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1.1. I 1. INTRODUZIONE

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1.1.

I

L PROCESSO DI COMPOSTAGGIO

Con il termine compostaggio viene indicata la bio-stabilizzazione in fase solida della sostanza organica fermentescibile. La stabilizzazione avviene in condizioni prevalentemente aerobiche tali da garantire alla matrice in trasformazione il passaggio spontaneo attraverso una fase di auto-riscaldamento, dovuto a reazioni microbiche ossidative. Si tratta essenzialmente dello stesso processo di trasformazione che nell’ambiente ricorre spesso in contesti aerobici dove si accumula sostanza organica, quali, per esempio, la lettiera dei terreni forestali ovvero i cumuli di letame in maturazione, con la differenza che, nelle applicazioni tecnologiche, esso viene opportunamente incrementato e accelerato.

Il processo converte il substrato di partenza in compost, un ammendante caratterizzato da una frazione umificata simile all’humus, ovvero ad una sostanza organica in lento divenire biologico, che ha l'aspetto di una matrice amorfa di colore bruno, dal forte odore e metastabile, non suscettibile cioè di ulteriori repentine trasformazioni biologiche. La struttura definitiva della sostanza umica non è conosciuta, ma solitamente vengono distinti tre gruppi sulla base del comportamento chimico: l'umina, gli acidi umici e gli acidi fulvici. Il compost immaturo contiene una quantità di acidi fulvici maggiore rispetto a quella degli acidi umici; questi ultimi vengono prodotti con l'avanzare del processo (Aiken et

al., 1985). Pertanto, gli acidi umici possono essere utilizzati come indice di

valutazione della maturità del compost, impiegabile in agricoltura come ammendante. Limitatamente a quanto appena descritto, il compostaggio può essere letto come un processo orientato al prodotto.

D’altra parte, se impiegato all’interno di uno schema integrato di gestione dei rifiuti, il compostaggio può essere considerato un processo orientato al

trattamento-recupero dei rifiuti organici, che rientra nell’ambito delle

biotecnologie ambientali. Si tratta nello specifico di un processo bio-ossidativo aerobico, esotermico, promosso dai microrganismi (definibili biomassa attiva) naturalmente associati alle matrici sottoposte al trattamento; in seguito a tale

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processo, il substrato organico eterogeneo di partenza (detto biomassa substrato) subisce in tempi ragionevolmente brevi, che variano da alcune settimane ad alcuni mesi, profonde trasformazioni nelle caratteristiche fisico-chimiche e biologiche, che portano ad una parziale mineralizzazione e umificazione, con perdita di putrescibilità (Vallini, 2008).

In generale con il compostaggio si perseguono le seguenti finalità: degradazione di materiali putrescibili; riduzione di volume, peso e umidità delle matrici di partenza; produzione di un materiale finale stabile dal punto di vista biologico, privo di odori sgradevoli, palabile e facilmente maneggiabile; igienizzazione della matrice mediante disattivazione degli agenti patogeni e dei semi infestanti che possono essere associati ai substrati sottoposti al trattamento; biorisanamento da sostanze pericolose o tossiche per il suolo, tramite l’inglobamento del contaminante all’interno della sostanza umificata.

1.1.1. Le fasi del processo

La parola compostaggio deriva dal latino compositum (composito) e sottolinea la natura eterogenea della materia organica sottoposta al processo di bio-degradazione aerobica. I maggiori composti presenti in essa possono essere suddivisi in carboidrati, proteine, grassi, cellulosa, emicellulosa, lignina e minerali. I primi tre gruppi di sostanza organica sono molto suscettibili alla degradazione e includono composti come zuccheri, amidi, pectine, amminoacidi, acidi nucleici e talvolta lipidi; l’emicellulosa, le cellulose e le lignine sono molto resistenti alla decomposizione, così come alcune sostanze grasse; i minerali, infine, restano fondamentalmente inalterati dal processo.

Si possono distinguere essenzialmente due fasi che caratterizzano il processo di compostaggio: la prima, più intensa, viene definita “trasformazione attiva” (Active Composting Time), mentre la seconda, più lenta, “periodo di finissaggio” (Curing Phase). Nella prima fase, hanno luogo rapidi processi di bio-ossidazione e mineralizzazione delle componenti più facilmente aggredibili della sostanza organica, associati ad un’intensa attività microbica con conseguente produzione di calore, anidride carbonica, acqua, nonché di un residuo organico parzialmente trasformato e stabilizzato. Esaurita la frazione organica facilmente

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degradabile, ha inizio la seconda fase del processo, in cui la decomposizione continua più lentamente a discapito delle molecole più complesse e delle spoglie microbiche. Inoltre si ha una parziale depolimerizzazione e una successiva policondensazione o ri-polimerizzazione dei composti ligno-cellulosici in sostanze umiche e l’eliminazione dei composti fitotossici, che possono essere presenti nella matrice iniziale o che possono formarsi nella prima fase del processo (Tuomela et al., 2000).

Figura 1: Concetto base del processo di compostaggio (Epstein, 1997)

Nonostante in ambito gestionale venga applicata questa divisione, solitamente il processo di compostaggio viene suddiviso in quattro diverse fasi sulla base della temperatura. Quest'ultima risulta essere un ottimo indicatore di processo poiché la matrice in trasformazione ha scarsa conducibilità e trattiene il

MICRORGANISMI

Umidità

Calore

CO

2

+ H

2

O

Ossigeno

COMPOST

SOSTANZA ORGANICA carboidrati proteine grassi emicellulosa cellulose lignine minerali

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calore prodotto dall’attività microbica ossidativa (Gray et al., 1971). Le variazioni di temperatura, pertanto, riflettono i cambiamenti che avvengono nel tasso e nel tipo di decomposizione durante il processo di compostaggio (Vallini, 1995a).

Nella prima fase, detta fase mesofila di latenza, solitamente la temperatura è vicina alla temperatura ambiente e il pH è basso. Questa fase può protrarsi da poche ore ad alcuni giorni durante i quali la matrice iniziale è invasa dai microrganismi, soprattutto lieviti e batteri che, essendo decompositori veloci, attaccano i composti facilmente degradabili caratterizzati da basso peso molecolare e semplice struttura chimica, e promuovono reazioni esoergoniche. Solitamente sono presenti anche batteri lattici, il cui incremento causa un calo di pH a livelli acidi.

Nonostante il numero di organismi mesofili nel substrato di partenza sia di tre ordini di grandezza superiore al numero di organismi termofili (Insam e De Bertoldi, 2007), l'attività dei decompositori primari innesca un aumento della temperatura che dà luogo alla fase termofila o di stabilizzazione. In questa fase, di durata variabile da alcuni giorni a diverse settimane, il pH raggiunge valori alcalini, le temperature possono arrivare a superare anche i 65°C, favorendo lo sviluppo di batteri del genere Bacillus, Thermus e Thermoactinomyces (Strom, 1985a; Blanc et al., 1999; Song et al., 2001). Queste specie termofile promuovono la degradazione di proteine, grassi e carboidrati complessi.

Una graduale diminuzione della temperatura, causata dal progressivo esaurimento dei composti facilmente assimilabili, indica l’inizio della fase di

raffreddamento o seconda fase mesofila (De Bertoldi et al., 1983). Le

popolazioni microbiche mesofile capaci di degradare sostanze a struttura polimerica o polidispersa come l’amido, le cellulose o le lignine, colonizzano il substrato. In particolare, i funghi, attraverso l’azione di enzimi eso-cellulari, scompongono queste molecole complesse, rendendo disponibili i costituenti più piccoli anche alle altre specie microbiche, come i batteri, che terminano la degradazione.

A questa fase segue la fase di maturazione, che può durare da poche settimane ad alcuni mesi ed è caratterizzata dai processi di umificazione. Infatti, i composti intermedi, originati dalle sostanze complesse non completamente

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degradate, subiscono delle trasformazioni per azione combinata dei microrganismi e delle reazioni chimico-fisiche, che portano alla formazione della sostanza umica (Tuomela et al., 2000). Solitamente partecipano attivamente a questo processo i microfunghi. In questa fase aumenta anche la densità degli attinobatteri, che impartiscono alla matrice un piacevole odore di sottobosco.

1.1.2. Parametri che influenzano il processo

Durante il processo di compostaggio, si succedono diverse comunità microbiche, ciascuna con le proprie caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche (Crowford, 1983). Tutti i fattori che influenzano l’attività e la crescita della microflora sono quelli che determinano l’andamento e l’efficacia del processo di stabilizzazione dei materiali organici di partenza. Questi fattori comprendono sia parametri strettamente correlati con la matrice trattata, come la concentrazione e il rapporto dei nutrienti del substrato, la dimensione e le proprietà fisico-meccaniche delle particelle, l’umidità e il pH, sia condizioni ambientali quali la temperatura, la concentrazione di ossigeno e l'aerazione.

