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CAPITOLO 1 – “LA VEGETAZIONE DI RIPA”

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1 – “LA VEGETAZIONE DI RIPA”

Una delle cause dell’aumento di conflittualità nel rapporto tra uomo e natura negli ultimi decenni, è da ricercarsi nella specializzazione degli usi del territorio antropizzato. Nel corso dei secoli si sono modificate le modalità d’uso del territorio accentuando il contrasto tra elementi antropici e naturali, diminuendo sensibilmente l’eterogeneità funzionale degli ecotipi. Tale contrasto è acutizzato da certe modalità gestionali che vedono una netta separazione tra i due tipi di paesaggio: la protezione totale delle oasi naturali da una parte e l’eliminazione progressiva di ciò che è naturale dalle aree occupate dall’uomo dall’altra, che vede la cronica carenza di spazi verdi nelle città, l’eliminazione di elementi naturali dalla campagna, soprattutto in pianura e nei fondovalle, la canalizzazione e cementificazione dei corsi d’acqua, ecc. Quanto sopra mette in evidenza l’estrema fragilità di un elemento del territorio: il corso d’acqua. Il fiume, infatti, è un sistema in cui l’acqua, l’alveo, le sponde e le rive danno luogo ad un habitat molto variegato. Conseguenza di tutto ciò è l’evoluzione della filosofia d’azione volta a recuperare ambienti naturali rari o degradati ed a ricrearne di nuovi tramite la

rinaturalizzazione e l’ingegneria naturalistica. Con il termine d’ingegneria naturalistica viene indicato l’insieme di tecniche che, praticate per ridurre il rischio d’erosione del terreno negli interventi di consolidamento, prevedono l’utilizzo di piante vive o di parti di esse (semi, radici, talee), da sole o in combinazione con materiali naturali inerti (legno, pietrame o terreno), materiali artificiali biodegradabili e non. La presenza di vegetazione in alveo o più frequentemente lungo le sponde, interagisce con il movimento dell’acqua all’interno delle sezioni e con i processi d’erosione e di instabilità delle sponde. In generale, la vita vegetativa aumenta la scabrezza nella sezione con varie conseguenze: riduzione della velocità dell’acqua, aumento dei tiranti idrici e riduzione della portata massima che la sezione è in grado di convogliare. La vegetazione dà luogo anche ad una coesione aggiuntiva dovuta alla presenza di radici; si crea così una mutua interazione tra corrente e vegetazione. In relazione al grado di sommersione e delle tensioni esercitate dalla corrente infatti, le piante possono assumere un comportamento differente in funzione delle loro caratteristiche elastiche,

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esercitando quindi una resistenza diversa. In particolare si può distinguere la vegetazione erbacea che presenta altezza limitata ed elasticità elevata, la vegetazione arbustiva con altezze ed elasticità significative ed infine la vegetazione arborea con altezze dominanti ed elasticità elevata.

o Vegetazione totalmente sommersa.

Quando l’acqua scorre attraverso la vegetazione flessibile, questa si piega sotto determinate condizioni e perciò si riduce la sua altezza. Nel momento in cui la vegetazione si piega, la scabrezza al contorno si riduce sensibilmente. Nei flussi in canale aperto vegetato, il grado di resistenza da piegamento della vegetazione dipende dalla rigidità e dalla densità della verzura stessa, mentre la forza di trascinamento dovuta all’acqua che scorre determina il momento flettente imposto alla vegetazione. E’ possibile valutare il coefficiente di attrito e dunque il coefficiente di Manning, una volta nota l’altezza della vegetazione flessa. Questo parametro dipende dalle caratteristiche biomeccaniche della vegetazione. Tale valore può essere valutato conoscendo la resistenza a flessione MEI (in Newton) data dal prodotto fra

MEI = M x E x I, dove:

E = modulo di elasticità lineare (Pa);

I = momento secondo d’inerzia dell’area della sezione degli steli (m4);

M = densità relativa, definita come il rapporto tra numero di steli ed un numero di riferimento di steli per unità d’area (m²).

La relazione che lega k alla resistenza a flessione è la seguente K = 0.14 x h x [(MEI/y x S x γ)0.25/h]1.59

con

h = altezza della vegetazione eretta (m); y = altezza d’acqua (m);

S = pendenza del canale;

γ = peso specifico dell’acqua (N/m³).

Nonostante la complessità dell’interazione tra vegetazione erbosa e caratteristiche idrauliche, è stato sperimentato che per un particolare tipo di vegetazione il coefficiente di Manning è unicamente correlato al prodotto tra la velocità media V

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(influenzata dalla presenza di vegetazione) e il raggio idraulico R, indipendentemente dai valori relativi assunti da V ed R. Per cui

n = V x R, per erbe da 50 a 900 mm.

Per alvei erbosi ed abbastanza larghi da poter trascurare l’effetto delle sponde sulla scabrezza (B>>y), il legame tra n ed il prodotto V x R è stato calcolato per diverse altezze dell’erba. Il livello di scabrezza dipende dalla morfologia della pianta e dalla densità di crescita. Per flussi bassi la vegetazione rimane abbastanza rigida ed i valori di scabrezza sono intorno a 0.5 – 0.30, associati alla distorsione delle linee di flusso intorno agli steli delle singole piante; all’aumentare dell’altezza d’acqua gli steli cominciano ad oscillare, disturbando maggiormente il flusso e la scabrezza aumenta fino a circa 0.40. Quando la corrente comincia a sommergere le piante, il coefficiente di ritardo diminuisce rapidamente all’aumentare della profondità dell’acqua, perché le piante tendono a piegarsi e la scabrezza risulta legata soprattutto al contorno. In presenza di flussi alti il coefficiente di ritardo tende ad assumere un valore costante piuttosto basso; in queste condizioni l’erba è distesa ed offre al flusso una superficie relativamente liscia, aumentando di conseguenza la velocità.

o Vegetazione parzialmente sommersa.

Le correlazioni viste non sono più valide nel caso in cui la vegetazione sia più alta del livello d’acqua, caso che può verificarsi in alveo nei periodi di magra o nelle aree golenali durante le piene. Nel caso in cui la pianta venga investita fino al tronco si può assumere che essa abbia comportamento rigido, altrimenti si dovrà tenere conto della flessione della chioma e delle proprietà meccaniche dei rami e delle foglie. La resistenza al flusso attraverso una data area vegetata è funzione di molte variabili tra le quali:

- velocità del flusso;

- distribuzione della vegetazione in direzione longitudinale e trasversale rispetto alla corrente;

- scabrezza del contorno;

- proprietà strutturali e idrodinamiche associate agli steli e alle foglie delle piante. Quindi, infine, si può studiare l’andamento di n in funzione della profondità relativa di sommersione e della velocità media del flusso. A parità di velocità si ha un

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incremento massimo di n del doppio nel passaggio da flusso basso (y/h = 0.25) alla condizione di quasi sommersione. Similmente, si ha una riduzione massima di n della metà quando la velocità aumenta da 0.1 a 0.8 m/s a parità di altezza d’acqua.

1.1

-

Foresta

Nell’ambiente atmosferico le montagne adempiono alla doppia funzione idrologica: o di promuovere la condensazione del vapore circolante nell’atmosfera,

costringendolo a cadere sulla terra in forma di pioggia oppure di neve;

o di porre una parte della pioggia e della neve, caduta in montagna, perciò ad una certa altezza; nella condizione di poter svolgere, lungo la via del suo ritorno al mare, un “lavoro meccanico” favorevole all’erosione. Sennonché contro questa capacità, posseduta dall’acqua corrente, sorge, spontaneamente, dalla terra stessa, in virtù della pioggia, un fattore contrario all’erosione, che mentre difende il suolo da questa, lo vivifica. Le piogge, invece di accanirsi, combinate con le altre azioni geodinamiche, a percuotere, sfasciare e disciogliere il suolo inerte, lo vivificano, popolandolo lentamente con una moltitudine di esseri vegetali, di dimensioni e forme svariatissime, capaci di frenare l’erosione e consolidare la terra conquistata dalla vita vegetale.

