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3. L’ACCENNO ALLA NATURA E LA LIMINALITÁ DEL DILETTO PITTORICO

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3. L’ACCENNO ALLA NATURA E LA LIMINALITÁ DEL DILETTO PITTORICO

Si trattava di un manierismo tutto esteriore, tutto risolto in un’illuminazione a freddo della scorza linguistica, per cui la locuzione doveva valere appunto come involucro, quasi annullando le tracce di quanto una volta sotto

l’involucro doveva pur essere stato presente. Un manierismo che in effetti non aveva molti spazi di manovra, che doveva finire per isolarsi in una ripetitività di se stesso.

Giulio Ferroni

I

Al pari del trattato di Alberti, che si rifaceva all’esperienza di artisti precedenti, anche l’opera di Comanini, Il Figino overo del fine della pittura, si rifaceva ad Ariosto, Tasso, Giulio Romano e Arcimboldo. In una specie di circolo chiuso, gli artisti ispiravano i critici i quali poi scrivevano per professionisti esperti. Poiché seguiva la pratica e suggellava il successo di artisti eccellenti, molta parte degli scritti teorici si basava su ciò che era considerato eccezionale. Perciò l’emulazione cominciava dai livelli qualitativi più alti, e visto che non era possibile raggiungere un livello

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superiore, essa poteva solo andare a investire contigui campi del sapere, e fu proprio ciò che accadde.

Durante la seconda metà del Cinquecento, una mole di scritti teorici e critici molto più vasta di quella che Orazio e Aristotele avessero mai osato produrre andò a toccare la tragedia, l’epica e il principio dell’ut pictura poesis. A volte le operazioni di recupero del passato potevano dare origine a uno strano insieme di reverenza e disprezzo. Baxter Hathaway ci ricorda come la critica si ponesse da una parte il problema della vita e dall’altra quello del rapporto con «l’antico bisogno di ricorrere al fantastico, nel mito e nella poesia, una forma di fuga da questo mondo bronzeo, verso un dorato universo di fantasia»1. Gli accenni alla natura guadagnarono terreno nella pratica artistica, e l’eccentricità andò a esplorare bizzarri territori dell’invenzione artistica.

Tenendo d’occhio tale antico bisogno di ricorrere al regno del fantastico, questo capitolo si concentrerà su alcuni brani del trattato di Comanini, che faceva luce su quella che era l’area liminale del delectare manierista. Con le sue oscillazioni tra «stabilire» somiglianze e «costruire» artifici, l’eccellenza finì per dipendere dal gusto, dallo stile e dal capriccio. Compito dell’arte era superare, non imitare, la natura.

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II

Avendo conferito alla forma dialogica, di platonica memoria, un taglio parodico, il Comanini narra di come il teologo Martinengo e il poeta Guazzo si fossero recati in visita presso il Figino, un pittore malato, il quale chiese loro di leggergli una poesia inviatagli dallo stesso autore. Ciò da origine a un dibattito sulla natura del genio, incentrato sulla malattia che mette in stallo la prassi pittorica:

Sta ‘l pennello in disparte,

Onde imitar solea Così ‘l vero col finto, Che ‘l ver rimanea vinto

Dal falso, che del ver più ver parea; Tal ch’ombre i frutti e i fiori

Eran di quei ch’ombraro i suoi colori.

Da un punto di vista mimetico, l’artificio è più impressionante della realtà, la quale può solo essere una vuota copia artistica. La parola chiave è «finzione» da inserirsi all’interno di una gamma mimetica che permetteva

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alle forme dell’arte di emergere dall’oscurità della natura (ombre i frutti e i fiori) La scelta da parte di Comanini di forme verbali quali parea e ombraro coincide con quella di Arcimboldo: entrambi situano l’arte nel regno dell’ambiguità intenzionale.

Tramite la combinazione dell’icastico con il fantastico, l’opera d’arte prendeva la realtà delle cose come punto di partenza, come una materia da parafrasare nel «credibile meraviglioso» (Trattati, 3:354-55). Per la stessa ragione la bella opera d’arte doveva essere naturale et artificiosa; in quanto tale, essa scaturiva da un insieme eccentrico che mirava a disgiunzioni parodiche più che congiunzioni analogiche. Il pittore cominciò a guardare alle finzioni pittoriche come a una fonte per l’emulazione della natura. La via a una tale emulazione era già stata aperta dalla stessa tradizione pittorica. Il canone dell’arte era l’arte stessa «che del ver più ver parea».

Assumendo forme fantastiche, la mimesi della tradizione artistica offriva un’alternativa ai proliferanti stili «nella maniera di». Al volgere del XVII secolo, Tesauro avrebbe espresso ammirazione nei confronti di Arcimboldo per aver scritto un verso in grado di combinare due negazioni: «immagine non è, non è figura». Nel Genio della cucina la tela e la poesia non mostrano né l’imitazione di una somiglianza nota, né la rappresentazione di una figura umana, bensì un misto di entrambi: una figura del discorso. L’arte non era innovativa ma auto-compiaciuta. Data la sua popolarità, superare al tempo stesso natura e tradizione finì per divenire una norma più che una trasgressione. G.A. Gilio conferiva all’arte il potere di «fare ciò che la natura non può» (arte facendo quello che la natura non può per se stessa fare Trattati: 1:100-1174.)

