11 | 2021 Annali XI
Tra volontà e ragione. L’agire umano nella filosofia antica e medievale
Carla Casagrande and Franco Ferrari
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URL: https://journals.openedition.org/tp/2218 Publisher
Marcial Pons Printed version
Date of publication: 1 December 2021 Number of pages: 393-405
ISSN: 0394-1248 Electronic reference
Carla Casagrande and Franco Ferrari, “Tra volontà e ragione. L’agire umano nella filosofia antica e medievale”, Teoria politica. Nuova serie Annali [Online], 11 | 2021, Online since 01 February 2022, connection on 07 February 2022. URL: http://journals.openedition.org/tp/2218
Teoria politica
L’agire umano nella filosofia antica e medievale
Carla Casagrande *, Franco Ferrari **
Il tema della volontarietà dell’azione rappresenta il punto di convergenza di una complessa costellazione di motivi che includono la questione della libertà del soggetto, la responsabilità e dunque in generale il nodo del libero arbitrio, la natu- ra dell’intenzione, la consapevolezza e la struttura motivazionale della decisione, la legittimità della lode e del biasimo, vale a dire il piano dell’imputabilità, i quali si intrecciano inevitabilmente con l’assunzione di una prospettiva filosofica di tipo deterministico o indeterministico (o anche compatibilista). Si tratta di un oriz- zonte tematico che è al centro del dibattito filosofico contemporaneo, ma che ha sempre destato l’interesse dei filosofi, come dimostra questa importante raccolta di saggi, curata da Fulvia de Luise e Irene Zavattero, su La volontarietà dell’azione tra Antichità e Medioevo (Università degli Studi di Trento, Trento 2019, p. 610).
1. La lezione dei filosofi antichi
Tra i dieci contributi consacrati al pensiero antico uno ha per oggetto il mon- do omerico (Eva Cantarella, Tra libertà dagli dei e volontà umana. L’origine ome- rica della libertà del volere, pp. 27-62), due Socrate e Platone (Maria Michela Sassi, Socrate salvato dal suo isolamento. La ‘discussione’ con Simonide, Euripide e Gorgia sulla volontà morale, pp. 63-85, e Fulvia de Luise, L’involontarietà socrati- ca del male e il macigno della responsabilità platonica. Tra il Protagora e il mito di Er, pp. 87-129), due l’etica di Aristotele (Silvia Gastaldi, Volontarietà dell’azione e responsabilità. Un problema dialettico in Aristotele, pp. 131-156, e Carlo Natali, Il dibattito in lingua inglese sulla volontarietà dell’azione nel pensiero aristotelico, dal 1970 ad oggi, pp. 157-81), tre l’epicureismo e i suoi rapporti con il pensiero moderno (Francesca Masi, Epicuro e la formazione di sé: pathologikos e aitiolo- gikos tropos, pp. 183-203, Phillip Mitsis, Quanto moderna è la volontà del vole- re? Una matrice epicurea e qualche linea di influenza storica tra Lucrezio e Locke, pp. 205-37, e Enrico Piergiacomi, Azione o moto? Gli Epicurei su piante, animali e bambini, pp. 263-94), uno lo stoicismo (Stefano Maso, Mentes caecus instiget furor: ‘akrasia’ in Seneca?, pp. 239-262) e infine uno Plotino (Giulia Guidara, Il demone e la libertà di scelta dell’anima in Plotino: l’eredità del mito di Er in En- neadi III 4 [15], pp. 295-320). Senza soffermarsi in maniera analitica sui singoli contributi, tutti di livello notevole, si possono enucleare alcune linee di tendenza che definiscono la natura della riflessione dei filosofi antichi intorno a questo importante ambito tematico.
TEORIA POLITICA. NUOVA SERIE, ANNALI XI 2021: 393-405
* Università di Pavia, [email protected].
** Università di Pavia, [email protected].
Eva Cantarella dimostra in maniera del tutto persuasiva come la concezione omerica della volontà e della responsabilità dell’individuo risulti decisamente meno unitaria e omogenea di quanto si sia stati portati a ritenere per molti anni anche a seguito degli studi condotti da Bruno Snell. In effetti nei poemi omerici, il cui valore di testimonianza «storica» in senso non fattuale ma come strumento di trasmissione globale della memoria (p. 31) viene opportunamente messo in risalto dall’autrice, si affiancano, talora sovrapponendosi, mentalità e concezioni corrispondenti a Weltanschaungen profondamente diverse. Sebbene l’individuo e le sue azioni siano compressi costantemente da fattori esogeni, come la volontà degli dei, l’Ate, ossia quel processo di accecamento che fa smarrire all’agente uno sguardo oggettivo sul mondo e sugli eventi, e lo stesso destino, i quali ne condi- zionano in maniera significativa l’agire, esistono numerosi passi che sembrano ritagliare spazi di autonomia decisionale e dunque di responsabilizzazione. In generale i poemi omerici testimoniano l’esistenza di uno scarto tra la dimensione oggettiva, al cui interno l’agente subisce le conseguenze del suo comportamento indipendentemente dall’atteggiamento psichico, ossia dal livello di consapevo- lezza, che lo ha condotto ad agire in un certo modo, e il piano della colpevolezza o della imputabilità morale. In effetti, come Cantarella sostiene con eccellenti argomenti, all’interno di una prospettiva dominata dal principio della responsa- bilità oggettiva si viene a profilare un margine di autonomia della sfera morale da quella propriamente fattuale: la responsabilità oggettiva in relazione ai com- portamenti dell’agente non scompare, ma viene meno (o si riduce fortemente) la responsabilità morale di chi ha agito involontariamente.
