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P I G , 1941-1950

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Academic year: 2021

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PARTE I

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CAPITOLO I

POESIA (GRECO-LATINA) A CASARSA

Fino a qualche anno fa i più pensavano che Pasolini avesse esordito, appena ventenne, con la celebre plaquette del luglio 1942, pochi sapevano che già tre mesi prima dell’uscita di Poesie a Casarsa il nostro aveva cominciato a pubblicare alcuni saggi di letteratura, cultura e società sulla rivista del Guf bolognese (Architrave), proseguendo l’opera fino al 1943 sia sul medesimo giornale sia su Il Setaccio (persino, qui, con l’aggiunta di poesie, disegni e scritti di storia dell’arte); e che ancora studente di prima liceo aveva vinto i Ludi Juveniles del 1938 con la tragedia, in prosa, La sua

gloria. In occasione del quarantennale dalla morte, la Biblioteca dell’Archiginnasio ha

realizzato un progetto di catalogazione, digitalizzazione e messa in rete degli juvenilia pasoliniani del 1942 – compresa la preziosa plaquette edita dalla libreria antiquaria Landi – che non ha avuto il solo merito di rendere più accessibile del materiale raro e di contribuire alle ricerche su quel Pasolini dimenticato (e in parte ignoto) lumeggiato a suo modo anche dall’archaiologia, ma la benemerenza di riportare pure alla luce un nuovo articolo, fino ad allora sconosciuto e perciò assente nell’edizione degli “omnia” diretta da Siti. Si tratta di Nota sull’odierna poesia, pubblicato assieme a due disegni – anch’essi inediti – sul numero dell’aprile 1942 di Gioventù italiana del Littorio.

Bollettino del Comando federale di Bologna, rivista cessata nell’ottobre successivo e

subito rifondata con il titolo de Il Setaccio, di cui Pasolini stesso sarebbe divenuto vice consulente e redattore; è un breve scritto da tenere qui in grande considerazione e per il suo contenuto e per la sede in cui è uscito1. Legittimandosi con una citazione incipitaria tratta dal saggio Di noi contemporanei di Enrico Falqui (1940) – il quale non a caso di lì a qualche anno avrebbe fondato la rivista Poesia con l’obiettivo di tradurre e divulgare la poesia contemporanea mondiale dopo il lungo periodo di protezionismo (e classicismo) culturale fascista –, lo studente dell’Alma Mater fresco dell’esame di latino sostiene che non ci dovrebbe essere contrapposizione fra letterature classiche (e classici italiani) e scrittori ‘viventi’, sia nel campo degli studi sia in quello della più semplice lettura privata; indica la necessità del contemporaneo e invita i pupilli delle scuole a prendere in mano, accanto a Virgilio, Dante e Leopardi, anche i libri di Ungaretti, Montale o Betocchi. Nonostante la penna sia tagliente2, va evidenziato che non sprona  

1 Nota sull’odierna poesia, ripubblicata sulla Domenica de Il Sole 24 Ore del 3 aprile 2016 con il titolo Leggere i

poeti del proprio tempo, è oggi reperibile nelle raccolte digitali della Biblioteca dell’Archiginnasio (Archiweb),

all’interno della sezione Pasolini ’42: <http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/gil/gil9.pdf> (11.07.2018). 2 «Si badi che in questo confronto tra odiernità e tradizione, io non mi lascio cadere nell’errore, che molti, e in mala fede commettono, di paragonare i morti (che hanno secoli di storia) ai vivi (che non hanno che pochi lustri), concedendo scioccamente la palma della poesia a questi o a quelli. [...] Una cultura contemporanea magari in contrapposizione a quella tradizionaleggiante dei loro stessi professori, che, per ignoranza della vita che vive e diviene intorno a loro, o per pigrizia, o, bisogna ammetterlo, perché occupati da rispettabili studi filologici o classici,

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ancora all’illecito, ossia a quegli autori a lui già cari ma invisi al potere (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud o, per passare alla prosa, Proust e Dostoevskij): il discorso resta dentro i confini nazionali, l’infrazione della norma è soltanto cronologica; e in ogni caso non è sovversiva perché, in pieno accordo con il coevo progetto della rivista Eredi – che lui sognava di fondare assieme ai compagni di università e amici Leonetti, Serra e Roversi –, crede che non possa esserci valida poesia contemporanea che eluda o addirittura combatta la tradizione letteraria. Dunque: a vent’anni come a cinquanta Pasolini percepisce con nettezza la necessità dei classici, e greco-latini e italiani; ovviamente non bisogna confondere l’autore di questa nota (e il poeta che il presente capitolo cercherà di illustrare) con il corsaro non scrittore di Petrolio/Vas, non romanzo che non comincia, tuttavia, come rivelano la stessa definizione di «Satyricon moderno»3 e qualsiasi lettura approfondita della famosa opera postuma, è vero che persino l’innovazione più esibita e sconvolgente nasce dal classico, che si tratti di Petronio, Luciano o di moderni come Dostoevskij, Sterne, etc. Con ciò non voglio temperare l’innegabile audacia del nostro: anzi i passi citati a piè di pagina la evidenziano; e la mette bene in luce l’intera Nota, che non è «un invito a tuffarsi nella contemporaneità per ritrovare l’amore per i classici»4, bensì uno sprone a tuffarsi nella ‘vita’ e ad amare i contemporanei tanto quanto i poeti antichi. Mi preme solo ricordare che a questa soglia temporale, cioè prima dell’amicizia con Giovanna Bemporad, della chiamata alle armi e della rivelatrice sconfitta bellica, non c’è il minimo accento politico nella polemica culturale e letteraria da lui sunteggiata. Nota sull’odierna poesia sviluppa un discorso esclusivamente letterario, perché Pasolini resta ancora – seppure per poco – il giovane fascista lettore e cultore dei must del suo tempo ritratto nel capitolo zero; o, se si preferisce, la crisalide che deve ancora evolversi in farfalla. Quali più (D’Annunzio) quali meno (i tragici greci, Virgilio), gli idoli saranno tolti dal piedistallo a favore dei moderni solo nel cuore della guerra (1943-1945): nella periferia friulana messa in pericolo dai rastrellamenti nazi-fascisti, dalla guerriglia partigiana e dai bombardamenti americani. Insomma, l’articolo dimenticato ci ricorda un particolare che è in realtà una delle pietre miliari della sua intera opera e, per conseguenza, del mio studio: ossia che la sete di conoscenza di Pasolini è onnivora e insaziabile, che la sua ‘naturale’ curiosità concilia letture allora come oggi di frequente concepite in contrapposizione o incompatibili. Dopo la cruciale esperienza della guerra, il ragazzo che già da bambino aveva letto epiche antiche e moderne (Omero e Virgilio; Camões e Salgari5) e, da liceale, Sofocle accanto a Shakespeare e al vate nazionale, diventò ancora più vorace: in  

vogliono generalmente guardare con un disprezzo che li rende torpidi, la poesia di coloro che vivono, quasi le Muse vi fossero rifugiate nel polverone degli Archiginnasi, o gli uomini, improvvisamente, avessero tramutato le possibilità e le energie della propria costituzione biologica o intellettuale. [...] Si dedichino dunque, col cuore in pace, i giovanissimi a formarsi una cultura contemporanea: e soltanto così potranno onestamente inserirsi nel vero movimento della cultura italiana, magari in contrasto vivere con le idee dei loro propri professori o della grassa borghesia letteraria» (PASOLINI 1942, p. 6).

3 P

ASOLINI 1998c, p. 1161. 4 A

NONIMO 2016, p. 33.