Le piante, dal lichene all’albero, sono dotate tutte di un’adattabilità da cui dipende una ricchezza di forme vegetali e di strutture incomparabilmente superiore a quella degli organismi animali, possono mantenersi in rigoroso rapporto d’esistenza con le condizioni dell’ambiente fisico. Ciò permette alle piante non solo di vivere, ma anche di progredire verso forme sempre meglio resistenti all’ambiente e di stringersi in associazioni vittoriose non soltanto contro l’acqua da cui difendono la terra che è la sede di esse, ma anche per l’acqua, che dà loro la vita; con una moltitudine di mezzi tale da riuscire sui terreni impermeabili a ridurre la massa delle acque selvagge e sui terreni permeabili la frazioni di pioggia che altrimenti si infiltrerebbe e sprofonderebbe rapidamente, a tutto detrimento di quella che il suolo potrebbe trattenere a disposizione dei bisogni della vegetazione. Le piante, per raggiungere queste finalità ideologiche essenziali per la loro stessa esistenza, agiscono dunque in associazione, la cui distribuzione geografica e le

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svariate combinazioni, dall’equatore ai poli, come dal mare alle alte vette montuose, riescono ad esprimere tipicamente e fedelmente il clima, di cui esse si dimostrano la risultante più espressiva e perfetta. In virtù del reciproco appoggio, che le singole specie, già capaci da sole di una certa attività idrologica, possono prestarsi, si creano nella formazione fieristica dei mutui rapporti che stimolano e potenziano le attività singole; ed allora la capacità idrologica della formazione diventa grandissima. Le prime formazioni costituite dai pur modesti, ma resistenti licheni, appena distesesi sulla roccia viva, si attaccano a questa e presto ad esse seguono i muschi, che preparano la sede appropriata alle prime fanerogame, le cui radici elaborano ed ammucchiano la prima terra vegetale. Nello stesso tempo, rinserrano questa nelle maglie del loro fitto reticolato, per difendere terra e roccia sottostante dal morso degli agenti atmosferici. Senza ciò le associazioni elementari non potrebbero, né vivere, né moltiplicarsi, né ascendere lentamente al grado di forme associative sempre più perfette, quali sono consentite dal clima. La rude lotta affrontata dai primi licheni è vinta, infine, dai vegetali più forti, che sono anche i più evoluti delle associazioni sempre meglio organizzate. Quanto più le piogge sono frequenti e copiose, tanto più entrano a far parte dell’associazione forme di piante ad organi aerei sempre più sviluppati, a fogliame più ricco, a fusti più alti, a ramificazioni più larghe, a radici più estese. Si può così passare dalla steppa alla macchia sempreverde; da questa alla selva di latifoglie, poi a quella di aghifoglie, finché, superato il limite della vegetazione arborea, si giunge alla prateria alpina, attraverso insensibili passaggi, rispecchianti esattamente il variare del clima e del suolo. Nella zona temperata possono trionfare, pertanto, le opulenti associazioni forestali, le più capaci, fra tutte, a mantenere saldo il terreno ed a difenderlo dall’erosione in virtù, sia della longevità secolare degli alberi, sia del variato temperamento e della proprietà di giovarsi di organi fogliari caduchi o persistenti, precoci o tardivi, glabri o villosi, larghi o sottili, coriacei o carnosi; sia, infine, grazie al possente sistema radicale proprio, tanto delle latifoglie quanto delle conifere. La sensibile adattabilità di queste associazioni permette loro di costruire, caso per caso, un complesso di stretta armonia con la temperatura e con l’intensità e frequenza delle piogge, oltre che con la configurazione e la struttura fisica e chimica del terreno. Così al piede e sulle fiancate delle grandi

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catene montuose, dove le piogge cadono frequenti e copiose, regnano i boschi di latifoglie, cui subito seguono le selve d’abeti. Più in alto ancora domina il lariceto, la caducità del cui fogliame e la crescente lontananza dei tronchi dimostrano piogge più avare e temperature più fredde. Chiude, infine, a contatto dei ghiacciai, la prateria alpina, ai cui margini si perdono nei cespuglietti d’ontano alpino, di rododendri e di salici, le ultime tracce delle associazioni legnose, mentre le erbe vivaci della prateria riportano a forme nane gli organi aerei, sviluppando in compenso gli organi sotterranei, per serrarsi strettamente le une alle altre, a meglio difendere, anch’esse come gli alberi, il suolo che le ospita dagli attacchi delle intemperie. Nelle regioni di collina, dai bassi pianori d’erosione alle ancora più basse pianure alluvionali, piattaforme delle Alpi e dell’Appennino, dove le piogge sono meno abbondanti, regna, o meglio regnava, il querceto, mentre, contro le raffiche delle piogge sciroccali, combatte la macchia, gli alberi, bassi, fronzuti e tortuosi, gli arbusti impenetrabili, i frutici rampicanti, le alte erbe ed i numerosi cespugli, tessono il mantello di bosco protettivo della regione mediterranea. In tutte queste svariate associazioni forestali, espressione, dovunque, di condizioni climatiche favorevoli allo sviluppo di una vita intensa tanto vegetale che animale, dominano le specie legnose longeve, a potente ramificazione aerea e sotterranea, che danno alle associazioni stesse l’impronta dell’aristocrazia vegetale più ricca; pur non essendo gli alberi né i soli né i più attivi organi della potenza idrologica della foresta. Essi, nel suolo forestale portato, sotto l’ombra delle chiome, al più alto grado di consistenza, d’igroscopicità, d’equilibrio e di difesa contro l’erosione, costituito in massima parte dell’accumulo di spoglie del fogliame, proteggono la vita intensa, per quanto silenziosa ed invisibile, di tutto un mondo di organismi e microrganismi idrofili, grazie al cui nascosto lavorio di scavo, perforazione, scomposizione, riduzione, il suolo stesso si trasforma in quell’alto strato di materia soffice, permeabile, igroscopica, capace, nei periodi di pioggia, di raccogliere, assorbire e trattenere grandi riserve idriche, che devono poi servire durante i lunghi periodi asciutti agli svariati bisogni di nutrizione e di propagazione dell’associazione. La condizione primordiale di tanta attività è la presenza, oltre che d’ossigeno, anche di una forte umidità e d’acqua circolante dalle radici alle foglie e dalle foglie alle radici, in brevi cicli vitali ove, silenziosamente, si svolgono i

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delicati rapporti delle acque con la foresta. Se dalla conoscenza di questi rapporti non è lecito dedurre che nella zona temperata la foresta influisca sensibilmente sulla piovosità, dipendente questa soprattutto da condizioni geografiche e da vicende meteoriche vaste e complesse, operanti in regioni troppo lontane dalla terra per essere sensibilmente influenzate dallo stato del mantello vegetale, dimostratissimo risulta, invece, che la foresta promuove indubbiamente una circolazione più attiva e regolare dei precipitati atmosferici consentiti dal clima. La foresta, animando un incessante gioco d’azioni fisiche e chimiche di natura essenzialmente biologica, sa trattenere pioggia o neve e se ne serve, nel tempo e nello spazio, in guisa da ottenere dalla circolazione continentale dell’acqua il massimo effetto utile, in stretto rapporto con la vita tanto del mondo vegetale stesso quanto del mondo animale, che strettamente ne dipende.