La questione della volontarietà dell’azione e dei fondamenti dell’agire perver- so risulta, come è noto, al centro della riflessione etica di Socrate, ereditata poi da Platone. I contributi di Maria Michela Sassi e di Fulvia de Luise prendono entrambi le mosse dal celebre «paradosso» socratico relativo all’involontarietà del comportamento vizioso, che trova espressione nella celebre sentenza latina secondo la quale nemo sua sponte peccat: Sassi si ripromette di ricostruire il con- testo al quale la posizione socratica appartiene, con l’intenzione di attenuarne il tasso di presunta paradossalità, mentre de Luise stabilisce una linea di conti- nuità, segnata anche da elementi di frattura, tra la concezione intellettualistica contenuta nel Protagora, che segnerebbe il limite raggiunto dalla riflessione so- cratica, e la tesi platonica relativa alla scelta del tipo di vita contenuta nel mito di Er con il quale si chiude la Repubblica.
Secondo Sassi, che ricostruisce in maniera magistrale il dibattito sulle moti- vazioni dell’azione che vide coinvolti autori come Simonide, Euripide e Gorgia, la concezione socratica dell’involontarietà dell’errore morale costituisce una re- azione all’opinione della maggioranza, alla quale darebbe voce proprio il poeta Simonide, e alla visione tragica che accumuna Euripide e Gorgia. Tra le numero- se analisi proposte in questo saggio una mi sembra particolarmente meritevole di venire menzionata e commentata. Si tratta dell’interpretazione che Sassi propone della celebre affermazione di Medea nell’omonima tragedia di Euripide. In pro- cinto di dare la morte ai propri figli l’eroina dichiara, nella traduzione suggerita da Sassi: «E capisco quali mali oserò, ma i miei propositi (bouleumata) li gover- na l’impetuosità (thymós), che è causa per gli uomini dei più grandi mali» (vv.
1078-80). Nella resa di Sassi non si dà una contrapposizione tra la componente razionale dell’anima (bouleumata) e la parte impetuosa e reattiva, ma si profila un utilizzo strumentale dei piani razionali da parte dell’anima in preda all’impetuo- sità; ciò significa che i bouleumata rappresentano i «piani razionalmente calcolati da Medea per realizzare con successo la propria vendetta» (p. 73, n. 12). Una si- mile ricostruzione, indubbiamente stimolante e non priva di elementi persuasivi, porta inevitabilmente a chiedersi se la ragione costituisca in effetti qualcosa di simile a uno strumento, in sé neutro, che può mettersi al servizio della passione;
in tale caso essa sarebbe priva di finalità proprie.
L’intellettualismo etico che Aristotele attribuisce a Socrate è desunto dalla parte finale del Protagora platonico e consiste in un progetto di «emancipazione della volontà mediante il sapere» (p. 92), ossia nella riconduzione della delibera- zione moralmente deprecabile a una condizione di miopia cognitiva che induce l’agente a sopravvalutare i piaceri e i dolori vicini a causa della mancanza di un sapere (dipendente dalla profondità temporale) relativo alle conseguenze che da questi possono derivare. L’intero ragionamento di Socrate si fonda sull’ipo- tesi dell’equiparazione tra bene (agathòn) e piacere (hedoné), effettuata proba- bilmente al solo scopo di trovare un punto d’incontro con il suo interlocutore, senza cioè che una simile operazione comporti l’adesione da parte di Socrate a una prospettiva squisitamente edonistica.
La presenza alla fine della Repubblica di un racconto relativo alle vicende ul- tramondane dell’anima dopo la morte ha sempre destato un certo sconcerto tra i commentatori, giacché esso sembra confliggere con l’esigenza, formulata a più riprese nel corso del dialogo, di «portare soccorso» (boethein) alla giustizia senza ricorrere alle lusinghe e alle minacce dei premi e delle punizioni che attendono l’anima nell’aldilà, ossia di costruire un’etica immanentistica che valorizzi l’intrin- seca attrattività della virtù. De Luise riesce a integrare il mito di Er nello sviluppo argomentativo della Repubblica mettendo in luce la valenza anti-tragica del mes- saggio che esso intende veicolare. In effetti l’esito teorico del mito consiste, come la studiosa opportunamente rileva, in una risposta alla de-responsabilizzazione dell’agente implicata nella poesia e in particolare nella tragedia (p. 111), i cui personaggi possono sempre invocare fattori esogeni (divinità, destino ecc.) per spiegare le nefandezze del loro comportamento. Con una felice osservazione de Luise individua il prototipo dell’individuo «tragico» nel personaggio descritto in Resp. 619c, il quale si precipita a scegliere la vita del tiranno per poi rammaricarsi e incolpare di questa sua decisione la tyche e i demoni, operando così una radi- cale deresponsabilizzazione del proprio comportamento (pp. 113-14). Non c’è dubbio, dunque, che attraverso il mito di Er (con le quattro mosse che mette in atto: scelta del demone, scelta del tipo di vita, libertà di assumere comportamenti virtuosi, e assegnazione all’individuo e non alla divinità della responsabilità dei mali), Platone si proponga di neutralizzare le conseguenze deresponsabilizzanti implicate nella tragedia. Resta il fatto che la scelta del tropos tou biou, la quale in se stessa non è del tutto libera (dipendendo in qualche misura dal comporta- mento nella vita precedente e dalle conseguenze ultramondane di un tale com- portamento), inneschi una sequenza di azioni nel corso della vita incarnata che è difficile non concepire in un’ottica deterministica (620e). Una prospettiva incline
a enfatizzare l’automatismo nella determinazione della natura dell’incarnazione successiva viene promossa da Plotino, il quale fornisce un’esegesi del mito di Er che modifica in misura apprezzabile il punto di vista platonico, come risulta dall’indagine di Giulia Guidara. In effetti, mentre in Platone la decisione relativa al tipo di vita si profila come il risultato di un ragionamento (più o meno effica- ce) relativo alle conoscenze ricavate dalle vite precedenti, in Plotino (III 4) essa dipende dalla componente o funzione dell’anima che esercita l’egemonia, con la conseguenza che l’intero processo prende la forma di una progressiva degrada- zione etica e ontologica (pp. 296-305).
