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Capitolo 3. Concetti generali di trapiantologia.

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Capitolo 3.

Concetti generali di trapiantologia.

Il trapianto di tessuti ed organi umani è una delle più importanti conquiste ottenute in campo medico durante il secolo scorso.

L’impatto a livello sanitario e sociale è stato così improvviso che, nell’arco di poche decadi, il numero di strutture sanitarie dedicate alla trapiantologia è aumentato in modo esponenziale; di pari passo si è assistito ad un aumento dei pazienti in lista d’attesa: individui affetti da malattie acute o croniche un tempo inguaribili possono oggi beneficiare di una terapia specifica.

L’incremento delle attività di trapianto rappresenta uno dei principali obiettivi del Servizio Sanitario Nazionale; per raggiungerlo è necessario sostenere e promuovere attivamente la donazione che attualmente rappresenta la principale fonte utilizzabile per soddisfare, almeno in parte, le necessità dei pazienti in lista d’attesa.

Negli ultimi anni in tutti i Paesi industrializzati abbiamo assistito ad un progressivo aumento del numero di organi prelevati da donatori cadaveri; in Italia, anche grazie all’introduzione della normativa del “silenzio-assenso” riguardante la “Dichiarazione di volontà in ordine al prelievo di organi e tessuti” (L. 91/1999, Capo II)[10], siamo passati dai 329 donatori utilizzati nel 1992, a 1.098 utilizzati su 1.192 effettivi nel 2007, pari a 20.9 donatori effettivi per milione di popolazione (P.M.P) (Figure 6, 7 ed 8).

Questo risultato non solo colloca la nostra nazione al di sopra della media europea, che si assesta intorno a 18-19 donatori P.M.P., ma ci vede addirittura al terzo posto tra i Paesi della Comunità Europea, superati soltanto da Spagna e Francia.

Ulteriori iniziative hanno teso ad incrementare la donazione d’organo; se ne ricordano alcune puramente tecniche (utilizzo dei cosiddetti donatori “marginali”, impianto di parte del graft, espianto da donatore vivente) ed altre a carattere socio-amministrativo (campagne di sensibilizzazione degli operatori sanitari, coinvolgimento diretto dei presidi ospedalieri locali e delle Istituzioni, sensibilizzazione della popolazione).

Tuttavia, nonostante il trend positivo registrato in questi ultimi anni e le molteplici iniziative adottate, gli organi utilizzati in Italia soddisfano solo in parte la domanda e non

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sono affatto in grado di colmare il gap che si è ormai creato tra numero di donatori necessari e numero di donatori effettivi.

Per avere un’idea dell’entità del fenomeno basti pensare che nel 2007 i dati del Servizio Informativo dei Trapianti riportavano 9.794 pazienti in lista d’attesa; a fronte di tale numero nello stesso anno sono stati effettuati 3.035 trapianti d’organo solido di cui 314 in Toscana e di questi 282 a Pisa.

E’ quindi auspicabile che sempre maggiori iniziative vengano considerate per implementare le donazioni stante la notevole richiesta ad oggi insoddisfatta.

Al fine di poter valutare in modo completo ed esauriente il tema delle complicanze infettive nel paziente sottoposto a trapianto di organo solido, è necessario comprendere a fondo la complessità del problema-trapianto e soffermarsi brevemente sui principali concetti generali di trapiantologia su cui è importante far chiarezza prima di cimentarsi nello studio dell’argomento di tesi.

Inizierò ad esaminare in breve la terminologia, i vari modi in cui un trapianto può essere classificato ed i principi che guidano scelta e valutazione del donatore, senza che mai vengano meno i necessari riferimenti alle normative italiane vigenti. Alla fine del capitolo la breve valutazione di problematiche quali le reazioni di rigetto e la terapia immunosoppressiva sarà il ponte ideale che mi permetterà di introdurre, trattare ed approfondire nei capitoli successivi il complesso panorama delle complicanze infettive del paziente trapiantato.

Tabella 1: Tassi di sopravvivenza di graft e paziente ad 1 e 3 anni dal trapianto stratificati per tipo di graft impiantato.[256]

Tipo di graft Sopravvivenza del graft ad 1 anno Sopravvivenza del graft a 3 anni Sopravvivenza del ricevente ad 1 anno Sopravvivenza del ricevente a 3 anni Rene da vivente 94% 88% 98% 95% Rene da cadavere 88% 79% 94% 88% Pancreas 95% 90% 95% 89% Cuore 84% 78% 85% 79% Fegato 80% 71% 86% 80% Polmone 76% 58% 77% 59% Cuore-polmone 60% 42% 60% 45%

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Figura 6: Donatori utilizzati ed effettivi Italia - Anni 1992-2007 (Organizzazione Toscana Trapianti, Report 2007).

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3.1 Classificazione.

Il trapianto d'organo solido è un intervento chirurgico suddiviso in due fasi: il prelievo dell'organo da un soggetto detto donatore ed il successivo impianto dell'organo stesso in un soggetto detto ricevente, associato all’eventuale espianto dell'organo non funzionante in quest’ultimo.

La legge 91/99, “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti” vieta il prelievo delle gonadi (ovaie e testicoli), dell'encefalo e la manipolazione genetica di embrioni anche a fini di trapianto d’organo.

Con queste dovute eccezioni, teoricamente, qualsiasi organo o tessuto può essere prelevato da un donatore e trapiantato in un ricevente. In realtà, da un punto di vista pratico, gli

ORGANI SOLIDI che ad oggi vengono utilizzati per il trapianto sono i seguenti:  Rene;  Fegato;  Cuore;  Polmone;  Pancreas;  Intestino.

3.1.1 Tessuti e cellule.

La trapiantologia è una scienza medica in costante mutazione e rapido ampliamento: le conquiste tecniche ottenute hanno aperto strade sempre più differenziate amplificando lo spettro di possibilità che si schiudono di fronte al potenziale ricevente. Oltre ai trapianti d’organo solido esistono tipologie di trapianto differenti, ma spesso altrettanto utili al fine di ripristinare la funzionalità di strutture danneggiate da traumi o patologie: si tratta di trapianti di tessuti e di cellule, che vale la pena menzionare per questioni di completezza pur senza addentrarsi in dettagli che andrebbero oltre le finalità di questa tesi.

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Trapianto di tessuti.

Il trapianto di tessuti viene eseguito con finalità più propriamente “migliorativa” nei confronti della qualità della vita del ricevente piuttosto che “salvavita” come avviene invece per i trapianti d’organo e di cellule staminali.

Quando viene effettuato un intervento di sostituzione di tessuto è più corretto parlare di innesto piuttosto che di trapianto.

I tessuti che possono essere prelevati a scopo di innesto sono:  Cornea;

 Cute;

 Arterie, vene, valvole cardiache;  Ossa;

 Muscoli;  Tendini;

 Membrana amniotica.

Trapianto di cellule.

