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Capitolo VII Toletta di Venere

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Academic year: 2021

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7.1 - La Toletta di Venere

L’opera (fig.1), è nota grazie a Pietro Zampetti1, che la pubblicava come novità nell’ambito della produzione artistica profana del Lotto. Egli spendeva per il grande dipinto parole entusiastiche: «Sicchè rimasi trasecolato, davvero, e senza parola, quando, or non è molto, vidi in una collezione lombarda una grande tavola» […] «ad evidenza del Lotto, raffigurante appunto una “Venere”, intenta ad ornarsi». Il critico si era convinto che la Toletta di Venere fosse da identificarsi con la “Venere” registrata da Lotto2 in data 10 settembre 1540 come dono al nipote Mario D’Armano, presso la cui casa il pittore aveva dimorato dal 3 luglio 1540 al 18 ottobre 15423. Lo studioso sottolineava il fatto che del gruppo di dipinti di soggetto profano “offerti così generosamente” al nipote Mario, non uno era stato fino ad allora rintracciato e, relativamente alla questione della scarsità di soggetti profani nella produzione del pittore, affermava: «Il Lotto, si sa, non aveva particolare diletto a dipingere quadri a soggetto profano, come invece Tiziano» […] «salvo qualche rarissimo caso, il nudo femminile è quasi sempre rigorosamente escluso dalle sue opere. E quando c’è, esso vi appare - come nel “Trionfo della Castità” della Galleria Pallavicini di Roma - casto, senza calore, anzi addirittura di gelo».

Del resto, anche Matthew4, non molto tempo fa, scriveva: «Altrettanto incontestabile è il fatto che Lotto producesse in quel periodo pochissime opere nell’ambito dei nuovi generi inaugurati a Venezia da alcuni artisti della sua generazione - ossia Giorgione, Palma il Vecchio e Tiziano - e da un gruppo entusiasta di committenti» […] «Il nuovo genere prediligeva soggetti basati su temi antichi - allegorici, poetici e “lascivi” - che venivano rappresentati con un’inusitata insistenza sul nudo femminile e sul paesaggio» […] «I pochi nudi femminili dipinti da Lotto nel corso della sua carriera hanno tutti la stessa impronta e suggeriscono una sua riluttanza a osservare da vicino un corpo femminile senza vesti, sia vivo, sia interpretato dall’arte classica, e una mancanza d’interesse per il loro potenziale erotico».

1

P. Zampetti, Un capolavoro del Lotto ritrovato, in “Arte Veneta”, XI, 1957, pp. 75-81.

2

Ibidem, Il Libro di Spese Diverse con aggiunta di lettere e d’altri documenti, 1969.

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Lo studioso scriveva: «Nei due anni, circa, nei quali soggiornò in casa di Mario d’Armano, il Lotto

regalò al nipote un notevole gruppo di dipinti. Egli nota, infatti, già in data 10 settembre del ’40, di avergli donato una “Venere”» […] «l’unico quadro di tal soggetto, se io ben ricordo, che venga nominato nel Libro dei conti, cioè per tutti gli anni che vanno dal 1538 al 1556».

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L. Matthew, in Lorenzo Lotto. Il genio inquieto del Rinascimento, New Haven, 1997, ed. it., Milano, 1998, pp. 29-35.

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I due studiosi, dunque, erano del parere che l’artista veneziano, piuttosto restio a cimentarsi in tematiche erotico-mitologiche, avesse preferito tenersi lontano da un genere nel quale, al contrario, erano attivi alcuni tra i maggiori esponenti della pittura veneta di quegli anni - vedi Tiziano, Giorgione e Palma il Vecchio - e che attirava l’interesse di una vasta e colta committenza. Per Entrambi Lotto, nei rari casi in cui vi si era dedicato, aveva dimostrato scarsa passione nella raffigurazione del nudo femminile - reso attraverso un linguaggio il più delle volte freddo, “senza calore” - rifiutando di avvicinarsi troppo al corpo delle donne che dipingeva, immune al loro potenziale erotico. Riguardo al rapporto fra Lotto e Tiziano Zampetti scriveva: «Pensate per un momento a Tiziano, alle sue Veneri, alle sue Danai, con quel tanto di sensuale ed istintivamente femminile che esse si portano seco, e guardate a questo gruppo di giovani donne serissime, intente solo ad accrescere la bellezza di Venere, bellezza intesa soltanto come forma di perfezione. C’è evidentemente un distacco fondamentale tra le due concezioni, proprio di natura morale e filosofica. Quest’opera più d’ogni altra mette in chiaro risalto la sostanziale divergenza fra il mondo del Lotto e quello di Tiziano».