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III

Nel regno del fantastico l’ideologia lasciava spazio alla leggerezza, e anche il mito acquisiva una veste manierista nel modo in cui Comanini vi si approcciava:

Fresco rivo in bel prato

Finse dentro il pensiero

Il buon Pittore, per poi ritrarlo un giorno. Or, mentre è più lassato,

Finge anco un sasso intero,

Al fier Tantalo l’onda

Scherza intorno la bocca;

Ma fugge, se vuol berla, et ei bee sabbia.

La Natura scherza con l’uomo e Tantalo accetta l’inganno. Sotto la maschera del mito, la stravaganza riusciva a trarre forza dalla propria leggerezza. L’utilizzo da parte di Comanini di forme verbali quali fingere, scherzare, e ombrare favorirono un approccio giocoso all’arte. In realtà «Tutte le arti basate sull’imitazione trovano il proprio scopo preciso e adeguato nel piacere. Dato che la pittura rientra tra tali tipologie artistiche, è giusto sostenere che il piacere, e non l’utile, costituisca il suo scopo»

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(Trattati, 3:248). Il didattismo iniziava la sua fase di declino mentre l’eccentricità assurgeva a predominante metro d’eccellenza nella periferia edonistica dell’arte.

Poiché Dava vita al credibile meraviglioso, l’«artifex» di Comanini, si qualificava come un homo ludens con un grande debole per il piacere. Mantenendosi a debita distanza dall’esperienza, l’attività ludica si svolge in una sfera artificiale, totalmente al di fuori da ogni vita «normale»:

Se la pittura è imitazione, è gioco, e l’imitazione implica sempre il piacere e il piacere è il fine del gioco; ne segue quindi che il piacere sia lo scopo preciso della pittura. (Trattati 3:285).

Comanini e Arcimboldo perciò modificarono il significato del termine latino ludus, da quello di preparazione militare, culturale o sportiva, a quello di autonomia nella pratica artistica5. Nel gioco della mente, le loro forme enigmatiche miravano a scoraggiare reazioni abituali a esiti inusuali. La stessa personificazione diveniva una partita, che i due artisti intraprendevano su scacchiere letterarie e pittoriche da allora oggetto di meraviglia.

Già al volgere del XVI secolo, scrive Michael Levey, non era raro per un artista abbandonare le convenzioni e dare risalto all’eccentricità6

. I ritratti puzzle di Arcimboldo quindi, rientravano in quelle diffuse opere d’arte destinate a essere piacevolmente superflue. In Récepte véritable (1563) Bernard Palissy sfruttò l’immaginazione e la tecnologia per il suo progetto di una statua con un libro in una mano e un vaso nell’altra. Chiunque si fosse avvicinato per leggere questo volume avrebbe avuto la possibilità di sperimentare tutto ciò che il vaso gli avrebbe riversato davanti agli occhi. Il rituale umanista della lettura nello studiolo, acquisì un

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carattere ludico una volta all’aperto; la «fonte» si trasformò in modo ardito in una «lusinga». All’interno della tradizione italiana è sufficiente menzionare i «giochi d’acqua» a Bagnaia e alla Villa D’Este di Tivoli, l’Appennino del Giambologna presso Pratolino e la pericolante Sala dei giganti affrescata da Giulio Romano, che opprimeva gli astanti con una specie di squilibrio ambientale. Riprendendo i commenti di Comanini su tali affreschi con la tragica caduta dei giganti, il diletto esimeva gli spettatori da ogni preoccupazione morale.

L’orrore e la compassione erano trascurate in forza di una presunzione ludica che frenava ogni pensiero riguardo alle verità nascoste sotto la superficie. La gente doveva avvicinarsi all’opera d’arte «come a un Lete», la loro incredulità nei confronti di quelle scene stravaganti era la prova della loro indipendenza dal mondo reale7.

Fuori, i mostri voluti da Vicino Orsini nel Sacro Bosco di Bomarzo destavano stupore nei visitatori attraverso slittamenti prospettici, apparizioni incredibili, giochi di luce e ombra, case inclinate e dalle mura decentrate giocando con i principi spaziali oltre il limite plausibile. Proprio come gli osservatori rimangono perplessi dalla figura di Arcimboldo, così restano disorientati dall’inscrizione apposta sulla casa inclinata: «Dimmi se tali meraviglie sono frutto d’inganno o d’arte8

» Una volta divenuto il dubbio qualcosa di concreto, la forma condizionale (se) legittimava uno stile espressivo in cui il significato era oscurato dal doppio senso.

