran, e da lì al Mediterraneo. Delle due rotte marittime previste, la principale dal porto cinese di Fuzhan attraversa l’Oceano Indiano e risale il Mar Rosso per toccare infine i porti di Genova e Trieste; l’altra attraversa il Pacifico in direzione delle Americhe.

Infrastrutture e investimenti, armi di penetrazione imperialista

Il progetto prende il nome di Belt & Road Ini- tiative (BRI), dove per belt (cintura) si intendo- no le direttrici terrestri e per road (via) quelle marittime. Attualmente, le comunicazioni con il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa dipendo- no principalmente dalla unica via marittima che passa per il Mar Cinese Meridionale, lo Stretto di Malacca e l’Oceano Indiano. La rivendica- zione di sovranità sui mari prospicienti le pro- prie coste e il controllo del Mar Cinese Meri- dionale, più volte teatro di incidenti con le for- ze navali ed aeree americane, segnala la volontà cinese di rilanciarsi anche come potenza sui mari (1); ma lo sviluppo di vie terrestri dirette a occidente attraverso Asia centrale e Russia, fi- no al Mediterraneo attraverso Pakistan e Iran via Golfo Persico, costituisce un’alternativa a quell’unica via marittima, in grado di garantire i vitali approvvigionamenti di materie prime e più vantaggiosa in termini di costi e tempi di circolazione delle merci (2).

Lo sviluppo delle linee ferroviarie lungo l’asse eurasiatico è notevole. Oggi tre convogli al giorno lasciano lo Xingijang con destinazione Europa (è così che la famigerata salsa al pomo- doro cinese raggiunge Napoli…). La Russia e i Paesi dell’Asia centrale (Kazakistan e Uzbeki- stan), già legati da intensi rapporti commercia- li reciproci e con la Cina, hanno tutto l’interes- se a integrarsi in un progetto infrastrutturale che promette grandi vantaggi.

Accanto allo sviluppo di una fitta rete di infra- strutture, il progetto della Nuova Via della Seta rappresenta il principale vettore dell’avanzata cinese nel ruolo di Paese creditore. Le banche cinesi hanno erogato prestiti per 440 miliardi di dollari per finanziare le infrastrutture della BRI nei Paesi che vi aderiscono. Gran parte delle o- pere sono realizzate da aziende di Stato cinesi e pagate dai Paesi ospitanti attraverso prestiti contratti con banche cinesi. Il meccanismo è così favorevole al creditore che rischia di ridur- re i Paesi partner al rango di tributari e di schiacciarli con la trappola del debito, come sta accadendo a Pakistan e Sri Lanka, in difficoltà nel rimborso dei prestiti (3). Per evitare di rom- pere le uova (d’oro) nel paniere prima che si schiudano in profitti, al 2° Belt & Road Forum di Pechino Xi Jinping si è premurato di rassicu- rare i partners che saranno adottate forme di fi- nanziamento “stabili e sostenibili” e come di- chiarazione di buona volontà ha annunciato il condono degli interessi vantati nei confronti dell’Etiopia per il 2018.

Finora, gli investimenti esteri cinesi si sono concentrati soprattutto sull’acquisizione del controllo di società energetiche e minerarie ca- nadesi, australiane, russe, kazake, di partecipa- zioni azionarie in multinazionali statunitensi e di società estere quotate in borsa. L’altro setto- re considerato strategico è quello della filiera a- gricola, sia in considerazione della relativa scarsità di terreni coltivabili in Cina e del de- grado crescente di aree interessate all’industria- lizzazione, sia nella prospettiva dell’emergere di un problema globale di scarsità alimentare.

Rientra in questa strategia l’acquisto o l’affitto a lungo termine da parte della China Invest- ment Corporation (CIC) di terreni agricoli in Paesi in via di sviluppo e la creazione di catene del valore dalla materia prima all’industria di trasformazione e alla commercializzazione dei prodotti alimentari. Parte delle immense riserve

accumulate in decenni di crescita ininterrotta è stata destinata a finanziare ingenti investimenti in Africa tramite uno specifico fondo sovrano, con la creazione di avamposti per esercitare un’influenza politica nel continente che fino a qualche decennio fa è stato oggetto di predazio- ne esclusivo da parte dei capitalismi occidenta- li. La direttrice meridionale della BRI approda alle coste orientali dell’ultimo continente non ancora uscito da una cronica arretratezza, sboc- co ideale all’eccedenza di capitali e riserva im- mensa di materie prime e terre coltivabili, di cui la Cina ha estremo bisogno.