Due mondi così vicini, quelli di Lotto e Tiziano, eppure lontani anni luce: da una parte un’artista che era già una leggenda e che nelle sue opere dava voce ad un mondo arcadico, sensuale, dominato dagli istinti; dall’altra un professionista meno noto ma altrettanto geniale – definito a torto “provinciale” - poco interessato alle tematiche profane, che quando era costretto a trattarle preferiva prenderne le distanze, servendosi di un linguaggio allegorico, sempre calibrato. A dire di Zampetti, l’ambientazione stessa della “Toletta di Venere” testimonierebbe l’estraneità del Lotto alla cultura artistica veneziana facente capo a Tiziano: «Lo stesso ambiente dove avviene la scena suggerisce il raccoglimento e la serenità. Si tratta di un solitario giardino, lontano da qualsiasi occhio indiscreto, dove gli unici a vedere e a guardare sono i piccoli amorini, che ruotano intorno al gruppo sempre più felici, sempre più attenti man mano che Venere s’accresce in bellezza».

Dunque, un ambiente raccolto, appartato, quieto. A proposito dell’approccio lottesco alla tematica profana, nel suo saggio Binotto5 ha rimarcato la “freddezza alabastrina dei corpi delle sue divinità” – in netto contrasto con la “pagana ssualità dei nudi di

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Tiziano” - e rimandato a quanto affermato da Pallucchini6, uno dei pochi fortunati che aveva avuto l’occasione di ammirare di persona la Toletta: «quel capolavoro profano che è la “ Toeletta di Venere” (n. 229) di collezione privata bergamasca: una concezione casta e platonica della bellezza femminile in contrasto evidentemente con l’esaltazione pagana che Tiziano fa del nudo femminile. Nella luce fredda dell’imminente crepuscolo, sullo sfondo silente del giardino, il gruppo dei corpi nudi si compone in un fluttuare melodioso di cadenze allaccianti una figura all’altra, mentre al suolo, tutt’attorno, quel ritmo sembra espandersi nei panni sinuosi, che formano macchie vive di colore e, nella profusione di quegli oggetti di “toilette”, altrettante preziose nature morte».

Questa poetica descrizione della scena ci riporta all’articolo di Pietro Zampetti, il quale vent’anni prima aveva affermato: «La Dea è circondata dalle tre Grazie che, amorose damigelle, l’aiutano nel suo compito: una, inginocchiata, le tiene lo specchio in mano, le altre due, in piedi, le stanno acconciando i capelli, ornandoli con una collana di perle» […] «Al centro, dunque, siede la Venere, il corpo in parte avvolto in un gran manto che le lascia scoperto il busto: essa ha una mano avanti lo specchio, e con l’altra sembra voler indicare alle ancelle i capelli; ma lo sguardo appare assente e rivolto invece innanzi a sé. Intorno, volteggiano amorini, incuriositi alla scena, mentre Cupido cala dal cielo recando una piccola corona di fiori, che sta per posare sul capo della Dea. La scena avviene all’aperto, in un riposto silenzioso giardino: per terra sono sparse le vesti di Venere e delle Grazie e vi son cose d’ogni genere, per la toletta della Dea».

Oltre a dare questa minuziosa descrizione della scena, Zampetti si diceva certo che l’opera fosse riconducibile alla mano di Lorenzo: «Ho detto opera ad evidenza del Lotto: ed infatti nessuno, credo, potrebbe con serietà metterne in dubbio tale paternità, sebbene il soggetto insolito e la stupenda modernità della pittura siano tali da trarre in un primo tempo in inganno o, comunque, disorientare». Il critico era attratto dall’idea che il pittore, lontano “dal mondo classicamente positivo dei veneziani”, potesse essersi avvicinato al manierismo dei pittori fiorentini e romani e sosteneva che, se per manierismo si deve intendere “un movimento nato dall’insoddisfazione verso il classicismo rinascimentale e sollecitato da una inquieta ricerca di nuove forme d’espressione”, Lotto doveva essere stato uno dei primi artisti