1.1.1 – Bosco e il suo governo

Necessario è ricordare come il bosco agisca in misura non trascurabile sulla velocità con la quale l’acqua scorre lungo la falda, sull’entità del materiale detritico che può essere trasportato dalle acque, e di conseguenza, sul regime dei torrenti. Le radici delle piante esercitano un’azione di collegamento e consolidamento del terreno che tanto più è sensibile, tanto più esse sono profonde e fitte. Il bosco non può impedire movimenti di falda estesi o penetranti in profondità dovuti ad acque sotterranee, a strati di scorrimento profondi o a mancanza di appoggio al piede, ma protegge ad ogni modo il terreno contro il dilavamento, il degrado superficiale e l’azione del vento, costituisce quasi un argine di difesa contro la caduta di massi, ostacola la formazione di solchi e di borri, consolida i terreni sciolti e lega le sabbie mobili e le dune, impedisce, entro i suoi confini, la discesa di valanghe e rende assai meno probabili gli scoscendimenti e gli smottamenti superficiali. Il timore che l’acqua, penetrata nel terreno sotto il bosco, abbia a favorire la tendenza allo scorrimento, non è in genere fondato; il terreno del bosco, nonostante la maggiore infiltrazione richiamata dalle radici delle piante, è in massima, più asciutto dei terreni a prato e a coltivo non piantonati, mentre le radici delle piante possono, con il loro espandersi e col loro intrecciarsi, assicurare un arresto del terreno impedendo la formazione di scorrimenti. Hanno significato

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determinante sugli effetti del bosco: la sua posizione, la sua natura, il modo con cui viene governato, il pascolo, che può essere di ostacolo per la crescita delle piante, il calpestio del bestiame che provoca ferite nel terreno e che facilitano la susseguente formazione di solchi e di calanchi, il trascinamento stesso di tronchi che crea delle lesioni e delle rotture le quali preparano rovine più vaste. Nel governo dei boschi ad alta quota (dove essi assolvono speciali compiti per la protezione contro frane, valanghe, caduta di sassi e contro l’avanzare dello sfasciume di roccia che dalle nude cime discende verso valle) è da tenere presente che il loro scopo è quello di conservare e di migliorare la resistenza del terreno. Aspetto importante del governo del bosco è quello del suo rinnovamento, da prevedersi, non tanto da una attiva ripresa naturale, quanto da tagli accorti e contemporanee nuove piantagioni. Gli sfruttamenti secondari, raccolta di strame, pascolo boschivo, devono essere opportunamente disciplinati; la raccolta di strame a terra non pregiudica il bosco in sé e per sé, se mantenuta entro limiti moderati; dannosissima riesce invece la raccolta di rami con tagli da piante ancora in piedi e tuttora in pericolosa crescita. Sconsigliabile la raccolta del terriccio, perché ne consegue un impoverimento ed un eccessivo costipamento del terreno con pregiudizio del suo potere di trattenuta e della sua permeabilità alla circolazione d’aria. Un imbibimento eccessivo del terreno, che toglie alle radici delle piante la loro forza di attacco, favorisce l’azione di colpi di vento; si richiede in tal caso, come rimedio efficace, un drenaggio del terreno medesimo, con avviamento dell’acqua di sgrondo lungo cunette opportunamente presidiate. In tema di drenaggio, però, deve essere altresì avvertito come riuscirebbe non giovevole un prosciugamento troppo esteso di terreni paludosi ad alta quota, i quali potrebbero altrimenti assorbire notevoli quantità di acqua agendo così come da regolatori o moderatori nel caso di scrosci intensi; può accadere che, una volta prosciugati, i terreni si costipino riducendo così la loro attitudine ad assorbire meteoriche.

1.1.2 – Sboscamento e trasporto del legname abbattuto

Importanza notevole, nei riguardi della conservazione della falda montana e del buon regime dei bacini montani in genere, presenta lo sboscamento, in quanto dalle modalità con le quali esso avviene, dipende l’integrità del terreno, la minor

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copia di materiale solido che può scendere nel torrente, la facilità e la riuscita del successivo rimboschimento. Importante è evitare i tagli rasi estesi; infatti, a prescindere dal fatto che le zone rese così nude debbano restare tali per alcuni anni finché il novello bosco non abbia raggiunto un adeguato sviluppo, con l’abbattimento e la discesa a valle di grandi quantità di legname il terreno viene sovente lesionato e danneggiato, risultando favorita la formazione di fessure, solchi e botri. Il taglio lungo superfici che accennino a degrado, alterazione o comunque denudazione, per le quali si possano prevedere difficoltà nell’impianto e nello sviluppo del nuovo bosco, impone speciali attenzioni e cautele. Esso deve essere tanto più saltuario e scaglionato in un sufficiente numero di anni, quanto più la falda sia ripida, lambita da torrenti, esposta al pericolo di valanghe, soprastante ad un abitato al quale debba essere assicurata la permanenza della protezione. In queste circostanze i tagli devono essere accompagnati da equivalenti nuovi impianti, in modo che lo sboscamento proceda di pari passo con il rimboschimento ed il bosco abbia agio di attecchire e prendere adeguata consistenza. Ad evitare che, in conseguenza dei tagli, si possano formare condizioni tali da favorire la raccolta e l’incanalamento di notevoli quantità d’acqua lungo linee di massima pendenza della falda con la formazione di solchi e conseguenti inizi di sfacelo, ebbene che il taglio avvenga per strisce orizzontali di moderata larghezza (25 ÷ 50 m) o per strisce oblique, o a riquadri disposti a scacchiera. Importanza assai notevole, per la conservazione della falda, hanno le norme relative al trasporto a valle del legname abbattuto. Il trasporto deve farsi con la massima cura possibile; le crepe che, nonostante ogni cautela, dovessero formarsi nel terreno, sono prontamente da riparare come sono da consolidare quei punti in cui il terreno si presentasse sciolto. Il trasporto per fluitazione lungo i torrenti montani presenta l’inconveniente di determinare lesioni alle sponde in dipendenza degli urti dei tronchi discendenti.

1.2

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Prati e pascoli

Viene definito “pascolo”, come vegetazione spontanea, l’associazione naturale di piante erbacee annue e perenni capace di difendere il terreno dall’erosione meteorica. L’umidità favorisce la vegetazione di piante perenni, vivaci, fra le quali

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molte graminacee ad innovazione intraguainali, che dominano e proteggono le erbe annue, grazie al loro sistema radicale, estendono la caratteristica forma a cuscinetto, che è propria di molte erbe alpine. Siffatte radici, col loro intreccio, distendono un fitto ed alto tappeto capace di esercitare sul terreno, e contro l’erosione meteorica, una certa azione protettiva, a condizione però che il prato non sia poi soverchiamente molestato dal morso e dal calpestio del bestiame a pascolo. Di mano in mano che, allontanandoci dalla zona alpina, ci si avvicina a quella mediterranea, i periodi della siccità estiva, tanto pericolosi alla vita delle associazioni erbacee, diventano sempre più lunghi, l’aria sempre più secca, i venti sempre più caldi e frequenti; si avverano sempre più condizioni di clima gradatamente più sfavorevoli alle pseudo - associazioni di erbe vivaci ed al predominio di queste nei prati e nei pascoli. A queste condizioni climatiche si aggiungono quelle che dipendono dalla natura del substrato. Siffatto tipo di associazione “steppica”, essenzialmente instabile, se abbandonata a se stessa e quando il terreno non sia troppo in pendenza, né troppo facile all’erosione, né troppo tormentato dalla pastura, si evolverebbe spontaneamente, pur sempre attraverso decenni di “cespugliato” e di “macchia”, verso il “bosco”; su pendii molto accentuati il terreno coperto da vegetazione erbacea di tipo steppico non esprime che una fase di avviamento, per quanto lento verso l’aridità, la frana superficiale ed il deserto; la vegetazione steppica può esercitare una scarsa azione protettiva sul suolo, tanto meno può moderare il rapido deflusso delle piogge e meno ancora può impedire a queste il rapido raccogliersi nei mille rigagnoli dai quali nasce il torrente.

1.3

-

Vegetazione riparia

Le fasce di vegetazione riparia svolgono molteplici funzioni:

a) intercettano le acque di dilavamento dei versanti prima che esse raggiungano il corso d’acqua e svolgono una duplice azione depurante: agiscono da filtro meccanico (trattenendo i sedimenti e restituendo al fiume acque limpide) e da filtro biologico dei nutrienti, contrastando l’eutrofizzazione delle acque;

b) consolidano le sponde, riducendone l’erosione e contribuendo pertanto ulteriormente alla limpidezza delle acque;

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c) diversificano e arricchiscono il mosaico dei microambienti fluviali: radici sommerse , zone con diverso ombreggiamento e, quindi, diverso sviluppo del feltro perifitico; accumuli localizzati di frammenti vegetali; influenza sulla direzione della corrente e induzione di eterogeneità nel substrato;

d) forniscono cibo e rifugio alla fauna riparea moltiplicando le interconnessioni ecologiche tra ambiente acquatico e terrestre migliorando l’efficienza e la stabilità dell’ecosistema fluviale complessivo.