Al fine di ottenere il compost in tempi ragionevolmente brevi, è necessario individuare e ottimizzare, in ogni fase del processo, tutti i fattori che limitano lo sviluppo dei microrganismi.

1.1.2.1. Concentrazione di ossigeno e aerazione

Durante i primi giorni del processo, le componenti più facilmente degradabili della biomassa substrato sono rapidamente metabolizzate. Il bisogno di ossigeno e, di conseguenza, la produzione di calore sono perciò decisamente maggiori nei primi stadi della bio-stabilizzazione, mentre decrescono con l’evolversi del processo. Per una gestione ottimale del processo di compostaggio, la concentrazione di ossigeno nella matrice deve essere maggiore del 10%. Concentrazioni di ossigeno fino al 5% sono tollerate dai microrganismi aerobi, che però crescono molto lentamente, mentre in condizioni anaerobiche si ha un declino del tasso di decomposizione (Tiquia et al., 1996). In quest’ultimo caso, la flora microbica anaerobica prende il sopravvento e genera un accumulo di composti ridotti come ammoniaca, mercaptani, acidi grassi volatili, acido

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solfidrico, ecc., caratterizzati da un odore decisamente aggressivo e da un’elevata fitotossicità. Alcuni dei suddetti composti intermedi si formano anche in condizioni aerobiche, ma vengono rapidamente degradati dall’ossigeno.

L’aerazione della matrice organica in corso di stabilizzazione permette inoltre di dissipare il calore in eccesso, di eliminare il vapore acqueo e di allontanare gli altri gas caldi intrappolati nell’atmosfera interna al substrato. La richiesta di aerazione allo scopo di dissipare il calore è pari a circa dieci volte quella necessaria per il processo. Pertanto, la gestione degli interventi di aerazione è data dal fattore temperatura.

1.1.2.2. Temperatura

La temperatura è un parametro “spia” che indica il passaggio da una fase del processo di compostaggio alla successiva.

All’inizio del processo, il substrato manifesta una crescita graduale della temperatura dovuta all’attività microbica. Qualora il calore prodotto dalle reazioni ossidative non venga correttamente dissipato, la temperatura si innalza in maniera esponenziale fino a raggiungere e superare i 70°C (Vallini, 1995b). Si ipotizza che tale innalzamento non sia causato solo dall’attività microbica, ma anche dall’effetto delle reazioni esotermiche abiotiche, in cui potrebbero essere coinvolti gli enzimi termo-tolleranti degli attinobatteri (Insam e De Bertoldi, 2007). Infatti, la sostanza organica a temperature così elevate va incontro a un’auto-pastorizzazione e il processo di compostaggio si arresta fino a quando non si instaurano nuovamente le condizioni favorevoli per la crescita dei microrganismi sopravvissuti. Questi passaggi possono ripetersi innumerevoli volte, aumentando i tempi di processo.

Ai fini di una gestione ottimale del processo, è necessario monitorare la temperatura e attivare i sistemi di aerazione quando questa si avvicina ai 60°C, in modo da accelerare la perdita di calore. Così facendo, durante la fase di compostaggio attivo la temperatura non supererà mai i 70°C ed il processo si svolgerà in tempi più ristretti. Raggiungere temperature intorno a 70°C, è molto utile per il compostaggio finalizzato al prodotto, poiché è una garanzia dell'avvenuta igienizzazione del substrato; le elevate temperature e la presenza di

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una flora dominata da attinobatteri che producono abbondanti quantità di antibiotici, causano la morte della maggior parte dei microrganismi mesofili, ivi compresi eventuali organismi patogeni, come enterobatteri o virus (Barazzetta, 1987), e la distruzione dei semi di piante infestanti e delle larve di insetti. Nel compostaggio finalizzato al processo, l’asetticità del prodotto è irrilevante e il compostaggio si svolge tutto nell’ambito della mesofilia (10-45°C).

Una volta che i composti più facilmente degradabili sono stati trasformati e permangono solo quelli più refrattari all’attacco dei microrganismi, l’attività biologica diminuisce e di conseguenza inizia un graduale declino della temperatura fino ad una stabilizzazione intorno alla temperatura ambiente.

Figura 2: Rappresentazione del processo di compostaggio attraverso la variazione delle

popolazioni microbiche e del pH in ragione della dinamica della temperatura (Vallini, 2008)

1.1.2.3. Umidità

Le reazioni biologiche possono attuarsi solo in presenza di un grado di umidità tale da garantire le condizioni di vita per i microrganismi. Tali condizioni sono assicurate dalla presenza di un film d’acqua sulla superficie delle particelle costituenti la matrice in cui avvengono le reazioni chimiche, la diffusione ed il trasporto dei nutrienti e degli enzimi.

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In condizioni di umidità inferiori al 30-35%, le molecole organiche sono difficilmente solubilizzate in acqua e i microrganismi non possono utilizzarle come fonte di nutrimento; ne consegue un rallentamento dell’attività microbica, fino alla completa inibizione per valori di umidità inferiori al 15%. D’altra parte, in una matrice che presenta valori di umidità superiore al 65%, l’acqua espelle l’aria dalla maggior parte degli spazi interstiziali tra le particelle della matrice organica, favorendo la formazione di ambienti anossici e la lisciviazione dei nutrienti; in queste condizioni, il tasso di decomposizione decresce e i problemi di odori aumentano (Golueke, 1991; Haug, 1993).

Per la buona riuscita del processo, i materiali avviati a compostaggio dovrebbero avere un contenuto di umidità compreso tra il 55% e il 65%, ma siccome col procedere del compostaggio l’umidità del substrato diminuisce per evaporazione, è preferibile che il contenuto d’acqua del materiale di partenza si aggiri intorno al 60-63% (Vallini, 2008). Un’eccessiva disidratazione può portare ad interpretare erroneamente il declino dell’attività microbica come segno di avvenuta stabilizzazione, mentre il materiale così ottenuto è stabilizzato solo dal punto di vista fisico; se questo materiale fosse nuovamente umidificato, riprenderebbe la degradazione microbica, recando gravi danni alle colture cui è stato somministrato.

1.1.2.4. Concentrazione e rapporto dei nutrienti del substrato

I microrganismi richiedono per la loro crescita una fonte di carbonio (C), di azoto (N), di fosforo (P), di potassio (K) e di altri micronutrienti in tracce. La maggior parte delle sostanze organiche destinate a compostaggio contengono questi elementi (Golueke, 1991).

Il carbonio è fondamentalmente utilizzato nel metabolismo microbico come fonte di energia e solo una piccola parte è incorporata nelle cellule dei microrganismi. L’azoto è un costituente delle proteine, degli acidi nucleici, degli aminoacidi, degli enzimi e dei co-enzimi necessari per la crescita e il funzionamento delle cellule microbiche. Se durante il compostaggio l’azoto è carente, il processo di degradazione proseguirà lentamente, mentre se si manifesta un eccesso di azoto, questo è rilasciato dal sistema sottoforma di ammoniaca

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(Golueke, 1991), che causa emissioni problematiche da un punto di vista olfattivo. L'ammonificazione è un processo favorito da temperature elevate e pH alcalini; queste condizioni, insieme alla carenza di carbonio disponibile, sono presenti nella fase termofila del compostaggio.

Il rapporto C/N ideale della matrice da avviare a compostaggio è compreso tra 25 e 40, in funzione del substrato utilizzato, in quanto i vari composti carboniosi hanno gradi di suscettibilità all’attacco microbico differenti (Golueke, 1991; Squartini, 2004). Per esempio, i sarmenti di potatura, in cui la cellulosa è legata alla lignina, sono più refrattari alla degradazione rispetto alla paglia che ha una composizione prevalentemente cellulosica.

1.1.2.5. Proprietà fisico-meccaniche del substrato

Le proprietà fisiche dei materiali come la pezzatura, la forma e la resistenza meccanica sono correlate alle proprietà fisico-meccaniche del substrato quali la porosità, la struttura, la tessitura e la dimensione delle particelle. Dette proprietà condizionano pertanto il processo di compostaggio attraverso l’influenza esercitata sull’aerazione.

La porosità indica il rapporto tra spazi pieni e spazi vuoti della matrice, è definita sia dalla dimensione delle particelle, che dalla continuità degli interstizi tra queste e determina la resistenza alla circolazione dell'aria. La struttura, invece, indica la rigidità delle particelle, cioè la resistenza delle stesse a collassare e compattarsi; infine, la tessitura descrive l'area superficiale del substrato disponibile per l'attività microbica aerobica. Queste proprietà possono essere corrette per mezzo di operazioni di triturazione e sminuzzamento dei substrati di partenza o mediante la miscelazione di questi con matrici definite agenti di supporto (bulking agents).