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a percepire questo disagio, questa insoddisfazione. Se egli non era rimasto vittima del fascino michelangiolesco, doveva aver certamente guardato “con grande attenzione” all’arte di Raffaello, di cui avrebbe assimilato alcune formule compositive, drammatizzandole, però, attraverso un processo di rielaborazione personalissimo che lo avrebbe posto spesso in accesa polemica col maestro urbinate. L’influenza di Raffaello si sarebbe, dunque, riflessa anche nella Toletta di Venere in cui, a dire dello studioso, le “Grazie” si ispirerebbero ad alcune figure femminili del celebre Parnaso, da lui affrescato nelle Stanze Vaticane. La tela avrebbe, infine, mostrato delle affinità con un opera del Lotto, il ritratto di “Giovine malinconico” ora alle Gallerie dell’Accademia: «In entrambi i dipinti le figure sono come prese da un incantesimo che ce le allontana, non appena crediamo di poterle afferrare e penetrare: onde ne deriva un senso profondo di patetico ed umano interesse». Dalla “Venere”, che ne costituisce il centro ideale, la composizione s’allarga in un fluttuar di luci che danno vita allo spazio d’attorno: in esso, tra un silenzio ovattato pieno di misteriose lontananze, si svolge la scena. Non c’è dramma, bensì malioso succedersi di movimenti guidati da un ritmo nascosto» […] «Il richiamo al quadro delle Gallerie di Venezia è suggerito anche da altri elementi, come quel negligente abbandono di stoffe ed oggetti oggetti: là, distesi sul tavolo che conosce le pene d’amore del giovane; qui sparpagliati per terra e confusi in un prezioso accostarsi di toni freddi, violacei, argentei, rosati: in un accordo cromatico quanto meno veneziano, meno “tonale” si possa immaginare».

La natura morta ai piedi del gruppo centrale della Toletta di Venere ricordava, invece, allo studioso un’altra opera profana del Lotto, l’Apollo addormentato e le Muse7, dove le stoffe sono abbandonate nella stessa maniera apparentemente confusa: «sicchè le vesti e i vasi e gli altri oggetti utili all’abbigliamento della dea, soccorrono mirabilmente - nel loro confuso abbandono, in quell’aspetto di disordine momentaneo, come di cose lasciate lì per un momento - a mettere maggiormente in risalto, al di sopra, il malioso ed incantato ritmo delle forme femminili: i corpi agili e senza calore, le braccia e le mani mirabilmente intrecciate, infine gli amorini nel loro ruotante volo sembrano muoversi al suono di una danza».

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7.2 - “Venere adornata dalle Grazie”: il motivo nell’epitalamio di Claudiano

Nel capitolo VI ho ricordato che Christiansen aveva spiegato la diffusione dei soggetti aventi per protagonista Venere - sdoganati a Venezia da maestri quali Giorgione, Palma il Vecchio e Tiziano - come conseguenza della fortuna riscossa a inizio ‘500 dal genere letterario degli “epithalamia”; nella fattispecie lo studioso aveva accennato al celebre componimento di Claudiano, l’Epithalamium de nuptiis Honorii Augusti et Mariae, eleggendolo a principale fonte letteraria del tema della “Venere adornata dalle grazie”, affrontato da Lotto nell’opera in esame. Sulla sua scorta, Fontana lo avrebbe proposto come principale fonte di ispirazione per la Toletta. Le origini del genere epitalamico sono state ricondotte al mondo greco: all’epoca gli epitalami avevano ancora la forma di canti popolari, che venivano recitati davanti alla camera nuziale degli sposi la sera delle nozze o la mattina seguente. Questi inni erano intonati dal corteo che accompagnava la sposa a casa del consorte e spesso si protraevano per tutta la notte, concludendosi con invocazioni ad Imeneo, dio delle nozze legittime. Si ritiene che il passaggio dell’epitalamio da canto popolare a vero e proprio genere letterario fosse avvenuto con la poetessa Saffo; nel corso dei secoli esso sarebbe diventato addirittura argomento di studio nelle scuole di retorica. Tra i motivi principali che contraddistinguevano i canti saffici vanno annoverati l’apprezzamento della felicità dello sposo e della bellezza della sposa con relativa lode, il ricordo dello splendore della “stella serale” e la burla dello sposo. L’elogio alla coppia si concludeva con l’elargizione di alcuni consigli e l’augurio di una prole degna. Claudio Claudiano, nato molto probabilmente nel 370 d.C. in Egitto (Alessandria? Canòpo?) è tuttora considerato il poeta latino più celebre fra quelli attivi a Roma a cavallo tra fine IV e inizio V secolo d.C., nonostante la sua formazione culturale fosse fondamentalmente greca. Accanto ad alcune opere di carattere encomiastico e poemi epici, l’autore aveva composto anche diverse poesie d’occasione; fra queste ultime si distinguono due opere: l’Epithalamium dictum Palladio v.c. tribuno et notario et Celerina, scritto su commissione dello sposo e del padre della sposa e caratterizzato da uno stile poco elaborato, e il suo capolavoro, il celebre Epithalamium de nuptiis Honorii Augusti et Mariae. L’occasione per la realizzazione del componimento sembra sia stata offerta a Claudiano dalle nozze celebrate nel febbraio del 398 d.C. a Milano fra il quattordicenne imperatore Onorio e l’appena dodicenne Maria, figlia del politico e condottiero Stilicone, delle cui gesta