Quanto al rapporto con l’intellettualismo socratico e con il suo corollario re- lativo all’involontarietà del male, bisogna senza dubbio concedere a de Luise che il mito di Er sia meno disposto a vedere nell’ignoranza una scusante dei compor- tamenti viziosi, sebbene rimanga aperta la questione relativa al perché un’anima che ha conosciuto gli esiti dei comportamenti tenuti nella vita precedente sia comunque soggetta al rischio di scegliere un tipo di esistenza eticamente ripro- vevole (probabilmente essa continua ad essere vittima della confusione cognitiva tra un bene apparente, ad esempio la ricchezza, e il bene reale, ossia la virtù).
I due contributi «aristotelici», dovuti a specialisti di riconosciuta fama in- ternazionale, mirano, seguendo percorsi diversi (Gastaldi attraverso un’analisi accurata del testo di EN III 1-5, Natali per mezzo di una ricostruzione del di- battito di area anglofona relativo alla volontarietà dell’azione), ad assegnare ad Aristotele una concezione dell’agire nella quale venga riconosciuto un margine alla responsabilità, sia pure all’interno di un quadro che inclina al determini- smo (se non altro per il ruolo che assegna alla hexis, ossia alla disposizione).
Secondo Gastaldi, che ricostruisce in maniera estremamente puntuale l’analisi aristotelica della psicologia dell’azione, il passo di EN III 5, 1114b23-25 induce ad assegnare al filosofo una concezione della volontarietà delle virtù, giacché l’individuo è «concausa» (synaitios) degli stati abituali, ossia delle disposizioni che determinano la scelta dei fini (nobili e deprecabili) delle sue azioni. In effetti, se per Aristotele noi siamo responsabili delle azioni dall’inizio alla fine, mentre siamo «padroni» delle disposizioni, ossia degli abiti caratteriali, solo all’inizio, cioè nella fase iniziale del processo educativo, la possibilità di assegnare all’indi- viduo un margine di libertà si gioca anche intorno all’assegnazione di uno spa- zio di autonomia all’interno del processo pedagogico, che dunque «non ci vede semplici destinatari passivi, ma soggetti partecipi» (p. 153). Gastaldi riconosce comunque la complessità non priva di tensioni della posizione aristotelica, che si sostanzia attraverso l’andamento parzialmente dialettico dell’indagine. Anche il contributo di Carlo Natali si conclude con il riconoscimento di una forma di «libertarismo» all’autore dell’Etica Nicomachea, argomentato anche grazie a una parziale riabilitazione dell’interpretazione antideterministica promossa da Alessandro di Afrodisia. Secondo lo studioso, la preoccupazione di Aristotele è quella di evitare un rigido determinismo in cui il futuro è predeterminato e la deliberazione inutile (p. 176).
Il tema del libero arbitrio e dell’autonomia decisionale dell’agente è al centro della riflessione ellenistica, dove esso si scontra con la peculiare natura dei due sistemi egemoni durante questo periodo, vale a dire il meccanicismo materialista
della fisica epicurea e l’iper-determinismo implicito nella dottrina stoica della causazione universale. Partendo da un testo specifico, la parte conclusiva del li- bro XXV del Peri physeos di Epicuro, di cui fornisce un’interpretazione accurata e persuasiva, Francesca Masi riesce a valorizzare la presenza nel filosofo di una concezione dell’autodeterminazione del soggetto e della sua perfettibilità etica, pur all’interno di una dottrina materialistica dell’anima. Anche gli altri contributi di argomento epicureo valorizzano la presenza in questa filosofia di margini di libertà nella scelta comportamentale.
Il compito di individuare spazi di autonomia decisionale per l’agente si pre- senta straordinariamente arduo nel caso della filosofia stoica, cui si deve la for- mulazione della concezione più radicalmente deterministica sviluppata nell’am- bito del mondo antico. Sappiamo che già Crisippo si rese conto delle aporie alle quali si esponeva la sua concezione della causazione universale, che egli tentò di aggirare proponendo una biforcazione del sistema delle cause, distinte in «pros- sime e ausiliarie», esterne rispetto all’agente e predeterminate, e in «principali e perfette», le quali sarebbero in nostra potestate, ossia endogene, e responsabili dell’assenso a una rappresentazione, cioè a uno stimolo esterno, riconducibile alle cause prossime (Cic. Fat. 41-44). La soluzione escogitata da Crisippo non è tuttavia priva di difficoltà, giacché non sembra in grado di sottrarre le cause prin- cipali, che definiscono la natura di un agente, dalla catena causale «oggettiva»:
la natura che determina la reazione di un individuo alla rappresentazione risulta sì eph’hemin, ossia «presso di noi», ma è prodotta a sua volta da fattori causali esterni; insomma anche l’assenso rischia di rientrare nella catena causale.
Non c’è dubbio che lo stoicismo post-crisippeo si pose il problema di ritaglia- re spazi di autonomia al soggetto agente, e in tale contesto la riflessione di Seneca appare particolarmente interessante. Stefano Maso si concentra sulla tragedia Tieste, vedendo in essa la presenza di uno scostamento dal monismo psicologico di Crisippo, in particolare nell’ammissione di una gradualità sia nella perdita del controllo sia nella sua acquisizione, che lascia intravedere tracce di una graduali- tà tanto nel vizio quanto nella virtù.