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armonia con la scelta di intraprendere un curricolo universitario di modernistica ampliò l’orizzonte di letture finanche superando il mero ambito letterario; e proprio negli ultimi mesi del conflitto diede un personalissimo contributo alle sullodate idee di Falqui: da traduttore in friulano della poesia mondiale, affiancato pure dagli allievi di Versuta, e per giunta, qualche anno più tardi, come collaboratore di Poesia. Se oggi la difesa dell’autonomismo friulano – non solo linguistico – è parsa ad alcuni retrograda6, non lo sono di certo le esperienze didattiche nate in seno all’Academiuta: oltre che per le ragioni già esposte, perché sia dai pochi quaderni pubblicati tra il 1944 e il 1947, oggi proficuamente riuniti in un volume singolo7, sia dalla sezione finale dei Meridiani dedicati alle poesie, che raccoglie le versioni degli anni ’40 e ’50, emerge netta la necessità di leggere i poeti del proprio tempo accanto agli antichi; con una svolta cruciale, però: fra i sedici autori tradotti durante il lungo soggiorno friulano vi è soltanto una voce millenaria. Malgrado i fertili anni ’60, segnati a fondo dalle riscritture e traduzioni classiche, paiano riproporre la stessa prospettiva esposta nel primo articolo (ossia l’imprescindibilità della tradizione accanto all’importanza dell’«odiernità»), l’inclusione della sola Saffo nel laboratorio didattico-metafrastico è emblematica; indica che dopo i classicismi scolastici e fascisti la tradizione può anche essere dissacrata e posta su un piano secondario rispetto a quello della letteratura più recente e per noi eccentrica (giapponese, per esempio). Come il capitolo cercherà di dimostrare, nell’immediato dopoguerra il nostro è tutt’altro che disinteressato nei confronti della poesia greca e latina, ma non bisogna cadere nell’errore di desumere dalle pagine che seguono una primazia del classico: è solo nel primo paragrafo che al focus sui classici antichi corrisponde un loro effettivo predominio, retaggio della cultura discussa nel capitolo precedente. Poiché questa tesi non può essere una piccola enciclopedia pasoliniana, non mi addentrerò nei testi medievali, moderni e contemporanei che traspaiono ora più ora meno cristallini dalle opere datate agli anni 1943-1950; tuttavia è doveroso ricordare qui, come ulteriore premessa e monito, che accanto ai protagonisti del presente capitolo il giovane Pasolini aveva letto e amato le esperienze e tradizioni poetiche più varie: dalla lirica provenzale ai canti popolari, dai modernisti spagnoli a Kavafis, dai simbolisti francesi a molteplici poeti italiani. Di fronte a tale varietà appare chiaro che nel caso del poeta friulano come di quello adulto entra in crisi la stessa idea di classico quale modello; se si può legittimamente parlare di classicismo/i pasoliniano/i e considerare ormai lo stesso Pasolini un classico8, vale ancora una volta quella contraddittorietà a lui tanto cara e da tempo rivalutata pure in sede critica. Citando l’articolo scoperto nel 2015 posso concludere che finalmente ora ci addentriamo in un classico-contemporaneo.

 

6 Ma è illuminante sulla questione F

ELICE 2016. 7 Vd. N

ALDINI 1994, pp. 31-255.

8 Contrariamente a quanto pensa uno dei suoi massimi studiosi: cfr. S

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1.1. Lirici greci nell’Urtext di Poesie a Casarsa: tra classicismo scolastico e

classicismo ermetico

Se tale compresenza segna anche questo nuovo caso di studio, devo però puntualizzare che siamo ancora allo stadio larvale; dobbiamo addirittura fare un passo indietro rispetto agli ultimi due paragrafi del capitolo zero e tornare allo studente che compone l’Edipo all’alba. Proprio il dramma del febbraio-aprile 1942 è vicino, nello stile, a I confini: cioè alla raccolta di poesie composta a partire dall’estate 1941, in italiano, ma naufragata a seguito della predilezione per la lingua friulana, che diede vita a un’opera tanto più breve quanto più innovativa: Poesie a Casarsa9. È importante che l’unico testo friulano de I confini, che diverrà il secondo della plaquette bolognese e poi de La meglio gioventù (1954), contenga il primo riferimento nominale al personaggio mitico di Narciso (El nini muàrt): il nuovo universo poetico sembra subito associato alla classicità greca (!); approfondirò il tema nel prossimo paragrafo, qui basta anticipare che il dialetto porta con sé quel classicismo di svolta, ‘fantasmatico’10, che stride a confronto con quello dei primi versi italiani superstiti. La lingua di questi ultimi non è solo improntata all’aulicità della tradizione letteraria de la «Grande Patria» (Foscolo, Leopardi, Tommaseo e D’Annunzio), si confà pure al classicismo più recente, lo stesso valutato con favore nella Nota sull’odierna poesia; e anche se lì non viene fatto il nome di Quasimodo, l’iniziale apprezzamento di Pasolini per il siculo-greco è assodato: lo ricaviamo dall’epistolario11, oltre che dall’Urtext di Poesie a Casarsa. Insomma, classici italiani a parte, la lingua de I confini è sospesa tra (neo)classicismo (scolastico) ed ermetismo lirico-greco; o, se si preferisce, tra il segno magistrale dei professori e quello di un altro poeta ‘fraterno’: nonostante le innovazioni del poeta-traduttore e la sensibilità stilistica di Gallavotti e Coppola, le versioni dei tre sono ancora accomunate da un lessico medio-alto che di lì a poco Pasolini avrebbe cominciato ad accantonare, optando al contrario per parole umili – persino senza attestazioni letterarie – da incastonare in forme metriche tradizionali12. Nella raccoltina del 1941-1942 il nostro assume il verso libero e tendenzialmente anche la medietà espressiva dei Lirici greci (e delle poesie di Ed è subito sera coeve alle traduzioni), cioè adotta un linguaggio consacrato sì alla tradizione ma senza eccessi; eppure la ‘sostanza’ rimane classicistica,  

9 La svolta linguistica è ricordata dallo stesso poeta in un lungo saggio apparso prima su Nuovi Argomenti (1966) e poi in Empirismo eretico (1972), ossia Dal laboratorio: appunti en poète per una linguistica marxista: vd. PASOLINI

1999a, pp. 1316-1318.

10 Cfr. supra, sottopar. 0.3.1.

11 «Adesso non faccio altro che studiare e leggere. Ho letto Le occasioni di Montale che mi è piaciuto ma non mi ha entusiasmato, entusiasmato mi ha invece la traduzione di Quasimodo di lirici greci. ‹O incoronata di viole, divina dolce ridente Saffo!› (PASOLINI 1986, p. 12; da una lettera a Franco Farolfi del settembre 1940).

12 Di «neoclassicismo ermetico» – a proposito di Quasimodo – ha parlato S

ANGUINETI 1985, p. 111, del quale,

come si vedrà, condivido l’analisi stilistico-lessicale e l’idea della ‘parziale’ innovazione del dettato poetico dei Lirici

greci rispetto a quello della tradizione metafrastica precedente, non la (s)valutazione complessiva e delle traduzioni e

delle poesie in proprio (che accomunava Sanguineti al più dell’intelligencija letteraria italiana dalla fine degli anni ’60 in poi, Pasolini compreso). Le versioni di Coppola si leggono all’interno degli articoli de Il Popolo d’Italia citati

supra, sottopar. 0.2.1 (ma cfr. anche CANFORA 2005, pp. 15-16, 18-19); quelle di Gallavotti, oltre che nei diversi

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analoga a quella delle versioni vergate da accademici più noti di Gallavotti e Coppola (che il poeta siciliano cercò di svecchiare13): anche perché in diversi componimenti, complici altri modelli italiani come Foscolo, la lexis poetica si complica nella sintassi e in più la lezione ermetica, che travalica il singolo caso di Quasimodo14, permea la stessa esposizione concettuale, figurativa15. Per evitare un’indeterminatezza pari a quella dei testi in oggetto vediamo quali sono ne I confini le tracce di questo vocabolario classicistico congenito tanto ai professori quanto ai poeti. L’esempio più semplice ed emblematico è la predilezione per «fanciullo/a», con valore erotico, a premio su una gamma lessicale più ampia nel greco (oltre a πάις/παῖς, e.g. ἀΐτας, νῆνις, [ἡ] παρθενική);

cliché metafrastico invalso non solo fra i grecisti della prima metà del Novecento quali

Giuseppe Fraccaroli, Ettore Romagnoli o Manara Valgimigli16 – e pure un poeta come Quasimodo, che solo in alcuni casi preferisce tradurre «ragazzo/a» –, bensì perfino in versioni della seconda metà inoltrata17. Per la verità anche nell’Urtext di Poesie a

Casarsa si assiste all’ondeggiamento tra «fanciullo» e «ragazzo», ma come nei Lirici greci a netto favore della voce dotta: ne I confini si contano nove occorrenze di

quest’ultima contro le quattro del vocabolo più comune. Conviene ora citare l’intero elenco delle convergenze lessicali di rilievo fra i Lirici greci e la prima raccoltina pasoliniana. «Dolce/dolcezza», «languido», «molle», «soave», «tenero/tenerezza», cinque sinonimi usati da Quasimodo per rendere l’area semantica espressa pure in questo caso da uno spettro di vocaboli greci più variegato: ἁβρός/ἁβρῶς, ἆδυς/ἄδεα, ἀπαλός, γλυκερός, µελιαδής, µείλιχος/µέλλιχα, τακερός e τέρην. Poi: «amoroso» (nel senso di amabile, piacevole18), «bufera», «celeste» (ossia ‘del cielo’, quindi nell’accezione di divino), «chioma», «orto» (nell’accezione di ‘giardino’) e «tremante/tremare» (solo nella resa di SAPPH. 31 V. in stretta relazione con il greco: τρόµος, v. 13). Vi si può accostare una lista di arcaismi usati da Pasolini a prescindere  

13 Stile a parte, è comune a tutti e quattro il culto di una Grecia «lucente»: un aggettivo emblematico dell’idea di classicità che alla soglia degli anni ’40 avvicinava i nostri quattro a numerosissimi altri; cfr. e.g. la continuità concettuale fra GALLAVOTTI 1948c, p. 76 e PASOLINI 1999a, p. 195 (cioè lo scritto giovanile I nomi o il grido della rana greca, sul quale tornerò con maggiori cure nel seguito del capitolo). Evidente che stile e idee vanno a braccio,

cioè che lo stile sottende un’idea ben chiara della Grecia.