Il trapianto di cellule (tecnicamente si preferisce parlare di infusione) è una delle materie di studio e sperimentazione più all’avanguardia ed in rapida espansione nell’articolato mondo dei trapianti. Le cellule staminali, presenti in ogni organismo con la funzione di rigenerare e produrre nuovi tessuti sono, in questo ambito, le indiscusse protagoniste. A differenza della donazione di organi e tessuti, che avvengono con maggior frequenza da donatore cadavere, quella di cellule staminali avviene a partire da donatori viventi. Al fine del trapianto si preferisce utilizzare cellule staminali emopoietiche (CSE), progenitrici di tutte le linee cellulari ematiche, prelevate dal midollo osseo o dal sangue presente nel cordone ombelicale.[3]

Il trapianto di midollo osseo si è affermato nell’ultimo ventennio come terapia possibile, anche se talora non risolutiva, per neoplasie (leucemie e linfomi) e malattie non neoplastiche (talassemia, immunodeficienza congenita, anemia aplastica). Il soggetto in attesa di trapianto di midollo riceve, nei giorni precedenti l’intervento, un cosiddetto “regime di condizionamento” costituito da una terapia aggressiva che prevede farmaci citotossici, associati o meno a radioterapia, utilizzati a dosaggi sovramassimali che permettano di distruggere il tessuto emopoietico del paziente in modo irreversibile, non consentendo

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quasi mai un recupero ematologico spontaneo. Si viene quindi a creare una situazione di aplasia, ovvero di assenza totale di tessuto midollare con conseguente pancitopenia periferica.

Il regime di condizionamento serve a perseguire due scopi fondamentali nella procedura trapiantologica di midollo osseo:

• Eliminare le cellule malate creando un ambiente favorevole alle cellule sane che verranno infuse;

• Immunosopprimere il paziente, in modo da consentire l’attecchimento delle cellule staminali in assenza delle cellule effettrici di risposta-reazione immunitaria.

A 24-48 ore dal termine del condizionamento le cellule staminali vengono infuse, o “reinfuse” se si tratta di un trapianto autologo, in modo analogo ad una trasfusione di sangue.

Le nuove cellule vanno quindi ad occupare gli spazi rimasti vuoti nel midollo osseo ed iniziano a proliferare: per convenzione si definisce “attecchimento” il periodo, in genere 2-3 settimane, in cui granulociti neutrofili e piastrine nel sangue periferico superano stabilmente i valori rispettivamente di 500/mmc e di 25.000/mmc, livelli indicativi di ripresa midollare.[25]

3.1.2 Caratteristiche donatore-ricevente.

A seconda delle caratteristiche donatore-ricevente si possono distinguere le seguenti modalità di trapianto:

• Trapianto autologo (Autotrapianto): cellule, tessuti od organi prelevati da un paziente vengono trapiantati nello stesso individuo (trapianto di cute per riparare estese perdite di sostanza); si tratta di un tipo di intervento che elimina il rischio di rigetto e quindi l'esigenza di terapia immunosoppressiva.

• Trapianto allogenico (Allotrapianto): trapianto di cellule, tessuti od organi tra due individui diversi appartenenti alla stessa specie.

• Trapianto singenico (Isotrapianto): tipo di allotrapianto in cui il donatore ed il ricevente sono geneticamente identici (gemelli omozigoti); il sistema immunitario del paziente trapiantato riconosce come “self” l'organo ricevuto e non scatena nei suoi confronti alcuna risposta immunitaria.

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• Trapianto xenogenico (Xenotrapianto): trapianto di cellule, tessuti od organi tra individui appartenenti a specie diverse. La possibilità di trapiantare nell'uomo organi prelevati da altre specie animali viene considerata oggi come una delle possibili soluzioni alla sempre più drammatica discrepanza tra numero di donatori disponibili e numero di donatori necessari. L'ostacolo principale che finora ha impedito lo sviluppo di questo settore è rappresentato dalla violenta e rapida reazione immunitaria che porta alla perdita dell'organo immediatamente dopo l’impianto (rigetto iperacuto). La suscettibilità al rigetto iperacuto di uno xenotrapianto è legata a vari fattori: anticorpi naturali preformati, sistema del complemento e proteine che regolano l'attivazione dello stesso.[1]

3.1.3 Sito di impianto.

In base al sito di impianto i trapianti vengono distinti in:

• Trapianto ortotopico: l'organo viene ad essere posizionato nella normale sede anatomica previa eliminazione dell'organo malato (trapianto di fegato).

• Trapianto eterotopico: l’organo non più funzionante viene lasciato in situ e quello trapiantato viene allocato in una sede differente (trapianto di rene usualmente posizionato in fossa iliaca). Questo tipo di trapianto viene detto anche “ausiliario”.[1]

3.2 Il donatore di organi.

Il prelievo di organi a scopo di trapianto viene effettuato in massima parte da donatori cadaveri le funzioni vitali dei quali vengono sostenute artificialmente per mantenere il più a lungo possibile inalterate qualità e vitalità degli organi da trapiantare. Nonostante questo, assume un grande rilievo la possibilità di prelevare organi da donatori viventi a condizione di non mettere a repentaglio la vita del donatore stesso, allo scopo di ovviare al gap esistente tra richiesta ed offerta di organi e per diminuire i tempi d'attesa.[1]

Il tipo di donatore influenza direttamente sia la sopravvivenza del ricevente che quella dell'organo; i risultati migliori si ottengono per pazienti che ricevono un trapianto da gemello omozigote: dati recenti attestano per il trapianto di rene una sopravvivenza del 100% per organo e paziente a 5 anni dall'intervento; il paziente che riceve un rene da

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donatore vivente presenta una sopravvivenza a 5 anni del 90% ed un'emivita del graft di oltre 30 anni. Nel caso di trapianto di rene da donatore cadavere la sopravvivenza del ricevente a 5 anni dall'intervento è dell'81%, con un'emivita del graft di circa 14 anni.[5]

3.2.1 Il donatore vivente.

”Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume.” (ITALIA, Codice Civile, Libro I, art. 5: Atti di disposizione del proprio corpo).

Da un punto di vista tecnico-scientifico le più recenti conquiste in ambito medico-chirurgico rendono possibile espiantare organi differenti da donatore vivente: rene, polmone, corpo-coda del pancreas, intestino, segmenti epatici sono tutti esempi di strutture prelevabili da soggetto vivente senza comprometterne significativamente l’aspettativa di vita.

Nonostante questo, la legge italiana (in particolare tramite il sopraccitato art. 5 del Codice Civile) non permette la volontaria donazione di organi da parte di un individuo vivente a causa della “diminuzione permanente dell’integrità fisica” che l’espianto provocherebbe.

In deroga al divieto sancito dall’art. 5 del Codice Civile in Italia sono state promulgate finora due leggi che consentono l’espianto di rene e parte di fegato da donatore vivente. La legge n. 458 del 26 giugno 1967 permette di disporre a titolo gratuito del rene al fine di trapianto tra persone viventi; l’atto di disposizione e destinazione dell’organo in favore di un determinato paziente viene sottoposto al giudizio di un pretore che valuta il donatore per quanto attiene a capacità di intendere e di volere, conoscenza dei limiti della terapia trapiantologica e delle conseguenze personali che la donazione comporta ed alla volontà all’atto che deve essere libero, spontaneo e gratuito.[11]

La legge n. 483 del 16 dicembre 1999 allarga la deroga all’art. 5 del Codice Civile al trapianto di parte di fegato tra persone viventi a titolo gratuito, mantenendo per l’attuazione della procedura le stesse disposizioni della legge 458/67.[12]

Come già accennato il trapianto da vivente comporta notevoli vantaggi rispetto al trapianto da cadavere: l’intervento può essere eseguito in tempi programmati e, nel caso del rene, può essere effettuato secondo un protocollo cosiddetto pre-emptive, cioè già prima che il ricevente inizi il trattamento dialitico. Inoltre lo screening del donatore vivente dispone di tempi maggiori, non essendo vincolato dai ristretti limiti di tempo che condizionano quello