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il poeta sarebbe presto diventato cantore ufficiale, curandone la propaganda. Proprio il padre della giovane sposa potrebbe aver incaricato l’autore di scrivere il componimento anche se non è da escludere che egli abbia preso l’iniziativa autonomamente. Seguendo la tradizione - la lezione di Stazio in particolare - Claudiano, deciso a tacitare le voci secondo cui il matrimonio sarebbe stato combinato per motivi di interesse , narra dunque di come Onorio, colpito dal dardo di Cupido, si innamori di Maria riuscendo infine a farne sua moglie grazie all’intercessione di Venere. Ai versi 47-96 vediamo Cupido - a cui il poeta nell’epitalamio si riferisce sempre come Amor, allo scopo di distinguere “l’unico figlio di Venere” (destinato a saettare dei e re) dalla miriade di “Amores-Cupidines”, figli delle ninfe (i quali possono rivolgere le proprie frecce solo alla plebe) - recarsi presso la dimora della madre, nell’isola di Cipro, per chiederle di accorrere in aiuto di Onorio (vv. 47-96).

L’ambientazione della scena è descritta da Claudiano con dovizia di particolari: «A Cipro uno scosceso monte, inaccessibile a piede umano, domina con la sua ombra il lato verso lo Ionio, e guarda dall’alto l’isola del Faro di Alessandria, sede di Proteo, e le sette foci del Nilo» […] «è destinato alla voluttà e all’amore. Vi è bandita la crudezza dell’inverno ed è diffusa la dolcezza di un’eterna primavera. La cima del monte si apre in un pianoro, circondato da una siepe d’oro» […] «La piana» […] «splende perpetuamente di fiori» […] «vi è un bosco ombroso nel qual non è ammesso alcun uccello che non abbia sottoposto il suo canto al giudizio della dea» […] «gli alberi vivono in amore e si amano a vicenda: le palme ondeggiano» […] «il pioppo sospira al contatto del pioppo, il platano del platano, l’ontano sospira all’ontano. Qui zampillano due fonti» […] «Sul margine giocano mille fratellini, armati di faretra, uguali nel volto e nell’età: la famiglia gioiosa degli amorini» […] «Vi sono anche altre divinità» […] «Sullo sfondo il palazzo della dea risplende riflettendo i raggi del sole ed emette verdi bagliori circondato com’è da un bosco. Il dio di Lemno ha costruito questo palazzo con gemme e oro».8

Se confrontiamo il suddetto passo con il paesaggio in cui si svolge la Toletta di Venere ci accorgiamo che quest’ultimo è reso dall’artista in maniera più sommaria. Ecco come Zampetti descriveva la scena: «avviene all’aperto, in un riposto

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silenzioso giardino: per terra sono sparse le vesti di Venere e delle Grazie e vi son cose d’ogni genere per la toletta della Dea; dietro, al centro, appare controluce un gran nicchione ad esedra (forse il rudere di un ninfeo); ivi, in due nicchie minori, si intravvedono altrettante statue. Al di qua e al di là. La scena s’allarga e lascia apparire il cielo, di una luce un po’ stanca, cosparso di nuvole. In basso a sinistra un’allegra e scanzonata fontana e poi un folto roseto; a destra, invece, alti cipressi s’allungano come ombre nere verso il cielo ormai prossimo al tramonto».9