2. La lezione dei filosofi medievali
Alla sezione dedicata all’Antichità segue una corposa sezione medievale che inizia con un saggio dedicato alle trasformazioni del concetto di volontarietà nel- le opere di Agostino (Giovanni Catapano, La volontarietà del peccato e del retto agire nelle Rectractationes di Agostino, pp. 321-41), prosegue con un’analisi del concetto di volontà nella tradizione anselmiana (Luigi Catalani, Il concetto di vo- luntas propria nelle fonti indirette del pensiero di Anselmo d’Aosta, pp. 342-60), un altro sul dibattito intorno al libero arbitrio che impegnò nella prima metà del secolo XIII i teologi parigini (Riccardo Saccenti, Potentia, ratio e liberum arbi- trium. Volontà e agire morale nel discorso teologico del primo XIII secolo, pp. 361- 93); di seguito, un saggio dedicato alle diverse posizioni nell’ambito della filosofia araba e di quella latina sull’incidenza della volontà e del caso nell’ambito dell’agi- re umano (Pasquale Porro, Si può mangiare involontariamente? Contingentia ad
utrumlibet e contingentia in paucioribus in Avicenna, Averroé e Alberto Magno, pp. 395-422) e ben quattro articoli sul tema della debolezza della volontà: uno dedicato alle interpretazioni che i commentatori del secolo XIII danno dell’akra- sia aristotelica (Irene Zavattero, Elementi dell’akrasia aristotelica. Nella ricezione duecentesca dell’Ethica Nicomachea, pp. 423-451), un altro su un aspetto par- ticolare dell’idea tommasiana di incontinentia (Riccardo Fedriga e Roberto Li- monta, Vivo ego, iam non ego. Un caso singolare di incontinentia in Tommaso d’Aquino e le sue fonti, pp. 453-480), altri due alle concezioni dell’akrasia nei testi di Goffredo di Fontaines (Marialucrezia Leone, Propter vehementiam pas- sionis: la debolezza acratica in Goffredo di Fontaines, pp. 505-537) e in quelli del corpus scotista (Francesco Fiorentino, Il potere della volontà sull’intelletto nei dintorni di Duns Scoto, pp. 539-567); a questi si aggiunge un saggio sul tema dell’ostinazione al male dei dannati (Guido Alliney, Liberi di peccare. Tommaso d’Aquino ed Enrico di Gand sull’ostinazione dei dannati, pp. 481-503), e un altro sulla deliberata e cosciente volontà del male in Ockham (Valentin Braekman, Ockham et la possibilité de vouloir le mal sub ratione mali, pp. 569-597). Si tratta di un indice, sapientemente costruito e altrettanto sapientemente implementato dagli autori dei singoli saggi, che nella successione delle opere e degli autori non si limita a seguire una cronologia che va dal IV al XIV secolo, ma che nelle sue scel- te offre importanti linee d’interpretazione e molti interessanti spunti di ulteriore riflessione sul tema della volontarietà.
Felice è stata certamente la scelta di cominciare con Agostino, un autore che per molti versi rientra nei canoni del pensiero antico e che fu profondamente in- fluenzato dalla filosofia dei pagani, perché con essa si mostra quanto e come l’av- vento del cristianesimo abbia costituito per il tema della volontarietà nell’agire morale un vero e proprio spartiacque che cambiò in buona parte quelli che fino ad allora erano stati i termini della questione: l’azione onnipotente, e per di più largamente imperscrutabile della volontà divina, l’introduzione di un prima e di un dopo nella storia dell’umanità che da un’originaria condizione di perfezione precipita per sua colpa in uno stato di precaria fragilità, e da lì l’idea di una colpa originaria che ne genera un’altra come pena della prima, tutto ciò non consentì più di parlare di una volontà umana libera e capace di volere il bene e impose di individuare i limiti della sua forza e misurare il grado della sua debolezza. Ago- stino è da questo punto di vista un autore emblematico perché nella successione dei suoi scritti è possibile vedere come quelle idee, che avevano nelle lettere paoline la loro definizione più esplicita e radicale, abbiano pesato sulle scelte dottrinali del vescovo di Ippona, il quale, mano a mano che si allontanava dagli anni giovanili in cui aveva scoperto la filosofia e si era convertito al cristianesimo, non cessava di precisare, correggere, e, in definitiva, almeno in parte trasformare il suo pensiero sulla volontà dell’uomo, la sua forza e la sua libertà.