Di fondamentale importanza è mantenere o ripristinare ampie fasce di vegetazione riparia lungo tutto il reticolo idrografico. L’ossessione di “pulire” gli alvei dalla vegetazione per motivi di sicurezza idraulica è solo una diretta conseguenza della ingiustificata scelta di fondo di restringere ed arginare i corsi d’acqua. Nell’ambito della scelta opposta (lasciare più spazio ai fiumi, zone inondabili, demolizione degli argini non indispensabili, alvei a due stadi, ampliamento delle luci di ponti, ecc.), la vegetazione riparia non solo non rappresenta un pericolo, ma diviene un fattore indispensabile di sicurezza idraulica, regolazione, stabilità, funzionalità ecologica, valenza naturalistica e paesaggistica.

1.4

Lineamenti della vegetazione forestale toscana

Nell’analisi della diversità vegetazionale gli studiosi procedono ad una ripartizione delle tipologie in grandi categorie dipendenti dai principali fattori di differenziazione. Viene definita zonale la diversità dipendente dalla latitudine, cosicché si possono riconoscere zone di vegetazione in contrapposizione alla diversità azonale determinata dal prevalere di alcuni fattori locali. In senso altitudinale si riconoscono piani e orizzonti di vegetazione. In un sistema montuoso si possono avere fino a tre piani di vegetazione:

• quello inferiore o basale, comprendente la vegetazione costiera, collinare e planiziaria, denominata anche pedomontana;

• quello intermedio o montano, comprendente i tipi esclusivamente orofili fino al limite della vegetazione forestale;

• quello superiore, cacuminale o culminale, comprendente ipsofila, priva di consorzi forestali ma non obbligatoriamente di alberi.

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Ciascun piano può essere ripartito in orizzonti, definiti da particolari condizioni fisionomiche, come la dominanza di alcune specie, o da variazioni floristico - ecologiche nell’ambito dei piani.

Nella regione toscana si incontrano due grandi sistemi zonali:

‰ quello delle sclerofille sempreverdi a gravitazione mediterranea, formato da

specie legnose (alberi, alberelli, arbusti, liane, ecc.) ad attività vegetativa prevalentemente vernale, più o meno xenofile, cioè arido - resistenti, termofile e scarsamente resistenti alle temperature minime invernali;

‰ quello delle latifoglie decidue gravitanti nell’area boreale a ciclo estivale

scarsamente resistente all’aridità estiva.

L’incontro tra la vegetazione delle due zone avviene in Toscana nel piano basale, con la costituzione di formazioni miste in cui i rapporti specifici sono definiti dalle caratteristiche topografico – edafiche locali. Nel complesso la vegetazione toscana su base zonale e altitudinale può essere articolata come segue.

A. Piano basale

I. Formazioni forestali zonali di sclerofille sempreverdi.

1) Orizzonte delle boscaglie e delle macchie termofile;

2) Orizzonte forestale dei boschi sempreverdi e delle pinete litoranee.

II. Formazioni forestali zonali di latifoglie decidue.

3) Orizzonte dei boschi planiziari idrofili: pioppeti e frassineti, ontaneti, saliceti;

4) Orizzonte planiziario o collinare dei boschi acidofili a gravitazione occidentale di farnia, rovere, castagno, carpino bianco.

5) Orizzonte pedocollinare dei boschi mesoigrofili di neoformazione di robinia;

6) Orizzonte collinare dei querceti e degli ostrieti termofili;

7) Orizzonte alto-collinare dei boschi mesoigrofili di cerro, ostria, castagno e misti di varia composizione.

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B. Piano montano

8) Orizzonte inferiore delle faggete e delle abetine eutrofiche o acidofile;

9) Orizzonte superiore delle faggete microtermiche. C. Piano cacuminale

10) Orizzonte suffruticoso dei vaccinieti e dei ginepreti ipsofili. 1.4.1 – Vegetazione di sclerofille sempreverdi

La vegetazione di latifoglie sempreverdi trova la sua area di elezione nei territori soggetti a clima mediterraneo, mite in inverno e quindi compatibile con l’attività fotosintetica, caldo – arido in estate e quindi idoneo allo sviluppo vegetativo. Il freddo invernale costituisce un fattore limitante e selezionatore dei componenti flogistici mediterranei, l’aridità estiva un fattore di selezione delle specie secondo il grado di xerofilia. La forte intercettazione della luce operata dalle sclerofille limita notevolmente lo sviluppo della flora del sottobosco a poche specie sciafile. In senso altitudinale e latitudinale le formazioni sclerofilliche sono soggette a variazioni determinate da mutate condizioni termiche e pluviometriche. Verso l’alto si registra una graduale infiltrazione di specie decidue a ciclo vegetativo estivo più esigenti in fatto di umidità. Le principali formazioni forestali sempreverdi sono rappresentate dai boschi di leccio (fustaie e cedui), in genere densi, a struttura mono o bi-plana, con sottobosco sciafilo povero. Lungo la costa, in siti rocciosi ed aridi o su duna, si possono avere tipi eliofili, rappresentati da macchie e boscaglie termoxerofile. L’utilizzazione antropica delle formazioni sclerofille naturali ha determinato la comparsa di boschi cedui e di formazioni secondarie di degradazione, spesso più aperte ed xeriche per l’erosione e l’impoverimento del suolo. Fra queste sono da ricordare le fustaie più o meno rade di sughera, le macchie di diverso sviluppo in altezza, le garighe, le garighe arbustate o carburate con specie residuali delle precedenti formazioni forestali. L’ultima tappa della degradazione è rappresentata dal prato effimero stagionale di erbe annue a ciclo vernale. Da rilevare che dalla foresta di latifoglie sempreverdi si passa, nei tipi xerici, a formazioni di microfille o di aghifoglie meno impenetrabili alla luce e quindi floristicamente più ricche eliofite. Gli orientamenti attuali della selvicoltura

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dei boschi a dominanza di leccio stanno nell’avviamento all’alto fusto dei cedui, nella prosecuzione del governo a ceduo ma con turno più lungo, nelle combinazioni con l’attività zootecnica e nelle sperimentazioni di allevamento di ungulati. L’avviamento all’alto fusto dei cedui soddisfa soltanto a scopi genericamente conservativi perché dalle fustaie di leccio non si può ottenere legname da lavoro, migliori sono le prospettive per il pascolo, ma questo è limitato soltanto al periodo della ghianda. Tale avviamento può essere ottenuto per semplice invecchiamento o con tagli di diradamento. Mancando ogni necessità di selezione dei fusti i tagli di diradamento si giustificano principalmente come misura antincendio oppure per una occasionale raccolta di legna. La lecceta di alto fusto è un bosco di statura compresa fra i 15 – 25 m e composto da piante più o meno tozze e contorte. L’ombra al suolo permette la presenza di uno scarso sottobosco. Le altre specie sempreverdi possono sopravvivere solo ai margini e nelle radure a suolo più superficiale. Per i cedui mediterranei il periodo di interruzione dei tagli conseguenti alla crisi della legna da ardere è stato molto più lungo che per quelli di caducifoglie e la ripresa dei tagli su superfici significative si è verificata solo più di recente. L’accrescimento dei cedui a base di leccio è piuttosto lento. Pertanto i tagli che oggi si vanno eseguendo interessano popolamenti di 35 – 45 anni di età e di stazioni fertili. Dunque è verosimile che il nuovo turno da tenere come riferimento sia dell’ordine di almeno 30 anni e che un vasto insieme di boschi più scadenti resterà trascurato dal taglio .Il numero di matricine di alto fusto che si riservano è spesso relativamente alto a beneficio del pascolo o della selvaggina. Quando sono presenti, si preferiscono le piante di sughera che, poi, vengono sottoposte a decortica.