Una particella costituente la matrice è caratterizzata, dall’interno verso l’esterno, da un nucleo anossico, uno strato intermedio microaerofilo e uno strato aerobico ricoperto da un film d’acqua; infatti l’ossigeno si diffonde facilmente attraverso gli spazi vuoti delimitati dalle particelle, ma molto più lentamente attraverso la fase liquida o i materiali solidi.

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I microrganismi si presentano all'interfaccia tra la fase liquida e quella gassosa; si avrà quindi una quantità maggiore di zone in decomposizione aerobica quando l'estensione dell'area superficiale è maggiore rispetto al volume, cioè con particelle di piccole dimensioni. Particelle troppo piccole però rischiano di compromettere l’aerazione del substrato, favorita da particelle grandi e uniformi e da un buon grado di struttura. È quindi necessario trovare un compromesso: diversi studi hanno riportato risultati soddisfacenti con particelle della matrice sottoposta a compostaggio di diametro medio che oscilla tra 0,5 e 5 cm (Vallini, 1995b).

1.1.2.6. pH

Il pH non è un fattore che influenza molto la matrice avviata a compostaggio poiché questa ha un'elevata capacità tampone. Inoltre, l'ampio spettro di microrganismi coinvolti nel processo fa sì che non sia indispensabile un particolare valore di pH.

All’inizio del compostaggio la frazione organica è leggermente acida (pH compreso tra 5 e 7); la degradazione dei composti facilmente assimilabili porta alla formazione di acidi organici, che causano un’acidificazione del substrato intorno a valori di pH di 4-5 (Crawford, 1983). Durante la fase termofila, i microrganismi iniziano a degradare le proteine, liberando ammoniaca; quest’ultima reagisce con l'acqua e dà luogo a ioni ammonio (𝑁𝑁𝑁𝑁4+) e ioni idrossile (𝑂𝑂𝑁𝑁−), con conseguente alcalinizzazione dell’ambiente fino a valori di pH di 8.5. Nella fase di finissaggio, il pH torna a scendere intorno a valori leggermente basici, circa 7.5, a causa dell’attività dei batteri nitrificanti che trasformano, in sequenza, l'ammonio in acido nitroso e nitrico (Crawford, 1983).

Il pH diviene un fattore importante in matrici che presentano un elevato contenuto di azoto, poiché, come accennato precedentemente, valori di pH superiori a 8.5 favoriscono la conversione dei composti azotati in ammoniaca e la sua volatilizzazione, contribuendo alla formazione di emissioni sgradevoli all'olfatto. È utile allora miscelare il substrato con matrici acidificanti come i residui vegetali freschi.

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1.1.3. Tipologie impiantistiche per il controllo del processo

I metodi tecnologici di compostaggio applicabili alla bio-stabilizzazione dei rifiuti organici sono molto numerosi. La scelta del metodo da adottare dipende da molti fattori come la tipologia delle matrici organiche da trattare, la quantità di rifiuto da stabilizzare, ma anche dall’entità dell’investimento stanziato per le strutture impiantistiche.

Essendo il compostaggio una bio-stabilizzazione aerobica della sostanza organica, il requisito fondamentale per ottenere rapidamente compost è la presenza di ossigeno nelle matrici in trasformazione a livelli compatibili con le specie microbiche con metabolismo ossidativo. Ne consegue che il metodo di compostaggio adottato determina il modo attraverso il quale la suddetta esigenza è soddisfatta, e finisce per condizionare altri aspetti del processo come il controllo della temperatura, la movimentazione del materiale in trasformazione, il controllo delle emissioni maleodoranti ed il tempo di stabilizzazione.

Le diverse soluzioni tecnologiche per attuare il compostaggio possono essere raggruppate in due categorie impiantistiche:

• Sistemi aperti

(open system) dove le matrici avviate a compostaggio non sono confinate in alcun tipo di contenitore; è un esempio il compostaggio in cumuli periodicamente rivoltati (windrow composting) o il compostaggio in cumuli statici ad aerazione forzata (aerated static pile

composting).

Sistemi chiusi

1.1.4. Evoluzione e ruolo delle popolazioni microbiche alla base del processo

(in-vessel system) dove la sostanza organica è immessa all’interno di veri e propri bioreattori, tra cui ricordiamo i cilindri rotanti, i silos, le biocelle e le trincee dinamiche aerate.

I microrganismi sono i protagonisti invisibili delle principali trasformazioni di materia ed energia durante il processo di compostaggio; essi degradano la sostanza organica al fine di ricavarne energia e carbonio per la biosintesi di nuove cellule. La principale e più efficace via d’attività metabolica nell’ecosistema in compostaggio è la respirazione aerobica, anche se all’interno della matrice si

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formano delle nicchie anossiche in cui si sviluppano microrganismi che attuano la respirazione anaerobica e la fermentazione.

Una chiara comprensione dell’ecologia microbica fornisce la migliore base per lo sviluppo di strategie di controllo del processo, caratterizzato dal mutare continuo delle condizioni ambientali e trofiche del substrato. Requisito fondamentale per il successo del compostaggio è la presenza di un’ampia rassegna di popolazioni microbiche, che si sviluppano di volta in volta in risposta alle differenti caratteristiche fisico-chimiche della matrice in trasformazione.

I principali gruppi di microrganismi coinvolti sono i batteri, inclusi gli attinobatteri, e i funghi (Golueke, 1991). Sebbene il numero totale di microrganismi non cambi significativamente durante il compostaggio, la diversità microbica varia molto durante le fasi del processo (Atkinson et al., 1996a).

All’inizio del compostaggio predominano i batteri mesofili, tra cui i

Lactobacillus (Ryckeboer et al., 2003) e i lieviti. Quando la temperatura inizia ad

aumentare, fino a circa 40°C, si sviluppano funghi termofili appartenenti ai Pezizomycota e agli Zygomycota (Fergus, 1964), ma soprattutto divengono abbondanti i batteri termofili come Bacillus (Blanc et al., 1997), Thermus (Beffa

et al., 1996) e molti dei batteri appartenenti agli Actinobacteria (Fergus, 1964).

Nel momento in cui la temperatura supera i 65°C, l’attività microbica decresce in maniera drastica e spesso domina B. stearothermophilus quasi come in coltura pura (Insam e De Bertoldi, 2007). L’attività riprende con il raffreddamento del compost, che viene popolato da attinobatteri, da funghi appartenenti ai Basidiomycota (Von Klopotek,1962) e da batteri mesofili.

1.1.4.1. Batteri

I batteri sono organismi unicellulari privi di nucleo e di dimensioni che oscillano da 0,5 µm a 3,0 µm. A causa della loro piccola taglia, hanno un rapporto superficie/volume molto elevato, che favorisce rapidi trasferimenti di molecole solubili nella cellula; dispongono inoltre di una variegata dotazione di enzimi necessari per la degradazione di numerosi composti, ed è possibile riscontrare la crescita di gruppi specializzati di batteri a qualsiasi valore di pH. Di conseguenza,

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i batteri costituiscono la comunità microbica più numerosa di una matrice in compostaggio.

Da compost di diversa tipologia è stata isolata un’ampia gamma di batteri, tra i quali delle specie di Pseudomonas, Klebsiella e Bacillus (Nakasaki et al., 1985; Strom, 1985a).

I batteri sono, di norma, decompositori veloci in grado di utilizzare rapidamente le sostanze più degradabili; sono perciò i protagonisti della fase iniziale del processo e, se le temperature non superano i 60°C, più del 40% dei composti presenti nella matrice sono degradati nei primi 7 giorni, quasi tutti mediante attività batterica (Strom, 1985b).

I batteri sono anche i principali responsabili della generazione di calore che porta all’avvento della fase termofila, dove la scena è dominata da rappresentanti dei generi Thermus e Bacillus, tra cui B .licheniformis, B. subtilis, B. coagulans,

B. stearothermophilus e B. sphaericus (Strom, 1985a). Oltre i 60°C, alcuni di

questi batteri termofili sopravvivono formando endospore, le quali, oltre che resistere al calore, sono in grado di superare lunghi periodi di mancanza di nutrienti e di disidratazione del substrato.

Una volta ripristinate le condizioni di crescita, i batteri riprendono lo sviluppo e sono attivi nelle reazioni di degradazione dei prodotti intermedi del metabolismo fungino. In questa fase, è possibile che pure i batteri anaerobi giochino un ruolo significativo. Atkinson et al. (1996b) hanno infatti stimato che almeno l’1% di tutti i batteri trovati nel compost da RSU erano anaerobi, e di questi la maggior parte erano cellulosolitici, in grado cioè di degradare le macromolecole presenti nel substrato.

In quest’ultima fase di raffreddamento, s’instaurano le condizioni compatibili con la crescita di uno speciale gruppo di batteri chemolitotrofi: i batteri nitrificanti. Questi svolgono un ruolo chiave nell’ambito del processo di compostaggio, poiché trasformano l’azoto ammoniacale, liberatosi nei processi di degradazione a carico delle proteine, in azoto nitrico. Il processo, definito nitrificazione autotrofa, si divide in due stadi: prima l’ammoniaca è ossidata a nitrito per mezzo dei batteri nitrosanti come Nitrosomonas, e successivamente il nitrito prodotto è ossidato a nitrato dai batteri nitricanti come Nitrobacter.