Il saggio di Giovanni Catapano illustra in modo chiaro, argomentato e con- vincente questo percorso con un puntuale riferimento ai testi. Il punto di par- tenza è costituito dai passi delle Retractationes, scritte tra il 426 e il 427, nei quali Agostino riprende e «ritratta» le affermazioni contenute in opere scritte in precedenza —dal giovanile De libero arbitrio (388-389) all’Ad Simplicianum (prima opera scritta da vescovo, nel 396)— relative alla grazia, al libero arbitrio,
alla concupiscenza, al peccato e alla pena per il peccato, al peccato originale e a quello di ignoranza, insomma a tutto ciò che si connette all’idea di volonta- rietà. L’intento di Agostino, e Catapano lo precisa fin dall’inizio, è di mostrare la continuità e la compatibilità delle sue decise affermazioni sulla volontarietà della colpa e del merito espresse a suo tempo in funzione antimanichea con la successiva dottrina della grazia sostenuta con altrettanta decisione durante tutta la disputa con Pelagio. Tuttavia, e anche questo Catapano lo mostra con precisione, la continuità e la compatibilità desiderate sono raggiunte a prezzo di una «conversione» rispetto al passato, che è nello stesso tempo lessicale e concettuale. Se è vero che Agostino non rinnega nessuna delle sue affermazioni sul fatto che ogni peccato avviene in voluntate, è anche vero però che l’idea che ormai il vescovo di Ippona ha della volontà e del peccato è cambiata. La volontà di cui Agostino parla nelle Retractactiones è la volontà dell’uomo dopo il pecca- to, e cioè una volontà che ha perduto in parte la sua forza e la sua libertà; una volontà sempre più incapace di scegliere il bene incorruttibile rispetto a quelli corruttibili e sempre più sottoposta al potere della concupiscenza con cui Dio ha punito i progenitori per la loro colpa; una volontà indebolita di uomini ormai decaduti che può tornare potente e libera nel rifiutare il peccato e scegliere la virtù solo se preparata, risanata e sostenuta dal dono gratuito (e peraltro impre- vedibile) della grazia divina. Allo stesso modo, anche l’idea di peccato è cam- biata, è diventata più ampia e comprende tutti i diversi tipi di peccati che dopo la caduta si sono moltiplicati: peccati frutto di una volontà incapace di elevarsi fino al bene incorruttibile; peccati dovuti a una volontà che si confonde con quei desideri disordinati cui è difficile, e qualche volta impossibile, resistere;
peccati di ignoranza frutto di una volontà cieca di fronte alla verità; e persino, peccati compiuti attraverso la volontà di altri, come il peccato che si eredita dai progenitori.
Una volontà decaduta e indebolita dal peccato è anche la voluntas propria di cui tratta Luigi Catalani nell’analisi di uno dei testi in cui gli allievi di Anselmo d’Aosta hanno raccolto gli insegnamenti del maestro, il Liber de humanis mori- bus per similitudines. La volontà propria nell’uomo è la volontà priva di rectitudo, incapace di aderire liberamente alla volontà divina, che sceglie di emanciparsi dalla volontà del creatore, di non rispettare l’ordine del creato da lui stabilito, di non obbedire ai suoi comandamenti. L’impianto è agostiniano e agostiniano è il richiamo alla dialettica tra umiltà e superbia: la voluntas propria è infatti vista come manifestazione di quella superbia che è all’origine di ogni peccato e che solo l’umile riconoscimento della propria miseria da parte della creatura può redimere. L’interesse del Liber dal punto di vista del tema del volume è duplice. Innanzitutto costituisce una specie di compendio sistematico delle dot- trine anselmiane sulla volontà, in particolare anche degli aspetti psicologici di queste dottrine, si veda ad esempio la distinzione dei sensi del termine voluntas (strumento del volere dell’anima, inclinazione e uso di questo strumento) e la descrizione, certo appena accennata ma interessante, dei rapporti tra voluntas, memoria, cogitatio e intellectus. In secondo luogo, il testo mostra un caso esem- plare in cui la riflessione psicologica e teologica sulla natura e sul ruolo della volontà nell’agire è messa al servizio di una prassi, in questo caso quella utile al raggiungimento della perfezione spirituale cui i monaci aspirano. Da qui l’artico-
lata classificazione dei vizi e delle virtù e l’ampio e variegato apparato metaforico che l’accompagna.
I due successivi contributi segnano l’inizio di un’altra fase della riflessione medievale sul tema della volontarietà. Pur molto diversi nei contenuti, il saggio di Riccardo Saccenti e quello di Pasquale Porro testimoniano entrambi quan- to l’irruzione nel dibattito filosofico e teologico dei nuovi testi che, sempre più numerosi, arrivano (o ritornano) in Occidente a partire dalla seconda metà del secolo XII, abbia ampliato e articolato le questioni intorno al tema della volonta- rietà dell’azione morale.
Saccenti sceglie, e sceglie bene, di analizzare nel dettaglio un trattato anonimo e inedito, il De libero arbitrio contenuto nel ms. Douai, Bibliothèque Municipale 434 che gli consente, per le analogie e i richiami ad altri teologi dell’epoca, tra i quali soprattutto Alessandro di Hales, di guardare al di là di un singolo testo e in- dividuare linee di tendenza più generali; non solo, il trattato, grazie alla lettura di Saccenti, riesce a mostrare come le nuove acquisizioni in ambito psicologico che si rifanno alla tradizione aristotelica, in particolare ad alcuni capitoli del De fide orthodoxa del teologo bizantino Giovanni Damasceno, si innestano nel dibattito medievale. Una più articolata geografia dell’anima e delle sue facoltà e una più precisa sequenza degli atti psicologici che precedono l’azione morale, che quei testi mettono a disposizione, consentono di andare oltre la tradizionale contrap- posizione tra la linea filosofica che assegna alla ragione il privilegio della libera scelta e quella teologica che invece insiste di più sulla libertà del volere come causa dell’agire morale. In questa configurazione dell’anima e delle sue facoltà il libero arbitrio diventa una specifica facoltà dell’anima, distinta dalla volontà e dalla ragione ma ad esse superiore in quanto capace di ordinare, raccordare e in definitiva determinare azioni che hanno a che vedere con le altre due facoltà: se alla volontà attiene il desiderio di compiere certe azioni e alla ragione l’analisi e il giudizio sulle finalità e sui modi in cui possono essere compiute, al libero arbitrio spetta l’atto conclusivo della scelta di compiere o non compiere quelle azioni.