1.4.2 – Boschi planiziari e palustri

Per molti secoli le grandi pianure alluvionali toscane sono state il luogo di raccolta e di smaltimento delle acque delle zone collinari e montane. La bassa altitudine e le difficoltà di deflusso avevano determinato la formazione di laghi e paludi permanenti o temporanee. Il processo di trasformazione, che ha segnato tappe decisive negli ultimi due secoli, si è concluso con la scomparsa di ampie superfici lacustri e la forte contrazione delle aree palustri. In conseguenza della bonifica la

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vegetazione idrolitica e idrofila toscana delle aree planiziarie e palustri si è fortemente ridotta in superficie, non solo per lo sviluppo dell’agricoltura ma anche per i sempre più estesi processi di urbanizzazione che hanno interessato questi territori. Le formazioni boschive planiziarie sopravvissute alle bonifiche rivestono oggi un particolare interesse per il carattere relittuale che assumono come testimonianza di antichi ecosistemi un tempo ampiamente distribuiti sul territorio. La differenziazione della vegetazione forestale planiziaria dipende soprattutto dal grado di tolleranza alla sommersione parziale e totale ad opera delle acque e dai livelli raggiunti localmente dalle acque di falda. Un ulteriore causa di diversificazione è introdotta dalle caratteristiche delle acque (dolce, salate, più o meno eutrofiche, ecc.). Nella vegetazione forestale planiziaria occorre fare una distinzione tra quella soggetta alla sommersione permanente o stagionale della falda e quella semplicemente igrofila delle aree pianeggianti. La delimitazione dei boschi planiziari non è facile in quanto essi entrano in contatto, lungo i corsi d’acqua e nei compluvi, con boschi umidi di aree collinari e montane con i quali condividono spesso un certo contingente di specie igrofile. I boschi riparali ed i suoli alluvionali influenzati dai livelli di falda sono floristicamente inclusi nei

populetalia albea e salicatalia purpureae, ordini della classe querco-fagetea, quelli più spiccatamente palustri. In genere si tratta di boschi neutrofili e debolmente acidofili. I boschi di alcune aree planiziarie non palustri rientrano invece in altri sintaxa secondo le caratteristiche del substrato o l’ambiente climatico del territorio. Le ripisilve e boschi su suoli alluvionali influenzati dal livello della falda freatica rientrano nell’ordine populetalia albae.

1.4.2.1 – Boschi planiziari di latifogli miste

La composizione dei boschi planiziari varia molto secondo il tempo di permanenza delle acque affioranti. L’ontano nero è la specie arborea delle paludi quasi permanenti; anche il frassino meridionale tollera la sommersione delle radici, ma per un tempo minore. I pioppi hanno indubbie maggiori esigenze di respirazione radicale mentre, infine, l’olmo campestre e soprattutto la farnia sono le specie dei terreni alluvionali più elevati, che restano sommersi solo occasionalmente. L’esame

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delle componenti arboree dei boschi planiziari conduce alle seguenti osservazioni sulle diverse specie.

Ontano nero, è la specie più tollerante la sommersione. Con la ceduazione al turno di 25 – 35 anni si ottengano apprezzati tronchetti per lavori di artigianato.

Frassino meridionale, questa specie segna la differenza fra i boschi planiziari dell’Europa meridionale rispetto a quelli dell’Europa centrale mentre interviene il frassino maggiore. Resiste alla sommersione delle radici, ma vegeta bene su terreni freschi di qualsiasi natura anche se argillosi. Il legno è pregiato quanto quello del frassino maggiore. Nelle piantagioni dimostra una grande facilità di attecchimento.

Pioppo bianco (gattice), esige terreni con falda freatica poco profonda, ma non tollera la sommersione prolungata delle radici. E’ più frugale dei pioppi euro-americani, ma cresce meno ed ha una forma più ramosa. A 60 – 70 anni di età può raggiungere 60 cm di diametro. Legno ottimo e di antico uso nella falegnameria toscana.

Pioppo nero, forse ormai meno frequente rispetto alla sua forma ibrida euro-americana. I risultati di rapidissimo accrescimento che si riscontrano per alcuni cloni nella Pianura Padana non sono facili da ottenersi nel diverso ambiente pedoclimatico delle pianure toscane.

Farnia, una delle querce produttrici del pregiato legno di rovere. Propria delle pianure alluvionali dove caratterizza i boschi relativamente distanti dalle paludi, è tuttavia capace di risalite collinari e submontane sempre in impluvi o fondovalle anche con individui intermedi con rovere vera. Ottima specie per il rimboschimento dei terreni ritirati dalle colture anche per formare cedui composti.

Olmo campestre, ridotto a cespuglio dalla malattia della graziosi è tuttavia ancora in grado di riprodursi per seme e per polloni radicali. Frequentissimo nelle pianure alluvionali e in collina dove è immancabile nelle siepi di margine dei campi.

Fra le altre specie eventualmente esistenti nei boschi planiziali sono da aggiungere il cerro, il carpino bianco, il farnetto, la roverella e anche il leccio. Va da sé che non sono rare le invasioni di robinia. Il bosco ceduo di robinia ha le particolarità di migliorare il terreno con la lettiera, di arricchire il suolo di azoto, di mantenersi denso grazie al concorso dei polloni radicali che vengono emessi dopo ogni taglio

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e, infine di essere poco soggetto agli incendi. L’inconveniente maggiore sta nel lento accrescimento di diametro. Il legno è un ottimo combustibile, ma può essere impiegato anche per liste da pavimento e per mobili. In ambienti meno piovosi e su rocce carbonatiche si incontrano solo piccoli popolamenti di robinia di fertilità anche molto inferiore alla quarta classe. La robinia, poi, ritorna rigogliosissima a gruppi ai margini dei boschi planiziari e , talvolta, di impluvio. Ella è molto invadente, le invasioni da seme, molto di più per polloni radicali, sono molto aggressive nell’occasione di incendi o di tagliate nei boschi vicini tanto più quanto più il clima ed il terreno sono confacenti.

1.4.2.2 – Boschi alveali e ripari

Queste comunità vegetali si dispongono a fasce più o meno strette lungo i margini dei corsi d’acqua oppure sugli isolotti che emergono nel letto dei fiumi. Quella parte della vegetazione ripariale che rimane più prossima alle acque di magra dei fiumi (e che viene regolarmente sommersa dalle piene) è composta da specie rustiche ed arbustive di salici adattati al severo ambiente delle golene sassose: il salice purpureo ed il salice ripariolo. Questa cenosi si manifesta soprattutto lungo il Magra in Lunigiana, ma è presente qua e là sull’Appennino. Verso il margine dell’alveo, in un ambiente più tranquillo ed esposto a sommersioni più rare e di acque meno veloci, e su substrati di solito sabbiosi, vegetano gli alberi delle golene terrose: Salix alba con, eventualmente, il salice da ceste, Populus alba e Populus nigra. Infine, l’ontano nero, nonostante una sua certa specializzazione per i bordi delle paludi, appare come ospite anche dei boschi riparali fino a formare addensamenti di ontaneta che risalgano fino ai tratti incassati dei torrenti montani (circa 1000 m). I boschi di ontano bianco ed ontano napoletano, accumunati dalla dominanza di due specie appartenenti allo stesso genere, sono stati inclusi in una stessa categoria anche perché vegetano all’incirca alle stesse quote ed in ambienti ecologici affini. L’ontano bianco, per la sua natura di specie boreale, risulta limitato alle zone più piovose e fredde della Toscana settentrionale, in piccole superfici disgiunte talvolta puntiformi. Essi sono a copertura colma, più o meno invecchiati (ultimi tagli circa, 30 – 40 anni fa) che, attualmente, possono essere localmente considerati soprattutto sotto l’aspetto protettivo delle basse pendici incassate e