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Nitrosomonas Nitrobacter

NH3 NO2− NO3

1.1.4.2. Attinobatteri

Gli attinobatteri rappresentano una particolare suddivisione di batteri, caratterizzati da crescita di tipo filamentoso dovuta alla formazione di pseudo-micelio. In passato questo gruppo di microrganismi era conosciuto come Attinomiceti; il nome dell’intero gruppo è stato modificato per enfatizzare che non si tratta di funghi, ma di batteri Gram-positivi, in quanto privi di un nucleo definito e di chitina nella parete cellulare.

Questi microrganismi si presentano durante la fase termofila e nelle fasi di raffreddamento e maturazione del compostaggio; occasionalmente possono essere così numerosi da essere visibili sulla superficie del compost (Tuomela et al., 2000). Molti attinobatteri possono essere termo-tolleranti o addirittura termofili, come Nocardia, Streptomyces, Thermoactinomyces e Micromonospora (Waksman

et al., 1939; Strom, 1985b), e in condizioni avverse sopravvivono mediante la

formazione di spore.

É accettato che gli attinobatteri, pur non essendo efficienti come i funghi, giochino un ruolo significativo nella degradazione di composti recalcitranti relativamente complessi (Goodfellow e Williams, 1983), come proteine, emicellulose, cellulosa, chitina e lignina, contribuendo alla formazione di sostanze umiche ed alla completa maturazione del substrato. Tra gli attinobatteri che degradano la lignina (Pasti et al., 1990), si possono distinguere: gli “erosion bacteria”, che degradano i polisaccaridi del legno provocando lo sgretolamento della parete fibrosa, e i “tunnelling bacteria”, che crescono all'interno della parete cellulare e sono gli effettivi degradatori di cellulosa, emicellulosa e lignina (Tuomela et al., 2000).

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1.1.4.3. Funghi

I funghi sono microrganismi eucarioti che comprendono, oltre alle cosiddette muffe (eumiceti filamentosi) anche i lieviti. Quest'ultimi necessitano di elevata umidità e prosperano sui composti facilmente assimilabili presenti all'inizio del processo, rivestendo un ruolo del tutto marginale nell'ambito del compostaggio.

I funghi filamentosi sono per la maggior parte microrganismi aerobi obbligati, che prediligono ambienti acidi, ma tollerano intervalli di pH molto ampi, e sono poco sensibili alla disidratazione. Solitamente necessitano di livelli abbastanza elevati di azoto per la crescita, ma alcuni funghi sono capaci di attaccare i residui organici che per basso contenuto di azoto non sono utilizzati dai batteri. Le muffe, infine, hanno una bassa termo-tolleranza, con un range di temperature ottimali per la crescita di 25-30°C. Esistono tuttavia funghi termofili e termo-tolleranti, le cui temperature ottimali di crescita sono comprese tra 40°C e 50°C e la loro temperatura limite, secondo Cooney ed Emerson (1964), è di 60°C.

Durante lo stadio mesofilo del compostaggio, i funghi filamentosi competono con i batteri per i composti facilmente assimilabili; dato che i massimi tassi di crescita specifica dei batteri superano quelli dei funghi di un ordine di grandezza (Griffin, 1985), i batteri si sviluppano maggiormente e prevalgono sugli altri microrganismi. Tra i funghi è stata comunque rilevata un'abbondante presenza di Geotrichum sp. (Von Klopotek, 1962; Nusbaumer et al., 1996) e del fungo termo-tollerante Aspergillus fumigatus (Strom, 1985a; Von Klopotek, 1962).

Con l'aumento della temperatura l'attività microbica fungina decresce, finché a 64°C tutti i funghi termofili scompaiono. Quando la temperatura torna sotto i 60°C sia i funghi mesofili che quelli termofili tornano a popolare il compost (Von Klopotek, 1962); questi microrganismi appartengono principalmente alla classe dei Deuteromycetes, tra cui i più rilevanti sono

Aspergillus sp. (Nusbaumer et al., 1996) e Thermomyces lanuginosus (Von

Klopotek, 1962), ma sono presenti anche funghi appartenenti agli Ascomycota, agli Zigomycota e ai Basidiomycota.

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La maggior parte dei funghi termofili e dei funghi termo-tolleranti hanno attività cellulosolitica o ligninolitica. Secondo Tomati et al. (1995), il 70% della lignina è degradato nei 35 giorni in cui la temperatura del compost è intorno a 50°C. Questa analisi conferma lo studio di Waksman et al. (1939) in cui si osserva che la temperatura ottimale per la degradazione della lignina nel compost è di 50°C, mentre solo una quantità trascurabile di lignina è degradata nella fase di finissaggio e nel compost maturo, seppure siano presenti microrganismi come

Coprinus sp. (Von Klopotek, 1962; Nusbaumer et al., 1996), Panaeolus sp., Corticium coronilla e Mycena sp. (Von Klopotek, 1962), tutti appartenenti alla

sottoclasse dei Basidiomycotina, che sono i maggiori degradatori di lignina.

In generale, nell'economia complessiva del processo di compostaggio, i funghi operano un'azione fondamentale in quanto, mediante il rilascio di esoenzimi, degradano molti polimeri complessi di origine vegetale altrimenti resistenti all'attacco microbico. In questo modo, i funghi rendono disponibili i metaboliti intermedi ai batteri, che provvedono all'ulteriore trasformazione dei metaboliti stessi, e insieme contribuiscono alla formazione delle sostanze umiche.

1.1.4.4. Protozoi e macrofauna

I protozoi sono organismi unicellulari che, insieme agli organismi più complessi quali rotiferi, acari, insetti, molluschi ed altri invertebrati, crescono a spese della microflora vivente (batteri e funghi) sui materiali organici biostabilizzati. Tali organismi sono presenti anche nel suolo, e la loro massiccia presenza è spesso associata a suoli ricchi di sostanza organica, nutrienti e biodiversità, in sintesi, suoli fertili (Nuti et al., 2010). Pur avendo un ruolo marginale, questa comunità contribuisce al processo di definitiva maturazione ed umificazione del substrato sottoposto a compostaggio, incrementando le caratteristiche finali del compost ottenuto, ivi comprese le qualità soppressive nei confronti di determinati funghi fitopatogeni radicicoli (ANPA & ONR, 2002).

Nell’ambito della macrofauna, i vermi terricoli quali Eisenia foetida,

Lumbricus rubellus e Lumbricus terrestris, sono gli organismi che probabilmente

esercitano il ruolo positivo più importante. L’utilizzo di questi organismi all’interno del processo è detto “vermicompostaggio”, ma è limitato al trattamento

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di particolari rifiuti organici e in luoghi in cui il fattore tempo e la disponibilità di spazio non costituiscono elementi limitanti.

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1.2.

T

ECNICHE DI ANALISI DELLE POPOLAZIONI

MICROBICHE

Tutti gli organismi della biosfera dipendono dall'attività microbica; in particolare i microrganismi tellurici guidano il ciclo dei nutrienti attraverso la decomposizione, la mineralizzazione, l’immagazzinamento ed il rilascio degli stessi nell’ambiente. Anche nel processo di compostaggio la comunità microbica presente nella sostanza organica solida ha un ruolo chiave. Al fine di migliorare la gestione del processo di compostaggio, è necessario studiare più dettagliatamente le comunità microbiche responsabili dei cambiamenti della materia organica attraverso l’analisi della diversità strutturale e funzionale delle stesse e del modo in cui possono rispondere alle variazioni ambientali. Tutte le indagini sui microrganismi presenti nel compost, e più in generale nel suolo, sono ostacolate dal quantitativo numerico (circa 109 UFC, Unità Formanti Colonia) e dalla diversità (superiore a 106 taxa distinti) dei microrganismi presenti in un grammo di terreno (Curtis e Sloan, 2005; Gans et al., 2005). Risulta, quindi, determinante l’uso di strumenti che permettano di monitorare e caratterizzare l’ampia diversità microbica di queste matrici complesse.

I metodi per valutare la diversità dei microrganismi del suolo o del compost, sia a livello di specie che di comunità, sono numerosi e solitamente vengono suddivisi in due grandi sottoinsiemi: metodi tradizionali coltura-dipendenti e metodi molecolari. Solo in tempi recenti a queste metodologie si sono aggiunte tecniche microscopiche, che consentono lo studio in situ dei microrganismi. Fra queste, ricordiamo la FISH (Fluorescence In Situ Hybridization), che si basa sul rilevamento, mediante l’utilizzo di sonde fluorescenti, di cellule microbiche che presentano specifiche sequenze geniche bersaglio.

