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I PROBLEMI DI EFFETTIVITÀ DEL PRINCIPIO DIOBBLIGATORIETÀ DELL'AZIONE PENALE E LEPOSSIBILI SOLUZIONI DI POLITICA CRIMINALE

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Capitolo III

I PROBLEMI DI EFFETTIVITÀ DEL PRINCIPIO DI

OBBLIGATORIETÀ DELL'AZIONE PENALE E LE

POSSIBILI SOLUZIONI DI POLITICA CRIMINALE

Dall'analisi svolta finora emerge l'importante ruolo dell'articolo 112 il quale garantisce alcuni fondamentali principi costituzionali, tuttavia bisogna constatare che esso è stato sottoposto a numerose critiche.

I detrattori dell'obbligatorietà, che sostengono la discrezionalità, basano le loro posizioni su due ordini di ragioni1 alcune di carattere tecnico e altre di

carattere politico. Il primo ordine di obiezioni viene portato avanti dai cosiddetti giuristi pragmatici, secondo questi è impossibile un'effettiva applicazione del principio e, quindi, il Pubblico Ministero si trova nei fatti -costretto a venire meno al suo obbligo, esercitando una selezione degli affari da trattare. In questo modo molti reati si ritrovano destinati alla prescrizione o all'archiviazione per mancata acquisizione di elementi utili all'esercizio dell'azione penale, questo permetterebbe alla magistratura requirente di esercitare - nei fatti - una discrezionalità priva di qualsiasi controllo e senza criteri predeterminati.

Per quanto riguarda invece coloro che adducono motivazioni politiche, questi, ponendosi l'obiettivo di condizionare il ruolo svolto dalla magistratura requirente (magari conservando in apparenza l'indipendenza del Pubblico Ministero), spesso sostengono posizioni che partono da un'analisi comparatistica con altri ordinamenti europei, per poi giungere alla conclusione che il caso italiano costituisce un'anomalia. Tuttavia, tale affermazione non pare corretta in quanto, come vedremo, non solo esistono

1 Cfr A. Spataro, Obbligatorietà dell'azione penale, in L. Pepino (a cura di), Giustizia, Edizioni Laterza, 2010, p. 119.

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sia sistemi improntati all'obbligatorietà dell'azione penale sia sistemi che hanno scelto il principio della discrezionalità, ma sopratutto sono individuabili numerose gradazioni di entrambi i principi. Alcuni di questi autori2 all'analisi

comparativa aggiungono poi altre considerazioni di carattere prettamente politico. In particolare notano che il binomio, composto dall'obbligatorietà dell'azione penale e dall'indipendenza del Pubblico Ministero, sottrae una parte molto rilevante delle decisioni in materia di politica giudiziaria ad una regolamentazione e responsabilizzazione nell’ambito del processo democratico. Al riguardo Giuseppe Di Federico3 ricorda l'esempio della

Francia, dove - nel 1977 - la proposta di adottare l'obbligatorietà dell'azione penale e di rendere indipendente i PM venne respinta, perché si pensava che le scelte di politica criminale dovessero essere di competenza esclusiva del Governo, il quale ne doveva rispondere al Parlamento, e non ad un corpo burocratico privo di legittimazione democratica. A parere di questo autore invece, nel nostro ordinamento i Pubblici Ministeri godono di un enorme potere, che è tale da permettergli di tutelare i loro interessi corporativi e di erogare un'impropria sanzione consistente in una gogna giudiziaria che può durare anni, con conseguenze irreparabili, senza portarne alcuna responsabilità. In realtà non pare corretta questa ultima considerazione in quanto il Pubblico Ministero, pur non avendo nessuna responsabilità politica, è soggetto a responsabilità disciplinare, per quanto molti ritengano che questa, nella prassi, non abbia dato risultati soddisfacenti.4 Tuttavia, quando

si parla di responsabilità disciplinare del Pubblico Ministero, bisogna considerare che essa è finalizzata ad assicurare il rispetto dei doveri d'ufficio e il prestigio dell'ordine giudiziario. Essa incontra quindi il limite, stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per cui i singoli provvedimenti sono insindacabili a meno che non siano abnormi, adottati fuori da ogni schema

2 Cfr G. Di Federico, Divisione delle carriere: può essere efficace senza modificare il

principio di obbligatorietà dell'azione penale?, in L'ircocervo, 2009, n4, passim.

3 G. Di Federico Divisione delle carriere: op.cit, pp. 3-4.

4 Per considerazioni critiche sul funzionamento della responsabilità disciplinare dei magistrati si vedano G. Rebuffa, La funzione giudiziaria, Giapichelli, 1993, e G. Volpe, La legge ferrea delle corporazioni e i magistrati, in Foro.it, 1976.

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processuale o sulla base di un errore macroscopico oppure qualora siano riscontrabili negligenza, colpa grave o comportamento arbitrario.5 Diretta

conseguenza di ciò è che, se difficilmente si potrà sanzionare un Pubblico Ministero per aver ritenuto erroneamente di dover richiedere un'archiviazione, sarà invece possibile farlo per una grave carenza di produttività o in caso sia stata ignorata la richiesta del GIP di svolgere ulteriori indagini.