Coerentemente a quanto narrato da Claudiano, nel dipinto l’ambientazione è all’aperto, in un giardino fiorito, immersa in un’atmosfera primaverile. Nello sfondo a sinistra, si trova una fontana, vicino ad essa è possibile individuare un roseto, mentre a far da contraltare nell’estremità destra vi sono alcuni cipressi - forse un allusione all’isola ciprigna10 - che chiudono lo sguardo a ciò che sta oltre; al centro della composizione, alle spalle del gruppo di figure, si scorge un edificio. Non si tratterebbe, però, della ricca dimora costruita da Vulcano per la sposa Venere, bensì di un “rudere” non ben identificato. Nell’epitalamio, Cupido giunge dunque in cima al monte dove si erge la dimora di Venere e qui trova la madre intenta ad ornarsi con l’aiuto delle sue ancelle, le Grazie (vv. 97-121): «Venere in quel momento si stava acconciando le chiome, seduta su un trono splendente. A destra e a sinistra stavano le Grazie: una spargeva a profusione i profumi, un’altra con un fitto pettine d’avorio divide i capelli in più parti, la terza infine li intreccia, dividendoli in riccioli uguali, lasciando a bella posta una parte sciolta: questa negligenza dà più eleganza. Venere non ha bisogno del giudizio dello specchio: ovunque guarda, la sua immagine è riflessa per tutta la casa ed essa ne rimane colpita».11 Nella tela lottesca Venere siede al centro della scena, il “trono” nascosto dai corpi delle Grazie. Due di queste, in piedi ai lati della Dea, sono impegnate ad ornarle i capelli con un filo di perle e forse un fermaglio; la terza, inginocchiata ai suoi piedi, regge uno specchio in cui si riflette la mano di Venere. Tre amorini, muovendosi intorno alle donne, osservano la

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P. Zampetti, op. cit., p. 76.

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Lo sosteneva anche Dal Pozzolo (in Lorenzo Lotto ad Asolo, p. 111): «in un quadro del 1539-40»

[…] «raffigurante la cosiddetta “Toeletta di Venere”» […] «sullo sfondo del dipinto, alle spalle della dea, vi sono in grande evidenza due specie di piante. A sinistra un roseto» […]« a destra invece svettano quattro grandi cipressi, che stanno ad indicare appunto dove nacque la dea, che da Dante (Paradiso, VIII, 2) a Carducci era chiamata “Ciprigna”». Il critico affermava che questi cipressi

appartenessero al “solito tipo allungato cui siamo abituati”.

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scena; un quarto - che in quanto contraddistinto da arco e faretra è identificabile come Cupido - ha fra le mani una corona di rose che sta per porre sul capo della madre.12 Oltre al fatto che dalla scena sono assenti le altre “divinità” menzionate da Claudiano nel componimento, ci accorgiamo immediatamente che Lotto ha costruito la composizione intorno a quello specchio che per il poeta è invece inutile (a suo dire, Venere non ha bisogno di specchiarsi perché la sua bellezza è riflessa da ogni cosa le stia intorno). Così adornata la dea si reca a Milano per partecipare al matrimonio imperiale, scortata da un corteo marino: una volta giunta a destinazione si dedicherà a preparare la sposa per la cerimonia. E infatti, ai versi 282-294 si ripete la scena dell’acconciatura: questa volta non è Venere a ricevere le attenzioni delle ancelle, anzi è lei stessa a farsi ancella di Maria, la sposa: «Essa stessa le divide i capelli con la punta dello spillone, le stringe la veste e le adatta il velo nuziale sui virginei capelli».13

7.3 - Notizie sull’opera nel Libro di Spese Diverse: un dono nuziale?

Come accennato al paragrafo precedente, Zampetti credeva di riconoscere nella Toletta la “Venere” che Lotto aveva dichiarato di aver donato al nipote Mario D’Armano. In effetti, dal libro dei conti apprendiamo di una spesa sostenuta dall’artista […] per l’ornamento del quadro de la Venere ch’io li donai, zoe de ligname de noce doratura e timpano de tella negra de lion14, con le lettere in tutto quale lui me ordinò facesse fare, che pagaria lui L. 32”»15. Nel marzo del 1541 il pittore avrebbe puntualizzato che questa “Venere”, senza la cornice, valeva ben 30 ducati: per il critico si trattava di una cifra piuttosto elevata per l’epoca, ma certamente adeguata se si fosse trattato di un dipinto di notevoli dimensioni quale, per l’appunto, l’opera in esame. Non erano, però, le sole dimensioni del dipinto a

12

Vedi P. Zampetti (op. cit.) paragrafo 7.1, pp. 144-145.

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R.B.Conidi, op. cit., pp. 62-63. Già all’epoca di Claudiano, dunque, era attributo della sposa il velo, che Lotto avrebbe fatto indossare alla Venere di New York, in cui dovremmo forse riconoscere le fattezze di una donna realmente esistita, come ha ipotizzato Christiansen (in “Apollo”, CXXIV, 1986).