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del donatore cadavere permettendo approfondimenti più accurati; spesso si riducono anche i tempi d’attesa, con positive ripercussioni sullo stato di salute psicofisico del ricevente; infine, nel caso di un trapianto tra consanguinei, la reazione di rigetto è spesso meno intensa grazie alla migliore compatibilità HLA. Chi dona un organo è però esposto a rischi per la propria salute. La donazione da vivente è l'unico caso in medicina in cui un soggetto sano viene sottoposto ad un intervento di chirurgia maggiore[6]: l'operazione chirurgica in sé, nonostante la grande esperienza dei centri specializzati, non è scevra da complicanze riguardanti anestesia, emorragie ed infezioni. Questi rischi non sono identici per ogni organo prelevato: infatti il prelievo del rene risulta nettamente più sicuro rispetto all'espianto di parte di fegato. Il rischio di decesso in seguito alla donazione è comunque minimo; studi internazionali riportano una mortalità del donatore dello 0.03% dopo donazione di rene,[15] e dello 0.2% dopo donazione di parte di fegato.[16]

Un ulteriore rischio per il donatore consiste nella diminuzione della capacità dell'organo o della parte d’organo rimanenti di compensare eventuali deficit funzionali, traumi o patologie che possono insorgere in seguito.

Paradossalmente in alcuni studi recenti è stato osservato come donatori viventi di rene godano di un'aspettativa di vita addirittura superiore rispetto alla popolazione di controllo: questa osservazione sembra trovare spiegazione nel fatto che i donatori sono individui sani, in genere giovani, che vengono sottoposti a controlli medici ravvicinati e prolungati nel tempo al fine di diagnosticare precocemente e trattare tempestivamente qualunque condizione patologica eventualmente insorgente.

3.2.2 Il donatore cadavere.

Nel VII secolo, Celso scrisse “…Democrito, un uomo di ben meritata celebrità, ha dichiarato che, in realtà, non c'è nessuna sufficientemente certa caratteristica della morte su cui il medico possa basarsi.”[14] Così come la morte è un concetto estremamente difficile da accettare, allo stesso modo definire e comprendere scientificamente il momento esatto della morte di un individuo è stato a lungo oggetto di intensi dibattiti sia da un punto di vista scientifico che etico. Nel XVII secolo in Germania molti neonati morivano prima ancora di essere battezzati: secondo le credenze religiose dell’epoca il mancato battesimo faceva sì che le anime di tali bambini vagassero per l’eternità senza trovar pace. Per questo i corpi apparentemente senza vita venivano trasportati all’interno di chiese od altri luoghi sacri ove venivano attentamente esaminati alla ricerca di “segni di vita”: una piuma sulle labbra poteva cogliere un lieve respiro, oppure gli occhi o le dita potevano mostrare minimi movimenti. Il

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rilevamento di questi “miracoli” permetteva di battezzare in fretta i bambini prima di seppellirli.[47]

Ancora oggi i “segni di vita” vengono ricercati scrupolosamente, seppure con metodi estremamente differenti: la possibilità di effettuare trapianti da donatori cadavere ha portato all’esigenza medico-legale di una definizione univoca del concetto di morte e dei criteri per identificarla, presupposto indispensabile per permettere il prelievo di organi e tessuti a fini terapeutici.

Per dichiarare il decesso di un individuo la morte cerebrale è un criterio ormai accettato in maniera pressoché unanime dalla pratica medico-legale: l’irreversibilità delle lesioni è stata dimostrata nel 1959 da Mollaret, che descrisse per la prima volta la massiva lisi cellulare delle strutture encefaliche di pazienti in stato di coma prolungato la cui funzione respiratoria era mantenuta in maniera artificiale. Mollaret definì le condizioni di tali soggetti con il termine di “coma depassé”: stato oltre il coma.[1]

Se la morte si identifica quindi con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche è necessario però distinguere tra: morte per arresto cardiaco, in cui l’intervallo di tempo trascorso dalla cessazione delle funzioni respiratoria e cardiocircolatoria comporta la perdita irreversibile della totalità delle funzioni cerebrali (cadavere a cuore fermo), e morte per patologie encefaliche con mantenimento delle funzioni respiratoria e cardiocircolatoria attraverso misure rianimatorie (cadavere a cuore battente).[13]

Sebbene l’espianto di molti organi e tessuti sia possibile da entrambi i tipi di cadavere, i donatori cadavere a cuore battente rappresentano, per la maggior parte dei Centri Trapianti, la fonte principale da cui prelevare reni, polmoni, fegato e pancreas, e l’unica fonte possibile per quanto riguarda il cuore.

L’attività dei trapianti ha imposto in Italia un continuo adeguamento della legislazione; dopo il codice Zanardelli che nel 1889 sanciva il rispetto e l’inviolabilità del cadavere, solo nel 1957 venne approvata per la prima volta una legge che determinava la liceità del prelievo di parti di cadavere a scopo terapeutico; da quel momento in poi numerosi provvedimenti legislativi, tra cui deroghe e revisioni, si sono focalizzati soprattutto su due punti particolarmente delicati della trapiantologia, quali l’identificazione dei criteri per l’accertamento della morte e la regolamentazione dell’attività di prelievo e trapianto di organi e tessuti.

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Accertamento della morte.

La legge 578/93 ha stabilito in maniera definitiva i criteri per l’accertamento e la certificazione della morte. Secondo la suddetta legge “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.[13]

L’accertamento della morte è effettuato da un collegio medico (Collegio per l’Accertamento della Morte, CAM) nominato dalla direzione sanitaria e composto da un medico legale o, in assenza, da un medico di direzione sanitaria o da un anatomopatologo, da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un neurofisiopatologo o, in assenza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia.

Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 582 del 22 agosto 1994 ha regolamentato le modalità per l’accertamento stesso e per la certificazione della morte.

L’accertamento della morte per arresto cardiaco può essere effettuato attraverso il rilievo grafico continuo dell’elettrocardiogramma che attesti mancanza di attività cardiaca per non meno di 20 minuti.

Invece la morte per cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo si considera avvenuta quando coesistano le seguenti condizioni:

 Stato di incoscienza;

 Assenza di riflessi del tronco cerebrale, in particolare: riflessi corneale, fotomotore, oculo-cefalico, oculo-vestibolare, carenale ed infine assenza di reazione a stimoli dolorosi nel territorio di innervazione del nervo trigemino;

 Assenza di respirazione spontanea fino al raggiungimento di ipercapnia accertata di 60 mmHg con pH ematico <7,40 dopo sospensione della ventilazione artificiale;  Silenzio elettrico cerebrale documentato per almeno 30 minuti da EEG basale e

sotto stimolo.

Il Decreto fissa il momento della morte con l’inizio della presenza simultanea delle condizioni appena descritte, che debbono rimanere tali per un periodo non inferiore a 6 ore negli adulti e nei bambini di età superiore ai 5 anni, a 12 ore nei bambini di età compresa tra 1 e 5 anni; ed a 24 ore nei bambini di età inferiore ad 1 anno.

In tutti i pazienti che hanno subito un danno cerebrale di tipo anossico il periodo d’osservazione non può iniziare prima di 24 ore dal momento dell’insulto stesso.