Secoli dopo, Manuel Mujica-Lainez così mise per iscritto il progetto di Vicino Orsini per il Sacro Bosco:

Non volevo, in quanto niente sarebbe stato più contrario alla mia fantasiosa originalità, che i boschi di Bomarzo fossero trasformati in un

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simmetrico parco fatto di logica esatta, ove ogni frammento di costruzione avrebbe risposto a calcolate rispondenze ed equilibri. Ciò che di armonioso rigore vi fosse stato, sarebbe servito solo a metterne in evidenza la fantasia9.

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Bomarzo, Sacro Bosco.

Nel regno della menzogna, l’arte andava a toccare insistentemente l’universo letterale e quello concettuale allo stesso modo. Le rispondenze tra i due aprirono la strada a imprevedibili asimmetrie che favorivano la stravaganza10.

IV

In senso classico e umanistico, l’«azione» offriva immagini edulcorate della vita, le quali si dimostravano incompatibili con i canoni d’icasticità e fantasia basati sulla vita reale. Secondo Comanini, il didattismo nell’arte doveva indicare una realtà effettiva, mentre il piacere ne doveva giustificare la discontinuità. Per questo motivo l’imitazione icastica riguarda «cose esistenti in natura» mentre la sua controparte fantastica inventa, «finge cose esistenti solo nella mente dell’artista».

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Il pittore che imita le cose create dalla natura, come l’uomo, gli animali, i monti, i mari e le terre, produrrà un’imitazione icastica, ma il pittore che dipinge il proprio capriccio, mai dipinto da nessun altro, produrrà un’imitazione fantastica (Trattati, 3: 274, 256)

La prima forma d’imitazione «esprime la somiglianza» attraverso la percezione del mondo esterno, mentre la seconda conduce la rappresentazione verso l’artificio delle immagini interiori.

Proprio sulla questione dell’artificialità Comanini fa ricorso ad Arcimboldo per illustrare il concetto d’imitazione fantastica.

Confessiamo la virtù fantastica, l’ufficio della quale è di ricevere le specie apportate dagli esteriori sensi al senso commune, e di ritenerle, et ancora di comporle insieme,essere gagliardissima nell’Arcimboldo, poiché egli, componendo insieme l’immagini delle sensibili cose da lui vedute, ne forma strani capricci et idoli non più da forza di fantasia inventati, quello che pare impossibile a congiungersi accozzando con molta destrezza e facendone risultar ciò che vuole.

(Trattati, 3:270)

La virtù della fantasia può disporre le forme a piacimento.

Nell’autonomo universo dell’arte, la Flora, di scuola arcimboldesca e dalla duplice iconografia di dea e cortigiana (Flora meretrix), ottenne un successo universale. Dopo la metà del XVI secolo la troviamo circondata da vasi di fiori e piante di ogni tipo. Un’artista della Scuola di Fontainebleau, noto con il nome di «Maestro di Flora», deve il suo nome a un dipinto in cui la dea/cortigiana, nuda, a eccezione dei fiori sul grembo e attorno alle labbra, siede a terra con un braccio poggiato su un cesto straripante di fiori11. Sebbene le associazioni tra nome (Flora) e oggetto (i fiori) siano

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state numerose, solo Arcimboldo e i suoi seguaci sono riusciti a creare un’immagine di così incredibile stravaganza: «una donna fatta di fiori» (Trattati, 3:257).

L’ingegnosità manierista estese il mondo delle forme naturali trasgredendo gli stessi ordini della natura. Molto spesso l’originalità richiedeva di trattare in modo bizzarro ciò che la tradizione artistica aveva da offrire. Tenendo conto dei «precedenti» dell’artificiosità manierista, le opere di Piero di Cosimo ne sono un esempio singolare.. Il suo epitaffio era programmatico:

Se fui strano, e strane furono le mie figure, Tale stranezza fu una fonte di grazia e di arte; E chiunque aggiunga stranezza al proprio stile, Conferisce forza e spirito ai propri dipinti12

La storia della sua vita, così come presentata dal Vasari, è la bizzarra biografia di un giovane che sposava la stravagante invenzione a un uomo piuttosto bestiale che umano. Mentre gli altri recitavano il discorso della conoscenza, la sua immaginazione era preda dell’eccentricità.

V

Nella prassi professionale del Manierismo, molta arte si nutriva di ambivalenza. Tale stile espressivo faceva oscillare le dinamiche

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dell’eccentricità tra l’esagerazione ludica e la risolutezza teleologica. Dato che evitava ogni obbligo nei confronti del carattere ideologico o narrativo, la produzione artistica lasciava in sospeso il significato senza per questo negare l’espressione. Comanini pose l’ambiguità al centro della propria poesia sul dipinto arcimboldesco di Flora, sopravvissuta in svariate, dubbie versioni e con numerosi titoli.

Sono io Flora, o pur fiori? I fiori in Flora

Cangiò saggio pittore, e Flora in fiori.

