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Trattamento in capo all azienda delle spese di vitto e alloggio

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Academic year: 2022

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È vietata ogni riproduzione totale o parziale di qualsiasi tipologia di testo, immagine o altro.

Ogni riproduzione non espressamente autorizzata è violativa della Legge 633/1941 e pertanto perseguibile penalmente

Trattamento in capo all’azienda delle spese di vitto e alloggio

di Fabio Garrini – Roberto Chiumiento

Imposte dirette

I rimborsi spese erogati dall’azienda tanto al dipendente quanto al collaboratore coordinato e continuativo che abbiano effettuato una trasferta, sono componenti negativi di reddito fiscalmente deducibili in quanto costi inerenti l’attività aziendale; nell’articolo 95 del TUIR il terzo comma è dedicato a stabilirne le particolari regole di deduzione, introducendo alcune limitazioni.

con riferimento al regime che deve essere adottato dall’impresa ai fini della deducibilità dei costi sostenuti per le trasferte dei dipendenti va precisato che:

• in linea di principio, l’articolo 95, comma 1 del TUIR prevede che le spese per prestazioni di lavoro dipendente vengano dedotte dal reddito d’impresa del datore di lavoro e comprendono anche quelle sostenute in denaro o natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori fatto salvo il disposto di cui al comma 1 dell’articolo 100;

• particolari limitazioni sono poste con riferimento al rimborso di determinate spese nell’ambito del comma 1-ter dell’articolo 95.

I rimborsi in oggetto riguardano:

• vitto e alloggio relativamente alle trasferte effettuate fuori dal territorio comunale;

• viaggio e trasporto.

La prima di queste limitazioni riguarda la deducibilità delle spese di vitto e alloggio, che viene ammessa nel limite giornaliero di:

• € 180,76 per le trasferte nazionali;

• € 258,23 per le trasferte all’estero.

Detto limite però non riguarda tutte le tipologie di dazioni al dipendete, ma solo quelle determinate sulla base del metodo analitico, per evitare che queste assumano livelli eccessivamente elevati e possano sfuggire da logiche di ragionevolezza. Quindi se il dipendente si reca in trasferta alloggiando presso un albergo di lusso 5 stelle spendendo € 500 al giorno e cena in un esclusivo ristorante al costo di € 150, l’importo che gli sarà erogato non costituirà per lui reddito (se dettagliatamente documentato), mentre per l’azienda la deduzione non potrà in ogni caso superare il limite di € 180,76 (ovvero €

258,23 se la trasferta è all’estero).

Tale problema, è evidente, non si pone quando viene utilizzato il metodo forfetario in quanto un rimborso che dovesse superare i limiti fissati dall’articolo 51 del TUIR sarebbe imponibile in capo al lavoratore (quindi deducibile dall’azienda in quanto spesa di lavoro).

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Si deve ricordare che dette spese non sono soggette alla previsione introdotta dal l’articolo 83, comma 28-quater, lett. a), d.l. 112/2008 che ha limitato al 75% la deducibilità delle spese di vitto e alloggio (tale previsione è stata introdotta a seguito della possibilità di detrarre l’Iva sulle fatture di ristoranti ed alberghi). tra le varie deroghe previste a tale disposizione vi sono appunto le spese di cui al terzo comma dell’articolo 95 del TUIR, che quindi sono interamente deducibili entro i limiti di € 180,76 per le trasferte nazionali ed €

258,23 per le trasferte all’estero. Le spese di trasferta di vitto e alloggio di altro tipo (ad esempio quando è in trasferta l’imprenditore individuale) se inerenti sono invece interamente deducibili (quindi senza il limite superiore di € 180,76/€ 258,23) ma soffrono della limitazione alla possibilità di deduzione al 75%.