Inoltre si rende necessario rilevare l’evidenza strumentale di assenza di flusso ematico cerebrale in situazioni particolari: bambini di età inferiore ad 1 anno, pazienti sotto l’effetto

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di farmaci depressori del sistema nervoso centrale, in ipotermia o con alterazioni endocrino-metaboliche.

La persistenza delle condizioni che hanno portato alla dichiarazione di morte cerebrale deve essere verificata per almeno tre volte dal collegio medico incaricato: all’inizio, a metà ed al termine del periodo d’osservazione.[1]

Regolamentazione dell’attività di prelievo e di trapianto.

La legge 91/99 disciplina l’attività dei trapianti secondo modalità tali da assicurare il rispetto dei principi di trasparenza e di pari opportunità tra i cittadini, stabilendo criteri di accesso alle liste d’attesa secondo parametri clinici ed immunologici e criteri di assegnazione in base all’urgenza ed alla compatibilità immunologica donatore-ricevente.

La suddetta legge prevede che i cittadini siano tenuti a dichiarare la loro libera volontà in ordine alla donazione di organi e tessuti successivamente alla morte e sancisce che la mancata dichiarazione di volontà è considerata assenso alla donazione.

Per quanto riguarda i minorenni la dichiarazione di volontà è manifestata dai genitori esercenti la patria potestà; in caso di disaccordo tra i due non è possibile procedere alla donazione.

Quando una legge affronta tematiche importanti come la composizione delle liste d’attesa, i criteri di allocazione degli organi, la donazione e la selezione dei riceventi, è chiaro come inevitabilmente ci si trovi a dover affrontare anche l’aspetto etico della materia, ma è altrettanto chiaro come le molteplici sfaccettature della stessa inseriscano il provvedimento legislativo all’interno di un framework estremamente articolato. In questo senso l’invito rivolto ai cittadini a decidere sulla donazione dei propri organi dopo la morte presenta anch’essa importanti implicazioni etiche, civili e sociali. Il provvedimento, tuttavia, interpretando le necessità della comunità e dell’individuo, si pone come primo strumento informativo per la popolazione in ordine al problema trapianto e, come atto dovuto di ogni società civile, conferisce ad ogni cittadino la responsabilità e la possibilità di esprimersi in vita sulla donazione di organi e tessuti pur non rappresentando alcun obbligo per l’individuo stesso.

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3.3 Valutazione pre-operatoria e sicurezza biologica.

Il donatore cadavere individuato dal coordinamento locale del sistema trapianti deve essere correttamente valutato al fine di escludere la presenza di condizioni patologiche che, minacciando potenzialmente la vita dell’eventuale ricevente o riducendo la vitalità ed efficienza degli organi da trapiantare, ne controindichino l’utilizzo a scopo trapiantologico. Intuitivamente è chiaro come da un punto di vista etico sia auspicabile utilizzare soltanto organi sani e funzionanti provenienti da donatori giovani, tuttavia, in un contesto caratterizzato dalla permanente scarsità di organi, negli ultimi anni si è iniziato a prelevare ed impiantare anche organi di donatori anziani, spesso con funzione ridotta e talora affetti da patologie capaci di danneggiare il graft, ad esempio organi provenienti da donatori affetti da diabete mellito.

In questo caso si parla di organi provenienti da cosiddetti “donatori marginali” o “subottimali”.

Il trapianto di un organo subottimale comporta un’aspettativa di vita del graft e del ricevente inferiori rispetto ad un organo proveniente da un donatore “ottimale”. Emerge dunque la questione etica su quale tipologia di paziente debba vedersi attribuiti organi non perfettamente funzionanti: l’associazione Eurotransplant ha previsto ad esempio un programma di attribuzione preferenziale di reni subottimali a pazienti anziani ed in lista d’attesa da lungo tempo.

Oltre alle patologie sistemiche o d’organo ed all’età avanzata è importante valutare anche la sicurezza biologica del donatore. Le principale malattie trasmissibili da donatore a ricevente sono infezioni e neoplasie la cui presenza riveste un ruolo determinante sulla decisione di utilizzare o meno un determinato donatore: tra le controindicazioni assolute al trapianto vi sono infatti infezioni attive e non controllabili, presenza di anticorpi anti-HIV ed anamnesi positiva per pregressa neoplasia eccezion fatta per: tumori del SNC con bassa tendenza alla metastatizzazione (in base al grado WHO); carcinomi in situ a livello di qualunque organo; basaliomi; carcinomi spinocellulari cutanei senza evidenti metastasi; carcinomi uroteliali papilliferi (T1a secondo la classificazione TNM); carcinomi con potenziale metastatico particolarmente basso; carcinomi follicolari della tiroide minimamente invasivi e carcinomi papilliferi capsulati della tiroide.

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3.3.1 Valutazione del donatore.

Durante il periodo di osservazione nel quale il Collegio di Accertamento della Morte (CAM) opera le rilevazioni che gli competono, il Coordinatore Locale del Centro Trapianti si occupa di valutare la sicurezza biologica del donatore e di salvaguardare la funzione degli organi che eventualmente saranno prelevati. Il monitoraggio emodinamico necessita di particolare attenzione al fine di garantire perfusione ed ossigenazione degli organi, valutate attraverso il controllo cruento della pressione arteriosa sistemica e della pressione venosa centrale. Se necessario debbono essere somministrati liquidi e plasma-expanders; si può ricorrere anche all’infusione di dopamina a dosaggi non superiori ai 5-10 µg/kg/min poiché dosaggi maggiori, provocando vasocostrizione del circolo splancnico, rischierebbero di diminuire la perfusione renale. E’ inoltre importante valutare la funzione respiratoria e l’equilibrio acido-base attraverso l’esecuzione di ripetute emogasanalisi, monitorare la diuresi, misurare la temperatura corporea tramite sonde termometriche poste in faringe o nel retto, e controllare lo stato metabolico attraverso esami ematochimici ripetuti (test coagulativi, emocromo, elettroliti, glicemia, etc.).

In questo stesso intervallo di tempo si effettua la tipizzazione AB0 ed HLA del donatore in base alla quale si scelgono i riceventi più idonei: tanto maggiore è il numero degli alleli condivisi tra donatore e ricevente, tanto migliore sarà la sopravvivenza del graft. Per meglio definire la compatibilità HLA si effettua anche il cross-match: incubando i linfociti del donatore con il siero del ricevente si valuta la possibile presenza di anticorpi linfocitotossici naturali diretti contro antigeni HLA del donatore che potrebbero condizionare la comparsa di una reazione di rigetto iperacuto al momento del trapianto.

La valutazione del donatore comprende inoltre: dati anamnestici ricavati dalla cartella clinica e dal colloquio con i parenti, esame obiettivo, test sierologici (VRDL, HIV, CMV, EBV, HSV, VZV, HTLV, HBsAg, anti-HBs, HCV), emocolture ed urinocolture, metodiche di diagnostica molecolare organo specifiche (ad esempio ricerca del genoma di Toxoplasma gondii nei donatori di cuore) o basate su particolari considerazioni epidemiologiche (donatori provenienti da zone ad alta endemia per Histoplasma capsulatum o per malattia di Chagas), esami strumentali (radiografia del torace, ecografia dell’addome, ecocardiogramma, TAC e RM di sedi differenti), biopsie ed esame istologico/citologico di organi o lesioni sospette ed eventuale ispezione chirurgica. In situazioni particolari è consigliabile anche richiedere una “second opinion” da parte di medico esperto nel campo dei trapianti.