La domanda iniziale, come anche le successive, non richiede una risposta; il suo effetto cumulativo baratta l’assertività con il dubbio. I punti di domanda e l’ipotetico «se», eludono la spiegazione, confondono le sequenze temporali e accrescono l’ambito spaziale della lingua come tecnica capace di sfruttare al massimo il proprio corpus terminologico. Scaturendo dalle risorse offerte dalla lingua in materia di soliloquio retorico, l’interrogazione contrappone ciò che si pensa di conoscere a ciò che non si conosce. Il testo letterario gioca con l’indagine e la risoluzione allo stesso modo. Mentre le congiunzioni ipotetiche non scandagliano a fondo la realtà complessa, i punti di domanda si nutrono di duplicità. Non c’è alcun impulso da spiegare, e la poesia offusca un significato già poco chiaro nel dipinto.

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Giuseppe Arcimboldo, La Primavera, 1573, Parigi, Louvre.

Mentre la ripetizione rende possibile la rappresentazione, le domande sono procrastinate all’infinito. Il valore superficiale dell’immagine corre parallelo alla scarsa profondità della doppia negazione e delle domande retoriche. Una forma espressiva echeggia l’altra, ed entrambe contribuiscono ad aggravare la condizione di perplessità che l’osservatore prova di fronte a questo linguaggio dell’assenza.

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Nella poesia di Comanini c’è Flora e ci sono i fiori, ma come ha fatto l’una a divenire gli altri? A questa domanda Flora non può certo dare una risposta, da qui l’interrogativo ultimo: Come avrà fatto? Un’impasse del genere rivela un universo di parole in cui le domande si scambiano con nuovi dubbi. Il sostantivo è nominato e subito dopo negato, mentre il verso divide il significato a metà; l’immagine e la parola si mistificano a vicenda. Sebbene vi sia suono (Sono io Flora?) e immagine (o pur fiori?) all’interno dello stesso rigo, il verso non risolve il vuoto esistente nella lingua. L’interrogativa ha messo in atto una condizione di pesante elusività, e l’arte ha dato vita a una retorica d’intenzionale esitazione che si prende gioco allo stesso modo della presenza e dell’assenza, del significato e della sua mancanza.

Per Arcimboldo e Comanini, Flora esiste nell’immagine indipendente della sua presenza visiva, e non può raccontare la propria storia, perché ciò che è icastico non possiede né profondità psicologica né estensione temporale. Essa può descrivere se stessa solo da un punto vista oggettuale, ovvero spaziale. Il lessico poetico di Flora è costituito da parole autonome, visivamente distese sulla pagina. Ci si muove così in un universo di figure retoriche simili a tanti specchi. Era venuto il momento in cui la letteratura poteva supportare gli stili d’espressione non discorsivi ma presentativi. Durante il XVI secolo infatti, la stampa favoriva lo scambio di cose con parole nell’ambito di un linguaggio scritto, il «tono di stampa» del quale sollevava problematiche di natura epistemologica. I tentativi di avvicinare il più possibile le parole alla stasi della pittura favorirono incursioni nella sintassi retorica dell’ellissi, della paratassi e degli inganni paradossali14

. Ai margini dell’arte manierista, la lingua sradicava le dinamiche del discorso. La poesia e il dipinto di Flora fanno perno sul come, e non su

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quale, dovrebbe essere il loro contenuto narrativo. Per tutto il componimento, la successione della poesis si frammenta nei tropi retorici della sineddoche, della metonimia e della tautologia, andando a offuscare il significato più o meno nello stesso modo in cui Arcimboldo distorce la nostra risposta (Che miri o sciocco questa mia pittura?) alle parole e alle immagini. La poesia barattava le etichette letterarie con una profusione di «parole dipinte»: creando, di fatto, una specie di linguaggio pittorico. Allo stesso modo, l’equazione arcimboldesca di suono- immagine- parola era solo un esempio delle disposizioni manieriste che permettevano alle arti di mischiarsi, in ambiti in cui il significato non rimaneva soffocato dalla superficie scritta15.

Prendendo in prestito la metafora della prospettiva, si può dire che noi conosciamo ciò che vediamo. In modo piuttosto preciso Sperone Speroni scriveva che, proprio come l’aiutante di un pittore, «il grammatico raffina e dispone le parole affinché il maestro di retorica dipinga la realtà mentre parla». Inoltre, «proprio come la presenza fisica è sufficiente per eseguire un ritratto senza dover conoscere la personalità del ritrattato, così la retorica è sufficiente per parlare di qualsiasi oggetto di cui si conosce solo qualche dettaglio». Quel qualcosa era noto come un certo non so che a Ferrara e come je ne sais quoi a Fontainebleau. Rendendo chiaro un principio che Arcimboldo e Comanini sposavano totalmente, Speroni concludeva che, l’artificio pittorico-retorico presenta «la superficie esterna delle apparenze fisiche osservate da tutte16» La verità si trovava nelle cose capaci d’insegnare qualcosa mentre la bellezza scaturiva dalle immagini create per il solo diletto. Nell’ultimo caso, le forme potevano slittare da un codice all’altro o essere incapsulate fra i due. Una volta che l’eccentricità metaforica divenne espressione di un canone desiderabile, la composizione

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sfruttò combinazioni di ogni tipo. Nelle mani del grottesco jongleur, l’arte costruìva composti immutabili, estranei alla metamorfosi. Un tale approccio giocoso affiorava ancora in un’altra poesia sulla Flora di Filippo Gherardino:

Né cangiò Flora in Fiori, Né i Fiori in Flora

Il pittor saggio, ma dipinse Flora Com’è, Flora di Fiori.