L’annuncio dell’iniziativa della Nuova Via del- la Seta, che risale a novembre 2014 (4), segna una svolta nella politica di investimenti rivolta all’integrazione economica dell’intera area eu- rasiatica, con diramazioni in Africa e nelle A- meriche, attraverso una fitta rete di infrastruttu- re che attraversa aree vitali per gli interessi sta- tunitensi. Non stupisce che gli Usa considerino il progetto cinese un attacco ai propri interessi che si spinge ben oltre l’economia e tocca la questione strategica del predominio mondiale.

La crescente instabilità in alcune aree è effetto di una crescente tensione tra imperialismi:

l’embargo del petrolio iraniano, il divieto ame- ricano di fare affari con Teheran, l’escalation della presenza militare americana nel Golfo Persico si collegano alla posizione di quel Pae- se lungo una delle principali direttrici della BRI, e quanto sta accadendo in Libia accresce la tensione nel tratto marittimo che completa la medesima rotta in direzione Europa.

Hanno un bel dire i cinesi che la Nuova Via del- la Seta è “la strada per la pace, la prosperità, l’apertura, il rispetto dell’ambiente, l’innova- zione, l’integrità e la civiltà”(“Benefici reci- proci dall’aumento...”, cit in nota 2). Gli ameri- cani non la bevono: sanno che la prospettiva di vantaggi per i Paesi coinvolti nel progetto di in- tegrazione eurasiatica è soft power, un’arma ef- ficace quanto e più delle portaerei.

La lunga marcia verso il... capitalismo Un progetto di queste dimensioni nasce da una lunga fase di crescita prodigiosa che va rallen- tando per l’inevitabile crisi del meccanismo di accumulazione comune a tutti i capitalismi a- vanzati. Il tasso di crescita cinese, se sono veri i dati ufficiali che lo danno ancora sopra il 6%

(secondo alcune valutazioni sarebbe in realtà al 2%), si mantiene solo grazie a una massiccia politica di investimenti e a un indebitamento a livelli elevatissimi. E’ uno sviluppo forzato che ha gonfiato le dimensioni del sistema creditizio e nel contempo denuncia le difficoltà di valo- rizzare la massa enorme di capitali prodotti nei passati cicli di valorizzazione. A questo proces- so di accumulazione e concentrazione del capi- tale corrisponde una concentrazione di potenza economica e politica che eleva la Cina al ruolo di potenza imperialista e ne distingue la para- bola storica da quella dell’altra potenza “socia- lista” portata al collasso dalla pressione del mercato capitalistico mondiale.

All’epoca del bipolarismo, la Russia si conno- tava come “imperialismo debole”, con una for- za militare preponderante sulla capacità econo- mica e finanziaria, “nella misura in cui hanno per essa un carattere tutt’affatto secondario l’esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo, sulla quale molto più saldamente che sul sem- plice prepotere militare fonda il suo dominio l’imperialismo statunitense”(“La Russia si a- pre alla crisi mondiale”, Quaderni del “Pro- gramma comunista”,n.2, 1977, pag.50; ora in Perché la Russia non era socialista, Edizioni Il programma comunista, 2019).

Al contrario, il grado di sviluppo capitalistico assegna alla Cina un ruolo pienamente imperia- lista in fatto di investimenti esteri e influenza politica, controllo dei gangli strategici delle vie di comunicazione e potenza militare. I due esi- ti sono frutto della stessa matrice: la teoria stali- niana che il pieno sviluppo capitalistico delle forze produttive nel quadro della Nazione sia preludio alla loro socializzazione, indipenden- temente dalla prospettiva internazionalista del- la rivoluzione proletaria mondiale. Questa teo- ria è servita a giustificare lo sfruttamento inten- sivo della forza-lavoro in nome della “costru- zione del socialismo”, prassi in cui la Cina ha saputo e sa distinguersi quanto e forse più della defunta “Patria del socialismo” russa. All’ori- gine delle distinte sorti dei due “socialismi” na- zionali e della trionfale avanzata cinese è stata l’apertura, controllata e circoscritta ad alcune a- ree, all’afflusso dei capitali esteri, attratti da u- na legislazione favorevole e dalla grande dispo- nibilità di manodopera a basso costo. La Russia agiva in un contesto protezionista di relativo i- solamento che alla lunga non ha retto alla pres- sione dei capitali internazionali verso la crea- zione di un compiuto mercato mondiale. Con la svolta degli anni Ottanta del ‘900, e più ancora con l’ingresso nel WTO all’aprirsi del nuovo millennio, la Cina si è sottratta al medesimo e altrimenti inevitabile destino: ha dato una pro- spettiva alle brame di valorizzazione del capita- le internazionale a caccia di occasioni di inve- stimento prima che i suoi agenti, come accadde al Celeste Impero ai tempi del colonialismo, minacciassero nuovamente la disgregazione della sua unità politica e la sua spartizione. La svolta verso l’apertura al capitale estero ha dato il via a una crescita travolgente che ha portato a maturazione lo sviluppo capitalistico del Paese.