14 Tra Betocchi, Bigongiari, Luzi e Sinisgalli nel “fondo” giovanile della biblioteca privata di Pasolini si contano ben sei raccolte di poeti ermetici; alle quali si potrebbero aggiungere anche due libri di un critico a loro vicino, Carlo Bo; cfr. CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, pp. 12, 19, 24.

15 Vd. specialmente le prime tre poesie della raccolta: Divengo la sera, La chioma di Berenice e Riso poetico

d’Apollo, che difficilmente uno specialista di Pasolini riuscirebbe a riconoscergliele proprie: PASOLINI 2003b, pp.

534-535. 16 Vd. F

RACCAROLI 1913, pp. 217, 221, 288, 292, 293, ROMAGNOLI 1932, pp. 165, 245, 278, 308, 309,

ROMAGNOLI 1933, pp. 149,159,163,166,167,VALGIMIGLI 1942,pp. 29, 37, 39, 47 e, in più, GALLAVOTTI 1948b, pp.

85, 87, 88, 93, 95, 107. 17 Vd. e.g. P

ONTANI 1965, pp. 27, 41, 65, 103 (un’edizione che due decenni più tardi entrò nella stessa biblioteca

privata di Pasolini; cfr. CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, p. 248), SALVETI 1976, pp. 37, 47, 59, 63, 65, 77, 79, 87, 91 e PORRO 1996, p. 233. Qui non c’è l’occasione per discutere i singoli passi e affrontare nei dettagli l’argomento;

preciso soltanto che c’è differenza notevole fra le traduzioni esperte di Pontani e Porro e l’opzione sistematica di Salveti per fanciullo/fanciulla, ma quali più quali meno tutti e tre ereditano una tradizione che invece altri traduttori (come Ezio Savino o Enzo Mandruzzato) hanno rifiutato con assoluta fermezza.

18 A differenza dei vocaboli appena elencati è usato una sola volta: nella traduzione di ἰµέροεν (S

APPH. 31 V., v. 5); vd. QUASIMODO 1940, p. 35. Unicum anche in Pasolini, quale attributo dei «fanciulli» (PASOLINI 2003b, p. 554 = Immagine amorosa, v. 7).

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da Quasimodo: «agro» (aggettivo), «apolline» (sic), «bove», «carme», «clivo», «colà», «dispregiare», «dolersi», «effige», «fausto», «ferale», «larva» (nell’accezione di fantasma), «lagrimare», «languire», «lungi», «meco», «mena», «pei» (‘per i’), «romito», «rorido», «sembianza»19. Naturalmente, presi di per sé, i due elenchi non sono illuminanti; occorre quindi inquadrarli nell’universo tematico della raccolta e procedere inoltre a qualche esame testuale minuto: comincio dall’analisi di una poesia rivelatrice, intitolata Traduzione da Alceo:

Nel tempo quando tra i bianchi monti Sirio i giorni brucia, e li governa, ti vidi in Orcomeno.

Colà il sole così dolcemente ferisce, non toglie all’uomo fierezza; ed al fanciullo strappa melodie col flauto che molle si duole20.

Correttamente nell’edizione di Siti è specificato che non si tratta di una traduzione vera e propria ma di un testo autonomo ispirato al fr. alcaico 347 V., ossia al frustulo di simposio estivo trasmessoci dai Deipnosofisti di Ateneo21; un approfondimento è tuttavia possibile e opportuno. In primis io avrei indicato con maggior evidenza (e precisione) il valore pseudo-metafrastico della poesia: senza dubbio, come è suggerito nei Meridiani, Traduzione da Alceo si misura con l’idea complessiva dei Lirici greci, ma presuppone allo stesso tempo più di un testo specifico – tanto di Quasimodo quanto di Alceo –; cioè credo che Pasolini abbia interpolato frammenti diversi (ALC. 346 e 347 V.), e ambito così a ricavarne una poesia “nuova” e integra, come aveva già fatto l’autore di Tramontata è la luna (scil. SAPPH. 168B; 47; 130, vv. 1-2; 146; 36 V.) e Solo

il cardo è in fiore, che traduce proprio ALC. 347 reintegrando nella seconda strofa SAPPH. 101A V22. In secundis aggiungerei che al dolce canto della cicala (ἄχει δ’ ἐκ πετάλων ἄδεα τέττιξ23), amplificato da Quasimodo per il tramite di Saffo («Acuta tra le foglie degli alberi / la dolce cicala di sotto le ali / fitto vibra il suo canto [...]»24), il  

19 Poiché questa tesi non ha lo scopo di catalogare gli stilemi della poesia pasoliniana, né degli echi quasimodiani, non ho dato conto dei numeri e dei luoghi delle occorrenze elencate; le liste costituiscono solo una prova dell’idea al centro di questo paragrafo – liste che chiunque potrà verificare prendendo in considerazione QUASIMODO 1940, pp.

31-228 e PASOLINI 2003b, pp. 534-575. Sarò puntuale solo negli esempi che seguono.

20 P

ASOLINI 2003b, p. 568.

21 Cfr. PASOLINI 2003b, p. 1616, dove si puntualizza che il titolo del nostro ammiccava alle traduzioni dell’amato Quasimodo.

22 Non è secondario rilevare che ambo i frammenti alcaici citati nella poesia (datata all’estate 1941) furono letti, tradotti e commentati da Coppola nella lezione del 15 gennaio 1941: cfr. il Registro delle lezioni di Lingua e

letteratura greca dettate dal Professor Goffredo Coppola nell’anno scolastico 1940-1941, p. 7 (ASUB, Registri delle

lezioni, Busta 59/a 51); parimenti notevole che della sullodata summa saffico-quasimodiana Pasolini si sia ricordato solo pochi anni dopo Traduzione da Alceo, anzitutto come autore dei Tre framens da Safo e pure in testi in proprio quali I nomi o il grido della rana greca, numerose poesie minori e il laboratorio di Amado mio.

23 A

LC. 347 V., v. 3.

24 Q

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nostro ha sostituito un idolo non molto dissimile dalla tradizionale auletris, tornata alla ribalta con i decadenti25, però connotato ambiguamente: mentre nel greco e nella traduzione italiana il contrasto è tutto esterno, giocato fra la dolcezza del verso animale – nonché quella sottintesa del vino – e la penosità del calore estivo26, nel testo in esame l’antitesi diviene interna al ragazzino e al solleone; e se quest’ultimo si limita a «dolcemente ferire», la sineciosi è subito raddoppiata: il suonatore di aulos «strappa melodie», «molle si duole». L’integrazione erotica rispetto alla lacuna del greco, con ogni probabilità memore di ALC. 346 V. (ἄϊτα, v. 3, tradotto appunto «fanciullo» dal siculo-greco27), e la propensione all’ossimoro vanno entrambe tenute in gran conto perché sono elementi tipici dell’intero classicismo pasoliniano, sia quello stucchevole discusso in questo paragrafo sia quello di graduale svolta risalente agli anni successivi. «Colà», «fanciullo», «molle» e «si duole» sul piano stilistico-verbale; Sirio, Orcomeno e lo strumento a fiato su quello concettuale; e la citazione-“traduzione”-interpolazione alcaica su quello intertestuale: sono tutti segni espliciti della conformità de I confini alla

vulgata classicistica. Anche la produzione poetica in friulano e in italiano datata al

dopoguerra è popolata di amabili ragazzini, ma sull’esempio illuminante del «nini» Narciso sono chiamati ora «frus» ora «frutìns» ora «zuvinùs», o più semplicemente «ragazzi» – più di rado «fanciulli»28 e «giovinetti» –; e in ogni caso senza schermi nobilitanti: cioè senza flauti, zufoli, ghirlande, lucerne, etc. e senza più toponimi puramente suggestivi come accade invece ne I confini e in altre raccoltine minori mai confluite nella produzione riconosciuta (Le cose, Poesie, Canzoniere per T.). A seguito di un’esperienza straordinaria quale l’insegnamento tra Casarsa e Versuta e grazie all’accumulo di nuove letture, il nostro maturò e capì che per descrivere in poesia il fragile eden friulano non c’era bisogno solo di una lingua in tutto diversa da quella de I

confini, ma anche di «fantasmi» testuali, cioè cripto-citazioni; e persino, con afflato

opposto, di simplicitas e maggiore fedeltà al reale – non ancora, beninteso, ai livelli dei decenni seguenti. Ne I confini come in altri versi precoci, seppure posteriori all’innovazione delle Poesie a Casarsa, il paesaggio naturale e umano appare inautentico, specie se confrontato con quello della plaquette e degli altri testi migliori raccolti ne La meglio gioventù: dove infatti ai quadretti paesistici, ispirati talvolta agli squarci mediterranei dei frammenti di Saffo, Alceo, Anacreonte o Ibico talaltra all’opera bucolico-georgica di Virgilio, subentra invece – in parallelo a quanto avviene nella coeva produzione figurativa – il paesaggio interiore, popolato dalla brama erotica (i ragazzini sopra allusi) e autoerotica (Narciso e la madre29); anch’esso ricco di memorie letterarie, tuttavia non più prioritariamente greco-latine (o siculo-greche) e soprattutto meglio assimilate grazie alla continua allusione al proprio universo spirituale – o  

25 Per un esempio vd. supra, sottopar. 0.3.1.  

26 Ma in quest’ultimo caso il greco, rispetto a Solo il cardo è in fiore, è più esplicito: ἀ δ’ ὤρα χαλέπα (v. 2). 27 Vd. Q

UASIMODO 1940, p. 91.