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Secondo Fontana (in “Arte Veneta”, LXIV, 2007, pp. 35-45) quando Lotto parlava di “timpano de tella negra de lion” doveva probabilmente riferirsi ad una sorta di cortina con cui era consuetudine coprire i dipinti di soggetto licenzioso quando si era in presenza di ospiti. Con questa funzione, a suo dire, un simile dispositivo sarebbe stato utile sia nel caso che l’opera fosse la Toletta di Venere che

Venere e Cupido mingente, entrambi soggetti profani a carattere erotico-mitologico.

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suggerire a Zampetti questa identificazione. Ricordando l’abitudine lottesca non solo di descrivere, ma anche spiegare e commentare il soggetto dei suoi quadri, egli informava della presenza di un foglio - sul retro della tavola - scritto in una grafia riconducibile a quella del pittore.

Il testo, a tratti lacunoso, recitava: (Venere) […] / che siede et l’altre tre sono le tre gratie / […] le adimandino Karites, la Venere signif (ica) / la belleza quale se adorna de li aiuti de le gra(tie) / una li tiene il spechio, un’altra li fano / li capelli, l’altra li mena atorno la testa fili di or / […] ha un […] che le […] / insieme […] (quel) che fileto d’oro di varii fiori […] filati, che fanno un corpo […] tutte 4 belleze grandissi / me. Et sopra Venere el suo fiol cupido che la […] / Incorona di rose […] con le ditte.

Da queste parole egli deduceva che l’artista, piuttosto che offrire “un’esaltazione pagana della bellezza intesa come espressione primitiva ed incontrollata della natura”, avesse inteso rappresentare un concetto morale. Raffigurando una Venere “sofisticata ed intellettuale al massimo”, che raggiunge “la perfezione attraverso la virtù”, Lotto aveva mostrato, dunque, una bellezza “alla quale si giunge con lo studio, la perseveranza e l’affinamento”. La presenza delle Grazie si spiegava di conseguenza: esse avevano il compito di aiutare la dea a “completare la sua bellezza” affinché risultasse “perfetta”.

La Toletta di Venere dimostrava, perciò, “quale raffinato e pensoso pittore” fosse Lorenzo, capace di unire “ad una tecnica così personale un altrettanto personale modo di concepire le sue creazioni artistiche”. Zampetti si dimostrava entusiasta del ritrovamento del suddetto “foglietto”: «Non è ben chiaro» […] «cosa voglia intendere quando dice di aver eseguito anche le lettere; non è, dico, chiaro, ma certo una non piccola emozione provoca il vedere incollato, sul retro della stupenda tavola di noce» […] «un frammento di carta antica contenente una descrizione del dipinto. E vien fatto di domandarsi se proprio a tale scritto non voglia alludere il Lotto, dopo aver constatato che senza dubbio alcuno esso è proprio di suo pugno» […] «A nessun può sfuggire l’interesse di un così prezioso documento, che costituisce una rara e decisiva riprova della paternità di questa pittura. Si tratta di uno scritto compreso in undici righe, purtroppo spesso lacunose o poco leggibili, tracciate con una calligrafia sicura elegante, com’è sempre quella del Lotto», e non aveva dubbi che l’opera in esame coincidesse con la “Venere” citata nel Libro di

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Spese. Accogliendo la proposta di Fontana16 - che, come abbiamo visto al paragrafo 7.2, individuava la fonte letteraria dell’opera nel “poemetto a destinazione nuziale” di Claudiano17, scritto in onore delle nozze tra l’imperatore Onorio e la consorte Maria - Binotto ha messo a confronto un passo del componimento latino – qui proposto nella traduzione offerta da Vincenzo Cartari (Imagini delli dei de gl’antichi,

1598, ed. a cura di Bussagli, 1987, p. 283) - con il testo del foglio trovato da Zampetti e da lui trascritto.

Claudiano scriveva: «Vener all’hor in bel dorato seggio / Stando a compor le vaghe, e bionde chiome, / havea le Gratie intorno, delle quali / sparge l’una di nettare soave / i dorati capegli, e quelli l’altra / distende, e scioglie con l’eburneo dente / la terza con bel ordine gli annoda / con bianca mano, e in vaghe trecce accoglie ». Inoltre, sulla base di un altro passo del libro dei conti in cui Lotto annotava che “fra marzo e aprile del 1541” avveniva il trasporto “inanti e drieto alla mostra de Sensa in più volte” del “quadro de le Gratie et quello de la Venere”, la studiosa si è convinta che l’artista avesse fatto arrivare in casa del nipote altre due opere di soggetto profano: una di queste raffigurante il soggetto delle “Gratie”. Considerando che già buona parte della critica – Humfrey18 in primis - aveva preferito riconoscere nella “Venere” D’Armano la tela newyorkese intitolata Venere e Cupido mingente (per la quale le datazioni proposte erano piuttosto precoci19) Binotto ha confutato la tesi di Zampetti, e identificato la Toletta di Venere con il quadro “de le Gratie”, sulla scia di Fontana.20 Per quanto concerne la datazione del dipinto, Zampetti, riscontrando alcune somiglianze con il Parnaso raffaellesco, era stato tentato dal ricondurre l’opera agli anni ’30 del Cinquecento e aveva concluso che essa sarebbe rimasta nella