La medesima previsione risulta peraltro applicabile anche alle spese di trasferta degli amministratori. come ricordato dalla c.m. 6/e/09, l’articolo 95, comma 3, del TUIR definisce gli importi massimi che possono essere portati in deduzione dal datore di lavoro per le spese di vitto e alloggio sostenute per le trasferte fuori dal territorio comunale dai lavoratori dipendenti e dai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. tale disposizione trova applicazione anche per le trasferte effettuate dagli amministratori della società: in relazione a tali spese non risulta, quindi, applicabile la limitazione della deducibilità al 75% dei costi sostenuti per le prestazioni alberghiere e per la somministrazione di alimenti e bevande disposta dall’articolo 109, comma 5 del TUIR come riformulato dall’articolo 83, comma 28-quater, del d.l. n. 112 del 2008.

La medesima c.m. 6/e/09 puntualizza anche il trattamento delle spese di trasferta sostenute dai soci di una società di persone. L’articolo 95, comma 3, del TUIR trova applicazione solo con riferimento alle spese di vitto e alloggio sostenute per le trasferte effettuate dai dipendenti e dai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Pertanto, va da sé, che le spese sostenute dalla società per le trasferte effettuate dai soci possono, invece, essere portate in deduzione secondo il generale principio di inerenza che sottende alla determinazione del reddito di impresa. In relazione alle spese per prestazioni alberghiere e somministrazioni di alimenti e bevande opera, inoltre, la previsione normativa dettata dall’articolo 109, comma 5, del TUIR che limita la deducibilità di tali costi al 75% del loro ammontare.

In tale documento si trascura però il fatto che i soci delle snc (e gli accomandatari delle sas) sono anche amministratori: perché per loro non vale il medesimo trattamento previsto per gli amministratori di srl? Forse bisognerebbe distinguere le trasferte dove viene svolta attività amministrativa (con rimborsi interamente deducibili nel limite di € 180,76) da quelle nelle quali viene svolta attività lavorativa (con costi di trasferta deducibili al 75% senza limite superiore di rilevanza del costo). Sicuramente sarebbe troppo macchinoso: in fin dei conti meglio utilizzare la soluzione, forse semplicistica ma anche semplificatrice, proposta dall’Agenzia delle entrate (tutte le spese di vitto e alloggio sostenute dai soci nell’ambito delle loro trasferte sono deducibili al 75%).

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Il terzo comma dell’articolo 95 del TUIR esclude esplicitamente dalla tale previsione limitativa (tetto di € 180,76/€ 258,23) i rimborsi spese relativi a trasferte nell’ambito del territorio comunale:

la ragione risiede nel fatto che tali dazioni risultano imponibili in capo al lavoratore, quindi non vi è alcuna necessità di prevedere un limite superiore al costo giornaliero visto che tali erogazioni risultano essere retribuzione del dipendente. essendo retribuzioni del dipendente, quindi costo del lavoro, come tali dovrebbero essere dedotte senza le limitazioni previste per le spese di vitto e alloggio.

Purtroppo però l’Agenzia delle entrate ha scelto una opinabile differente conclusione: come chiarito dalla c.m. 6/e/08 deve ritenersi che le spese relative a somministrazioni di alimenti e bevande ed a prestazioni alberghiere, se sostenute in occasione di trasferte effettuate dal dipendente nell’ambito del territorio comunale, sono comunque deducibili, ai fini delle imposte dirette, nella misura del 75% del loro ammontare. L’Agenzia arriva a tale conclusione osservando che le spese per trasferte all’interno del comune non sono tra quelle di cui all’art. 95, comma 3, TUIR, esplicitamente escluse dalla limitazione al 75%; come detto, non pare una decisione del tutto condivisibile visto che si tratta comunque di importi integralmente tassati in capo al lavoratore dipendente.

La detrazione dell’Iva sulle spese di vitto e alloggio

nell’ambito del trattamento delle spese di trasferta in capo al dipendente, un tema che merita una piccola digressione è quello riguardante il diritto alla detrazione dell’Iva, introdotto dal citato d.l.