28 Credo però che i fanciulli de L’Usignolo della Chiesa Cattolica discendano da Penna, non più da Quasimodo e i vari grecisti.

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psichico, se si preferisce. Traduzione da Alceo è un testo rappresentativo anche di questa tendenza al quadretto neoclassicistico, eppure, come si è visto, non è privo di contributi personali, con molta probabilità generati dal desiderio di rivaleggiare con il famoso poeta-traduttore; Meditazione esemplifica di converso meglio di qualsiasi altra poesia un tipo di idillio senza nerbo:

Vengono le fanciulle, lasciano dolci grumi come sera sui muri, si ridistende la tersa nube, e ritorna il sereno.

Si dibattono corpi nudi, lottano in gara, nel fiume si specchiano, viene la sera e ritorna la solitudine.

Così colombe solcano il cielo, fonti sono turbate, fuggono carri sotto madide nubi, ma tutto corre, indietro resta, trema nella memoria, labile30.

A stento è possibile inserirla nel quadro generale della poetica pasoliniana: se lo stile non è aulico né ermetico come in altri componimenti della raccolta, suona però algido e secco; non affiora mai quell’espressionismo tipico di quasi tutta l’opera poetica, cioè fino agli inoltrati anni ’60. Il poeta è preso da notazioni esterne ed estranee («fanciulle» descritte con opacità, fanciulli impegnati in evidenti attività atletiche, colombe svolazzanti, fonti increspate, corse di carri), di fronte alle quali i motivi saffico-virgiliani della solitudine e del tempo che corre irreparabile paiono unicamente esornativi: ossia ulteriori tessere di un mosaico senza coesione. Credo non sia opportuno approfondire forme e contenuti de I confini, ma convenga solo discutere di qui alla fine le precise reminiscenze lirico-classiche.

Citazioni da Saffo, Alceo, Anacreonte e Ibico ricorrono in versi in cui non altrimenti da quanto accade in Meditazione e Traduzione da Alceo Casarsa scompare dietro a una scenografia ellenica: a parte l’onomastica e i dati stilistici discussi finora, dei lirici greci originali e quasimodiani sopravvive il paesaggio naturale e umano; e appunto con tale evidenza da nascondere l’amato paese materno, che pure è il protagonista indiscusso sia dell’Urtext sia di Poesie a Casarsa. In Ad un’ignota, vista al tramonto, quarto componimento della raccolta31, Casarsa diventa una polis, una «città» (v. 2) dotata  

30 P

ASOLINI 2003b, p. 560.

31 «Il presagio del tuono, / dietro i valichi della città / travolta al sonno, / allibisce di lampi. // Il vento porta rovesci, / dai sobborghi, la sinistra minaccia. // Tenerezza ora mi prende / di te, o lucifero, o dolce peccatrice, / fanciulla che dormi» (PASOLINI 2003a, p. 536).

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persino dei «sobborghi» (v. 6), perciò grande quasi quanto il capoluogo di Lesbo: la Mitilene allegorizzata nei famosi carmi sulla nave-stato tralasciati dalla selezione del siculo-greco ma accuratamente discussi a lezione dallo stasiotikos Coppola (ALC. 208a, 6, 73 V.)32; dico ‘quasi’ perché la predilezione per l’indefinitezza dei Lirici greci e la chiusa erotica della terza strofetta indicano con chiarità qual è la lettura pasoliniana degli ipotesti greci: cioè astratta e sensuale, di certo non storicamente determinata né politica. Resta però il fatto che qui compaiono per la prima volta due parole che avranno lunga vita dopo la piccola rivoluzione de Le ceneri di Gramsci e sono assenti tanto nelle altre poesie de I confini quanto ne La meglio gioventù, dove Casarsa è sempre e solo il «pais» paradisiaco in cui si ritrae il poeta Narciso; «pais» anche dopo l’adesione al pensiero marxista: ‘terra’ di contadini sfruttati e costretti a emigrazioni mortali o, nei casi migliori, delusorie. Se dunque il «tuono» (v. 1), i «lampi» (v. 4), il «vento» e i «rovesci» (v. 5) non alludono a χείµωνι di ALC. 208a V. (v. 5), allora è probabile che all’origine delle prime due strofette ci siano gli ἄγριοι χειµῶνες di ANACR. 362 PMG (vv. 3-4), resi da Quasimodo con «impetuose bufere»33 – e «bufera» occorre in Notti in

Friuli con analoga citazione anacreontica34 –; e al contempo il Θρηίκιος Βορέας di IBYC. 286 PMG (v. 9), un testo che già sappiamo caro a Pasolini e approfondiremo nel paragrafo seguente. L’allusione ad Anacreonte, Ibico e inoltre – nei tre versi conclusivi – alla Saffo quasimodiana di Tramontata è la luna35, ci rivela un tratto ulteriore del classicismo de I confini: che la natura egea non è proposta soltanto come prototipo di bellezza in sé (e di grandezza anche nella sua deinotes: l’Eros/Borea «rosso di fulmini», che soffia «torbido / spietato arso di demenza»36), ma quale archetipo del paesaggio erotico. È innegabile che il v. 8 di Ad un’ignota, vista al tramonto ripropone una lettura decadentistica dell’antico (la Saffo fimminara di Pierre Louÿs, D’Annunzio e altri), però un attento esame lessicale della poesia, unito a quello intertestuale appena sunteggiato, conferma che è stato compiuto un lieve passo in avanti, ossia verso una più accurata lettura della poetessa. Si è già visto che Quasimodo gioca un ruolo cruciale, pari a quello dei maestri, eppure adesso è bene riprendere l’argomento per dissolvere un possibile malinteso. Nonostante a suo tempo le versioni del poeta siciliano non siano state apprezzate dal più dei grecisti37, e nello specifico della letteratura su Pasolini  

32 Beninteso, non è il mero lessico cittadino a richiamare alla mente A

LC. 208a V., che nei frustuli superstiti non fuoriesce mai dalla cornice figurata dell’allegoria; me l’hanno ricordato l’aggettivo «travolta» riferito a «città» e, più ancora, un verbo parimenti vivido quale «minaccia», detto del vento che porta tempesta.

33 Q

UASIMODO 1940, p. 114 = Inverno, v. 4.

34 Ma assai più esibita (e impropria) perché inserita nell’explicit di una poesia che millanta notti d’amore ‘estive’: «[...] Nella remota ombra / dei monti fluivano lampi intanto a ricordare / che anche la pioggia e la bufera e il duro / inverno non sono ingrati doni» (PASOLINI 2003b, p. 562).

35 Ancora una volta è fondamentale la mediazione del poeta siciliano perché Tramontata è la luna riunisce in una nuova composizione autonoma tre elementi comuni alla poesia pasoliniana in oggetto: il tramonto (sia pur confinato al solo titolo e imprecisato), l’equiparazione di Eros al vento (metaforica in Pasolini, comparativa nel greco di Saffo e anche Ibico) e il desiderio notturno.

36 Q

UASIMODO 1940, p. 155.

37 Ma senza lo «scandalo» della vulgata; anzi, in linea di massima i grecisti di allora furono più interessati e positivi rispetto ai più dei pochissimi – e già l’oblio è rivelatore – che oggi continuano a leggerlo e studiarlo: cfr. LORENZINI 1985, pp. 233-234, BIONDI 2012, pp. 24-25 e BENEDETTO 2012, pp. 40, 75-77.