1.2.1. Metodi tradizionali coltura-dipendenti

I metodi tradizionali rappresentano tutte quelle tecniche che fino agli anni '90 erano le sole utilizzate per studiare la diversità delle popolazioni microbiche presenti nel suolo. Si basano sulla determinazione e sull’analisi comparativa di

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caratteri fenotipici, e quindi, sono confinati a quei microrganismi che possono essere coltivati e isolati in coltura pura.

Tra essi vi sono i metodi basati sull’isolamento di microrganismi in terreni di coltura selettivi, che consentono di individuare le Unità Formanti Colonia; allo scopo di massimizzare il recupero dei diversi gruppi microbici, è stata progettata un’ampia varietà di mezzi.

Fanno parte di questa tipologia anche i metodi che prevedono la coltivazione su suoli arricchiti, al fine di valutare specifiche attività metaboliche. Pare però che non ci sia garanzia sulla pertinenza tra l’attività misurata in laboratorio e quella che avviene nel terreno (Hirsch et al., 2010).

Tra le tecniche tradizionali, sono presenti anche metodologie che analizzano esclusivamente le caratteristiche metaboliche dei microrganismi, come il sistema “Biolog”. Questo si basa sull’utilizzo di una piastra da 96 pozzetti, che permette di saggiare l’attività catabolica di un ceppo o di una popolazione microbica attraverso la determinazione di profili sperimentali di utilizzo di singole fonti carboniche (Community Level Physiological Profile, CLPP). Nel 1991 Garland e Mills hanno adattato questo sistema allo studio dei profili metabolici di ceppi o comunità complesse, sviluppando delle piastre denominate “Eco-plate”, che contengono fonti di carbonio differenti e rintracciabili in natura. Questo metodo è stato usato con successo per valutare la diversità metabolica potenziale delle comunità microbiche in siti contaminati (Derry et al., 1998; Konopka et al., 1998), nella rizosfera di alcune piante (Ellis et al., 1995; Garland, 1996; Grayston

et al., 1998), nei suoli artici (Derry et al., 1999), nei suoli trattati con erbicidi (El

Fantroussi et al., 1999) e nell’inoculazione di microrganismi nel suolo (Bej et al., 1991).

Attraverso le tecniche coltura-dipendenti, la conoscenza e la comprensione delle dinamiche ecologiche che si instaurano tra le comunità microbiche rimangono limitate. Il limite più grande è rappresentato dal fatto che tali metodologie consentono di rilevare soltanto i microrganismi coltivabili, e quindi, permettono di studiare solamente quei microrganismi che sono in grado di crescere alle condizioni di incubazione e in presenza di determinati substrati. Questi metodi sono incapaci di rilevare i microrganismi vitali ma non coltivabili

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(VBNC); pertanto, i risultati ottenuti con tale metodo potrebbero non riflettere la reale diversità funzionale della comunità microbica edafica. È noto, infatti, che la frazione di microrganismi presenti in natura refrattari alla coltivazione è molto ampia: almeno il 99% dei batteri osservati al microscopio non può essere coltivato con tali tecniche (Skinner et al., 1952) e solo una ridotta frazione di funghi presenti nel terreno può essere coltivata con questi metodi di laboratorio (Thorn, 1997; Van Elsas et al., 2000; Garbeva et al., 2004). Le cause sono molteplici: una è sicuramente la mancanza di conoscenza delle condizioni in cui la maggior parte dei microrganismi si sviluppa nel proprio ambiente naturale e di conseguenza l’incapacità di costituire un terreno di coltura adatto alla proliferazione delle colonie batteriche e fungine; un’altra ragione può essere identificata nell’interdipendenza di organismi diversi gli uni dagli altri, come, per esempio, i microrganismi che possono crescere solo in simbiosi con altri microrganismi o con le piante. La crescita di alcuni microrganismi, inoltre, può essere inibita da sostanze secrete da altri microrganismi presenti nel campione analizzato, o sopraffatta da microrganismi a crescita più veloce che competono per l’utilizzo del substrato. Le tecniche basate sulla coltivazione sono, infine, sensibili alla densità d’inoculo; ad esempio, alcuni studi effettuati sulle comunità fungine hanno mostrato che è favorito lo sviluppo dei funghi che producono una grande quantità di spore, a discapito delle altre specie presenti nel campione (Garland e Mills, 1991).

1.2.2. Metodi molecolari

Negli ultimi venti anni, per superare i problemi associati ai microrganismi non-coltivabili, sono state sviluppate varie tecniche molecolari coltura– indipendenti, che consentono di studiare le comunità microbiche nel loro insieme, senza dover isolare ed identificare le singole specie. Tali metodologie si basano principalmente sull’analisi degli acidi nucleici, ma permettono anche lo studio degli acidi grassi di membrana o di altre molecole organiche. Si parla rispettivamente di metodi genetici e di metodi biochimici.

La maggior parte delle metodologie genetiche si avvalgono della reazione a catena della polimerasi (Polymerase Chain Reaction, PCR), una tecnica che ha

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favorito lo studio della struttura e della dinamica delle popolazioni microbiche presenti nelle diverse matrici ambientali, in quanto consente di analizzare più campioni contemporaneamente e in tempi brevi.

1.2.2.1. Metodi biochimici

Tra i metodi biochimici indipendenti dalla coltivazione dei microrganismi, quelli maggiormente utilizzati per caratterizzare la composizione della comunità microbica sono l’analisi degli esteri metilici degli acidi grassi (Fatty Acid Methyl

Ester, FAME) e l’analisi dei fosfolipidi degli acidi grassi (Phospholipid Fatty-acid Analysis, PLFA). Gli Fatty-acidi grassi costituiscono una percentuale relativamente

costante della biomassa cellulare e sono specifici per gruppi di microrganismi, riescono cioè a distinguere i principali gruppi tassonomici all’interno di una comunità; un cambiamento nel profilo degli acidi grassi rappresenta, perciò, un cambiamento nella popolazione microbica.

I metodi basati sull’analisi FAME possono contribuire all’identificazione del microrganismo se effettuati su una coltura pura, mentre possono fornire indicazioni utili a definire la composizione di una comunità microbica se condotti su un campione ambientale. Questa tecnica prevede l’estrazione diretta degli acidi grassi dal campione, la loro metilazione per aumentare la volatilità e infine la separazione mediante gas cromatografia. I profili dei diversi campioni analizzati possono poi essere confrontati tra loro mediante analisi statistiche opportune, come l’analisi multivariata.

Il metodo FAME è stato ed è ampiamente utilizzato in ecologia microbica per studiare la composizione delle comunità microbiche ed i loro cambiamenti, indotti da pratiche agricole sul suolo (Esperschutz et al., 2007; Steinbeiss et al., 2009) e da contaminazione con agenti chimici (Zhang et al., 2006; Kelly et al., 2007). La tecnica FAME è stata utilizzata anche per misurare la qualità di vari suoli (Winding et al., 2005; Mele e Crowley, 2007).

I fosfolipidi sono acidi grassi caratterizzati da varie catene aciliche, che costituiscono la membrana cellulare dei batteri e degli eucarioti. Gli stessi possono essere estratti direttamente dal suolo e rappresentano solo la componente

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microbica vitale, in quanto subiscono una rapida degradazione in seguito a morte cellulare.

Figura 4: Schema della procedura di analisi FAME (Fani et al., 2008)

L’approccio PLFA è stato utilizzato per monitorare la composizione delle comunità microbiche presenti in vari ambienti, tra cui suoli agricoli (Zelles et al., 1992; Reichardt et al., 1997; Bossio et al., 1998) e torbiere (Sundh et al., 1997). Molti autori si sono avvalsi dell’analisi PLFA per caratterizzare i microrganismi presenti nel compost, dimostrando che durante il processo di compostaggio avvengono rapidi cambiamenti delle popolazioni microbiche presenti (Hellmann

et al., 1997; Herrmann e Shann, 1997; Carpenter et al., 1998; Klamer e Baath,

1998; Eiland et al., 2001; Sundh e Rönn, 2002).

1.2.2.2. Metodi genetici

I metodi genetici includono tutte le tecniche che studiano le popolazioni microbiche basandosi sugli acidi nucleici, i quali vengono estratti direttamente dai campioni ambientali. Alcune di queste tecniche analizzano il DNA totale, che include anche la componente microbica non più vitale; altre invece studiano l’RNA, che è sintetizzato soltanto dalle cellule in attiva crescita e si degrada

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rapidamente una volta prodotto, consentendo di identificare solo i membri attivi della comunità microbica in esame.

Nei procarioti, l’RNA messaggero (mRNA) ha spesso una vita molto breve e permette di individuare quali geni siano attivi al momento dell’estrazione.