112/2008. Prima di tutto si deve ricordare che, affinché l’azienda possa beneficiare del diritto alla detrazione dell’imposta, è necessario che vi sia un documento (fattura, necessariamente) intestato all’azienda che quindi ha sostenuto in prima persone l’onere della trasferta. Si tratta, evidentemente, di un caso diverso da quello del dipendente che sostiene il costo in prima persona (quindi con documento a sé intestato) e poi chiede il rimborso a piè di lista all’azienda.

Sotto tale profilo aveva fatto inizialmente molto discutere la posizione assunta dall’Agenzia delle entrate nella c.m. 53/e/08, secondo la quale nelle ipotesi in cui la prestazione alberghiera o di ristorazione veniva fruita da un soggetto diverso dall’effettivo committente del servizio (pasto

“utilizzato” del dipendente e documento intestato al datore di lavoro), ai fini della detrazione pareva necessario che la fattura recasse anche l’intestazione di tale soggetto. Il datore di lavoro, conseguentemente a tale posizione, poteva detrarre l’imposta relativa alle prestazioni rese al proprio dipendente in trasferta qualora la fattura risultava cointestata. Il che lasciava intendere che quando una squadra di 20 dipendenti era in trasferta il documento doveva essere intestato a 21 soggetti, ossia il datore di lavoro ed appunto i 20 dipendenti. Situazione che si profilava piuttosto complessa da gestire da parte dell’esercente.

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Questa assurdità è stata eliminata con un chiarimento contenuto nella successiva c.m. 6/e/09, nella quale l’Amministrazione Finanziaria ebbe modo di affermare come il riferimento alla contestazione della fattura, contenuto nella circolare 53/e/08, deve essere inteso in maniera diversa: nel caso in cui non vi sia coincidenza tra il soggetto che acquista il servizio nell’esercizio della propria attività d’impresa, arte o professione (ad esempio il datore di lavoro) e colui che materialmente ne usufruisce (ad esempio il dipendente), la fattura deve essere intestata al soggetto beneficiario della detrazione al fine di consentirgli l’esercizio del relativo diritto (quindi la fattura va intestata al datore di lavoro). I dati dei dipendenti fruitori della prestazione dovranno essere indicati nella fattura ovvero in una apposita nota ad essa allegata.

In merito al diritto alla detrazione dell’imposta si deve ricordare come la soppressione dell’indetraibilità oggettiva non comporta, però, “automaticamente” la possibilità di detrarre l’imposta senza condizioni, ma impone una verifica analitica, spesa per spesa, dell’inerenza della prestazione di vitto e alloggio rispetto all’attività esercitata. Sul punto, si segnala un’indicazione piuttosto penalizzante contenuta nella circolare Assonime 55/08: trattando dell’inerenza delle spese di vitto e alloggio, e quindi della detraibilità dell’imposta, Assonime osserva come vi potrebbe essere un difetto di inerenza anche in relazione alle spese sostenute nell’ambito delle missioni e delle trasferte dei dipendenti e collaboratori dell’imprenditore (ma le medesime riflessioni possono essere estese anche alle spese di trasferta sostenute dallo stesso imprenditore).

Questo avverrebbe nel caso in cui nella fattura, oltre a prestazioni sicuramente inerenti all’attività d’impresa, venissero addebitate anche prestazioni in relazione alle quali l’inerenza potrebbe essere considerata dubbia, come ad esempio:

• servizi accessori o di carattere essenzialmente suntuario (la pay tv per la visione di un film o di una partita);

• servizi alberghieri o di ristorazione di livello superiore a quello “normale” (sotto questo profilo, quantomeno sul versante delle imposte dirette, non pare vi possano essere problemi posto che l’art.

95, comma 3, TUIR fissa dei limiti massimi alla deducibilità delle spese).