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I tempi nei quali queste valutazione vengono eseguite sono gli stessi che il CAM impiega per l’accertamento e la certificazione della morte: 6 ore per pazienti adulti e bambini di età superiore a 5 anni, 12 ore per bambini di età compresa tra 1 e 5 anni e 24 ore per bambini di età inferiore ad 1 anno, e possono essere troppo ristretti per assicurare la sicurezza biologica del ricevente. Inoltre nessun test od esame strumentale a nostra disposizione gode di sensibilità e specificità prossime al 100%. Ne deriva che non è possibile ottenere una percentuale di rischio biologico pari a zero per il ricevente e, per quanto i test di valutazione del donatore possano migliorare e divenire sempre più rapidi ed accurati, è al momento impensabile che il trapianto d’organo possa diventare in tempi brevi un intervento assolutamente scevro dal rischio di trasmissione di patologie, ed in particolar modo di infezioni. Ciononostante il rischio standard di base rimane basso, e tale dato ha portato ad includere tra i donatori cosiddetti “marginali” anche pazienti affetti da patologie trasmissibili con aumento calcolato del rischio biologico stesso.

La valutazione microbiologica del donatore in relazione al rischio di trasmissione di infezioni al ricevente sarà trattata in modo più completo nei prossimi capitoli.

3.3.2 Valutazione del ricevente.

Il tipico paziente candidato al trapianto d’organo è un individuo affetto da patologia che abbia determinato la disfunzione irreversibile di uno o più organi trapiantabili.

Per ogni organo esistono criteri specifici che permettono l’inclusione o l’esclusione di un dato paziente in lista d’attesa; sulla base dei risultati delle analisi e delle valutazioni effettuate l’equipe medica del Centro Trapianti decide se il trapianto sia l’unica terapia possibile per il paziente tenendo conto di: prospettive di successo, eventuali complicanze, conseguenze mediche, sociali e psicologiche, compliance del paziente alla terapia immunosoppressiva long life ed ai controlli clinici, ematobiochimici e strumentali programmati ad intervalli stabiliti.

Una volta che il paziente è stato incluso in lista, i dati necessari all’attribuzione (tipo di graft, gruppo sanguigno, tipizzazione HLA, età, altezza, peso, etc.) vengono memorizzati tramite il SIT, che consente di accelerare la procedura di gestione delle liste stesse.

Poiché gli organi prelevati in ciascuna regione od aggregazione interregionale vengono prioritariamente assegnati ai pazienti iscritti nelle liste d’attesa dell’area servita e poiché non tutte le aree hanno la stessa percentuale di donazioni P.M.P., al fine di garantire equità delle prestazioni, ad ogni paziente è offerta la possibilità di iscriversi nella lista d’attesa di uno dei Centri Trapianti della regione di residenza e di un differente Centro Trapianti del territorio

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nazionale scelto dal paziente stesso. Inoltre, se la regione di residenza registra un numero di donazioni inferiore a 5 donatori P.M.P., il paziente può iscriversi, oltre che nel Centro dell’area di residenza, in due altri Centri di sua scelta.[17]

3.4 Prelievo multiorgano.

La tecnica del prelievo multiorgano consente di prelevare più organi da uno stesso donatore così da aumentare in maniera considerevole il numero dei trapianti effettuabili pur mantenendo inalterato il numero dei donatori.

L’intervento deve essere rapido e di durata prevedibile al fine di permettere una sincronizzazione dei vari Centri Trapianti che possono utilizzare organi differenti provenienti da un singolo donatore.

Dopo ampia incisione giugulo-pubica con sternotomia si preparano e si isolano i principali vasi arteriosi e venosi che dovranno essere asportati insieme ai rispettivi organi. L’aorta e la vena cava inferiore vengono chiuse distalmente rispetto ai vasi renali, quindi viene posizionato un catetere entro l’aorta stessa per infondere soluzioni adatte alla conservazione degli organi. Contemporaneamente all’arresto dell’attività cardiaca, ottenuto infondendo una soluzione cardioplegica entro le coronarie, viene iniziata la perfusione degli organi addominali con soluzione fredda (4°C), utilizzando il catetere precedentemente posto in aorta. Esistono differenti tipi di soluzioni adatte per la perfusione degli organi: le più utilizzate sono la soluzione di Belzer (soluzione idroelettrolitica contenente il lattobionato, molecola incapace di attraversare l’endotelio) e la soluzione di Collins (soluzione iperosmolare ad elevato contenuto di glucosio).

Con la sospensione dell’attività cardiaca inizia il periodo di ischemia cosiddetta “fredda” degli organi del donatore, che si concluderà dopo il reimpianto con la rivascolarizzazione degli stessi tramite anastomosi del peduncolo vascolare del graft con i vasi del ricevente. L’ischemia fredda e quindi l’assenza di ossigeno interrompono la produzione di energia da parte delle cellule con conseguente arresto metabolico. L’assenza di ATP provoca il blocco della pompa Na+/K+ con l’inesorabile conseguenza della penetrazione di Na+ e di H

2O

all’interno delle cellule. L’utilizzo di adeguate soluzioni ad elevata concentrazione di elettroliti e molecole incapaci di diffondere attraverso il doppio strato lipidico della membrana crea un ambiente iperosmotico extracellulare che rallenta la tendenza all’edema cellulare. Esiste una diversa suscettibilità al danno provocato dall’ischemia fredda: l’organo

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più resistente è il rene che può essere trapiantato con successo anche 24 ore dopo il prelievo; al contrario il cuore è l’organo che resiste peggio all’insulto ischemico e deve essere trapiantato entro 4 ore dal prelievo.[1]

3.5 Immunobiologia del trapianto.

Il rigetto è la conseguenza della normale attività di difesa, operata dal sistema immunitario dell’individuo nei confronti di antigeni non self, che si realizza attraversi i meccanismi propri dell’immunità umorale, mediata da anticorpi prodotti dai linfociti B, e da quelli propri dell’immunità cellulare sostenuta dai linfociti T. Mentre l’immunità cellulomediata svolge un ruolo principale nel rigetto di organi allogenici, l’immunità umorale gioca un ruolo determinante nel trapianto xenogenico. Infine, analogamente alla quasi totalità delle risposte immunitarie, anche la reazione di rigetto è dotata di memoria: un trapianto tra due individui appartenenti alla stessa specie, ma geneticamente diversi (allotrapianto), viene rigettato dal ricevente entro 7-10 giorni (rigetto primario), mentre un secondo trapianto tra i due stessi individui viene rigettato entro 2-3 giorni (rigetto secondario).

I segni e sintomi che debbono far nascere il sospetto di una reazione di rigetto sono rappresentati da febbre, sintomatologia simil-influenzale, ipertensione arteriosa, edema od incremento del peso corporeo, tachicardia e tachipnea. Possono inoltre concomitare alterazioni degli indici specifici di funzione dell’organo trapiantato: creatinina per il rene, ALT, AST, ALP per il fegato ed amilasi per il pancreas. L’aumento sierico di questi enzimi è spesso un marcatore tardivo poiché si estrinseca solo dopo che l’infiltrazione di cellule infiammatorie nel parenchima ed il danno d’organo si sono già prodotti, ma rappresenta comunque indicazione per l’esecuzione di biopsia del graft, unica procedura che consenta la diagnosi di rigetto.[2,26]

Il tempo intercorso tra trapianto e rigetto, il meccanismo immunologico coinvolto e, soprattutto, le caratteristiche del quadro anatomo-patologico sono i criteri utilizzati per classificare la reazione di rigetto in iperacuta, acuta e cronica.