16

R. Fontana, op. cit., pp. 35-45: «Quanto alla Toletta di Venere sembra piuttosto ispirarsi, con

qualche libertà, all’ Epithalamium de nuptiis Honoris et Mariae di Claudiano, poemetto d’esplicita destinazione nuziale, più tardi utilizzato anche da Annibale Carracci per la tela d’analogo soggetto della National Gallery di Washington».

17

Claudius Claudianus, Epithalamium de nuptiis Honoris et Mariae , IV sec. d.C.

18

P. Humfrey, Lorenzo Lotto, New Haven, 1997, ed. it. Bergamo, 1998, pp. 139-140.

19

B. Berenson (1955, pp. 112-113) la faceva risalire al 1532, F. Cortesi Bosco (1980, p. 143, n. 69; 1987, p. 410; 1992, p. 16, n. 4; 1994, pp. 33-38) al periodo bergamasco, cioè agli anni 1513-25, K. Christiansen (op. cit.) al 1526 circa.

20

R. Fontana, op. cit.: «Pietro Zampetti, pubblicando nel 1957 la tavola raffigurante “Venere

adornata dalle Grazie”, o,» […] «la “Toletta di Venere”, in collezione privata, proponeva di identificarla con la citata “Venere” donata a Mario D’Armano, anche se in realtà, per certe assonanze col “Parnaso” di Raffaello, lo studioso pensava a una data intorno al 1530» […] «Lo stesso Zampetti peraltro riconosceva che “taluni elementi stilistici potrebbero far pensare il contrario, e cioè portarne molto più avanti la data di esecuzione».

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bottega del Lotto per dieci anni prima di essere donata al nipote. Tuttavia, alcuni elementi stilistici lo avrebbero indotto a spostarne l’esecuzione più avanti. Mariani Canova21 si sarebbe ugualmente espressa a favore di una datazione al decennio successivo, ovvero agli anni ’40.

Accogliendo l’ipotesi di Humfrey22, che aveva colto in alcune parti della tela statunitense - in particolare nel volto della dea e nel drappo rosso del fondale - il richiamo ad alcuni dipinti lotteschi di epoca posteriore, Fontana confrontava la Venere e Cupido mingente con la Toletta di Venere, mettendone in evidenza, da un punto di vista prettamente stilistico, la lontananza cronologica: «Lo scarto fra lo stile della “Venere” e quello della “Toletta” caratterizzato da pennellate piuttosto rapide e da una maniera sfatta, indurrebbe a distanziare i tempi d’esecuzione delle due opere, anche se, come osserva Humfrey, alcune parti del quadro del Metropolitan (il volto della dea e la tenda rossa) richiamano dipinti lotteschi dei primi anni quaranta». Ma un altro elemento aveva spinto Humfrey a convincersi che la “Venere” D’Armano fosse in realtà la Venere con Cupido mingente: il formato. Se orizzontale era la Susanna - opera perduta che, nonostante il soggetto biblico anziché profano, il critico riteneva essere un pendant della “Venere” - anche quest’ultima avrebbe dovuto esserlo. Effettivamente, l’opera del Metropolitan Museum si sviluppa orizzontalmente, al contrario della Toletta di Venere. D’altro canto Fontana avrebbe alimentato nuovi dubbi facendo notare che Lotto, nel ricordare nel suo registro la “Susanna”, aveva disegnato accanto un piccolo quadrato, la cui forma obiettivamente fa pensare più al formato verticale che a quello orizzontale23. Egli, quindi, ipotizzava che i due quadri annotati da Lotto nella primavera del ’41, fossero “altra cosa” rispetto alla “Venere” del ‘40, probabilmente portati dall’artista a Venezia su richiesta del nipote in occasione del carnevale di quell’anno24. Fontana informava che nella città era consuetudine ornare la casa con

21

G. Mariani Canova, in L’opera completa del Lotto, 1975, p. 117: «sul piano stilistico, la fine del

quarto decennio è il tempo più conveniente alla nostra tavola. Inoltre, la cifra di 30 ducati circa – tanto Lotto valutò la “Venere” per il nipote -, equivalente pressappoco al prezzo di quattro ritratti, appare adeguata a un quadro dalle dimensioni indubbiamente notevoli (cm 177 x 155) e ricco di figure come la “Toletta di Venere”».