Quindi, possiamo notare che gran parte delle critiche mosse al principio di obbligatorietà dell'azione penale, si basano sull'idea che l'effettività di quest'ultima sia nella pratica impossibile. In questo capitolo si proverà a esaminare la veridicità di questa opinione a partire dai dati statistici inerenti al tema, per ragionare in seguito dei correttivi che la politica criminale ci mette a disposizione, al fine di provare a correggere le disfunzioni del sistema con particolare riguardo alla depenalizzazione e ai criteri di priorità per l'esercizio dell'azione penale. Termineremo il capitolo ragionando circa le logiche che dovrebbero stare dietro tali scelte.

1 Dati statistici

L'analisi contenuta in questo capitolo parte dalla constatazione che il principio enunciato nell'articolo 112 della Costituzione viene, nella prassi costantemente violato in quanto è oggettivamente impossibile, data l'enorme mole di lavoro degli uffici giudiziari, esercitare l'azione penale per ogni singola notitia criminis che non debba essere archiviata.

Come prima cosa dobbiamo capire se queste violazioni sono una quantità fisiologica oppure se hanno raggiunto un livello ormai intollerabile. Per procedere ad una tale verifica, dovremo necessariamente procedere con un'analisi dei dati tramite l'uso di alcuni strumenti tipici della statistica, scelta

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che, in una tesi di questo tipo, può apparire particolare, nonostante il nome di questa scienza sia nato proprio nelle facoltà di giurisprudenza della Germania del Seicento. In quest'epoca si trattava infatti di un tipo ricerca perlopiù qualitativa, la quale si limitava a descrivere i fenomeni senza interrogarsi sulle leggi sottostanti ad essi (anzi i cultori della statistica universitaria consideravano volgare la descrizione numerica per esaminare le “cose notevoli” di uno stato).6 Purtroppo non è stato possibile trovare

statistiche ufficiali capaci di analizzare direttamente il tema della violazione dell'obbligatorietà dell'azione penale e, quindi, non sono reperibili specifici studi sul tema;7 tuttavia esistono dati8 i quali possono essere usati come

indicatori indiretti dell'entità del fenomeno che, in questa sede, si cercherà di elaborare, in modo tale da poter trarre delle conclusioni circa l'entità della violazione del principio di obbligatorietà.

L'elemento che prenderemo in considerazione per la nostra valutazione è la prescrizione, sia dal punto di vista dell'entità complessiva del fenomeno, sia dal punto di vista di un'analisi delle fasi processuali in cui si realizza pienamente. Com'è noto, questo istituto rientra tra le cause di estinzione dei reati, e opera sulla base dell'elemento temporale, in quanto si attiva al decorrere di un determinato periodo di tempo dal giorno della consumazione del reato o da quello in cui è cessata l'attività colpevole; se si tratta di un tentativo, o la permanenza, in caso di reato permanente. Ovviamente, in una visione assoluta e retributiva della pena, questo istituto non troverebbe giustificazione, ma si inquadra perfettamente nella visione relativa che risponde a un'impostazione utilitaristica.9 In sostanza, si afferma che,

decorso un certo periodo, l'accertamento dell'eventuale responsabilità e la

6 Cfr M. P. Perelli D'argenzio Storia della statistica: i momenti decisivi in

L'insegnamento della matematica e delle scienze integrate, vol 25a-b, 2002. Con

particolare riferimento a Corning e Achenwell.

7 Fa eccezione G. Di Federico, A. Gaito, M. Margaritelli, Il monitoraggio del processo

penale. Potenzialità e limiti delle analisi statistiche, Milano, Lo Scarabeo, 1995.

8 I dati che verranno esaminati sono stati reperiti sul sito del Ministero della Giustizia e dall'Annuario Statistico Italiano 2014 dell'Istat.

9 Cfr. S. Silvani, “Il giudizio del tempo. Uno studio sulla prescrizione”, Il Mulino, Bologna 2009.

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pena stessa perdono significato per l'intera comunità.10 Quindi viene meno

l'esigenza di prevenzione generale, e il magistero punitivo non ha più quindi la possibilità di esercitare un'opera di orientamento culturale. La prescrizione, di conseguenza, non è un istituto da demonizzare, esso era già presente in epoca romana, anche se inizialmente la praescriptio riguardava solo la materia civile e si estese successivamente all'ambito penale. Questo istituto fu confermato anche dall'Illuminismo, in quanto ben si adattava alla visione utilitaristica e umanizzata del diritto di punire. La prescrizione ancora oggi ha una valenza dal punto di vista razionale della funzione generalpreventiva, ma quando assume dimensioni eccessive arriva a mettere in discussione l'obbligatorietà dell'azione penale.