L’analisi è soprattutto psicologica ma il contesto resta teologico e di matrice ago- stiniana: questo libero arbitrio che governa i movimenti dell’anima verso il bene e li iscrive tutti, quelli appetitivi come quelli cognitivi, nell’ambito della libertà appare come la potenza dell’anima in cui si riflette la trinità divina assicurando all’uomo il privilegio della similitudine con Dio.
Se teologia e psicologia sono gli scenari concettuali in cui più frequentemente la volontà viene collocata e presa in esame, il saggio di Porro, ammirevole per chiarezza ed eleganza argomentativa, ha il merito di considerare gli atti volontari in un nuovo scenario, quello metafisico, determinandone così lo statuto ontolo- gico in termini di necessità e contingenza e individuando le forme di causalità intrinseca ed estrinseca che li caratterizzano. Il saggio prende in esame l’analisi, tutta filosofica, che Avicenna, Averroè e poi Alberto Magno compiono sul tema dei contingentia ad utrumlibet cioè di quegli eventi che possono, senza alcuna preponderanza statistica, in modo indifferente, verificarsi o non verificarsi e che perciò in quanto tali sono distinti dai contingenti che si verificano nella maggior parte dei casi (ut in pluribus) e da quelli che si verificano nella minor parte dei casi (ut in paucioribus), oltre che, ovviamente, dai necessaria che si verificano
sempre. Il problema sta nel decidere se i contingentia ad utrumlibet possano es- sere considerati come casuali o no. La questione è rilevante per il tema della volontarietà perché tra questi contingenti «indifferenti», che indifferentemente possono attuarsi o non attuarsi, per i filosofi islamici come per quelli latini pos- sono esserci anche le azioni degli uomini e dunque la discussione sui confini tra caso e necessità, che si svolge a proposito dei contingentia ad utrumlibet, è anche una discussione sulla casualità e volontarietà degli atti umani, esemplificata dalla domanda «se si possa mangiare involontariamente» che Porro, citando Avicen- na, pone a titolo del suo saggio. L’analisi, che Porro compie sui testi e che ci restituisce in una sintesi chiara e articolata, mette a confronto due diverse rispo- ste al problema all’interno della tradizione aristotelica: da un lato Avicenna che include nell’ambito del caso sia ciò che accade raramente (ut in paucioribus), sia ciò che accade indifferentemente (ad utrumlibet), dall’altro Averroè e con lui Al- berto che sostengono l’appartenenza al caso solo dei contingenti che si verificano raramente assimilando così i contingenti che si verificano indifferentemente a quelli che si verificano nella maggior parte dei casi. In questa diversa mappatura dello spazio della casualità, le azioni umane si collocano diversamente. Avicenna, sulla base dell’assunzione metafisica che le cose possano avere più statuti modali concomitanti, ritiene che azioni umane che richiedono comunque l’intervento della volontà, quali il camminare o il mangiare, se considerate in se stesse, al di là della volontà che le determina, restano nell’ambito di ciò che può accadere e non accadere e quindi del caso; se invece sono considerate in relazione alla volontà, non sono mai casuali e appartengono all’ambito di ciò che accade per lo più: il primo caso è quello in cui si mangia involontariamente, solo per fare compagnia a un amico incontrato casualmente, il secondo è quello in cui si mangia perché si vuole mangiare per nutrirsi. Averroè e Alberto ritengono invece che le azioni umane, quali il camminare e il mangiare, hanno, come tutte le cose, un unico statuto modale; che dunque, al pari degli eventi naturali, rientrano nell’ambito di ciò che accade per lo più (ut in pluribus); e che solo nel caso di un impedimento materiale, come per esempio un difetto degli organi corporei deputati a quella specifica azione, possano essere definite come ad utrumlibet.
L’interesse per il ruolo della volontà nell’azione morale si è più volte tradotto, da parte di studiosi di diverso orientamento, nello studio delle interpretazioni medievali dell’aristotelica akrasia, cioè di quella debolezza psicologica che rende chi è privo di temperanza (sophrosyne) incapace di controllarsi. L’interesse cre- scente dei medievisti per l’akrasia è del resto giustificato dagli stessi medievali che vedono attorno a quel termine e quel concetto coagularsi tematiche da sempre al centro dei loro interessi, dall’idea di una volontà debole e decaduta al problema del controllo del desiderio sessuale fino alla questione dei rapporti tra volontà e ragione nel compimento dell’azione morale. Il volume dedica quindi opportuna- mente quattro interventi al tema dell’akrasia, due (Zavattero e Fedriga-Limonta) consacrati a mostrare l’intreccio di tradizioni filosofiche ma anche teologiche con cui i medievali lo prendono in esame, altri due (Leone e Fiorentino) alle diverse soluzioni date nel secolo XIV alla questione del rapporto tra volontà e intelletto.