3.5.1 Rigetto iperacuto.

Il rigetto iperacuto si realizza entro pochi minuti dalla rivascolarizzazione dell’organo trapiantato e consiste nella rapida occlusione trombotica del sistema vascolare dell’organo

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stesso. Da un punto di vista fisiopatologico il rigetto iperacuto è prodotto da anticorpi preformati rivolti verso l’endotelio capaci di attivare la cascata del complemento con successiva attivazione del sistema emocoagulativo e conseguenti trombosi ed ischemia fino alla necrosi dell’organo trapiantato. Gli anticorpi preformati o naturali rappresentano probabilmente la risposta ad antigeni polisaccaridici presenti sulla superficie di batteri che colonizzano l’apparato digerente e sono generalmente rivolti contro gli antigeni del gruppo sanguigno AB0 o del sistema maggiore di istocompatibilità MHC. Gli anticorpi contro le molecole MHC possono inoltre comparire a seguito di multiple emotrasfusioni, ripetute gravidanze o precedenti trapianti

Il problema del rigetto iperacuto sostenuto da anticorpi anti-AB0 è stato risolto selezionando un ricevente compatibile con il donatore; per quanto attiene l’istocompatibilità MHC il cross-match permette di individuare questi anticorpi e quindi di evitare il rischio di rigetto iperacuto.

3.5.2 Rigetto acuto.

Si tratta della forma più comune di rigetto e si verifica con maggiore frequenza nei primi 6 mesi dopo il trapianto. In base al quadro anatomopatologico distinguiamo: rigetto acuto vascolare e rigetto acuto cellulare.

Rigetto acuto vascolare.

Il rigetto acuto vascolare è mediato da anticorpi di classe IgG rivolti contro gli alloantigeni delle cellule endoteliali ed è caratterizzato dalla necrosi fibrinoide delle arterie e delle arteriole in presenza di un modesto infiltrato di elementi mononucleati, in particolar modo linfociti T e macrofagi. Tecniche di immunofluorescenza hanno dimostrato la presenza di depositi di immunoglobuline, fibrina e complemento nella parete dei vasi con una distribuzione molto simile a quella rilevabile in altri tipi di arterite necrotizzante.

Rigetto acuto cellulare.

Il rigetto acuto cellulare é caratterizzato da necrosi parenchimale e dalla presenza di un importante infiltrato cellulare linfocitario e macrofagico che interessa il parenchima dell’organo trapiantato.

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Diverse evidenze sperimentali indicano nella sottopopolazione dei linfociti T citotossici, caratterizzati dall’espressione della proteina di membrana CD8, le cellule effettrici della lisi dell’allotrapianto. L’attivazione dei CD8+ avviene ad opera di un’altra sottopopolazione di linfociti T, detti helper, che si caratterizzano per l’espressione del CD4.

I linfociti CD4+ del ricevente a loro volta sono attivati dalle cellule presentanti l’antigene contenute nell’organo trapiantato (Antigen Presenting Cells, APC); il network delle citochine (in particolare IL-2 e 4) è essenziale per l’interazione tra questi differenti tipi di cellule coinvolte.

La distruzione delle cellule bersaglio del graft ad opera del linfocita citotossico avviene attraverso due vie: liberazione di granuli contenenti perforina capaci di creare canali transmembrana che permettono l’ingresso di ioni ed acqua con conseguente edema cellulare e lisi osmotica, ed il legame con le proteine FAS di membrana delle cellule bersaglio che innescano i meccanismi responsabili dell’apoptosi o morte cellulare programmata.

Inoltre le citochine prodotte dai linfociti CD4+ e CD8+ modificano le caratteristiche di superficie delle cellule endoteliali rendendole in grado di reclutare monociti dal torrente circolatorio e di indirizzarli verso il sito di esposizione dell’antigene allogenico. Il monocita, in presenza di citochine ed in particolar modo di interferone-γ, si attiva ed elimina la cellula che esprime tale antigene.

Alcune citochine prodotte dai linfociti CD4+, infine, attivano le cellule a funzione citotossica naturale (Natural Killer, NK) capaci di distruggere la cellula bersaglio ancora prima della risposta dei linfociti citotossici.

3.5.3 Rigetto cronico.

L’insorgenza di una reazione cronica di rigetto può essere successiva a episodi di rigetto acuto, ma in alcuni casi insorge senza alcuna evidenza di precedenti. Nonostante il rigetto cronico si verifichi più frequentemente a distanza di anni dall’intervento, esso può manifestarsi anche nei primi 6-12 mesi dal trapianto.[2]

Da un punto di vista anatomopatologico il rigetto cronico è caratterizzato dalla progressiva fibrosi con perdita della normale architettura dell’organo trapiantato.

La fibrosi potrebbe essere il risultato di fenomeni di riparazione successivi alla necrosi cellulare provocata dal rigetto acuto, oppure potrebbe derivare dal rilascio di fattori di crescita per le cellule mesenchimali ad opera di macrofagi attivati, ed infine potrebbe essere l’esito dell’ischemia cronica provocata da alterazioni circolatorie nel distretto vascolare del

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graft. Molto comune in questi organi cronicamente rigettati è il reperto di occlusione vascolare sostenuta dalla proliferazione delle cellule muscolari della tonaca intima, cosiddetta arteriosclerosi accelerata.

3.5.4 Endotelio e rigetto.

Le cellule endoteliali che rivestono i vasi del microcircolo dell’organo trapiantato svolgono un ruolo fondamentale nei meccanismi di rigetto poiché costituiscono la porta d’ingresso per tutti gli elementi coinvolti nella risposta immunitaria.

L’endotelio, oltre ad avviare l’attivazione dei linfociti T, è in grado di regolare il passaggio dei leucociti dal torrente circolatorio alla sede oggetto della risposta immunitaria. Quest’ultima funzione è regolata dalle cosiddette molecole di adesione, proteine che hanno il compito di trattenere il leucocita circolante sulla superficie dell’endotelio. La molecola di adesione che compare più precocemente nelle reazioni di rigetto è la E-selectina, espressa entro 2 ore dall’esposizione dell’endotelio al TNF ed in grado di legare il recettore L-selectina espresso dai linfociti T.

Tardivamente vengono espresse altre due molecole denominate VCAM-1 ed ICAM-1. La prima è in grado di far aderire i leucociti che esprimono il recettore VLA-4 (linfociti T della memoria), mentre la seconda è responsabile dell’interazione delle cellule endoteliali con leucociti che esprimano il recettore LFA-1 e con neutrofili che esprimano il recettore MAC-1.