Una considerazione di questo tipo imporrebbe, quindi, di andare a scindere, nell’ambito dell’imposta addebitata, la parte corrispondente alla spesa inerente l’attività di impresa, da detrarre, da quella relativa alle spese non considerate inerenti, che dovrebbe essere invece resa indetraibile. Il problema della detrazione sarebbe ovviamente superato nel caso in cui l’impresa fatturasse queste prestazioni al dipendente, esercitando il regresso nei suoi confronti ed addebitando una cifra che non deve essere necessariamente coincidente o superiore rispetto al costo sostenuto, ma che non può comunque essere meramente simbolica. è inutile sottolineare come un’indicazione di questo tipo, se confermata dall’amministrazione, sarebbe estremamente penalizzante in termini di ulteriori adempimenti amministrativi posti a carico delle imprese. Ad oggi non vi è stata nessuna conferma ufficiale di questa posizione.

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Con riferimento alla deduzione del costo, l’Agenzia nella c.m. 6/e/09 aveva avanzato una ipotesi del tutto non condivisibile per le trasferte certificate da ricevute intestate all’azienda (la ricevuta fiscale infatti, non avendo Iva esposta, non permette la detrazione dell’imposta): siccome la mancata detrazione dell’Iva deriva da una scelta fatta dal contribuente (avrebbe potuto chiedere la fattura), questa non può rappresentare un costo deducibile dal punto di vista delle imposte sui redditi.

Fortunatamente la posizione dell’Amministrazione Finanziaria è mutata nella c.m. 25/E/10: quando la trasferta è certificata da ricevuta (quindi l’Iva non può essere detratta perché il documento stesso non lo consente), l’integrale importo evidenziato nella ricevuta risulta deducibile (salve le eventuali limitazioni al 75%). In tale documento l’Agenzia delle entrate, pur ribadendo il “carattere non inerente del costo rappresentato dall’Iva detraibile ma non detratta per effetto della mancata richiesta della fattura”, ha ammesso “un’eccezione qualora la scelta di non richiedere la fattura per le prestazioni alberghiere e di ristorazione si basi su valutazioni di convenienza economico gestionale”.

Al fine di promuoverne una più agevole applicazione pratica il cndcec, attraverso il parere 15 settembre 2011 ha individuato un limite oggettivo, o almeno un ordine di grandezza, entro il quale possa essere comunemente riconosciuta come sussistente la convenienza economica della scelta di non richiedere la fattura. Secondo l’Agenzia delle entrate, la scelta deve essere operata al momento di effettuazione dell’operazione, in quanto la possibilità di dedurre quale costo nell’ambito dei richiamati limiti di convenienza l’Iva non detratta è riservata ai casi in cui la fattura non sia stata emessa e l’acquisto risulti documentato da scontrino o ricevuta fiscale. In altre parole, una volta che la fattura sia stata emessa, su richiesta o no del committente, tale circostanza sembrerebbe precludere al contribuente la possibilità di registrare il documento ai soli fini di contabilità generale senza porre in essere le registrazioni ai fini Iva. In particolare, i costi amministrativi connessi con la registrazione della singola fattura (protocollazione, eventuale inserimento anagrafico del fornitore, registrazione e archiviazione) possono differire a seconda che la contabilità sia tenuta all’interno dell’impresa ovvero sia affidata all’esterno in outsourcing. Inoltre, almeno per le imprese in regime di contabilità ordinaria, la registrazione della singola fattura ai fini Iva comporta, a parità di numero di documenti, un raddoppio delle scritture contabili, dovendosi necessariamente procedere alla distinta registrazione dell’operazione di acquisto e di quella di pagamento. A tal fine, nel citato documento, il CNDCEC individua nel limite di spesa di € 33 l’importo che giustifica la rinuncia alla detrazione dell’Iva: oltre tale importo la rinuncia non sarebbe giustificata da logiche di convenienza, quindi l’Iva non detratta risulterebbe indeducibile ai fini delle imposte dirette. Questo ovviamente è un suggerimento operativo, ma evidentemente non costituisce un limite assoluto.

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di Fabio Garrini – Roberto Chiumiento

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