Ostentatamente ogni rigo si riferisce all’altro. La ripetizione, l’eco e la tautologia inscenano una guerra di parole in cui l’incongruenza epistemologica sperimenta con la portata del virtuosismo retorico. Il significato è eluso e a emergere è l’icastica immagine di una costellazione floreale. La poesia ruota attorno agli slittamenti metaforici di qualità (Flora) in quantità (fiori), per cui il linguaggio le nega temporalità narrativa. Siamo costretti a continui balzi in avanti e indietro nella lettura, l’inizio è anche la fine e l’ultima parola è anche la prima. Il discorso si arresta e le parole rimangono oggetti inerti come in una natura-morta. Poiché il legame tra parola e mondo rimane sospeso, la priorità è data a quelle che Clayton Koelb definisce «narrative letetiche». Esse «elaborano strutture che non si trovano nel mondo non linguistico, ma nelle risorse della lingua stessa17». I tropi linguistici erano così utilizzati da divenire unità narrative. L’arte giocava con le strategie della reversibilità.

Arcimboldo e Comanini compresero che lo stile linguistico legato alla stravaganza retorica non poteva né descrivere né svelare la realtà. Piuttosto esso simulava un carattere narrativo sfruttando una superficie decifrabile con cui riscuotere consensi senza però impegnarsi seriamente nei confronti

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della verità Per la stessa ragione il lettore-osservatore accetta le convenzioni che regolano l’atopia. Come risultato, il linguaggio è più valido dell’esperienza, il discorso obbedisce alle proprie leggi e la lettura è incline a mutare il senso in non-senso. Il virtuosismo interdisciplinare di tali testi manieristi prosperava tra gli spazi tropologici in cui la proliferazione di parole sacrificava il significato ai cliché stilistici. Le inversioni di forma e contenuto erano solo segni dell’instabilità della stessa conoscenza.

A trionfare era la finzione in quanto tale, e si potrebbe supporre con certezza, che il beckettiano Watt avrebbe declamato una tale letteratura con stile.

VI

La versione letteraria del Vertumno, che è anche Rodolfo II, fatta dal Comanini rimandava talmente all’approccio arcimboldesco, che un raffronto interdisciplinare è doveroso:

Qual tu sii, che mi guardi

Strana e difforme imago, E‘l riso hai su le labbra,

Che lampeggia per gli occhi

E tutto ‘l volto imprime

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Al veder novo mostro,

Che Vertunno chiamaro Ne’ lor carmi gli antichi.

Dotti figli d’Apollo.Come voce parlante, il dio è consapevole del proprio aspetto indecoroso. La grottesca combinazione di ritratto e natura morta evidenzia un compiaciuto paradosso:

Se ‘n mirar non t’ammiri Del brutto, ond’io son bello, Ben non sai qual bruttezza Avanzi ogni bellezza.

Il «lieto miscuglio» di deformità e bruttezza sacrificava la mimesi a stupefacenti inganni, e il dualismo bello-brutto ingigantiva la precedente dichiarazione di Leonardo da Vinci: «i lineamenti belli e brutti si migliorano reciprocamente18».

In quanto figura dai molteplici, se non affascinanti inganni, Vertumno rivela lo «splendore regale» che nasconde un «mostro» al suo interno. L’uno nasconde l’altro, e la deità si manifesta allo spettatore.

Quelch’io son, quanto adombro.

Ma chi è costui? Vertumno, Rodolfo o qualcun altro? Come il poeta francese Jodelle stava scrivendo all’epoca, la metamorfosi della deità dava vita a un «demi-brut, demi-dieu». La voce parlante è consapevole della sua diversità:

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Vario son da me stesso, E pur, si vario, un solo Sono, e di varie cose Col mio vario sembiante Le sembianze ritraggo.

Son, che fuor sembro un mostro, E dentro alme sembianze

E regia imago ascondo.

Or vanne, o Spettatore, Che n‘pochi carmi ho detto Quel ch’io son, quanto adombro.