Inoltre le cellule endoteliali stimolate dal TNF producono sostanze ad attività chemiotattica che aumentano la motilità delle cellule adese favorendo il loro passaggio negli spazi extravascolari.[1]

3.5.5 Malattia da reazione del trapianto verso l’ospite.

La malattia da reazione del trapianto verso l’ospite: Graft Versus Host Disease, GVHD, è una forma particolare di rigetto in cui le cellule immunocompetenti del donatore, ed in particolare i linfociti T, contenute entro il graft e trasferite assieme ad esso aggrediscono i tessuti del ricevente. Si tratta di una complicanza tipica dei trapianti di midollo o di intestino, ma può realizzarsi anche in trapianti di altri organi, in specie se il ricevente è stato sottoposto a regime immunosoppressivo particolarmente sostenuto od a trapianti controgruppo.[1,263]

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3.5.6 Prevenzione e terapia del rigetto.

A causa dell’elevato polimorfismo degli alleli del sistema MHC, le combinazioni possibili degli antigeni HLA sono praticamente infinite e quindi la probabilità di trovare due individui geneticamente identici, eccezion fatta per i gemelli omozigoti, è praticamente inesistente.

Il gold standard per la sopravvivenza di un allotrapianto è legato quindi alla capacità di prevenire o far regredire la naturale reazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni riconosciuti come estranei.

Molteplici strategie in grado di interferire con la risposta immunitaria del ricevente sono state sperimentate fino ad oggi. L’obiettivo finale è quello di ottenere l’accettazione permanente del trapianto senza la necessità di dover ricorrere al trattamento cronico con farmaci immunosoppressori: si cerca cioè di perseguire la cosiddetta “tolleranza immunologica”.

L’immunomanipolazione rappresenta un settore di ricerca interessante che riguarda l’induzione di una tolleranza immunitaria permanente mediante il trasferimento di cellule APC da donatore a ricevente. Le APC, pervenute nel ricevente, proliferano fino a creare una popolazione linfocitaria mista donatore-ricevente (chimerismo) che sembra in grado di innescare una serie di meccanismi che potrebbero portare all’accettazione permanente del graft eliminando la necessità del trattamento immunosoppressivo.[1,263]

Anche se l’immunomanipolazione è oggi un settore di ricerca estremamente promettente, l’immunosoppressione attraverso farmaci e/o fotoaferesi rappresenta attualmente la procedura più comunemente utilizzata per prevenire il rigetto nel paziente trapiantato. Non esistono schemi fissi di terapia ed ogni Centro Trapianti utilizza la propria esperienza cercando, nel rispetto di Linee Guida Internazionali, di personalizzare il trattamento per ogni singolo paziente, valutando tossicità e co-presenza di fattori di rischio per ridurre al minimo le complicanze della terapia immunosoppressiva stessa.[1,262]

I principi di ordine generale a cui è necessario attenersi nel programmare una terapia immunosoppressiva prevedono di articolare la terapia in due fasi. La prima fase detta di induzione, effettuata nelle prime due settimane dal trapianto prevede la somministrazione di alte dosi di steroidi, ciclosporina o tacrolimus ed azatioprina. La seconda fase, detta di mantenimento, ha l’obiettivo di evitare l’insorgenza di episodi acuti di rigetto in tempi successivi attraverso l’utilizzo di farmaci in differenti combinazioni.[1]

I farmaci oggi disponibili per la prevenzione e il trattamento della reazione di rigetto sono numerosi e vengono distinti sulla base del differente meccanismo d’azione.

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Tabella 2: Principali farmaci immunosoppressori utilizzati nel post-trapianto.

CLASSE FARMACO MECCANISMO D’AZIONE

Corticosteroidi Prednisone Metilprednisolone

Inibiscono la risposta infiammatoria e l’espressione di citochine (e pertanto l’attivazione dei linfociti T)

attraverso differenti meccanismi Antimetaboliti Azatioprina Interferiscono con la sintesi del DNA

Inibitori della calcineurina

Ciclosporina Tacrolimus

Inibiscono l’attivazione dei linfociti T attraverso l’inibizione della calcineurina

Inibitori della sintesi delle purine

Micofenolato mofetile Bloccano la proliferazione di cellule B e T Inibitori della proteina

TOR

Sirolimus Everolimus

Inibiscono la proliferazione IL-2 dipendente dei linfociti T

Anticorpi antilinfociti ATG (policlonale) OKT3 (monoclonale)

Eliminano i linfociti B e/o T

Inibitori di processazione e presentazione dell’antigene.

I corticosteroidi rappresentano la prima classe di farmaci di cui sia stata riconosciuta l’azione linfocitolitica. Essi agiscono in primis a livello nucleare inibendo la produzione di molecole come IL-1, IL-2, IL-6 e IFN-γ; inoltre provocano una citotossicità diretta nei confronti di alcune popolazioni di linfociti T; inibiscono la produzione di alcuni mediatori dei meccanismi della flogosi quali PAF, leucotrieni, prostaglandine, istamina e bradichinina; inibiscono la chemiotassi e l’ attività battericida e fungicida di monociti e neutrofili.

Gli effetti collaterali di una prolungata terapia steroidea sono altrettanto conosciuti e comprendono: sindrome di Cushing, soppressione corticosurrenalica, miopatia con ipotrofia muscolare, intolleranza glucidica e diabete mellito franco, osteoporosi, ulcere ed emorragie gastrointestinali, ritardo di guarigione delle ferite, ritenzione di liquidi ed aumentata incidenza di infezioni batteriche, virali e fungine.

Altri agenti che interferiscono con le fasi precoci della risposta immunitaria sono rappresentati da anticorpi monoclonali (AbMo) diretti contro determinati recettori presenti alla superficie dei linfociti T (CD4, CD2), delle APC (B7, LFA-3) e degli endoteli (ICAM-1). Particolarmente importante, dato il suo ampio utilizzo in clinica, è l’AbMo OKT3 (muromonab) dotato di attività citolitica nei confronti dei linfociti e di capacità modulative verso quelle reazioni che vedono in causa l’antigene di superficie CD3. L’utilizzo di OKT3 è gravato da severa tossicità sostenuta dalla massiva liberazione di citochine che può realizzarsi soprattutto dopo la prima somministrazione del farmaco.

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Tabella 3: Effetti collaterali dei corticosteroidi.[254]

EFFETTI COLLATERALI

Cardiovascolari Ritenzione di liquidi e sodio, ipertensione

Endocrini Intolleranza glucidica, sindrome di Cushing, ritardo di crescita, ipopituitarismo secondario, ipofunzione adrenocorticale, irregolarità

mestruali

Oculari Cataratta, aumento della pressione intra-oculare, glaucoma, esoftalmo Muscolo-scheletrici Osteoporosi, fratture vertebrali e femorali, necrosi asettica della testa del

femore, miopatia

Neurologici Alterazione del tono dell’umore, cefalea Cutanei Fragilità cutanea, rallentata guarigione delle ferite Gastrointestinali Pancreatite, ulcera peptica

Inibitori della sintesi di linfochine.

La ciclosporina A è il farmaco cardine della maggior parte dei protocolli di immunosoppressione, ed è efficace anche nel trattamento della GVHD. E’ una molecola liposolubile costituita da 11 aminoacidi; il legame tra ciclosporina A ed una proteina citoplasmatica, la ciclofillina, trasforma il farmaco nella sua forma attiva che a sua volta è capace di inibire una fosfatasi citoplasmatica, la calcineurina. Quest’ultima è coinvolta nel processo di attivazione di un fattore di trascrizione (NF-AT) necessario per la sintesi di interleuchine da parte delle cellule T attivate. La ciclosporina A inibisce quindi tutti i processi citoplasmatici Ca2+-dipendenti bloccando la trascrizione dei geni codificanti per

IL-2, IL-3, IL-6, IL-7 ed altri fattori prodotti a seguito della stimolazione antigenica dei linfociti T. Gli effetti collaterali della ciclosporina A comprendono: nefrotossicità, neurotossicità, ipertensione arteriosa, iperglicemia, iperlipidemia, disfunzione epatica transitoria, ipertricosi, astenia, mialgie. Il monitoraggio picco-valle dei livelli plasmatici di farmaco può essere di aiuto al fine di minimizzare tali effetti. La combinazione di ciclosporina con agenti di più recente sintesi si sta rivelando considerevolmente efficace nei protocolli clinici e sperimentali nei quali sia richiesta una immunosoppressione più efficace e meno tossica.