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degli impluvi oltre che sotto quello naturalistico per le regioni sopra esposte. L’altezza non supera i 10 m e il diametro dei polloni i 20 cm; esemplari isolati ad alto fusto raggiungo i 40 cm. L’ontano napoletano è stato introdotto dall’Italia meridionale nel secondo dopoguerra nei castagneti devastati dal cancro della zona dell’Abetone molto usato nel resto dell’Appennino per la sistemazione di frane e di scarpate stradali da 500 ad oltre 1000 m di altitudine di substrati sia silicatici che cartonatici. Fertilizzando il terreno, i popolamenti hanno spesso flora nitrofila come la robinia. Accrescimento rapido, incapace di diffondersi per polloni radicali, costituisce popolamenti poco infiammabili ma è soggetto a danni da gelicidio e da gelate precoci. Nell’ambito dei boschi alveali e ripari esistono localmente cenosi puntiformi, relitte ed impoverite di farnia, con o senza carpino bianco (querceto – carpineto a farnia). Il significato delle presenze di boschetti o di singoli alberi all’interno degli ’argini dei fiumi è contrastante. Da un lato c’e’ un indubbio e valido aspetto paesaggistico e, soprattutto, c’è un contributo al poco che rimane della fauna e della flora dei luoghi umidi. Per contro, le piene maggiori possono prelevare da questi boschetti grandi masse di detriti e addirittura sradicare alberi interi che poi vengono fluitati finché non vanno ad incastrarsi nelle arcate dei ponti od in altri luoghi critici intasando il corso delle acque e provocando o aggravando l’esondazione a monte. In Toscana i salici hanno avuto un certo significato economico come piante coltivate nei campi per la raccolta dei vinchi per legature rustiche e materiale d’intreccio. Boschetti di salici oppure di ontano nero erano tenuti allo stato ceduo in Versilia con produzioni di biomasse molto elevate. Attualmente il legno dell’ontano nero è considerato ancora di un certo pregio nella nostra regione perché serve per la fabbricazione di zoccoli, di forme per scarpe, ecc. Non risulta che ci siano più ontaneti coltivati; la raccolta del legno è limitata alle ceduazioni delle ontanete ripicole con turni piuttosto irregolari. I pioppi, in natura, occuperebbero quella porzione più esterna dell’alveo che in occasione delle piene maggiori rimaneva sommerso da acque calme che deponevano fertile limo. Oggi questa porzione di territorio è stata ampiamente modificata dalle colture agricole od anche dalle abitazioni ed è stata difesa dalle alluvioni tramite gli argini. Una volta perduto il loro luogo di vegetazione naturale, i pioppi sono stati reintrodotti, soprattutto un tempo, col pioppo bianco e, nella più recente forma di

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pioppeti specializzati, con ibridi euro-americani. Il pioppeto di pioppo bianco è una coltura molto caratteristica delle rive del Serchio, della pianura di Lucca e, sino ad una trentina di anni fa della Versilia. Tale coltura si esercita in piccoli appezzamenti dispersi lungo la parte esterna degli argini; il turno è di 25 – 35 anni. I turni dell’ordine dei 10 anni non sono applicati qui a causa della richiesta di tronchi di dimensioni non piccoli, della buona qualità del legno adatta a molti lavori artigianali e della minore velocità di sviluppo rispetto agli ibridi euro-americani del pioppo nero a causa delle condizioni ecologiche diverse.

Fig. 1.1: Salix alba.

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Fig. 1.3: Vegetazione ripariale.

Fig. 1.4: Populus nigra in fiore.

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Fig. 1.6: Isolotto alla pila del ponte di Castelfranco (28 marzo 2008).

1.4.3 – Boschi decidui acidofili mesofili

Queste tipologie boschive occupano in Toscana una superficie non indifferente, particolarmente nella parte appenninica. In prevalenza si riscontrano su substrati silicei (arenarie, scisti, verrucano), in località a piovosità consistente con scarsa o nulla siccità estiva. In genere occupano l’orizzonte submontano del piano basale appenninico, ma in presenza di umidità scendono anche a quote basse, nelle aree collinari e nei fondo-valle. Nella Toscana media esse si localizzano per lo più nei fondi valle e su substrati particolarmente permeabili e quindi lisciviati. Sul piano ecologico sono caratteri di questi boschi decidui la composizione flogistica acidofila il temperamento mesofilo, un clima senza eccessi di freddo e una buona disponibilità idrica del suolo. Nel sistema di classificazione fitosociologico essi sono compresi nell’ordine quercetalia roboris.

1.4.3.1 – Castagneti ed i querceti acidofili

Per molti secoli il castagno è stato ampiamente impiegato in coltura come pianta da frutto per l’alimentazione umana. La diffusione della coltura del castagno ha da tempo fatto sorgere interrogativi sul suo indignato; senza dubbio l’uomo è responsabile della straordinaria diffusione dei boschi puri di questa specie. Il problema si pone per i boschi da legno e per i boschi misti dove il castagno non è stato impiantato per la produzione del frutto, né sembra sia stato mai favorito rispetto ad altre specie dal legno più pregiato. I dati disponibili per l’area

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appenninica e toscana documentano la costante presenza del castagno nella regione sin da epoche pre-glaciale. In conclusione il castagno è con tutta evidenza una specie originaria dei nostri boschi mesofili che l’uomo ha notevolmente ampliato con la coltivazione. Il castagneto da frutto è formato da soprassuoli legnosi radi, con piante a chioma ampia, ramosa, spesso lasciate in vita fino a età vetusta, a volte sottoposte a potatura. Per consentire la raccolta del frutto i castagneti venivano tenuti sgombri dal sottobosco arbustivo, spesso falciati e ripuliti dal fogliame caduto, con conseguenze negative sulla fertilità del suolo e sulla stabilità dei versanti. Queste pratiche hanno notevolmente favorito l’acidificazione del suolo e lo sviluppo di una flora acidofila. Accanto ai castagneti da frutto sono sempre esistiti castagneti cedui anche a turno breve, per la produzione di paleria destinata ad usi agricoli o fustaie per la produzione di legname da lavoro. La crisi della coltura, conseguente alle mutate condizioni economiche e sociali delle popolazioni delle colline e delle montagne ha avviato in tempi recenti un processo di trasformazione dei castagneti da frutto in boschi da legno o di sostituzione con altre specie mediante coniferamento o rimboschimento. Alla crisi economica si sono aggiunti problemi fitosanitari (cancro della corteccia) che hanno determinato la conversione delle colture in ceduo da paleria o in fustaia. Nelle aree preappenniniche e appenniniche il castagneto occupa vaste superfici in formazioni arboree monospecifiche o coniferate, in lenta evoluzione verso tipologie vegetazionali più naturali di quelle fortemente antropizzate del passato. Le cure colturali al castagneto da frutto consistono in varie operazioni: potatura, concimazioni alle singole piante, rinfoltimenti con nuove piante innestate e nello sgombro nel terreno d’arbusti o da giovani piante di specie arboree che si possano essere insediate. Evidente è che questa ultima operazione può causare l’erosione, soprattutto nei castagneti che non abbiano il suolo coperto da un adeguato strato erbaceo. Nel ripristino dei castagneti da frutto si distinguono due tipi di intervento ben diversi tra loro. Col recupero del castagneto da frutto si riprendono semplicemente le cure colturali nel castagneto abbandonato; in questo caso, ovviamente, rimangono le varietà colturali esistenti in precedenza a meno di qualche nuovo innesto. La ricostituzione del castagneto da frutto, invece, consiste nel ringiovanimento e nella trasformazione di un popolamento di castagno di una

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qualsiasi struttura mediante il taglio a raso e, qualche anno dopo, mediante l’innesto dei polloni che ne derivano. Poi, per continue ulteriori cure, si arriva ad un castagneto dotato delle varietà ritenute più commerciabili o comunque desiderabili. Il ceduo di castagno, più che legna da ardere serve per produrre secondo le circostanze: paleria agricola, paleria per costruzioni e tutta una varietà di tronchi e tronchetti per lavori di artigianato. Pertanto, il turno dei cedui di castagno dipende molto dall’indirizzo commerciale dell’azienda e, inoltre, anche dalla fertilità perché dai cedui delle classi più scadenti è inutile cercare di ottenere tronchi grossi allungando il turno. I cedui a turno breve (12 – 16 anni), ordinati per la produzione di paleria sottile, sono chiamati paline. Nei cedui con turni di 18 – 24 anni o più, lo scopo di ottenere una combinazione produttiva comprendente travi e paleria grossa, è raggiunto non solo con il turno lungo, ma anche con uno o due indispensabili diradamenti che servono a stimolare l’accrescimento dei polloni migliori ed a raccogliere un prodotto anticipato di paleria sottile. La classe di fertilità dei boschi di castagno può essere definita sulla base dell’altezza media solo per i cedui. L’altezza media dei castagneti da frutto, infatti, è influenzata anche dalle capacità di sviluppo delle varietà e dalla potatura; ovviamente, a parità di caratteristiche stazionali, corrispondono analoghi risultati per le due forme selvocolturali. I popolamenti del sottotipo di impronta suboceanica si prestano ancora bene alla coltura da frutto perché, fra l’altro, essendo meno rigogliosi di quelli del castagneto mesofilo, producono minore massa da asportare con la potatura. In molti boschi di questo tipo la coltura per il frutto è abbandonata; in parte vi si esercita la ceduazione mentre per il resto sono attualmente in evoluzione. Alcuni comprensori di castagneto in cui prevaleva il tipo presente sono stati sostituiti con un pino marittimo o abete bianco oppure con pino laricio e, più recentemente, con douglasia.