Il linguaggio si basa su una scissione tra il sé e l’altro, tra sembiante e sembianze. Per quanto simili, le parole si contraddicono a vicenda. Il termine vario, nel primo rigo determina pluralità, per poi contraddirla e invece esaltare l’unità, mediante il termine un solo nel rigo successivo. Tuttavia la varietà può restare fedele a se stessa solo rifiutando di incarnarsi in una forma precisa. La poesia unisce ciò che la realtà separa. L’identità è raddoppiata e le parole offuscano il significato invece di svelarlo. Le tecniche pittoriche e letterarie hanno permesso di concepire il sé come una pluralità di varianti di se stesso: ritratto, mito e natura morta. La stravaganza in fatto d’identità poteva includere vari nomi e tipologie. Attraverso una tecnica familiare ad Arcimboldo, l’eccentricità s’impernia su un «qui-ora» fattuale, e accenna a un improbabile «altro». In entrambi i casi, svariati ordini naturali sono disposti in un vuoto spaziale.

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Il tempo è di fatto abolito, e le forme naturali sono prosciugate di ogni residua vitalità:

Dimmi or tu, se t’aggrada Di veder quant’io celo Ch’or or ne tolgo il velo.

Lo svelamento dell’identità nascosta grava sul dualismo sono-adombro, che tocca il culmine nel verso:

Te rassembr’io, te figur’io, te segno. (Trattati, 3:258-65)

Il confronto-ripetizione Io-Tu, rafforza il carattere visivo dei verbi, che agiscono come specchi, rimbalzando le somiglianze tra i pronomi. La presenza antropomorfa causa confusione semantica.

Ancora in termini di analogie diacroniche, il grottesco ritratto di Vertumno-Rodolfo II mischia la storia con la natura tramite un mosaico costituito da tessere tutt’altro che nobili. Da un punto di vista archetipico Arcimboldo ricorre alla tradizione delle allusioni iperboliche alla regalità che nascondevano il sacro nel profano. La divinità «deturpa» il principe, ed entrambi giacciono nascosti in una pletora di verzura. A livello visivo, la realtà occulta la finzione. Tuttavia la maschera arcimboldesca è molto più che duplice. La gamma di forme naturali rappresenta Vertumno, la natura dissimula così il mito. Per contro, la divinità rassomiglia in qualche modo a Rodolfo II; il mito «occulta» la storia. La figura antropomorfa quindi nasconde la natura dietro il mito e la storia.

Ovidio propone una relazione logica quando traveste Vertumno da «mietitore».

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«Cingendosi le tempie di fieno fresco»

(Metamorfosi, XIV)

Allo stesso modo Comanini, descrisse così l’aspetto estivo della divinità arcimboldesca:

Mira ciò che le tempie Mi cinge, orna e colora: Tante spiche pungenti, Che ‘l polveroso Giugno

Matura, indora e coce. (206)

L’immagine è allo stesso tempo un ritratto e un anti-ritratto.Persino la natura della ritrattistica poteva essere invertita, la realtà acquisendo un carattere fittizio e la finzione uno mimetico. Ci avviciniamo qui a quello che Mircea Eliade ha definito una «dialettica del camuffamento19» in cui la struttura paradossale garantisce inversioni di ogni tipo.

Le divinità grottesche erano molto utili a nascondere l’identità in un’epoca in cui un sonetto napoletano così lodava Giovanna Castriota:

Altra Pale, altra Flora, altra Pomona, altra Cerere abbiam

Il sé è posto contro l’alterità di un contesto onomastico in cui i nomi si raddoppiano (Pale= Cerere) e la novità esiste «alla maniera» o «più della» vecchia mitologia20.

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VII

Ai limiti più estremi della rete figurativa della cultura occidentale, l’imitazione fantastica e il credibile meraviglioso gravavano sul legame tra mimesi e originalità. Per contro, l’accenno alla natura e la proporzione-locuzione-sprezzatura artificiosa, spingevano l’arte al limite sia della retorica che della rappresentazione. Il Manierismo ostentava la propria eccentrica «marginalità».

I recenti apporti critici in merito al teatro e al romanzo si sono concentrati sull’arte marginale. Riguardo al soggetto «manierista» della miniatura, qualche tempo fa Gaston Bachelard ci ha detto che «siamo costretti a varcare la soglia dell’assurdo21

». In materia di liminalità letteraria Gustavo Pérez Firmat scriveva che

Ultimamente i margini sono stati ovunque. La riflessione contemporanea all’interno di studi letterari e di discipline correlate (l’antropologia e la filosofia in particolar modo), è stata potentemente spostata verso varie manifestazioni della marginalità, su fenomeni che, per usare le parole di Victor Turner ‘vanno a trovarsi fra le posizioni assegnate e predisposte dalla legge, dalla consuetudine, dalla convenzione e dal cerimoniale’22

.

Di carattere né transitorio né temporaneo, la liminalità determina una posizione di eccentricità rispetto a un dato punto centrale, contro cui essa descrive il mondo rovesciato del carnevale, della malattia e della sovversione sociale.