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traduttore classico Condello abbia considerato con sufficienza la mediazione del siculo-greco nei confronti del giovane autore dei framens, altrimenti dalle Saffo di tanti scrittori decadenti quella di Quasimodo nasceva più dal greco che dal «già posseduto»38; è infatti assodato fra gli specialisti del poeta-traduttore che questi cercò appositamente il ‘diverso’ – di Saffo e degli altri lirici prima che di Virgilio, Catullo, Omero, etc. – e finì per variare e innovare la propria ispirazione39; e che i Lirici greci non elusero né il testo originale né la filologia, anche grazie al contributo generoso di filologi quali Ignazio Cazzaniga e Achille Vogliano40 e al confronto con i recensori professionisti di lettere antiche: un dialogo – quest’ultimo – che non rivoluzionò la sostanza ma produsse alcune modifiche nelle edizioni mondadoriane dell’antologia41. Io in più evidenzierei che le versioni quasimodiane convergono in molti aspetti con la stessa vulgata critica discussa nell’archaiologia! Dunque: ‘selezionando’ e traducendo i testi privi di riferimenti e racconti mitologici e in nessun modo riconducibili alla storia greca arcaica42, Quasimodo ha enfatizzato la funzione emotiva del codice poetico antico e ne I confini – più che nelle versioni in friulano – il nostro lo segue appieno; come ho anticipato nel capitolo precedente, è solo qualche anno più tardi che Pasolini saprà mettere a frutto altre letture: e dare uno sviluppo personale dopo la sequela dei lirici interpretati da Gallavotti, Quasimodo-Anceschi e Coppola43. Ma tratteniamoci ancora alcuni istanti sui versi più precoci. Ispirato da Eros, o dalla mania platonica ricordata anche dal prefatore dei Lirici greci44, il poeta siciliano aveva valorizzato dei caratteri che più tardi, con strumenti diversi, furono riaffermati pure dai critici più esperti sia  

38 F

ORTINI 1976a, p. 335. Cfr. CONDELLO 2007, pp. 31-32 e CONDELLO 2015, p. 96, n. 6. 39 Cfr. le note di Luciano Anceschi in Q

UASIMODO 1940, pp. 17-24 (in particolare pp. 23-24: «Ma ad un

traduttore [...] felicemente dotato di natura poetica [...] può anche darsi che il testo di un poeta classico o straniero si offra come suggerimento attivo di motivi lirici per una composizione nuova [e] [...] Quasimodo sembra [...] essere veramente il più adatto – oggi – per una impresa così ardua»), FINZI 1973, pp. 79-91 (vd. in particolare p. 89: «l’operazione di riduzione dei greci al linguaggio e al gusto ermetico non riesce che in parte») e SAVOCA 2002, pp.

89-90. 40 Cfr. B

IONDI 2012, p. 17 e BENEDETTO 2012, p. 76.

41 CONDELLO 2015, p. 97 parla invece di Lirici greci «a-filologici» analizzandone l’eredità nei poeti-traduttori che aderirono all’antologia tardonovecentesca curata da Vincenzo Guarracino; in parte l’analisi è condivisibile, ma sul modello il grecista si è lasciato prendere la mano e ha frainteso e bollato come a-filologia un’anti-filologia più professata da Quasimodo e Anceschi che fattuale. Prima di esprimere giudizi trancianti sarebbe opportuno riprendere in considerazione quegli studi di Gilberto Finzi, Niva Lorenzini e Giuseppe Savoca che oggi stanno incontrando il medesimo oblio in cui – salvo poche eccezioni – è caduto il poeta: in altre parole, bisognerebbe studiare i Lirici greci con a fronte sia il greco sia l’intera produzione di Quasimodo, bibliografia relativa compresa; oppure, come suggeriva Marcello Gigante, interpretare una versione d’autore senza testi a fronte ma absoluta, cioè saggiandone la mera coerenza interna (GIGANTE 1970, p. 11). Colgo l’occasione per precisare che ovviamente, di FINZI 1973, p. 90, non

condivido l’idea che il traduttore in questione abbia studiato i frammenti greci «come forse nessun altro» (perbacco!), però sono d’accordo con lui quando segnala che Quasimodo, pur da profano, ha lavorato a lungo anche sui testi greci: ciò non emerge solo dalla letteratura che ho ricordato in queste note, ma anche dalla mia (più limitata) prospettiva critica, ossia dal possibile confronto con Pasolini, che al contrario non era un neofita; la cura di Quasimodo per gli originali appare evidente proprio alla luce del paradosso di un Pasolini più attrezzato linguisticamente e criticamente – e non solo nel caso dei lirici – eppure lettore a volte di traduzioni a premio sugli originali e, quando lettore del greco, spesso lettore più spedito.

42 Spesso si dimentica che i Lirici greci non sono soltanto traduzioni ma anche un’antologia: un aspetto invece messo in rilievo dal saggio di Anceschi: vd. QUASIMODO 1940, p. 22; e oggi ricordato correttamente sia da CAPRA

2008, pp. 21-22 sia da CONDELLO 2015, p. 96, n. 3.

43 C

ONDELLO 2007, pp. 32-33 sostiene invece che il Pasolini traduttore e di Saffo e di Eschilo sia sostanzialmente neoclassicistico.  

44 Cfr. Q

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della lettera sia del quadro storico della lirica greca arcaica (come, per l’appunto, il paesaggio erotizzato)45: suo lettore «entusiasta», l’esordiente lo imitò quasi subito e con le prime armi di un’erudizione solida cercò di rinnovare a suo modo il topos dell’amore ‘più croce che delizia’: nel caso di Ad un’ignota, vista al tramonto ricorse a una sintesi singolare di Saffo, Anacreonte e Ibico, in Notte d’estate a una summa dei due poeti eolici.

Notte d’estate è una variazione dello stesso tema46: l’insonnia causata da un amore sofferto; con la differenza che qui il dolore non è lasciato al non-detto delle allusioni metaforiche e intertestuali, è esplicitato dal secondo distico. Anche dinanzi a questa poesia devo segnalare l’imprudenza di Pasolini, originata proprio dalla volontà di infilare continue citazioni degli amati classici. Se la prima parte ammicca ancora a SAPPH. 168B V., forse non senza un nuovo cenno al precedente frammento simposiale di Ibico (oltre alla similitudine del vento tempestoso, persino al decasillabo alcaico [Ἔρος] οὐδεµίαν κατάκοιτος ὥραν47); la seconda pare una sintesi della seconda strofa saffica di ALC. 45 V.48 e dei vv. 3-4 di ALC. 347 V. (o, per essere più preciso, dei vv. 5-7, 10 di Solo il cardo è in fiore): ed è evidente che un canto tanto «acuto» e «fitto» da ‘smembrare’ l’aria stona con il silenzio solitario e annichilente della notte, infranto da lampi e sospiri. Non intendo dire che quest’ultima sia una mera sciocchezza, come nel caso dei temporali invernali di anacreontica memoria citati in Notti in Friuli: l’assiduità del dolore («notte e giorno») rende realmente possibile un rapido scarto fra il vuoto notturno e la giornata popolata di cicale e ragazze lascive; però a me sembra una forzatura causata dalla fame di classici, da un’attitudine a sfoggiare citazioni talora mal digerite che non passerà del tutto nemmeno con l’età adulta49 – o, per dirlo in una riga che riassuma il paragrafo, causata dall’inesperienza che I confini attestano di continuo in simili collages di citazioni nobilitanti. Poiché sarebbe ingiusto concentrarsi su tale classicismo giovanile togliendo spazio prezioso alle numerose altre opere oggetto di questa sintesi, non procedo oltre: tornerò a occuparmi de I confini e di altre raccoltine minori solo in breve50; ora mi limito a concludere il discorso. Mentre i versi precoci,  

45 Cfr. C

APRA 2008, 27-39.

46 «Ora è notte. Io non vedo / le stelle. Lampeggia. // Notte e giorno non mai cesso / di sospirare. Anche la cicala // nuda mi smembra l’aria: / le ragazze, sul fiume, dolci e nemiche» (PASOLINI 2003b, p. 540).

47 Avanzo tale ipotesi solo in virtù del riflesso di Ad un’ignota, vista al tramonto e della testimonianza di Misa Bolotta (cfr. supra, par. 0.4): mi sono accorto che la somiglianza fra il secondo distico di Notte d’estate e IBYC. 286 PMG,v. 7 non è stringente, e del pari che il singolo verbo ‘lampeggiare’ non ha la stessa enfasi del v. 8 del greco (ὑπὸ

στεροπᾶς φλέγων) né quella del v. 4 della precedente poesia («allibisce di lampi»); ma se negli anni ’50 Pasolini continuava a leggere con piacere IBYC. 286 PMG quale perla dell’intera poesia lirica greca, tanto più deve averla

tenuta in grande considerazione dopo appena un anno dalla scoperta dell’antologia quasimodiana.  

48 Καὶ σε πόλλαι παρθένικαι πέ.[ / ....]λων µήρων ἀπάλαισι χέρ[σι / ....]α· θέλγονται το.ο̣ν ὠς ἄλει[ππα] / θή[ϊο]ν ὔδωρ. ≈ «E lì molte fanciulle muovono / molli sulle anche: con l’acqua chiara / nel palmo delle mani, come con olio / addolciscono la pelle» (QUASIMODO 1940, p. 82: traduzione fondata tuttavia sul testo stabilito da Ernst Diehl, che

integrava con ’πέποισι la lacuna al v. 5, κἀπάλων quella all’inizio del v. 6, χρῶτα all’inizio del v. 7 e ἄγλαον nell’adonio – e, giusto per insistere sulla cura di Quasimodo per gli originali, non passi inosservato che il poeta trovò insoddisfacente l’integrazione κἀπάλων, “come” più tardi Eva Maria Voigt, e perciò ne ommise la traduzione: cfr. QUASIMODO 1940, p. 234).

49 Cfr. le valutazioni di Siti in P

ASOLINI 2003b, pp.1899-1901.