Irene Zavattero sceglie di interrogare i primi commenti all’Ethica Nicomachea di Alberto Magno, Tommaso e Radulfo Brito su due aspetti della trattazione
aristotelica dell’akrasia, la distinzione tra temperanza e continenza e la questio- ne del sillogismo pratico dell’acratico. La limpida e approfondita analisi che ne segue offre una testimonianza preziosa, da un lato, del peso che la tradizione cristiana ha avuto nella ricezione dell’Ethica Nicomachea e, dall’altro, dell’atteg- giamento esegetico dei primi magistri (di arti e di teologia) nei confronti del testo aristotelico, volto non solo a comprendere la littera aristotelica ma anche ad approfondirne le ambiguità e le implicazioni. Esemplare il percorso dai testi di Alberto a quelli di Tommaso e Radulfo Brito che mostra come il lessico cristiano delle virtù, in parte debitore dell’etica stoica, abbia pesato sulla comprensione del testo aristotelico; fu infatti la scelta dei traduttori di rendere enkrateia e il suo contrario akrasia con continentia e incontinentia, termini che rimandavano alla rinuncia e all’adesione ai desideri e ai piaceri sessuali, a far sì che in un primo mo- mento temperantia, continentia e castitas fossero considerati sinonimi e che solo successivamente (ma in realtà la prima revisione è già opera dello stesso Alberto) si distinguesse il carattere semivirtuoso della continentia, intesa come capacità di autocontrollo, rispetto a quello pienamente virtuoso della temperanza. Anche i commenti sull’errore dell’acratico, incapace, sotto la spinta delle passioni, di applicare ai casi particolari le regole universali che pur conosce, sono una te- stimonianza interessante dei modi con cui i medievali cercarono di risolvere un caso che sembra mettere in discussione la validità del principio socratico dell’im- possibilità di agire contro ciò che si deve fare; come fa per esempio Tommaso, quando individua la causa dell’incontinentia nella conoscenza particolare della situazione del momento, una conoscenza abituale che può tradursi in atto solo se l’uomo lo vuole ma che, sotto la spinta delle passioni, può restare ligata e inattiva, come nel caso dei dormienti, dei pazzi e degli ubriachi, i quali mantengono, al pari dell’acratico, le loro capacità razionali senza poterle esercitare.
Un altro esempio significativo della stratificazione di tradizioni diverse sul tema dell’akrasia nel lessico filosofico e teologico del XIII viene dall’articolo di Fedriga e Limonta: gli autori cercano di rintracciare le fonti che insieme con- tribuiscono a spiegare un passo presente nella questione sull’incontinentia della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, nel quale si parla di una incontinentia virtuosa, quella che, con un rovesciamento di senso tipico del pensiero mistico, è riservata all’amor Dei. Il percorso è affascinante perché a partire dal testo di Tommaso si segue la complessa vicenda di un passo paolino (Gal. 2, 20: Vivo ego, iam non ego, sed vivit in me Christus) che da Paolo arriva a Tommaso attraverso la citazione che ne fa lo pseudo dionigiano De divinis nominibus nella traduzione di Grossatesta, nella quale quella frase viene attribuita a un Paolo divenuto in- continens a causa della veemenza del suo amore per Dio. Una vicenda nella quale il passo in questione passa dal contesto paolino e agostiniano in cui l’uomo ac- coglie Dio nella sua interiorità a quello dionigiano in cui la veemenza dell’amore eleva l’uomo fino all’unione estatica con Dio per approdare infine in Tommaso in un contesto etico dove in gioco sono le diverse forme dell’incontinentia acratica di matrice aristotelica. Il lavoro dei due autori mette in luce, e questo è l’aspetto più interessante del loro articolo, gli slittamenti semantici dei termini nel passag- gio da un contesto all’altro e da una lingua in un’altra, che, come è accaduto nel caso preso in esame, rendono quei termini di volta in volta fruibili in contesti concettuali differenti.
Il confronto tra una linea intellettualistica e una volontaristica, che vede schie- rati l’uno contro l’altro i maggiori teologi del XIV secolo, è un luogo classico per la storia della filosofia medievale qui rappresentato da due saggi che riproduco- no quella contrapposizione in relazione al problema della responsabilità morale dell’acratico: il saggio di Marialucrezia Leone dedicato a un campione dell’intel- lettualismo, Goffredo di Fontaines, e quello di Francesco Fiorentino sulla figura più rilevante del campo volontarista, Duns Scoto. I due saggi, entrambi fondati su analisi precise e puntuali dei testi, hanno il merito, al di là di facili e schemati- che contrapposizioni, di mostrare la ricchezza e la profondità di quel confronto sul piano etico ma anche su quello psicologico. Leone, per esempio, nel prendere in esame la convinzione di Goffredo che la responsabilità morale dell’inconti- nente stia tutta dalla parte di un intelletto reso momentaneamente «negligente»
dalla veemenza della passione e non da quella di una volontà che si limita ad accettare passivamente le indicazioni dell’intelletto, mostra come questa presa di posizione emerga all’interno di un più ampio dibattito sulla capacità della volontà di attivarsi autonomamente, che un intellettualista come Goffredo non può che negare e che invece altri pensatori importanti, come Egidio Romano ed Enrico di Gand sostengono, se pure con diversi accenti. Intellettualista riguardo alla colpa, Goffredo lo è poi coerentemente anche riguardo alla remissione della colpa: l’incontinente, a differenza del vizioso, continua a mantenere una ragione retta che conosce la legge morale; passato quel momento determinato, l’hora, in cui la passione ha impedito all’intelletto di applicare le leggi universali, la sua coscienza, retta come la sua ragione, è capace di indurlo al pentimento.
Alla fiducia di Goffredo di Fontaines sul ruolo egemonico della ragione nell’ambito morale, si contrappone l’indiscusso e libero dominio della volontà sulla ragione sostenuto da Scoto e da altri testi che appartengono al corpus sco- tiano, analizzati con attenzione e restituiti con chiarezza al lettore da Fiorentino.