Gli stravolgimenti e la malattia costituiscono parte della più vasta esperienza del Manierismo, a partire dalla malattia del pittore nel trattato di Comanini alle ossessioni psicologiche di Pontormo, Rosso Fiorentino e

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Bronzino. Lo studiolo di Francesco I nel Palazzo della Signoria, è emblematico di una liminalità paradossale, al cuore del potere pubblico. Sfuggire alla gente era la sua ossessione, per questo motivo il Vasari dovette costruire un corridoio sul Ponte Vecchio per permettere al Duca di muoversi tra le residenze alle due sponde dell’Arno senza doversi mischiare alla gente. Lo stesso studiolo era privo di finestre e solo le candele potevano gettare luce su un mondo di illuminazioni interiori, accese da dipinti su ogni parete. Poiché si prendeva gioco sia del centro che della periferia, una tale oasi di autonomia individuale e artistica era intrinsecamente distruttiva. In modo piuttosto ironico, la marginalità manierista arrivava a superare se stessa, ospitando un simbolo di claustrofobica intimità sullo scranno del potere politico.

In fondo, la liminalità è distruttiva, poiché «minaccia costantemente di far crollare il limite tra periferia e centro». È una struttura che va a sovvertirne un’altra, tuttavia tale sovvertimento può avvenire ove esistano strutture di ordine. L’ossessione di Francesco I era dovuta in larga parte alla natura del suo lavoro. Come ci ha insegnato Mikhail Bakhtin, il «malgoverno» carnevalesco, parodia il «governo» più o meno allo stesso modo in cui Vasari legava la regola alla licenzia23.

In un senso manierista varcare la soglia del senso comune, far sconfinare la solennità nella bassezza, ricercare l’eccentrico, il surreale, il minuscolo e il gigantesco, significa permettere all’eccesso di avere la meglio. Rendere la proporzione artificiale, significa permettere all’artista di impossessarsi del mondo, ai margini della logica e dell’esperienza, in un luogo in cui l’arte si fa carico di una realtà sproporzionata per sua stessa volontà.

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Come ogni limite, anche quello dell’artista ha due nature: una rozza e una abile. La prima è deficitaria la seconda è eccessiva.

Nella topografia liminale del Manierismo la natura deficitaria si trova al confine con la prima crisi spirituale di Pontormo e Rosso Fiorentino. La natura eccedente ha definito il suo stravagante regno principalmente a Bomarzo. Il suo anti-mondo, suggerisce Marcello Fagiolo, è radicato nell’aldilà, ovvero in quello della storia classica, per della pre-esistenza di contaminazioni etrusche, in quello della geografia occidentale, forte di desideri di esotismo, e in quello dello spazio prospettico, per gli effetti straordinari24.

Nella cultura del Manierismo, comunque, l’«accenno alla natura» proiettò le proprie ombre sull’ultima soglia, dove l’«anti» e il «contro» non poterono lasciarsi le vestigia del mondo figurativo alle spalle. L’ex-centrico era ancora legato al centro, proprio come l’artificialità cercava di sfuggire alla mimesi. Come risultato, lo spettacolo della liminalità divenne ancora più grandioso, e l’arte trasse il suo più grande piacere dalla propria artificialità.

(25)

NOTE

1. B.HATHAWAY, Marvels and Commonplaces: Renaissance Literary Criticism, New York 1968 vii.

2. Vedi G. CASTOR, Pléiade Poetics: A Study in Sixteenth-Century Thought and Terminology, Cambridge 1964 pp.116-17.

3. Il cannocchiale aristotelico, in Trattati e Narratori del Seicento, ed. Ezio

Raimondi Milano 1960, p. 91. Vedi Anche C. G.DUBOIS, Le Maniérisme Parigi 1979, pp. 26-27. G. R HOCKE, Die Welt als Labyrinth, Amburgo 1957, pp.48-49.

4. Vedi CASTOR, Pléiade Poetics, pp. 116-17.

5. Vedi J.HUIZINGA, Homo Ludens: A Study of the Play-Eelement in Culture,

Boston 1962, pp. 35-36, 46, 119. E.BENVENISTE, Le jeu comme structure,

«Deucalion» 2 (1947) pp. 163-165.

6. M. LEVEY, Early Renaissance, p. 79. HUIZINGA, p. 8.

7. Vedi C. KOELB, Inventions of Reading : Rethoric and the Literary Imagination, Ithaca New York 1988, p. 46.

8. Su Bomarzo vedi Bomarzo in «Quaderni dell’Istituto di Storia

dell’architettura» 7-9, monografia no. 1955. A. BRUSCHI, Il problema

storico di Bomarzo, «Palladio» 13 (1963), PP. 85-114. J THEURILLAT, Les mystères de Bomarzo, Ginevra 1973. H. BREDEKAMP, Vicino Orsini und Heilige Wald von Bomarzo, vol. 2, Worms 1985. Adesso in traduzione

italiana Vicino Orsini e e il Bosco Sacro di Bomarzo. Un principe artista e

anarchico. Roma 1989.

9. M. M. LAINEZ, Bomarzo, New York 1969 tr. ingl. Di Gregory Rabassa, p.

484.