22

Op. cit.

23

R. Fontana, op. cit.: «l’esame del testo originale di Lotto» […] «rivela che l’artista, per indicare il

dipinto della “Susanna”, ha disegnato un piccolo quadrato approssimativo, la cui forma tuttavia, e semmai, è piuttosto verticale che orizzontale».

24

R. Fontana, op. cit., pp.: «A complicare le cose, nel 1541 si trovano registrati nel Libro di Spese il

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dipinti di soggetto profano per festeggiare il giovedì grasso: «durante il carnevale del 1541 il pittore fa condurre alcuni quadri, non precisati ma evidentemente di soggetto profano/mitologico, dal suo studio all’abitazione del nipote “per la zobia grassa ornar la casa”». Infine, il critico ipotizzava che la Toletta di Venere e la Venere con Cupido mingente potessero essere entrambe destinate a celebrare e propiziare unioni matrimoniali: proprio intorno al 1540 doveva essere stato celebrato il matrimonio della figlia di Mario D’Armano, Armana, che di lì a poco sappiamo avrebbe partorito una bambina, Enza. I due dipinti - per i rispettivi soggetti - avrebbero potuto servire ugualmente allo scopo propiziatorio.

7.4 - La fortuna del motivo

Condividendo pienamente il parere di Christiansen relativamente alla fonte letteraria del soggetto, Fontana25 ricordava che il motivo dell’acconciatura e toletta di Venere sarebbe stato successivamente riproposto da Annibale Carracci nella Venere adornata dalle Grazie (fig.2) della National Gallery di Washington. Qui la dea siede attorniata dalle sue premurose ancelle: la prima le crea una lunghissima treccia, la seconda le arriccia alcune ciocche che le incorniciano il viso, la terza probabilmente sta sollevando con le mani un monile da porle sul capo. Nella stanza dove si svolge la scena è tutto un fremere degli amorini: chi le regge uno specchio in cui specchiarsi, chi le deterge un piede, chi estrae da uno scrigno una collana di perle. Un altro esemplare che è possibile mettere a confronto con l’opera del Lotto in esame è il disegno raffaellesco raffigurante la Toletta di Psiche, realizzato per la Loggia della Farnesina e noto grazie ad un’incisione di Giulio Bonasone (fig.3). L’iconografia è pressoché la stessa: nell’interno della sua camera Venere, mezza svestita, è aiutata dalle Grazie a farsi bella. Due sono in piedi: la prima regge il solito specchio, la seconda le acconcia i capelli; la giovane in ginocchio, infine, porge alla

nel ’40 a Mario. Le annotazioni dell’artista a questo riguardo non sono chiare: l’impressione è che si tratti dei quadri portati in casa del nipote per la festa di carnevale e poi ritornati nello studio del pittore, dove se ne perdono le tracce; le due opere infatti non risultano tra quelle vendute né tra quelle affidate a Sansovino nel 1549 alla partenza di Lotto per Ancona e qui recapitate al pittore alcuni mesi più tardi».

25

Ibidem, pp.: «Quanto alla “Toletta di Venere” sembra piuttosto ispirarsi, con qualche libertà, all’

“Epithalamium de nuptiis Honoris et Mariae” di Claudiano, poemetto d’esplicita destinazione nuziale, più tardi utilizzato anche da Annibale Carracci per la tela d’analogo soggetto della National Gallery di Washington».

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dea una sorta di ampolla contenente, forse, un unguente profumato. La forte somiglianza del soggetto raffigurato da Lotto con quello dell’incisione di Bonasone potrebbe essere un indizio del fatto che l’artista avesse inteso rappresentare proprio una “toletta di Psiche”. L’architettura posta nello sfondo della tela potrebbe, dunque, anziché riferirsi alla dimora di Venere, potrebbe alludere al giardino del Palazzo di Amore dove Psiche viene accolta subito dopo la loro unione nuziale.

Fig.2 Annibale Carracci, Venere adornata dalle Grazie, 1594-95, Washington, National Gallery of Art

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Fig.3 Giulio Bonasone, Toletta di Psiche, incisione dal disegno di Raffaello per l’affresco della Loggia della Farnesina

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