Tuttavia molte tecniche genetiche si basano sull’analisi dell’RNA ribosomiale (rRNA), una molecola essenziale per la sintesi proteica e che si conserva in tutti i domini filogenetici. Dei vari geni che codificano per l’RNA ribosomiale, l’rDNA 16S e 23S nei procarioti e l’rDNA 18S e 26S negli eucarioti rappresentano le molecole di elezione per lo studio della diversità microbica a livello di specie e/o di genere. Il motivo di base risiede nel fatto che la filogenesi ricostruita utilizzando questi particolari marcatori genetici riflette la storia evolutiva dei microrganismi; inoltre, questi geni mutano molto lentamente durante l’evoluzione e solo in rarissimi casi sono soggetti ad eventi di trasferimento genetico orizzontale. Anche la loro conformazione favorisce l’analisi della comunità microbica mediante amplificazione tramite PCR: sono costituiti da regioni altamente conservate, identiche in tutti gli organismi viventi, e da regioni variabili, che differiscono tra i vari organismi. Ad esempio, la regione V3-V5

dell’rDNA 16S Nei batteri e la regione D1-D2 dell’rDNA 26S negli eucarioti sono

zone iper-variabili che danno buone indicazioni circa l'affiliazione filogenetica. I ricercatori hanno pertanto depositato nelle banche dati un numero enorme di sequenze di rRNA batterico e successivamente anche eucariotico, in modo da rendere questi geni marcatori ideali nel confronto tra un ceppo incognito e la banca dati di tutti i microrganismi noti, aprire la strada all’identificazione di microrganismi non coltivabili, e ottenere informazioni tassonomiche sulla comunità microbica totale.

Contenuto in guanina e citosina (G + C)

Zhang e Xu (2008) hanno studiato la diversità delle comunità microbiche dei suoli misurando il contenuto in guanina e citosina (G + C) del DNA totale estratto. Questo metodo si basa sul fatto che il DNA dei microrganismi differisce nel contenuto in G + C e che gruppi tassonomicamente vicini differiscono solo per il 3-5% (Tiedje et al., 1999).

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Si tratta di una tecnica quantitativa, in grado cioè di rilevare anche le specie meno abbondanti all’interno di una comunità; essa, tuttavia, richiede grandi quantità di DNA, una tecnica di estrazione del DNA efficiente, oltre ad offrire un livello di risoluzione grossolano.

DNA microarray

La tecnica “DNA microarray” sfrutta l’ibridazione DNA-DNA per rilevare ed identificare le specie batteriche o per valutare la diversità microbica. Consiste nell’utilizzo di chip, cui sono adesi covalentemente migliaia di acidi nucleici che funzionano come sonde per geni o sequenze specifiche; il DNA estratto dal ceppo batterico o direttamente dal campione ambientale è marcato con dei fluorocromi ed è fatto ibridare con le sonde fissate sul microarray. Con questo metodo è possibile, quindi, analizzare simultaneamente l’espressione di migliaia di sequenze di DNA e ad oggi rappresenta uno degli strumenti di studio molecolare più efficaci. Inoltre, se al posto del DNA viene estratto l’RNA, questo fornisce indicazioni esclusivamente sulla componente attiva della comunità microbica.

In un contesto microbiologico-ambientale vengono utilizzati microarrays in cui possono essere presenti collezioni di geni funzionali, collezioni di geni marcatori tassonomici ovvero interi genomi di ceppi di riferimento.

Nel primo caso si parla di “GeoChip” (sviluppato da Jizhong Zhou all’Università dell’Oklahoma, USA), le cui sonde permettono di identificare i geni che codificano per enzimi con ruoli chiave nei vari processi ecologici. Sono stati sviluppati vari microarrays di questo tipo, al fine di individuare i microrganismi coinvolti nei cicli biogeochimici (Cho e Tiedje, 2001; Wu et al., 2001; Taroncher-Oldenburg et al., 2003; Steward et al., 2004; Tiquia et al., 2004); fra le principali attività metaboliche studiate ricordiamo la nitrificazione, la denitrificazione, la fissazione dell’azoto, l’ossidazione del metano, la riduzione dei solfati e la degradazione degli inquinanti.

Nel secondo caso si parla di “PhyloChip” (sviluppato da Gary Andersen et

al. al Lawrence Berkeley National Lab, USA), poiché i microarrays si basano su

sequenze di geni marcatori filogenetici, come i geni che codificano per l’RNA ribosomiale. Tali chip consentono sia di individuare uno specifico microrganismo, sia di studiare la diversità e la struttura delle comunità microbiche presenti

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nell’ambiente. Negli ultimi anni, sono stati sviluppati microarrays per lo studio dei batteri zolfo-riduttori (Small et al., 2001) e dei batteri appartenenti principalmente agli Alphaproteobacteria (Sanguin et al., 2005); per il rilevamento delle specie appartenenti a Candida e Aspergillus (Leinberger et al., 2005), per quelle appartenenti a Fusarium (Nicolaisen et al., 2005) e per le specie che solitamente sono presenti nel compost (Franke-Whittle et al., 2005).

Nel terzo caso infine i microarrays sono utilizzati per valutare le differenze nel contenuto genomico tra un ceppo di riferimento e un ceppo naturale isolato dall’ambiente, principalmente allo scopo di analizzare l’espressione genica e comprenderne la regolazione (De Risi et al., 1997; Wodicka et al., 1997; Ye et al., 2000).

Il limite più grande di questa tecnologia è la necessità di disporre di sequenze di DNA note. I microarrays pertanto non consentono di identificare gruppi non ancora conosciuti e inoltre non sono utilizzabili per lo studio delle comunità fungine, in quanto esistono poche informazioni sulla diversità tassonomica e funzionale delle sequenze geniche dei funghi presenti nel suolo (Hirsch et al., 2010).

Metodi basati sulla PCR

La maggior parte delle tecniche molecolari è basata sull’utilizzo della reazione a catena della polimerasi (PCR), che consente di amplificare frammenti di acidi nucleici compresi tra regioni a sequenza nota. È una tecnica sensibile, che permette di analizzare più campioni contemporaneamente, favorendo l'analisi di campioni prelevati da matrici complesse.

Mediante l’amplificazione dei geni codificanti l’rRNA 16S o l’rRNA 18S e la loro successiva analisi, è possibile ottenere informazioni tassonomiche sui microrganismi coltivabili e non coltivabili; infatti, l'utilizzo di primers universali o gruppo-specifici, che si legano in regioni del genoma più o meno conservate, permette di rilevare la presenza di particolari organismi o taxa all'interno del campione analizzato. Se il prodotto di amplificazione è stato ottenuto da un isolato in coltura pura, l’analisi ARDRA (Amplified Ribosomal DNA Restriction

Analysis) o l’analisi della sequenza permetteranno di ottenere informazioni di

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sequenze depositate in banca dati. Se invece il prodotto di amplificazione è stato ottenuto dal DNA estratto da una comunità microbica, esso sarà costituito da una miscela eterogenea di molecole di rDNA 16S/18S di diversa provenienza tassonomica. La loro separazione può essere effettuata clonando direttamente l’intero prodotto di amplificazione in appositi vettori plasmidici (librerie di cloni), oppure mediante metodi di “fingerprinting” molecolare, tra cui T-RFLP, DGGE/TGGE, SSCP, RISA/ARISA.

Le tecniche molecolari basate sulla PCR hanno quindi favorito lo studio delle comunità microbiche in matrici complesse, pur non essendo esenti da limitazioni. Si elencano di seguito le principali problematiche riscontrate con l’uso di questa tecnica:

• la difficoltà di estrazione del DNA da ceppi batterici dotati di involucri esterni particolarmente robusti;

• la presenza di più copie di operoni ribosomiali all’interno della cellula, che genera una sovrabbondanza di molecole di rDNA 16S anche in presenza di poche cellule di quella specie nella comunità (Farelly et al., 1995);

• una sottostima della reale diversità microbica, in quanto è favorita l’amplificazione delle specie numericamente dominanti;

• la possibilità di formazione di sequenze di rDNA 16S/18S “chimeriche”, che suggeriscono la presenza di un organismo che nella realtà non esiste (Liesack et al., 1991; Kopczynski et al., 1994);

• la possibilità di ottenere falsi negativi, generati da impurità presenti nel materiale genetico estratto.