10. Giovanni De Bardi nel suo Discorso sopra il gioco del calcio fiorentino,

applica in senso parodico le categorie platoniche e aristoteliche al gioco del calcio. Lo scopo finale è fare punti, il giocatore è la causa materiale e il nobile ricco che alza il cartellino è la controparte efficiente. Sullo stesso soggetto Pontormo’s Study of a Nude Playing Calcio prendeva in giro Michelangelo, mentre Pontormo’s Study of the Three Graces si prendeva gioco di Botticelli e Raffaello. Vedi il fondamentale contributo di Paul

(26)

Barolsky: Infinite Jest: Wit and Humour in Italian Renaissance Art, Columbia Mo., 1978.

11. J. HELD, Flora, Goddess and Courtesan, in Essays in Honour of Erwin Panofsky, ed Millard Meiss New York 1961, p. 206. A. BLUNT, Artistic Theory in Italy 1450-1600, Londra 1968, p. 89.

12. In J. SHEARMAN, Mannerism, p. 156. Per il critico «Questo non è

necessariamente un indizio per arrivare a una comprensione dei dipinti di Piero, ma è indicativo del gusto della società in cui (l’epitaffio) è stato scritto».

13. Non è affatto chiaro quale fra le tele a noi pervenute, sia di Arcimboldo. La

loro numerosità è di fatto problematica, e questa non è la sede per sollevare questioni di attribuzione. Tutte le versioni, comunque mostrano una figura fatta di fiori. Per questo morivo sono tutte di fondamentale importanza nel contesto tematico del presente studio. Per essere cauti si può dire che la figura 7 e 18 presentano due versioni che sembrano lo spazio tra l’autentico Arcimboldo e l’arcimboldesco.

14. G. HARPHAM, On the Grotescque: Strategies of Contradiction in Art and Literature, Princeton 1962, p. 6. N. FRYE, Anatomy of Criticism, New York

1969, p. 275. Vedi anche M. B. KLYNE, Rabelais and the Age of Printing, Ginevra 1963, p. 40. F. RIGOLOT, Poétiques marginales au XVI et au XVII

siècle in «Revue de littérature comparée» 51 (1977), p. 226. F. G.

ROBINSON, The Shape of Things Known : Sidney’s Apology in Its

Philosophical Tradition, Cambridge Mass., 1972 pp. 88; 96. W. J. ONG, Ramus, Method and the Decay of Dialogue, Cambridge 1958. Per uno studio

recente in material vedi W. BOHN, The Aesthetics of Visual Poetry

1914-1928, Cambridge 1986. In particolar modo pp. 3-5.

15. Nella tradizione delle fatrasie Burchiello-Doni-Lomazzo, il genere era molto

utile al «poeta pittor di grottesche» referenze in Edoardo Taddeo I grilli

poetici di un pittore: Le rime di Gian Paolo Lomazzo, 1977. P. ZUMTHOR, Jonglerie et Langage in «Poétique» 11 (1972), p. 333. M. ARIANI, ‘Il puro artifizio’. Scrittura tropica e dissoluzione melica nrlla Canace di Sperone Speroni, in «Il contrasto» 3 (1977), p. 94.

16. Dialogo della retorica, in Trattati del Cinquecento, vol. 1. Ed. Mario Pozzi,

Milano 1978. C. OSSOLA, Autunno del Rinascimento, p. 87.

17. C. KOELB, The incredulous Reader: Literature and the Function of Disbelief, Ithaca 1984, pp 37, 41, 57, 228-30.

(27)

18. L. DA VINCI, The Treatise on Painting, vol. 1 ed. A. P. Mc Mahon,

Princetm 1956, p. 277.

19. Vedere la sua introduzione a Two Tales of the Occult, Nre York 1970, x. Su

Ovidio e Vertumno vedi L. BARKAN, The Gods Made Flesh:

Metamorphosis and the Pursuit of Paganism, New York 1986, p. 82.

Sull’antiritratto in contesto surrealista vedi R. R. HUBERT, L’Antiportrait

Surréaliste, in Théorie Tableau. Texte. Ed. M. A Caws, Parigi 1978, p. 6. 20. Il sonetto è incluso in A. QUONDAM – G. FERRONI, ‘La locuzione

artificiosa’ Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del Manierismo, Roma 1973. p. 374.

21. G. BACHELARD, The Poetics of Space, New York 1979, p. 149. L. ABEL, Metatheter: A New View of Dramatic Form, New York 1963, p. 72.

22. P.FIRMAT, Literature and Liminality: Festive Readings in the Hispanic Tradition, Durham 1986, xiii. V. TURNER, Dramas, Fields and Metaphors: Symbolic Action in Human Society, Ithaca New York 1974.

23. P. FIRMAT, Literature and Liminality Festive Readings in the Hispanic Tradition, Durham, NC., 1986, xii. M. BAKHTIN, Rabelais and his World,

Cambridge, Mass., 1968. N. Z. DAVIS, Society and Culture in Early Modern

France, Stanford 1975, p.100.

24. M. FAGIOLO, Le due anime nelle ville della Tuscia, in Il giardino d’Europa: Pratolino come modello nella cultura europea, Milano 1986, p.

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