Con questo traguardo si è compiuto il percorso della rivoluzione nazionale a cui il PCC, in ac- cordo con le tesi di Stalin, ha completamente subordinato la propria azione fin dalla sconfit- ta sanguinosa del 1927 (5). Nella dottrina di Sun Yat Sen, la “democrazia” e il “benessere del popolo” sono gli elementi caratteristici del- la “terza tappa”, che conclude la rivoluzione nazionale. Dopo decenni di sviluppo centrato sull’export, da tempo si parla in effetti di una svolta verso il mercato interno, di aumento dei salari, di sviluppo del welfare. A dare ascolto ai suoi leader, dovremmo convincerci che sotto la

guida del PCC tutto proceda, per tappe succes- sive, verso il “socialismo”. Al 18° congresso del Partito (ottobre 2017), Xi Jinping aveva an- nunciato che “la costruzione del socialismo ci- nese” stava entrando in una “nuova era” (6). In questa “nuova era”, non troveremo traccia di socialismo, ma un ulteriore sviluppo del capita- lismo e delle sue contraddizioni, a cominciare dalle crescenti distanze fra le classi. Se vi sarà, la svolta verso il mercato interno finalizzata al

“benessere del popolo” avrà forse i tratti di una versione cinese della dissennata “società dei consumi”, ma di certo dovrà riservare ai prole- tari le briciole, se il Partito non vorrà compro- mettere quella “crescita” da cui ogni genuino capitalismo trae ragione di esistenza. Altret- tanto certo è che quel Congresso, che ha attri- buito un ruolo centrale al progetto strategico della Nuova Via della Seta, ha sancito una svolta autoritaria che assegna al Partito il con- trollo assoluto sull’esercito e su ogni aspetto della società. Stando alle tesi di Stalin e di Mao, con le forze produttive pienamente svi- luppate la Cina dovrebbe oggi essere a un pas- so dal “socialismo”, ma la “nuova era” annun- cia piuttosto il pugno di ferro all’interno e la proiezione imperialista all’esterno, e non ci stupiremmo se in un domani non lontano, nel- la teoria della successione a “tappe” della rivo- luzione, gli ideologi del “comunismo alla cine- se” prevedessero un ritorno ciclico alla prima fase, che Sun Yat Sen denominò “militare” e Stalin “anti-imperialista”, per giustificare la chiamata alle armi in un nuovo conflitto. Per o- ra, la guerra si combatte con le armi dei dazi, della moneta, della tecnologia, ma è già uno scontro politico-strategico in cui far male all’avversario è più importante dei contraccol- pi economici che ne derivano.

Il nuovo disordine mondiale

Oggi, la potenza asiatica, divenuta protagonista degli assetti imperialistici mondiali, non è an- corain grado di fronteggiare alla pari il predo- minio mondiale USA, ma non c’è dubbio che tale predominio sia entrato in crisi e che la so- vrapproduzione di merci e capitali la muova a una politica “imperiale” in rotta di collisione con gli Usa.

Nella successione degli imperialismi dominan- ti dalla fine dell’Ottocento, dapprima la supre- mazia mondiale britannica fu minacciata dalla crescente potenza industriale tedesca e poi, do- po due guerre mondiali, soppiantata dallo stra- potere produttivo degli USA. L’implosione del blocco “sovietico”, che pose fine al lungo bipo- larismo Usa-Urss ci ricorda che i successi e le sconfitte sono stati determinati, in ultima istan- za, dai differenziali di potenza produttiva e di dinamismo economico, di cui le capacità belli- che erano solo il riflesso. Oggi, la potenza asia- tica getta finalmente sul piatto degli equilibri mondiali tutto il suo peso demografico ed eco- nomico, e nel suo progredire erode il vantaggio americano in vari campi.

La quota di mercato mondiale degli Usa è scesa dal 50% del 1946 al 16% attuale, mentre quel- la della Cina è salita dal 2% del 1980 al 18%.