Il tacrolimus (FK-506), macrolide prodotto dallo Streptomyces tsukubaensis, rappresenta la vera alternativa alla ciclosporina. Il suo meccanismo d’azione è simile, nonostante il legame avvenga con una proteina differente dalla ciclofillina (FK-binding protein, FKBP). L’FK-506 è da 10 a 100 volte più potente della ciclosporina nell’inibire la risposta immunitaria,

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anche se recenti studi multicentrici effettuati in Europa e negli Stati Uniti non hanno indicato differenze significative tra i due farmaci in termini di sopravvivenza sia del graft che dei pazienti. I due più importanti effetti collaterali dell’FK-506 sono una spiccata nefrotossicità ed una ristretta finestra terapeutica che rende necessario un continuo monitoraggio dei livelli ematici; sono stati inoltre descritti altri effetti indesiderati quali neurotossicità, iperglicemia ed alterazioni a carico dell’apparato gastrointestinale.[1,18]

Tabella 4: Effetti collaterali di ciclosporina e tacrolimus.[254]

EFFETTI COLLATERALI Cardiovascolari Ipertensione

Renali Deterioramento della funzione renale ed insufficienza renale, iperkaliemia, ipomagnesemia

Neurologici Cefalea, crampi, tremore, parestesie, confusione

Cutanei Irsutismo, acne

Gastrointestinali Ipertrofia gengivale, diarrea, nausea e vomito

Epatici Colestasi

Ematologici Sindrome emolitica uremica Metabolici Diabete mellito, iperlipidemia

Altro Dolore osseo

Inibitori della trasduzione del segnale delle citochine.

In questo gruppo sono compresi essenzialmente due farmaci: il sirolimus e l’everolimus. Il sirolimus è un farmaco derivato dallo Streptomyces hygroscopicus scoperto in un campione di terreno proveniente dall’isola di Rapa Nui: per tale motivo il farmaco è anche chiamato rapamicina. La sua azione sembra dipendere dal blocco delle chinasi ciclina-dipendenti che intervengono nelle fasi tardive della regolazione del ciclo cellulare; inoltre il sirolimus è un potente inibitore delle cellule B e quindi della sintesi di immunoglobuline.

In vitro il sirolimus inibisce la risposta delle cellule T all’FK-506 mentre sinergizza con la ciclosporina A.

Particolarmente interessante appare un nuovo farmaco denominato everolimus, macrolide derivato dalla rapamicina che agisce bloccando il ciclo cellulare nella fase G1, tramite l’inibizione della proteina mTOR. In associazione con dosi ridotte di ciclosporina, l’everolimus permette di ottenere un’immunosoppressione caratterizzata da bassi tassi di

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rigetto acuto e rari effetti avversi quali: mieloinibizione, ipertensione arteriosa, iperlipidemia ed alterazioni a carico dell’apparato gastrointestinale.[1,18,261]

Inibitori della sintesi degli acidi nucleici.

Questo gruppo comprende numerosi farmaci, i più importanti dei quali sono indubbiamente azatioprina, derivato della 6-mercaptopurina, e micofenolato mofetile, farmaco semisintetico ricavato dal Penicillium glaucum.

Si tratta di agenti poco selettivi che intervengono alterando la sintesi degli acidi nucleici: i linfociti sono particolarmente sensibili all’azione di tali farmaci in quanto non possiedono vie alternative per la sintesi dei nucleotidi.

In genere questi farmaci vengono utilizzati in associazione a ciclosporina o FK-506 per potenziare l’attività di questi ultimi.

Il più importante effetto tossico esplicato dall’azatioprina è senza dubbio la mieloinibizione, che si manifesta in genere come leucopenia, sebbene possano insorgere anche anemia e trombocitopenia; in seguito alla somministrazione di dosaggi elevati sono anche possibili eruzioni cutanee, febbre, nausea, vomito, diarrea ed eccezionalmente, insufficienza epatica. Gli effetti tossici del micofenolato mofetile sono principalmente a carico dell’apparato gastrointestinale.[1,18]

Tabella 5: Effetti collaterali dell’azatioprina.[254]

EFFETTI COLLATERALI Mieloinibizione Pancreatite acuta Alopecia Danno epatico Polmonite Reazioni di ipersensibilità

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Effetti collaterali dell’immunosoppressione.

Sebbene l'uso di farmaci sempre più potenti abbia drammaticamente ridotto l'incidenza di rigetto, nelle ultime tre decadi si è assistito ad un aumento di neoplasie ed infezioni nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido.

La prevalenza di neoplasie in pazienti sottoposti a trapianto di qualunque organo è da 3 a 5 volte superiore rispetto a quella della popolazione non trapiantata. I principali fattori di rischio per lo sviluppo di neoplasie maligne in pazienti trapiantati comprendono: fattori condivisi con popolazione generale (fattori genetici, età avanzata, sesso maschile, fumo di sigaretta, esposizione al sole, etc.); terapia immunosoppressiva (alte dosi, combinazioni di più farmaci) ed infezione da parte di virus oncogeni (tabella 6). Il 60% dei tumori è costituito da neoplasie della cute, del collo dell’utero, ma soprattutto da linfomi.[1,36] L’incidenza di infezioni opportunistiche nei pazienti trapiantati in relazione al tipo di trapianto varia tra un Centro Trapianti e l’altro, anche se si stima che circa l’80% dei pazienti sottoposti a regime immunosoppressivo sviluppi almeno un episodio infettivo dopo il trapianto; inoltre tra le cause di morte nei pazienti trapiantati le complicanze infettive si assestano al terzo posto dopo tumori e cause cardiovascolari, con eziologia variabile: nel 52% dei casi batterica, nel 33% virale e nel 15% fungina.[1]

Tabella 6: Virus più comunemente implicati nella genesi di tumori maligni post-trapianto.[36,258]

VIRUS NEOPLASIA

EBV Linfoma

HHV-8 Sarcoma di Kaposi

Linfoma

HPV Carcinoma della cervice uterina Carcinoma del pene

Carcinoma vulvare

HPV 58 Malattia di Bowen

HPV 8, 19 Carcinoma della cute non-melanoma HPV 16, 20 Carcinoma della cute

Carcinoma tonsillare HBV, HCV Carcinoma epatocellulare

Figura

Tabella 1: Tassi di sopravvivenza di graft e paziente ad 1 e 3 anni dal trapianto stratificati per tipo di  graft impiantato.[256]
Figura 7: Attività di trapianto di rene in Italia nell’anno 2007.
Figura 8: Attività di trapianto di fegato in Italia nell’anno 2007.
Tabella 2: Principali farmaci immunosoppressori utilizzati nel post-trapianto.
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