Nell’assegnare la responsabilità della scelta alla volontà e non all’intelletto, Scoto non si limita a riconoscere l’attività autonoma della volontà rispetto all’intelletto ma sostiene anche la capacità della volontà di interferire nel corretto funzio- namento dell’intelletto e della sua capacità di giudizio. Nell’akrasia scotiana la veemenza della passione attiva innanzitutto la volontà che non solo si compiace dei desideri e dei piaceri dell’appetito sensibile liberandosi del controllo della ragione ma riesce anche a portare l’intelletto dalla sua parte inducendolo a le- gittimare razionalmente il movimento passionale cui ha aderito. In primo piano c’è il potere decisionale della volontà sull’intelletto e la capacità della volontà di scegliere indipendentemente dalla ragione; la presenza della passione, ridotta ad evento scatenante, appare qui quasi accidentale. E in effetti l’attenzione è poi tut- ta rivolta ai modi in cui la volontà arriva a condizionare il giudizio dell’intelletto:
la distrazione (aversio) con cui lo allontana dalla sua idea di bene in generale e la conversione (conversio) con cui lo indirizza verso un altro bene. Due modalità utilizzate dalla volontà anche per intervenire nel processo della conoscenza che precede il giudizio: tra tutte le conoscenze che l’intelletto è in grado di pro- durre, solo quelle che riguardano un oggetto voluto dalla volontà sono spinte a raggiungere un grado di sufficiente compiutezza (conversio), le altre, che riguar- dano oggetti non voluti, possono restare confuse e progressivamente estinguersi (aversio).
A ribadire la radicalità della dottrina volontaristica scotiana, pensa Guido Alliney con il suo articolo sull’ostinazione al male dei dannati e cioè sul fatto che i dannati perdono la capacità di scelta che avevano avuto in vita restando immuta- bilmente fissati sul loro fine malvagio, così come i beati restano immutabilmente volti verso il loro fine buono. L’articolo in realtà è dedicato a Tommaso d’Aquino e a Enrico di Gand che hanno sul tema opinioni diverse. Entrambi concordano nell’individuare nella separazione dell’anima dal corpo la causa dell’ostinazione al male dei dannati e al bene dei beati. Per l’intellettualista Tommaso è l’anima razionale separata dal corpo ad acquistare quella stabilità che la presenza del corpo non consentiva; a questo punto la sua concezione del fine ultimo diventa immodificabile e così pure il suo desiderio che da quella concezione dipende.
Per il volontarista Enrico di Gand è invece la volontà e non l’intelletto a divenire più stabile e più ferma dopo la separazione del corpo continuando a volgersi ver- so quel fine cui si è volta in vita. Alla fine dell’analisi delle posizioni di questi due autori, Alliney riserva qualche pagina conclusiva alla opinione di Scoto su questo tema dove ancora una volta si mostra l’originalità e la radicalità del volontari- smo scotiano: sulla base di una diversa concezione della causalità della potenze dell’anima, che prevede che «ogni causa totale, come la volontà, agisca solo in base alle sue caratteristiche intrinseche», Scoto non può accettare che la volontà agisca diversamente congiunta o separata dal corpo né che sia perfezionata dalla separazione dal corpo. La volontà dell’uomo insomma mantiene la sua libertà di scelta e continua ad agire in modo contingente così come faceva quanto era congiunta al corpo. L’unica spiegazione plausibile alla questione dell’ostinazione dei dannati a questo punto è quella, suggerita dallo stesso Scoto e poi portata a compimento da Francesco della Marchia, in cui si fa ricorso all’unica causa estrinseca che può intervenire sulla volontà dell’uomo, e cioè la volontà divina che fissa definitivamente la volontà del dannato al male.
Se ripensiamo al percorso medievale compiuto fino a questo punto, la ten- tazione di pensare alla storia della volontà come alla storia di un riscatto, di una liberazione, di un progressivo affrancamento da una iniziale condizione di debolezza a una posizione di dominio quasi assoluto è forte. Tanto più che l’atto finale di questo percorso è stato affidato a un Ockham che alla volontà dell’uomo riconosce una forza e una libertà tali da consentirle persino di scegliere il male in quanto tale (sub ratione mali). A quest’ultimo atto di una storia cominciata con la volontà debole e decaduta di Agostino e proseguita con un progressivo e sempre più ampio riconoscimento delle prerogative della volontà è dedicato l’ar- ticolo di Valentin Braekman, un articolo appassionante per la stringente e quasi geometrica successione degli argomenti con cui si ricostruisce come Ockham arrivi a questa conclusione passando dalla metafisica alla teologia, dalla psicolo- gia alla morale. Innanzitutto, la definizione del bene e del male, concepiti come tali non in relazione a ciò che è oggetto di volizione ma in relazione al rapporto della volontà a norme morali oggettive e universali, derivate dalla volontà di Dio che le ha poste nella Rivelazione (i comandamenti) e rese comprensibili a ogni uomo grazie all’azione dell’umana ragione. Di fronte a queste norme la volontà è assolutamente «indifferente», libera di rispettarle o di non rispettarle. Libera rispetto alla legge e libera anche rispetto alle indicazioni della stessa ragione, che può indifferentemente accogliere o non accogliere. Può liberamente e consape-
volmente scegliere l’obbedienza (il bene) oppure altrettanto liberamente sceglie- re la disobbedienza (il male). Se la volontà fosse per sua natura rivolta al bene, tanto da volere il male solo in quanto erroneamente ritenuto un bene, che senso avrebbero allora le prescrizioni della legge e della coscienza? La libertà della vo- lontà, illimitata al punto di volere il male in quanto male, è dunque, come scrive Braekman alla fine del suo articolo, «la condizione necessaria dell’esistenza della morale». Conclusione che induce Braekman a concludere a sua volta con la con- siderazione di Claude Panaccio, che aveva visto in questa posizione di Ockham una «significativa rottura» con l’etica della tradizione greca.
Alla fine di un volume sulla volontarietà dell’azione tra Antichità e Medioevo, Ockham sembra qui segnare un punto di svolta, una specie di tappa conclusiva, non solo dell’etica medievale ma anche di quella antica che sull’idea socratica dell’involontarietà del male e su quella aristotelica di una colpa che è sempre e comunque in fondo un atto di ignoranza si era fondata.