Le previsioni al 2040 danno il 10% agli Usa e il 40% ai cinesi (7). La guerra dei dazi scatenata da Trump in risposta allo squilibrio a favore delle esportazioni cinesi ha ridotto il deficit dell’interscambio con la Cina, ma non ha impe- dito che quello complessivo degli Usa cresces- se del 3% su base annua. Come se non bastasse, i danni che i dazi procureranno all’economia o- rientale rischiano di ripercuotersi negativamen- te anche su quella americana e di rallentare la già debole crescita mondiale. A pagare il prez- zo delle inevitabili ritorsioni cinesi sono anche colossi come Apple, che dopo aver lucrato co- me pochi dallo sfruttamento brutale della ma- nodopera cinese, potrebbe veder crollare gli u- tili di quasi il 30%. Com’era prevedibile, la Ci- na ha risposto ai dazi di Trump con contromi- sure protezioniste e ha cominciato a disertare le aste dei titoli di debito pubblico americano di cui è principale creditore, per altro anch’essa ri- cavandone nell’immediato più guai che vantag- gi: gli effetti sui rendimenti dei T-bond sono stati nulli, ma destabilizzanti sulle proprie bor- se e sul cambio dollaro/yuan. La svalutazione

ROTTE DI COLLISIONE

Note a proposito del progetto cinese di una “Nuova Via della Seta”

1. V. Castronovo, “Una via della Seta sulla cresta dell’onda”, Il Sole 24Ore, 12 giugno 2017.

2. “Lo sviluppo della collaborazione economica con la Russia e i Paesi post-sovietici dell’Asia cen- trale consente di contenere questa dipendenza [dall’unica rotta marittima, ndr]. La Cina cerca di importare una parte significativa delle materie pri- me – risorse energetiche, prodotti minerari e ali- mentari – direttamente dai fornitori attraverso le rotte terrestri che non possono essere chiuse o bloccate da nessuna potenza straniera. Parallela- mente, cerca di creare corridoi terrestri supple- mentari che potrebbero collegarla al Medio Orien- te e all’Europa ed essere utilizzati in caso di crisi.

Pechino tende inoltre a legare economicamente a sé il più possibile le ex repubbliche sovietiche, al fi- ne di garantirsi la sicurezza dei confini settentrio- nali e l’accesso a risorse di importanza strategica […] L’iniziativa globale di Xi Jinping, nota come

‘Cintura economica della via della seta’, è finaliz- zata essenzialmente al raggiungimento di questi o- biettivi.”(Vasilij Kasin, “Russia e Cina amici-nemi- ci”, Limes, n. 2/2016). Sullo sviluppo delle reti fer- roviarie, vedi “Benefici reciproci dall’aumento del numero di convogli ferroviari tra Cina e Unione eu- ropea”, Il Sole 24Ore, 21 marzo 2019.

3. Il Pakistan si è indebitato per 90 miliardollari e ha chiesto l’intervento Fmi per salvare le finanze

pubbliche, lo Sri Lanka ha dovuto cedere per 99 anni le operazioni del suo principale porto alla so- cietà cinese che ha realizzato i lavori. (“Via della Seta, la Cina prova a rassicurare sul rischio debi- to”, Il Sole 24Ore, 26 aprile 2019).

4. Proprio in quell’occasione fu creato un fondo specifico partecipato dal maggior fondo sovrano cinese, il China Investment Corporation citato so- pra, uno dei principali strumenti della politica di in- vestimenti intrapresi dalla Repubblica popolare dai primi anni 2000, cui fanno capo altri fondi e istitu- zioni finanziarie.

5. “Tesi sulla questione cinese”, Il programma co- munista, n. 23/1964 (ripubblicate su Il programma comunista, n. 4/2007).

6. “Xi Jinping nell’olimpo cinese”, Internazionale, n.1228, 2017.

7. “Gli Stati Uniti sono sul punto di essere supera- ti: nel 1946 detenevano il 50% del mercato econo- mico globale, ed oggi sono scesi al 16% e si avvia- no a toccare il 10%. Di contro la Cina, che nel 1980 possedeva il 2% del mercato internazionale, è salita … al 18% e nel 2040 taglierà il traguardo del 30%”(M. Teodori, “Xi e Trump, la lotta per la supremazia globale”, Il Sole 24Ore, 11.11.2018.

L’articolo si riferisce al libro di Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina

sfuggire alla trappola di Tucidide? Ed. Fazi 2018. Continua a pagina 5

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