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complice il magistero di Gallavotti e Coppola e il modello dei Lirici greci, presentano un vario assortimento di reminiscenze liriche, a partire dal dopoguerra Pasolini si mostra sensibile alla voce dalla sola poetessa di Ereso: è probabile che in ciò abbia giocato un ruolo anche l’amicizia e il confronto poetico-intellettuale con Giovanna Bemporad, ma dati gli ottimi studi bolognesi deve aver fiutato da solo che nessuno meglio di Saffo sembra aver espresso gli eccessi disforico-suicidi connessi al desiderio d’amore – su tale aspetto tornerò tra breve. Infine vorrei ricordare un’altra poesia de I

confini, Fui guerriero negli orti; e non tanto perché nell’explicit è rievocata la

fanciullezza ludico-omerica da cui il mio studio ha preso l’avvio51, bensì per una citazione ben diversa dalle precedenti (SOPH. Ant., vv. 101-109), che ci riporta all’Edipo

all’alba, così stilisticamente e idealmente affine ai versi che lo precedettero di pochi

mesi: in questo caso Casarsa non scompare dietro lo splendore di un idillio bucolico o la bellezza ‘reale’ di un paesaggio mediterraneo, svanisce dietro le mitiche mura di Tebe ἑπτάπυλος, con lo stesso Pasolini nei panni di un indefinito eroe – non si sa se un tebano superstite, un argivo sconfitto o, à rebours, Ettore o Ulisse: di sicuro non ancora Antigone52.

Acre a me sale agli occhi ombra di fumo su dai fuochi accesi. Mattina è questa di dolci confidenze.

Ma il vento che batte alle finestre e stilla i salici, e questo vago raggio di sole, ai consueti miti sono richiamo: e già io vedo sull’assolato pergolo la forte vita che ogni giorno guadagno fuori da queste mura53.

1.2. Amore per la morte: la Saffo friulana

È risaputo che la prima stagione lirica di Pasolini nasce nel segno di Narciso54, figura del mito greco che si intreccia al tema del doppio: anch’esso già evidenziato sia in  

51 «[...] Mi ritorna l’infanzia / guerriera nel fresco tumulto degli orti» (P

ASOLINI 2003b, p. 572 = Fui guerriero negli orti, vv. 19-20).

52 Cfr. supra, sottopar. 0.2.2 e infra, par. 3.1. 53 P

ASOLINI 2003b, p. 572 = Fui guerriero negli orti, vv. 5-16.

54 Trattandosi di una presenza macroscopica è già stata ampiamente notata; mi limito perciò a segnalare un fiore della letteratura critica relativa, a partire dal commento perpetuo di Antonia Arveda: PASOLINI 1998a, pp. 8-9, 21-22,

125, 141-142, 154-157, 162-164, 166-167, 170-171, 174-176; MEEKINS 1999, pp. 229-234; RICORDA 2007, pp. 425-428; e SANTATO 2012, pp. 50-51, 53, 69-70, 91, 108, 130-132, 151-152. Nessuna traccia dei Narcisi pasoliniani,

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riferimento a La meglio gioventù e L’Usignolo della Chiesa Cattolica sia in rapporto al complesso dell’opera (con particolare attenzione per La nuova gioventù, Petrolio/Vas e il quadro artistico-letterario novecentesco)55. Seppure connessa all’immagine di Narciso perché l’amore per la madre cela l’amore per il proprio volto, l’autorappresentazione edipica risulta invece meno indagata nella letteratura sul giovane Pasolini56. Marginali o pressoché sconosciuti, infine, altri emblemi derivati dalla grecità: quelli di Ettore e, specialmente, di Adone e Antigone57. Manca però uno studio sinottico di questo piccolo insieme di Pathosformeln: un discorso che non è possibile esaurire nella mia tesi – che ha nel mirino l’intero arco produttivo, non i singoli testi riferibili al periodo friulano – e tuttavia è opportuno avviare nel corso del presente paragrafo (e del successivo); e perciò è doverosa anzitutto una giustificazione del termine warburghiano. Non risulta che Pasolini abbia mai avuto contezza degli studi di Aby Warburg sul Nachleben der

Antike, ma sono noti i suoi interessi per la storia dell’arte e la produzione figurativa,

particolarmente fertile negli anni ’40 (e negli ultimi anni di vita)58; il nostro si era formato sotto l’egida illuminante di Longhi, quindi nel quadro di una storiografia artistica pre-iconologica, di stampo storico-formalista: come Warburg anche Panofsky e Gombrich – solo per citare i più noti iconologi che svilupparono alcune premesse del “maestro”59 – non compaiono mai negli scritti sull’arte di Pasolini. Il mio uso del termine warburghiano non è del tutto traslato, eterodosso. Dipende in primis dalla sua applicabilità a un campo ‘visuale’ assai lato, quindi aperto a raffronti con la produzione cinematografica e a interconnessioni fra i disegni e dipinti degli anni ’40 e l’opera poetica60 – e proprio quella giovanile è la più visiva, ricca di simboli e metafore. Dipende inoltre dal suo valore culturale, non strettamente artistico: cioè sia di formula patetico-iconica sia di nucleo elementare dell’espressione psicologica, da cui discende quella valenza ‘fantasmatica’ già notata a proposito dell’autore di Intorno al modo di

leggere i Greci e propria a monte, con ben altro approfondimento, del pensiero dello

studioso tedesco61. Però non ho parlato di Pathosformeln solo perché il conio warburghiano ha una forza esplosiva più consona all’esplosività del nuovo classicismo di Pasolini: una forza che il poeta-cineasta avrebbe potuto di sicuro seguire e forse inoltre apprezzare grazie a nuove letture in ambito psicologico e antropologico62; ne ho parlato anche perché il denominatore comune fra Narciso, Edipo, Ettore, Adone e Antigone è proprio il pathos (funerario)63, quel «sentimento umano della morte» già  

55 Cfr. G

ARDAIR 1996, pp. 33-128; BAZZOCCHI 1998b, pp. 101-103; FUSILLO 2012, pp. 153-177, 223-249,

298-349.

56 Cfr. e.g. M

EEKINS 1999, p. 246 (n. 3), SANTATO 2012, pp. 54, 416 e BAZZOCCHI 2017b, p. 60.

57 Cfr. ARMENIA 1997, pp. 124-125, 131, SITI 2004, pp. 177-178 e CONDELLO 2007, p. 38 (n. 28). 58 Cfr. R

EITER-ZIGAINA 1984.

59 Come è noto, Warburg non fu mai strutturato nell’accademia e non ebbe una scuola, per questo non voglio marcare eccessivamente i legami fra il pensiero warburghiano e l’iconologia.

60 Vd. infra, sottopar. 1.2.1. 61 Vd. supra, sottopar. 0.3.1.

62 Escludo invece che potesse apprezzarlo un poeta-pittore ventenne che sulla storia dell’arte antica non leggeva soltanto il modesto manuale di Ducati ma persino Winckelmann, nell’edizione universale einaudiana curata da Federico Pfister (1943). Cfr. CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, p. 27.

63 Con altri termini e prospettive notato da F

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evidenziato nei passi della tesi sui Poemi conviviali64. Naturalmente si può e si deve rintracciare una gerarchia fra quei cinque fantasmi greci: e senza dubbio l’incapacità di amare l’altro da sé, rappresentata sia dallo specchiamento/sdoppiamento narcissico sia dalla fusione erotico-identitaria con la madre, esercita un rilievo notevole; tuttavia, dall’insieme di quelle occorrenze mitico-tematiche e, soprattutto, dalla nuova evidenza della figura adonia (secondaria solo all’immagine narcissica), pare che il nostro attinga dal mito antico – ora più ora meno consciamente – come a un bacino di forme archetipiche del lutto funebre65. Sia chiaro che non deduco la centralità della morte soltanto da uno studio focalizzato sulla tradizione dell’antico nei versi di Pasolini, e dalla riferita sinossi, ma da una “semplice” lettura dei suoi versi, cioè da un’interpretazione priva di angolature specifiche: la prima produzione friulana, specie quella anteriore alla svolta marxista, ritorna molto spesso sull’eros sofferto, sul desiderio infinito, inappagato e inappagabile, eppure è racchiusa in una cornice funerea che mai si spezzerà; nei testi più “gai”, dove la morte non sembra incombere, essa è comunque un convitato di pietra. Se questo è dunque uno dei temi più ricorrenti della lirica friulana (e degli omnia pasoliniani), la tradizione classica gli ha però fornito importanti strumenti per sviscerarla in molte delle sue inquietanti sfumature.

A tale predominio deve aver contribuito tanto la tragedia attica, argomento del prossimo paragrafo, quanto la poetessa di Ereso: lo vedremo tra breve; prima urge una premessa ammonitrice. Dei frammenti saffici, sia nei versi in friulano sia nelle poesie italiane posteriori a I confini, sopravvivono caratteri topici quali l’amenità della natura, la deinotes del desiderio erotico, la terpsis dei lussi materiali e delle buone maniere: topici, beninteso, non solo nei frustuli di Saffo e nella poesia greca, bensì nell’intera tradizione letteraria occidentale, perciò non per forza antichi; eppure in alcuni casi è possibile riconoscerne la netta ascendenza classica, per esempio in Dedica, cioè nel  

64 Cfr. supra, sottopar. 0.3.1.

65 Alcune applicazioni della ricerca warburghiana all’opera complessiva di Pasolini sono pubblicate dalla rivista

online «Engramma» (alfiere di Warburg in Italia), che al poeta-cineasta ha dedicato un’intera sezione: vd.