Quest'ultimo problema, è particolarmente evidente nell'amplificazione del DNA estratto da campioni di suolo. Infatti, per la complessità della matrice suolo, durante l'estrazione del DNA, si può avere la coestrazione di sostanze organiche (acidi umici, acidi fulvici, detriti cellulari, proteine) ed inorganiche (metalli pesanti, minerali argillosi) che possono compromettere le analisi post-PCR. Ad esempio, gli acidi umici sono in grado di inibire la Taq Dna polimerasi nella reazione di amplificazione chelando gli ioni Mg2+ (Tsai e Olson, 1991; Tebbe e Vahjen, 1993; Miller et al., 1999). Alcuni autori hanno risolto il problema

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effettuando una diluizione del DNA estratto, oppure aggiungendo degli agenti in grado di sequestrare gli inibitori come la BSA direttamente nella miscela di reazione (Tebbe e Vahjen, 1993; Yeates et al., 1997). In molti casi, comunque, anche una diluizione molto spinta (1000 volte) non riesce ad eliminare l’effetto PCR inibitore degli acidi umici coestratti (Erb e Wagnerdöbler, 1993). Da qui la necessità di purificare il materiale genetico estratto anche quando ciò comporta perdite significative di DNA. Le tecniche più ampiamente applicate per la purificazione del DNA estratto dal suolo si basano su ultracentrifugazione in gradiente di densità di cesio cloruro, cromatografia a scambio ionico, elettroforesi in gel d’agarosio, o ancora su dialisi (Roose–Amsaleg et al., 2001). Alcuni di questi metodi possono richiedere delle ottimizzazioni, specie se applicati a campioni particolarmente ricchi di sostanza organica come il compost (Tsai e Olson, 1991; Zhou et al., 1996; Harry et al., 1999).

Recentemente, sono stati sviluppati metodi di estrazione che fanno uso di kit commerciali specifici per l’estrazione diretta di DNA dal suolo. I più diffusi sono l’UltraCleanSoil™ DNA kit ed il PowerSoil™ DNA Isolation Kit Sample della

MOBIO, ed il FastDNA® SPIN Kit for Soils della BIO101 Inc. Il materiale

ottenuto con tali metodi è solitamente utilizzabile per la PCR senza la necessità di ulteriori fasi di purificazione.

Librerie di cloni

La separazione degli amplificati provenienti dai diversi microrganismi avviene mediante il clonaggio degli stessi in vettori plasmidici inseriti in cellule competenti di Escherichia coli. Il prodotto ottenuto è una libreria di molecole di rDNA 16S o 18S che vengono sequenziate singolarmente; le sequenze ottenute sono così utilizzate per recuperare dalle banche dati le sequenze ad esse più simili, con le quali vengono allineate.

Questa strategia permette di ottenere una stima della diversità tassonomica esistente nel campione analizzato. Blanc et al. (1999), ad esempio, hanno studiato una libreria di cloni di geni di rRNA 16S, al fine di caratterizzare la comunità batterica presente nella fase termofila del processo di compostaggio. Tuttavia, per descrivere accuratamente la diversità microbica in un campione complesso, sono necessarie librerie di cloni abbastanza grandi, ma sono ancora pochi gli studi che

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hanno analizzato in modo soddisfacente la questione della rappresentatività (Lauber et al., 2008).

T-RFLP (Terminal Restriction Fragment Length Polymorphism)

La tecnica T-RFLP è un’analisi del polimorfismo della lunghezza dei frammenti terminali di restrizione dei geni d’interesse (di solito l’rDNA 16S), basata sulla digestione con endonucleasi di restrizione degli amplificati marcati all’estremità con una molecola fluorescente, separati successivamente mediante elettroforesi su gel o su capillare. Il risultato di tale analisi è un elettroferogramma costituito da una serie di picchi che differiscono per mobilità (taglia molecolare), altezza e area, e che rappresentano le diverse forme microbiche presenti nella comunità in esame. Ogni specie produrrà un solo frammento “visibile” e quindi il numero dei frammenti nel profilo sarà direttamente proporzionale al numero di diverse specie microbiche presenti nel campione (Fani et al., 2008). I profili di picchi di campioni ambientali diversi possono essere comparati tra loro in modo da evidenziare similarità e differenze tra le comunità microbiche in esame.

L’altezza di ogni picco dovrebbe fornire una misura della proporzione relativa di ogni componente della popolazione. Tuttavia, a causa dell’annealing preferenziale del primer su alcuni stampi di DNA rispetto ad altri (Suzuki e Giovannoni, 1996), il valore assoluto di questa misura deve essere trattato con cautela. Inoltre, microrganismi differenti possono avere, per un determinato enzima, un frammento di restrizione terminale (TRF) della stessa dimensione e quindi non essere distinguibili in base ad un singolo profilo di restrizione (Tiedje

et al., 1999). Questo è particolarmente vero per i TRF generati dall’estremità 3’

terminale del gene dell’rDNA 16S; una discriminazione maggiore è fornita dalla regione 5’, poiché le regioni V1, V2 e V3 presenti su questa estremità sono più

eterogenee (Suzuki et al., 1998). Per caratterizzare un microrganismo, solitamente si utilizzano i profili T-RFLP ottenuti con quattro diversi enzimi di restrizione.

Nonostante la tecnica T-RFLP soffra delle stesse limitazioni comuni a tutte le analisi basate sulla PCR, risulta una delle tecniche più utilizzate al momento in microbiologia ambientale per l’analisi filogenetica delle comunità microbiche, anche in combinazione con altre metodologie. Infatti, è facile sia nella messa a

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punto che nell’uso, può essere in parte automatizzata e permette di confrontare un numero elevato di campioni, analizzati anche in momenti diversi.

Figura 5: Schema della procedura T-RFLP applicata all'analisi molecolare di una comunità

microbica (Fani et al., 2008)

Esiste una vasta letteratura sull’utilizzo del T-RFLP come strumento di studio delle comunità microbiche presenti nell’ambiente. In particolare, l’analisi T-RFLP rappresenta uno strumento molto utile per valutare i cambiamenti nella struttura della comunità microbica presente in bioreattori sviluppati per la degradazione di policlorobifenili (Fedi et al., 2005) e in reattori utilizzati per il biorisanamento di reflui agro-industriali ricchi in composti fenolici (Bertin et al., 2006). Sono state studiate comunità microbiche complesse mediante l’analisi dei profili T-RFLP da molti autori, tra i quali citiamo Hartmann e Widmer (2006) e Liu et al. (1997), che hanno dimostrato le elevate potenzialità di questa tecnica nella valutazione della diversità delle comunità batteriche complesse e nel confronto della struttura e della diversità delle comunità presenti in ecosistemi diversi.

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Lo studio delle comunità batteriche e fungine mediante T-RFLP in suoli fertilizzati con compost ha rivelato la presenza di popolazioni differenti rispetto a quelle presenti nel suolo non fertilizzato (Pérez-Piqueres et al., 2006). Tiquia (2005) ha studiato la diversità delle comunità batteriche e fungine del compost a differenti stadi del processo di compostaggio. Sono state rilevate variazioni delle comunità durante il processo ed è stato osservato che le comunità batteriche hanno una diversità maggiore rispetto a quelle fungine. Lo stesso studio è stato svolto da Székeley et al. (2008), che hanno utilizzato sia la tecnica T-RFLP sia la DGGE, ottenendo con entrambi i metodi profili quasi identici.

RISA (Ribosomal Intergenic Spacer Analysis) / ARISA (Automated Ribosomal Intergenic Spacer Analysis)

La RISA è un’altra tecnica di DNA fingerprinting, simile in linea di principio al T-RFLP e basata sul polimorfismo di lunghezza della regione spaziatrice compresa tra i geni codificanti per l’rRNA 16S e 23S (ITS, Internal

Transcribed Spacer). I primers sono disegnati su regioni relativamente conservate

così da garantire l’amplificazione da un ampio spettro tassonomico; la regione ITS, che viene amplificata mediante PCR e separata su gel di poliacrilammide in condizioni denaturanti, ha un’elevata eterogeneità di lunghezza e di sequenza e permette di differenziare tra ceppi batterici e specie strettamente correlate (Fisher e Triplett, 1999). I polimorfismi sono poi rilevati utilizzando la colorazione argentica.

La RISA è stata applicata con successo negli studi sulla diversità della comunità microbica nel terreno (Borneman e Triplett, 1997), nella rizosfera delle piante (Borneman e Triplett, 1997) e nei suoli contaminati (Ranjard et al., 2000).

Come evoluzione logica della RISA nasce l’ARISA, una tecnica sviluppata da Fisher e Triplett (1999), basata sull’utilizzo di un primer marcato con fluorocromo. I prodotti di PCR sono analizzati mediante un sistema di elettroforesi capillare automatizzato che produce un elettroferogramma, i cui picchi corrispondono ai frammenti di DNA marcati terminalmente. La sensibilità della tecnica è maggiore rispetto alla RISA, si riscontra un’elevata semplicità di lettura dei dati ottenuti e la riproducibilità è garantita dall’automazione dello strumento. Queste caratteristiche rendono l’ARISA una metodologia attendibile

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per l’analisi ed il confronto di un gran numero di campioni, anche se è ancora soggetta alle tradizionali restrizioni della PCR.

L’ARISA è stata utilizzata per analizzare la struttura genetica di diverse comunità batteriche e fungine presenti in differenti tipi di suolo (Ranjard et al., 2001) e per valutare i cambiamenti delle comunità batteriche (Schloss et al., 2003) e fungine (Hansgate et al., 2005) nelle fasi iniziali del processo di compostaggio.