La roverella è una delle specie forestali delle colline toscane. Partecipa a molti tipi di bosco misto, poi, avvalendosi della sua resistenza ai terreni aridi e superficiali, prevale nelle posizioni meno favorevoli dove il cerro e le altre latifoglie più esigenti non possono vegetare. In modo particolare, i querceti di roverella caratterizzano il paesaggio dei colli e dei poggi a substrato calcareo di vario tipo, accentuando la loro presenza nelle esposizioni soleggiate. Infine la roverella è anche tanto rustica

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da potere resistere all’estrema povertà dei terreni che derivano dalle rocce. La plasticità della roverella si manifesta con più fisionomie di popolamento: da quella di alto fusto fino alla boscaglia rada di quercioli e ginestre. La distribuzione altitudinale, rispetto a quella del cerro, è più ristretta all’ambito collinare (in genere sino a 600 - 700 m). Infatti le penetrazioni montane della roverella sono molto limitate, mentre verso il basso e verso il mare viene sostituita dalla vegetazione mediterranea nel ruolo di occupante dei rilievi più aridi. Ai cedui di roverella si applicano due sistemi selvicolturali tradizionali: il ceduo semplice matricinato e il ceduo composto. Il primo viene tagliato lasciando come minimo 60 matricine per ettaro che vengano rilasciate per un solo turno in più. Il secondo viene tagliato avvicendando un contingente di matricine di età tale da raggiungere dimensioni di piante di alto fusto. A partire dai boschetti e dalla pratica di lasciare piante di quercia sparse nei campi la roverella ha potuto, talvolta, rinnovarsi e diffondersi nei seminativi abbandonati creando nuovi boschi che, poi, sono stati trattati a ceduo. Si può dunque concludere che il turno attuale dei cedui di roverella delle due classi di fertilità più frequenti si colloca fra l’età di 25 e 35 anni. Il sistema a ceduo composto a turno lungo, poi, può essere ulteriormente pregiudizievole alla presenza della roverella perché un eventuale forte contingente di matricine può far perire per ombreggiamento molte ceppaie di querce mentre dalle ceppaie recise delle grosse matricine non si ha più ristoppio di polloni.

1.4.4 – Faggete e abetine

Le faggete sono quasi monospecifiche negli strati legnosi; floristicamente si possono considerare come una differenziazione profila e mesoigrofila dei boschi di latifoglie decidue, propria di un clima temperato – freddo, umido, senza o con moderata aridità estiva. La fisionomia delle faggete è quella di una foresta decidua densa di latifoglie a ciclo estivo il cui sviluppo dipende dalle forme di governo e di trattamento. In Toscana prevalgano i cedui matricinati e le fustaie, per lo più coetanee con trattamento a tagli successivi. In alcune zone è ancora presente il ceduo a sterzo. Il governo a ceduo è il sistema selvicolturale che ha la più lunga tradizione, ma dato che il faggio ha poca capacità di rigenerarsi per polloni, l’esperienza popolare ha suggerito diverse particolari forme di trattamento che

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avevano come base il taglio a breve ciclo. La maggioranza dei cedui veniva trattata a taglio raso con turni di 15 – 18 anni. La riserva di matricine poteva essere più o meno intensa e capace di dar luogo ad un certo grado di rinnovazione delle ceppaie. La pratica popolare, ritenuta più raffinata, era quella del ceduo a sterzo che consisteva nel tagliare il bosco a intervalli di 9 – 12 anni asportando solo i polloni più grossi ed avendo cura di non tagliare mai una ceppaia a raso. La conservazione della capacità di rigenerazione per i polloni era affidata anche al taglio praticato tanto in profondità nella terra fino ad estirpare la ceppaia in modo che i nuovi polloni nascessero dai monconi delle radici invece che dalla ceppaia stessa. Per rinfoltire il bosco, si procedeva alla propagazione del faggio per propaggine piegando dei polloni fino a terra e fissandoli con pietre o picchetti finché non avevano emesso radici. Da qualche decennio è in atto un processo di allungamento dei turni con frequenti conversioni a fustaia e conseguente aumento della biomassa. Il governo a ceduo, soprattutto in assenza di pascolo, favorisce forti densità del soprassuolo e composizioni floristiche povere. L’alto fusto determina invece, con la copertura alta, un aumento della consistenza dello stato erbaceo e una maggiore ricchezza floristica. L’abbondanza di lettiera è però in molti casi una limitazione allo sviluppo delle specie erbacee. Per questi motivi la faggeta è a volte povera di sottobosco e quindi floristicamente poco definibile. Per cause naturali la diversificazione flogistica delle faggete è determinata dalle variazioni altitudinali, dalla natura del substrato e dall’evoluzione del suolo, dall’inclinazione e dalla minore o maggiore disponibilità idrica del suolo.

Secondo la natura del suolo, ma anche dello stadio di evoluzione pedogenetica, le faggete europee sono in genere divise in tre gruppi:

1. faggete eutrofiche, su suoli con humus tipo mull, neutro o relativamente acido;

2. faggete acidofile, su suoli con humus tipo moder o moor; 3. faggete calcicole o sub neutrofile.

Il faggio in Toscana predomina nella fascia altitudinale che va dai 900 ai 1700 m dove iniziano le praterie di vetta o localmente i vaccinieti, costituendo così il limite superiore del bosco. Sulle montagne di quote inferiori il faggio arriva sino al crinale, salvo lasciare fasce strette e discontinue di praterie cacuminale. Negli

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ambienti montani della Toscana, cioè nella fascia di vegetazione del faggio, il clima ha delle ovvie differenze secondo la posizione dei rilievi rispetto al mare e secondo l’altitudine di massa. Sulle montagne del nord – ovest la piovosità è molto elevata con punte fino a 3000 mm annui. Invece sui rilievi minori e più interni la piovosità scende sino a 1200 – 1500 mm, mentre si fanno più frequenti i periodi siccitosi estivi che provocano sofferenze più o meno gravi alle piante e ai boschi di faggio. Nella porzione alta dei bacini imbriferi, che costituisce una zona particolarmente critica per il regime delle acque, il faggio interviene con spiccate attitudini a trattenere ed a rallentare il deflusso con la compattezza della sua chioma unitamente allo spessore della lettiera e dell’ humus che impartisce al suolo una struttura assai favorevole alla penetrazione e alla trattenuta dell’acqua.

L’abete bianco è certamente spontaneo nell’Appennino dove esso ha trovato un importante rifugio durante l’ultima glaciazione e dove ha avuto una estesa diffusione naturale fino a circa 3000 anni fa. Il suo successivo e marcato declino è attribuito all’azione dell’uomo oppure a cambiamenti del clima che avrebbero esaltato il potere di concorrenza del faggio. Le abetine della prima e seconda classe prevalgono alle quote intermedie e inferiori della fascia montana del faggio; in questa ristretta posizione ottimale, le abetine coetanee a turno di 100 anni producono da 800 a 1000 metri cubi di legname. Alle quote superiori e vicino ai crinali la mancanza di calore estivo deprime gli accrescimenti in altezza ai livelli della terza e quarta classe. Qui, inoltre, i danni da neve pesante o da altre meteore possono determinare danni o distruzioni tali da consigliare il ripristino della faggeta. Sulle Alpi il sistema colturale classico per i frequenti boschi contenenti l’abete bianco consiste nel trattamento a taglio saltuario con lo scopo di ottenere e mantenere un bosco a struttura disetanea, misto fra abete bianco ed abete rosso con, eventualmente, anche faggio o altre latifoglie opportune anche con larice e pino silvestre. Questo sistema ha buone possibilità di successo nelle località in cui il clima impedisce al faggio di svolgere in pieno la sua capacità di copertura. L’abete bianco è considerato un essenziale elemento equilibratore nel bosco misto disetaneo perché si rinnova in posizioni alternate rispetto alle altre specie e perché il novellame tollera bene e a lungo la copertura. Il sistema a taglio raso ha certamente un impatto visivo sensibile tanto più se è visto come sistema

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applicato su grandi superfici dove l’avvicendarsi delle tagliate dà luogo ad un panorama dove le pendici appaiano divise a tasselli squadrati composti dalle tagliate e da boschi di varia statura. Nelle tagliate a raso, fin tanto che la nuova piantagione non ha chiuso la sua copertura, si stabilisce un periodo di notevole grado di biodiversità vegetale e anche animale. Pertanto il suddetto sistema costituisce una pratica di produzione efficiente che entro certi limiti può essere tollerata.