<http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=620> (20.07.2018); su una precisa Pathosformel tragica (il canto/pianto profetico) cfr. RIMINI 2010. Non va inoltre dimenticato che tra scritti, mostre e conferenze Georges

Didi-Huberman si è più volte occupato di leggere in ottica warburghiana l’opera di Pasolini, in primis quella cinematografica; qui menziono solo il ciclo di conferenze e proiezioni dedicato alla disamina delle convergenze e divergenze fra l’opera filmica di Pasolini, De Martino e il cinema antropologico di ricerca (Roma, 17-20 febbraio 2010), e la mostra parigina da lui curata assieme ad Arno Gisinger presso il Palais de Tokyo (Nouvelles histoires du

fantômes, 13 febbraio-6 settembre 2014): nella rilettura della pagina 42 dell’atlante Mnemosyne (già presentata nel

2012 a Le Fresnoy e commentata anche su «Engramma»), tra le svariate proiezioni cinematografiche riconducibili a delle Pathosformeln di lutto funebre (e.g. Ejzenštejn, Godard, Paradžanov) figurano diversi spezzoni di film pasoliniani (La rabbia, Il Vangelo secondo Matteo e Medea). Ci tengo a precisare che nel seguito del paragrafo e della tesi ricorrerà proprio il tema di Mnemosyne 42, ma anche se apprezzo l’opera warburghiana a monte e la rivisitazione dello storico e filosofo francese a valle la mia indagine sulle formule del lutto sarà incentrata sulle attestazioni letterarie tradizionali; non per discredito nei confronti degli studi visuali (né di quelli prismatici), bensì solo perché sono proprio le Pathosformeln ‘scritte’ a essere passate inosservate: attestazioni – mi preme ribadirlo – inosservate ‘assieme’ ai disegni e dipinti coevi, che pertanto cercherò di includere nel discorso. Infine preciso che non ho una specializzazione storico-artistica, né sono un critico cinematografico professionista, perciò il dato iconico sarà sempre riferito cursoriamente, più con piglio da amatore che da esperto: a tutto vantaggio dei testi verbali; sono d’accordo con Bazzocchi che l’opera di Pasolini dovrebbe essere tenuta unita, e mi sono appunto sforzato in tal senso; ma quante e quanti sono in grado di dominare specialisticamente tutti i campi artistico-letterari nei quali si è espresso il nostro?  

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brevissimo “proemio” di Poesie a Casarsa (e poi de La meglio gioventù) – ma, bisogna sottolinearlo (!), poesia già composta nell’estate del 1941 e inclusa, in una mera versione italiana, ne I confini:

Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres-cia che tal me paìs. Fontana di rustic amòur.

DEDICA. Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. Fontana di rustico amore66.

A oggi ne sono stati evidenziati i debiti nei confronti della letteratura provenzale, altra volta invece di quella italiana, talaltra di quella spagnola67. Non mi risulta che siano state ipotizzate reminiscenze classiche a proposito dell’aggettivazione riferita all’acqua e dello stretto nesso fra acqua e amore; ci si è limitati a segnalare il ‘doppio’ della traduzione e di conseguenza il possibile sottinteso narcissico68: ciò anche alla luce della poesia successiva – sia nella plaquette sia ne La meglio gioventù (Il nini muàrt) –, poesia nella cui seconda terzina compare il primo riferimento nominale all’eroe annegato nell’acqua seducente del proprio volto. Considerando tuttavia l’estrema precocità dei versi e la vicinanza cronologica tanto alla lettura dei Lirici greci (1940) quanto al corso di Coppola su Alceo e Saffo (1940-1941), ritengo molto verosimile che l’«acqua fresca» discenda pure da loci amoeni saffico-alcaici: l’ὔδωρ ψῦχρον di SAPPH. 2 V., v. 5 – Quasimodo e Coppola traducono entrambi l’attributo greco con ‘fresco’69 – e/o lo ψῦχρον ὔδωρ di ALC. 115a V., v. 8 – in questo caso il siculo-greco opta per «fredda». Possibile che abbia contribuito persino l’acqua mirabile di ALC. 45 V., un frammento oggetto delle attenzioni del poeta siciliano come del professore campano e alluso già ne I confini: pare che Alceo definisca ‘divina’ l’acqua dell’Ebro – forse in riferimento a una cerimonia sacra in cui sono coinvolte le ragazze70 –, ma se è vero che queste si immergevano fino alle cosce71 si può ipotizzare un tempo primaverile (e un’acqua fredda) anche per il locus amoenus dell’odierna Μαρίτσα; in ogni caso ciò che più conta è l’erotizzazione nostalgica del fiume, apostrofato direttamente dal poeta nel primo verso e nella seconda strofa oggetto dell’imprecisata azione delle ragazze, numerose e sensuali. Esiste però un altro possibile raffronto con i testi greci sul tavolo e  

66 P

ASOLINI 2003a, p. 9.

67 Cfr. PASOLINI 1998a, pp. 5-6 e SANTATO 2012, p. 67. 68 Cfr. G

ARDAIR 1996, p. 43.

69 Entrambi si dimostrano così condizionati dalla tradizione lirica italiana (petrarchesca): in primavera (cfr. SAPPH. 2 V., vv. 9-11: ἐν δὲ λείµων| ἰπ̣π̣όβοτος τέθαλε / †τω̣τ. . . (.)ριν|νοις† ἄνθεσιν, αἰ <δ’> ἄηται / µέλλι|χα πν[έο]ισιν) anche nella meridionale Grecia l’acqua poteva essere ‘fredda’. Vd. QUASIMODO 1940, p. 38 e COPPOLA

2006, p. 87. Così traduce anche GALLAVOTTI 1948b, p. 83. 70 Cfr. G

ALLAVOTTI 1948c, p. 101.

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sugli scaffali di Casarsa, forse ancora più interessante e consono al quadro generale delle poesie friulane e tuttavia meno stringente dal punto di vista storico-genetico: prospettiva che rintraccia proprio nelle traduzioni di Quasimodo e nei lirici greci una fonte sicura, sebbene in progressivo diradamento, di tutta la stagione lirica degli anni ’40. Mi sto riferendo a EUR. Hipp., vv. 208-211: Πῶς ἂν δροσερᾶς ἀπὸ κρηνῖδος / καθαρῶν ὑδάτων πῶµ’ ἀρυσαίµαν, / ὑπό τ’ αἰγείροις ἔν τε κοµήτῃ / λειµῶνι κλιθεῖσ’ ἀναπαυσαίµαν; ≈ «Ah, quanto vorrei bere un sorso d’acqua pura a una fontana di fresca rugiada! Stendermi e dormire all’ombra di un pioppeto, sopra un prato verde verde». Mi sia concessa questa traduzione ludica, che interpola parole pasoliniane, come la versione friulana di SAPPH. 95 V., vv. 12-13 (λωτίνοις δροσόεντας [ὄ- / χ̣[θ]οις ≈ «lis rivis / ke la fresça rosàda / a fa flurì», traduzione che produsse frutti anche nel capitolo più “saffico” di Amado mio72) e quella cinematografica di SOPH. OC., vv. 16-17 (χῶρος [...] βρύων

δάφνης, ἐλαίας, ἀµπέλου ≈ «un posto con tanti alberi messi in fila, e con tanti fiumiciattoli e un grande prato verde verde»); il senso del gioco è evidenziare la “pasolinianità” del passo euripideo. Anzitutto bisogna dire che si tratta della nota riscrittura dell’Ippolito coronato, tragedia che valse la vittoria al poeta di Salamina dopo l’insuccesso della prima versione, giudicata scandalosa per la scena in cui la matrigna Fedra dichiarava apertamente il suo amore mostruoso al principe ateniese (Ippolito

velato)73; la battuta di Fedra appena trascritta è tratta dal primo episodio, segnato dal passaggio a una dichiarazione censurata, ossia in forma di confessione alla sola nutrice anziché all’amato (e molto graduale: traslata, equivocata e infine espressa): per essere più preciso, è la seconda battuta assoluta di Fedra dopo l’entrata in scena e la prima in cui si allude al suo desiderio erotico per il figliastro. Come accade presso altri autori classici (e.g. CALLIM. Epigr. 28 = AP 12. 43, vv. 3-4), la fontana (κρηνίς) cela un simbolo erotico, solidale sia con la sintomatologia di Fedra sia con gli altri traslati che emergono dalle successive battute pronunciate dall’eroina: il desiderato sorso d’acqua pura (vv. 208-209) sottende Ippolito, che fin dal prologo il pubblico sa essere votato alla verginità ed è per l’appunto connesso all’ἀκήρατον [...] λειµῶνα forse di un temenos sacro ad Artemide (vv. 76-77)74; e il participio aoristo κλιθείσα, congiunto a Fedra, indica eufemisticamente il vagheggiato amplesso. Pasolini deve aver appreso tutto ciò dal primo insegnamento universitario di greco, incentrato proprio sull’Ippolito di Euripide: il registro è andato perduto per cui non si può avere una conferma autoptica, ma è improbabile che un professore scanzonato come Coppola, che nel corso su Lucilio non omise i temi eterosessuali, abbia sorvolato sulla questione appena sunteggiata. Comunque sia, quel passo che con piglio ludico avevo definito pasoliniano può anche aver suscitato un interesse autonomo sulla giovanissima matricola dell’Alma Mater, di lì a poco inventrice dei primi versi: rugiada, amore inappagato, acque pure e pura  

72 Vd. infra, sottopar. 1.2.1.

73 Per una ponderata ricostruzione del dramma perduto vd. H

ALLERAN 1995, pp. 26-27.  

