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Beni archeologici riseppelliti

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«Corriere» 1 giugno 2015

Beni archeologici riseppelliti

Pochi fondi per valorizzarli Paolo Conti

«Reinterrare un bene archeologico? Succede spesso. E ha senso quando non si può conser- vare, valorizzare, comunicare come sarebbe giusto. Oppure costituisce una realtà molto fragile che, esposta alle intemperie, si danneggerebbe. Ma nel caso delle ultime scoperte dell’Arco di Tito al Circo Massimo diventa difficile capire il perché del reinterro. Si parla di mancanza di fon- di. Sono pronto a scommettere che tanti mecenati, per esempio americani, sarebbero disponi- bili subito a finanziare i lavori per gli scavi e il recupero dell’Arco. In fondo, si tratta del Circo Massimo legato nell’immaginario collettivo a Ben Hur...».

Andrea Carandini, grande archeologo e presidente del Fondo Ambiente Italiano, parla degli scavi del Circo Massimo, col recupero del pavimento in lastre di travertino e di tre plinti (strut- ture di basamento delle colonne) frontali e parte del plinto della quarta colonna. Si trattava dell’Arco di Tito che apriva l’ingresso del Circo Massimo dal lato di Porta Capena, e quindi dalla via Appia (l’altro Arco di Tito è sulle pendici settentrionali del Palatino). La sovrintendenza co- munale ha deciso il reinterro in attesa dei fondi per il recupero, l’anastilosi (la ricostruzione col materiale originario) e per contenere la falda d’acqua sottostante.

Ma il caso del Circo Massimo riporta alla mente tante storie di archeologia reinterrata. C’è il caso scandaloso di cui ha parlato Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, il 13 aprile scor- so: le rovine dell’antico Foro a Capo Colonna, in Calabria, ricoperte da una colata di calcestruz- zo. Una scelta insensata che rende difficilissimo qualsiasi recupero.

Caso opposto (e consapevole) a quello di Mignano Montelungo, in provincia di Caserta. Co- me racconta l’ex soprintendente di Napoli e Caserta Stefano De Caro (oggi direttore generale dell’Iccrom, l’organismo Unesco per lo studio della conservazione e il restauro del Patrimonio) durante i lavori per la linea ferroviaria ad alta velocità Roma-Napoli «riemerse un abitato ro- mano dotato anche di terme. Riuscimmo a salvarlo cambiando il progetto e collocando la linea ferroviaria su alcuni piloni. Poi reinterrammo. In qualche modo abbiamo “messo in frigorifero”

quel sito per le future generazioni. Lo stesso è accaduto col villaggio di Longola Poggiomarino, nell’area metropolitana di Napoli, una specie di Venezia della protostoria. Il sistema di palafitte era troppo fragile e rischiava di deteriorarsi. Il reinterro è un indiscutibile metodo di buona conservazione. Io penso che a Pompei sia stato scavato troppo e che tanti beni esposti siano fatalmente destinati a un deterioramento».

Sulla bontà del reinterro concorda anche Giuseppe Proietti, ex segretario generale dei Beni culturali e oggi amministratore delegato Ales (arte lavori e servizi).

A Roma due casi di reinterro hanno fatto discutere prima del Circo Massimo. Il primo risale al 2007-2008, quando vennero reinterrati i reperti che bloccarono il progetto del grande par- cheggio nelle viscere del Pincio. Più recente il materiale emerso in via Giulia durante i lavori per la costruzione di un parcheggio interrato (poi bloccato). Si tratta delle Scuderie di Augusto, ormai ricoperte, che saranno parzialmente valorizzate dopo alcune asportazioni. Ma il comples- so resterà sotto terra.

Un’altra storia di reinterro è quella del Villaggio Preistorico di Nola, scoperto nel 2001 e rico- perto nell’estate scorsa. Il complesso che risale a quattromila anni fa (l’hanno chiamato la Pompei dell’Età del Bronzo) era minacciato da una falda acquifera che rischiava di far letteral- mente scomparire i delicati reperti. Troppo scarsi i fondi a disposizione, diciamo inesistenti. Al- lora meglio riseppellire tutto. Sperando in un futuro migliore.

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