1.4.5 – Boschi di origine artificiale

I soprassuoli artificiali che risultano perfettamente integrati e indistinguibili dalla vegetazione naturale sono assimilabili a questa. Un rimboschimento di faggio o di altre latifoglie spontanee diviene infatti assai presto una formazione indistinta nel contesto della vegetazione naturale.

Ben distinguibili sono invece i soprassuoli legnosi realizzati su suoli molto degradati, su tipi di vegetazione erbacee o basso arbustivi a lenta evoluzione.

1.4.5.1 – Pinete mediterranee

La vegetazione mediterranea più o meno degradata è stata spesso interessata da rimboschimenti con conifere, soprattutto pini mediterranei. I nuovi impianti hanno interessato superfici a macchia od a gariga che , nella nuova condizione, sotto copertura, si sono più o meno sviluppate, malgrado gli interventi colturali, in formazioni sclerofilliche dominate dal sopralluogo di conifere. Alcune di queste formazioni, denominate pinete, sono state oggetto di analisi vegetazionali e più o meno inserite nel sistema di classificazione fitosociologico. Le pinete di sostituzione, senza sottobosco legnoso, costituiscono invece aspetti vegetazionali diversi, secondo le condizioni climatiche del luogo, lo stadio di vegetazione presente al momento dell’impianto, la loro età e densità, gli interventi colturali esercitati. In alcuni casi la vegetazione naturale è stata quasi del tutto rimossa ed il sottobosco è formato solo da specie più pioniere erbacee o suffrutticose. In altri la vegetazione naturale legnosa non è stata molto impedita nel suo sviluppo, con formazione di strati dominati più o meno sviluppati ed evoluti. Sui litorali sabbiosi il mantenimento della vegetazione naturale è una condizione per conservare la fertilità del suolo. La vegetazione naturale però, soprattutto quella sclerofillica,

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impedisce la riproduzione dei pini e rende poco agevole anche il rimboschimento artificiale. In realtà in una visione naturalistica della selvicoltura l’impianto di una pineta dovrebbe costituire una forma rapida di rimboschimento atta a favorire la successiva affermazione della vegetazione naturale. In ogni caso le pinete di origine artificiale devono interpretarsi come formazioni antropiche sovrapposte a tipi di vegetazione naturale corrispondenti a stadi di degradazione.

1.5

Flora in riva d’Arno

Le acque dell’Arno, anticamente pescose e navigabili, si sono però storicamente dimostrate anche una notevole fonte di minacce dato che il fiume, negli ultimi seicento anni è straripato più di cinquanta volte, con conseguenze gravi, oltre che nel più vicino 1966, anche nel 1844. Il nome di alcune vie: via del Diluvio (oggi via Verdi), via Sguazza, via del Padule, è dovuto alla stretta relazione fra la città di Firenze ed il fiume. I venti più frequenti che influenzano il regime del fiume Arno a Firenze sono quelli provenienti da nord e nord – ovest (tramontana, maestrale) che scavalcano la barriera appenninica nei mesi invernali. Nel periodo estivo però prevalgano i venti provenienti da sud – ovest (libeccio). Nel bacino le precipitazioni atmosferiche sono generalmente distribuite nell’arco dell’anno in due periodi. Nel periodo compreso tra gennaio e maggio si hanno, di norma, precipitazioni abbondanti e relativamente regolari. Nel periodo tra ottobre e dicembre si manifestano spesso precipitazioni intense e rilevanti, ma irregolari. Nei restanti messi la piovosità è scarsa e luglio risulta essere il mese più arido. Il bacino del fiume Arno, come avviene per la maggior parte dei fiumi italiani, è caratterizzato da numerosi insediamenti civili, industriali ed agricoli. La vegetazione ripariale, soprattutto quando essa è naturale ed evoluta, è sicuramente importante, come è facile immaginare, da un punto di vista ecologico. Inoltre, cosa che forse per molti non è di immediata intuizione, assume anche un ruolo importante nella difesa idrogeologica e nella riduzione dell’inquinamento delle acque. Le associazioni riparie fungono sia da filtro meccanico, trattenendo i sedimenti, sia da filtro biologico contrastando i processi eutrofici e convertendo le sostanze inquinanti. Tornando al suo valore ecologico la vegetazione ripariale svolge un ruolo fondamentale per il nutrimento ed il rifugio della fauna ittica e dell’avifauna.

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Peculiare, infine, è la zonizzazione della vegetazione ripariale. Sempre comunque in maniera dipendente dal regime fluviale dai caratteri del terreno, dalla morfologia e dall’altezza delle sponde, vi si possono riscontrare in maniera più o meno marcata zone parallele al letto del fiume, con formazioni arboree, arbustive o erbacee. In via Villamagna a Firenze sono degne di nota alcune essenze arboree caratteristiche del bosco ripariale, ma che qui prosperano in un tratto di sponda spesso molto stretto e di conseguenza difficilmente godibile. Interessante è la presenza di alcuni esemplari adulti di Ontano, una specie che si manifesta molto sporadica presso le sponde comprese nel comune di Firenze. Il tratto di sponda che li alloggia è però, anche qui, molto angusto. Sicuramente da proteggere è la piccola popolazione di Scrophularia nodosa che si trova nella spiaggetta sabbiosa piuttosto ricca di specie tra le quali Tanacetume vulgare, alcuni giunchi e ciperaceae. Alle spalle della spiaggetta si trovano pioppi, acace ed ortica. Nelle “Direttive sui criteri progettuali per l’attuazione degli interventi in materia di difesa idrologica” della regione Toscana , approvata con Deliberazione C.R. n° 155 del 20 maggio 1997, vi è riportato che la vegetazione esistente deve essere mantenuta attiva, limitando gli abbattimenti ad esemplari ad alto fusto morti, pericolanti o costituenti un potenziale pericolo. I tagli della vegetazione in alveo devono essere effettuati nei periodi tardo – autunnale ed invernale, escludendo tassativamente il periodo marzo – giugno. Di seguito viene riportata “L’analisi delle categorie di uso del suolo del fiume Arno” in riferimento alla Legge 183/1989.

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Fig. 1.7: Analisi delle categorie di uso del suolo (tabelle e grafici 1).

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Fig. 1.9: Analisi delle categorie di uso del suolo (tabelle e grafici 3).

Fig. 1.10: Analisi delle categorie di uso del suolo (tabelle e grafici 4).

Infine, per una miglior osservazione della vegetazione in riva d’Arno, di seguito è riportato lo stralcio della “Carta della vegetazione forestale potenziale”, serie Boschi e macchie di Toscana, dove viene considerata, in senso temporale, a breve – medio termine per le aree attualmente boscate o colonizzate da arbusteti che preludono alla ricostruzione della copertura forestale. Il concetto di vegetazione forestale potenziale, qui adottato, non è quello tradizionale, cioè non coincide in tutto con quello comunemente inteso di vegetazione. In effetti sono stati ipotizzati non un’assenza futura di qualsiasi influsso antropico, bensì i presumibili interventi selvicolturali, concepiti secondo forme che assecondino gli equilibri e le naturali, spontanee tendenze evolutive della vegetazione.

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Fig. 1.11: Stralcio della “Carta della vegetazione forestale potenziale” – Regione Toscana.

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