74 Prato che alla memoria degli ateniesi più eruditi e molto probabilmente anche a quella di Pasolini, lettore entusiasta dell’antologia quasimodiana solo pochi mesi prima del corso sull’Ippolito, richiamava il κῆπος ἀκήρατος di IBYC. PMG 286, v. 4.

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gioventù, pioppi e prati pieni di verzura non sono soltanto parole-chiave delle poesie friulane ma di tutto l’immaginario casarsese, che sopravvive fino agli anni ’60 e viene cinicamente irriso solo negli ultimi anni di vita, nella prima parte de La nuova gioventù. Che si tratti dunque delle acque di un paesaggio erotizzato (Saffo e Alceo) o di una simbolica (e reticente) fonte pura che può far impazzire d’amore – l’intero primo episodio euripideo insiste sul preciso concetto di νόσος/µανία erotica –, di certo non manca un’eco classica nel celebre esordio del poeta friulano. L’interpretazione più semplice sarebbe quella di pensare alla tradizione petrarchesca e in effetti, in virtù della sua mai estinta fortuna, non possiamo escluderla del tutto; tuttavia, come ho già cercato di segnalare in incipit di capitolo, la lirica pasoliniana è ‘poligenetica’, nasce all’incrocio di molteplici storie letterarie, e perciò i classici greci possono convivere con RVF 126 (e affini), Machado e Lorca. Considerando inoltre che Dedica compariva già in una raccolta dominata dalla tradizione siculo-greca e greca come I confini, di sicuro la prima versione del breve componimento cela addirittura il ‘predominio’ di Saffo e Alceo (e forse di Euripide) sui testi moderni: insomma, in origine le fonti letterarie della fontana di Versuta erano greche; Rudel, Petrarca e Machado sono stati “aggiunti” dopo, quando il poeta ha ridimensionato il proprio culto classicistico e preferito pascersi di altre letterature. Come si vede, non è facile capire la precisa derivazione di temi topici quali i sullodati; al contrario una cifra tipicamente saffica nei versi e nelle prose giovanili è rintracciabile nel desiderio suicida: e tanta certezza dipende dal fatto che in questo caso Pasolini ricorre a citazioni esplicite, non a riscritture fantasmatiche come

Dedica.

L’appassionata lettura dei Lirici greci nell’estate 1940, l’importanza delle tradizioni liriche post-classiche anche agli occhi dei maestri Gallavotti e Coppola75, la natura poligenetica dell’opera poetica friulana: tutto questo deve ricordare l’imprescindibilità delle mediazioni; per Pasolini e Quasimodo, e perfino per i classicisti. Se Andrea Capra ha ricordato Petrarca e Leopardi studiando il poeta siciliano76, nel caso di Pasolini valgono Leopardi e Quasimodo. Quando il nostro traduce SAPPH. 168B V., vv. 1-2: «O Zoventùt, la Lùna a va jù cu li Pléiadis»77, non lo fa perché tradurrebbe dall’italiano dei

Lirici greci anziché dal greco78, ma perché nell’adorata versione quasimodiana – accompagnata a fronte dall’originale – ha percepito e apprezzato l’eco di un autore a lui carissimo: ossia Il tramonto della luna, vv. 1-22: «Quale in notte solinga, / sovra campagne inargentate ed acque, / là ’ve zefiro aleggia, / e mille vaghi aspetti / e ingannevoli obbietti / fingon l’ombre lontane / infra l’onde tranquille / e rami e siepi e  

75 Vd. e.g. G

ALLAVOTTI 1941, pp. 178, 191, 197. Nonostante la cultura scientifica dell’epoca sia stata superata

nello specifico delle conoscenze sulla lirica (e altri ambiti), il suo minore specialismo la rendeva più aperta al confronto e alla contaminazione; per questo Gallavotti non si limitava a comparare il fr. 2 V. con altri testi della letteratura greco-latina ma estendeva il discorso a Petrarca, Poliziano e persino D’Annunzio. E Coppola, specie nei numerosi articoli divulgativi, non era da meno.

76 Cfr. C

APRA 2008, p. 18.

77 P

ASOLINI 2003b, p. 1329. Cfr. QUASIMODO 1940, p. 41: «Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte; / anche giovinezza già dilegua, / [...]» (corsivo mio).

78 Così, banalmente, C

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collinette e ville; / giunta al confin del cielo, / dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno / nell’infinito seno / scende la luna; [...] / [om. vv. 13-19] / tal si dilegua, e tale / lascia l’età mortale / la giovinezza»79. Infatti l’entusiasmo per Leopardi e Quasimodo non gli preclude il confronto diretto con il greco, sostanzialmente negato invece da Condello: il Pasolini ventenne ha mezzi linguistici ed eruditi per leggere e comprendere la lirica arcaica, sia pure secondo la vulgata dei critici riassunta nell’archaiologia; l’autore dei

framens non va quindi confuso con lo scrittore sprovvisto del tempo necessario per stare

a tavolino, “costretto” da altri impegni a tradurre l’intera Orestea di Eschilo in pochi mesi e dopo anni di digiuno dal greco. Tanto è vero che le citazioni saffiche appena alluse, sebbene con una imprecisione, recano il testo originale80: è, quest’ultimo, soltanto lo sfoggio di un enciclopedismo insaziabile o nell’uso del greco si cela un desiderio più profondo per la ‘sensualità’ di un intero alfabeto81? In ogni caso proprio a quelle citazioni si deve guardare, tra breve: alla ricerca del tema cardine della Saffo pasoliniana e a riprova che il nostro non opera solo in una tanto complessa quanto indiretta scia di tradizioni dell’antico, ma talvolta anche in autonomia (con il greco, nozioni specialistiche e idee personali in mente). Prima di centrare il discorso sulla nota dominante della Saffo friulana (sottopar. 1.2.1), è bene concludere queste considerazioni preliminari evidenziando due caratteri assenti nella primissime prove de

I confini e di converso centrali nei versi successivi.

Il primo è il tema della follia, quintessenza della letteratura e delle arti82, però non in tutti gli autori e in tutte le autrici così scoperto e ricorrente come in Pasolini (nella forma dell’ossessione erotica). Nello specifico della prima produzione lirica la mania si connette soprattutto alla figura e al complesso di Narciso, dunque all’incapacità di un amore autentico per l’altro: da cui la riduzione dell’eros a mero desiderio famelico. Traccia di questa assoluta centralità non si ravvisa soltanto nella predilezione di Pasolini per una poetessa che ha saputo esprimere il tormento erotico – al suo massimo grado – nell’amore per la morte del fr. 95 V. (non a caso incluso nella piccola antologia dei

framens83); si ravvisa persino nell’assidua rilettura di quel paidikon ibiceo che il nostro continuò ad ammirare nella versione di Quasimodo fino agli anni ’50 inoltrati, quando stava ormai tentando il poemetto civile: un genere nuovo; velato di lirismo, senza dubbio, eppure contraddistinto da un io poetico teso verso la realtà storico-sociale dell’Italia con molta più enfasi di quanto già avvenisse nei testi friulani più maturi. Conviene leggere per intero Come il vento del nord rosso di fulmini, seguita dall’originale:

 

79 LEOPARDI 2005, p. 121 (corsivi miei).

80 Ma Pasolini è impreciso di frequente, non solo con il greco!  

81 Il termine, che qui può apparire improvvido, troverà la definitiva giustificazione nel finale di capitolo. 82 Cfr. e.g. P

ADUANO 2018, pp. 9-11.

83 Non nego in assoluto la valenza rituale di espressioni quali τεθνάκην δ’ ἀδόλως θέλω (S

APPH. 94 V., v. 1) o

κατθάνην δ’ ἴµερός τις [ἔχει µε (SAPPH. 95 V., v. 11); ma credo che proprio il fr. 95 V., pur malridotto al punto tale che non se ne può dare una ricostruzione precisa, attesti l’originalità della tensione saffica verso l’annichilimento: cfr. DI BENEDETTO 1985, pp. 154-161.

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