Figura 6: Schema della procedura ARISA (Byron, 2005)

SSCP (Single Strand Conformation Polymorphism)

La tecnica SSCP individua i polimorfismi di conformazione delle singole eliche sfruttando la tendenza del DNA a singolo filamento ad assumere conformazioni specifiche, strettamente dipendenti dalla sequenza nucleotidica, in relazione ai legami intramolecolari che si instaurano tra le basi complementari. La mobilità elettroforetica di una molecola di DNA a singolo filamento cambia in funzione delle sue dimensioni, della sua sequenza nucleotidica, della temperatura di analisi e della forza ionica. Perciò, in condizioni non denaturanti e a parità di temperatura, la mobilità elettroforetica di un singolo filamento di DNA varia in base alla sua conformazione intramolecolare (Lee et al., 1996). I singoli filamenti

Confronto tra i profili dei diversi campioni Estrazione del DNA Amplificazion e mediante PCR dell’ITS con primer

marcati Ampliconi di lunghezza variabile

Elettroforesi su gel o capillare dei frammenti

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di DNA ottenuti mediante amplificazione in PCR, denaturati e sottoposti a rapido raffreddamento, vengono fatti migrare su un gel di poliacrilammide in condizioni non denaturanti. I frammenti di DNA che presentano alterazioni anche di una singola base vengono evidenziati per un cambiamento nella loro mobilità elettroforetica e si identificano mediante colorazione argentica.

Il metodo è economico e versatile, anche se si rileva che la sensibilità è limitata dalle dimensioni del frammento e tende a diminuire con l’aumentare della lunghezza dei frammenti di DNA. Inoltre, alcuni DNA a singolo filamento possono formare più di una conformazione stabile, cosicché una sequenza può essere rappresentata da più di una banda sul gel (Tiedje et al., 1999).

La tecnica SSCP è stata utilizzata in ecologia microbica per studiare la diversità sia delle comunità batteriche che fungine in varie matrici ambientali, tra cui la rizosfera (Schwieger e Tebbe, 1998; Schmalenberger et al., 2001). Peters et

al. (2000) hanno utilizzato con successo la tecnica SSCP per caratterizzare la

diversità e la successione delle comunità microbiche durante il processo di compostaggio di residui agricoli.

DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis) / TGGE (Thermal Gradient Gel Electrophoresis)

La DGGE e la TGGE sono due metodologie molto simili, sviluppate per la ricerca di mutazioni puntiformi in genetica medica; successivamente il loro utilizzo è stato allargato allo studio della diversità genetica microbica (Muyzer et

al., 1993)

Per mezzo di una corsa elettroforetica su un gel di poliacrilammide contenente un gradiente lineare di agenti denaturanti di tipo chimico, costituito da una miscela di urea e formammide nel caso della DGGE oppure da un gradiente denaturante di tipo termico nella TGGE, è possibile separare frammenti di DNA amplificati mediante PCR, aventi cioè la stessa lunghezza, ma differente sequenza. Teoricamente, queste tecniche sono capaci di separare sequenze nucleotidiche che differiscono per una sola coppia di basi. Nübel et al. (1996) hanno separato frammenti di DNA provenienti da diversi operoni rrN, alcuni dei quali differivano per una sola base, mentre Kowalchuk et al. (1997) hanno dimostrato che le doppie bande rilevate nei profili DGGE da loro studiati, erano il

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risultato della cosiddetta wobble base, l’oscillazione di una citosina o di una timina nel primer reverse.

Le due tecniche si basano sul principio molecolare per il quale gli ampliconi, durante la corsa, incontrano un gradiente denaturante sempre maggiore, che genera la parziale separazione dei filamenti costituenti la doppia elica. Infatti, la denaturazione delle parti della molecola aventi una temperatura di melting minore causa una riduzione della velocità di migrazione dell’intero frammento, fino ad una quasi completa stabilizzazione. Questo punto di parziale denaturazione è, in teoria, diverso da molecola a molecola in relazione alla specifica sequenza di basi (Muyzer et al., 1993; Heuer e Smalla, 1997).

Per una migliore separazione fisica spaziale delle molecole con sequenza differente, si utilizza, durante l’amplificazione, un primer forward contenente in 5’ una breve sequenza di 40-50 pb a doppia elica, ricca in basi G e C (Myers et

al., 1987). Questa coda-GC ha una resistenza maggiore alle condizioni denaturanti

e consente di tenere uniti i frammenti di DNA che nella successiva corsa elettroforetica si denatureranno completamente.

Figura 7: Schema del processo di DGGE: in A il gradiente denaturante separa la doppia elica del

DNA e ne cambia la velocità di migrazione attraverso le maglie del gel. In B nei pozzetti 1 e 2 sono mostrate le bande del 16S rDNA che corrispondono a due specie batteriche diverse. A causa del loro differente contenuto in G + C la velocità di migrazione sarà diversa, permettendo una loro separazione in un campione che le contenga entrambe (pozzetto 3) (Fani et al., 2008)

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Le bande che si ottengono nei profili DGGE e TGGE possono essere rilevate mediante colorazione con bromuro d’etidio oppure utilizzando il SYBR Green I. Sono entrambi agenti che si intercalano nel DNA a doppio filamento, anche se il SYBR Green I ha una sensibilità circa 25 volte maggiore rispetto a quella del bromuro d’etidio. Un metodo di rilevamento ancora più sensibile è la colorazione argentica (Felske et al., 1996). Tuttavia questo colorante si lega anche al DNA a singolo filamento, impedendo un’eventuale analisi d’ibridazione successiva (Heuer e Smalla, 1997).

La TGGE può essere condotta su gel con gradiente di temperatura perpendicolare o parallelo al campo elettrico. Allo stesso modo, la DGGE può essere condotta su gel con gradiente denaturante perpendicolare o parallelo al campo elettrico. Nel primo caso, generalmente l’ambito del gradiente è ampio (0-100% oppure 20-(0-100%); nel secondo caso, l’ampiezza del gradiente è più ristretta e consente una migliore separazione degli ampliconi (Myers et al., 1987). Quest’ultimo tipo di gel è comunemente più utilizzato, perché permette il caricamento contemporaneo di più campioni.

Figura 8: Schema del profilo TGGE su gel perpendicolare (a sinistra) e parallelo (a destra) di due

diversi ceppi. Il frammento di DNA colorato in nero rappresenta la coda-GC (Heuer e Smalla, 1997).

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Sia la DGGE che la TGGE hanno il vantaggio di essere affidabili, riproducibili, rapide e non molto costose. Inoltre, la tecnica DGGE permette di analizzare contemporaneamente più campioni prelevati ad intervalli di tempo diversi, rendendola idonea per gli studi sull'evoluzione delle popolazioni microbiche nell’ambiente.

I limiti di questa metodologia relativi ai passaggi operativi antecedenti la tecnica stessa possono essere il campionamento di una matrice non correttamente omogeneizzata o la variabilità di estrazione del DNA, che non garantiscono la rappresentatività della matrice analizzata. Inoltre, essendo basata sulla PCR, è soggetta alle restrizioni di questa tecnica.

Le limitazioni proprie della tecnica DGGE riguardano vari aspetti:

• questa tecnica non permette la separazione di frammenti di lunghezza superiore a 600 pb circa, limitando così la scelta delle regioni da analizzare;

• non sono rilevabili le specie numericamente inferiori, soprattutto nel suolo, dove la diversità è molto alta. Heuer e Smalla (1997) hanno comunque dimostrato che un ceppo rappresentante l’1% della popolazione batterica totale è efficacemente rilevato, come banda distinta, in un profilo DGGE;

• i frammenti di DNA di sequenza differente potrebbero avere la stessa mobilità nel gel di poliacrilammide e quindi, una banda potrebbe non necessariamente rappresentare una sola specie (Gelsomino et al., 1999); • si possono ottenere bande multiple per una stessa specie batterica, a

causa della ridondanza di operoni ribosomiali in una cellula, i quali possono presentare microeterogeneità (Nübel et al., 1996);

• prevede, come del resto la TGGE, una laboriosa manipolazione dei campioni che potrebbe influenzare la comunità microbica (Muyzer, 1999).

Ad ogni modo, la DGGE è ,probabilmente, la metodologia più ampiamente utilizzata tra le tecniche di studio delle comunità microbiche presenti nei campioni ambientali, soprattutto in applicazioni di tipo tassonomico. In linea di principio, questa tecnica, analogamente al T-RFLP, può essere applicata a qualsiasi

Figura

Figura 1: Concetto base del processo di compostaggio (Epstein, 1997)
Figura  2:  Rappresentazione del processo di compostaggio attraverso la variazione delle  popolazioni microbiche e del pH in ragione della dinamica della temperatura (Vallini, 2008)
Figura 3: Schema del processo di nitrificazione
Figura 4: Schema della procedura di analisi FAME (Fani et al., 2008)
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Riferimenti

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