Per la nostra analisi prenderemo in considerazione i dati sulla prescrizione registrati tra il 2007 e il 2013,11 essi infatti evidenziano un calo costante dei

casi di prescrizione, con la sola eccezione del 2012.12 Dai dati emerge che la

tendenza, che caratterizza l'andamento delle prescrizioni nel periodo in esame, evidenzia una progressiva diminuzione, rientrando in una dimensione fisiologica.13 Per completare la raccolta dei dati, può essere utile

prendere in considerazione anche il rapporto tra i casi di prescrizione ed i delitti denunciati, purtroppo in questo caso dovremo prendere in considerazione i dati dal 2008 fino al 2012 in quanto sono gli unici disponibili sull'Annuario Statistico Italiano 2014.14 Possiamo osservare il rapporto in

esame che oscilla tra il 3,3% del 2012 e il 4,9% del 2009. Inoltre, la retta che raffigura la tendenza delle prescrizioni, negli anni presi in considerazione, ha

10 G. Crivellari al riguardo sostiene che “ogni giorno che passa è un giorno che si aggiunge al libro dell'oblìo”, la citazione si può trovare in T. Padovani, Diritto Penale, Giuffré, 2012, p. 360.

11 A seguito della rimodulazione del sito del Ministero della Giustizia sono infatti disponibili solo i dati relativi a questi anni, i dati precedenti sono reperibili in C. Valentini, L’obbligatorietà dell’azione penale tra criteri di priorità e garanzia di

eguaglianza, in F. R. Dinacci, Processo penale e Costituzione, Giuffré, 2007, pp.

143-145. L'autore prende in considerazione il periodo tra il 1996 e il 2007.

12 Vedi appendice tabella 1. Per rendere più chiara la lettura di questi dati possiamo utilizzare un istogramma che illustra graficamente l'entità del fenomeno, si fa riferimento al grafico 1 dell'appendice.

13 Per la raffigurazione dell'andamento delle prescrizioni vedi appendice grafico 2. 14 Vedi appendice tabella 2.

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una pendenza negativa e, se avessimo preso in considerazione anche il periodo precedente, potremmo notare che – invece – il fenomeno tendeva a crescere, conoscendo un picco nel 2004, per poi cominciare progressivamente a diminuire.15 Possiamo inoltre notare che, alla

diminuzione dei delitti denunciati, non è corrisposta una diminuzione del rapporto tra questi e le prescrizioni, dato particolarmente evidente nel 2011, dove, a fronte di una diminuzione di circa cinquantamila delitti denunciati rispetto all'anno precedente, il rapporto è addirittura aumentato.

Un ulteriore dato statistico rilevante ai nostri fini è quello circa la fase in cui si verifica la prescrizione. Per semplicità, prenderemo in considerazione solo il dato inerente al 2013: Corte di Cassazione 438, Corte d'Appello 21521, Sentenza del Gip/Gup 6403, Tribunale 20685, Decreti del Gip (noti) 68107, Decreti del Gip (ignoti) 4003 e Giudice di Pace 1921.16 La gran parte delle

prescrizioni si realizzano quindi ad opera del Gip, dato che anche negli anni precedenti si mantiene costantemente sopra il 70%,17 quindi nella primissima

fase del procedimento penale, e solo in minima parte sono dovute a denunce tardive, si tratta di non più del 15% dei casi. Possiamo quindi ipotizzare che i casi di prescrizione riguardino in gran parte contravvenzioni o delitti minori18

e che i relativi fascicoli vengano volutamente abbandonati al loro destino. Nel complesso possiamo concludere che, anche se il rapporto tra prescrizioni e reati denunciati a livello percentuale non abbia dimensioni impressionanti (in media possiamo dire che si attesta attorno al 4%), e negli ultimi anni il fenomeno sia stato caratterizzato da una tendenziale decrescita, esso riguarda oltre centomila casi, e quindi è un fenomeno tutt'altro che trascurabile. Inoltre, se consideriamo il momento e le motivazioni delle prescrizioni, possiamo concludere che nella prassi queste comportano ampi

15 Per una rassegna dei dati precedenti vedi C. Valentini Obbligatorietà dell'azione

op.cit.

16 Vedi appendice grafico 3.

17 L'unica eccezione si è verificata nel 2000 quando il dato si fermò al 54%.

18 Si tratta in alcuni casi di delitti di notevole impatto sociale: casi di colpa professionale, infortuni sul lavoro, omicidi colposi derivati da violazioni delle regole del codice della strada, truffe, furti...

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margini di discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale.

2 Le lesioni dei diritti dei cittadini

I dati appena analizzati mostrano come nella prassi esistano quindi dei margini di discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale, per quanto sembri quantomeno esagerato sostenere – sulla base di questi dati statistici – l'inesistenza sul piano dell'effettività del principio dell'obbligatorietà contenuto nell'articolo 112 Cost. Questa situazione in gran parte pare derivare dal fatto che gli uffici giudiziari si trovano nell'impossibilità di far fronte alla grande quantità di domanda di giustizia che viene loro rivolta, a ciò si è per molto risposto con una sorta di discrezionalità non dichiarata, praticata tramite l'inerzia nei confronti dei reati minori, i quali vengono sostanzialmente abbandonati alla prescrizione,19 naturalmente ciò si verifica solo quando

l'abbandono delle singole fattispecie è frutto di una scelta intenzionale.

Preso atto dell'esistenza di margini, più o meno estesi, all'interno dei quali il Pubblico Ministero si trova – nei fatti – a poter compiere scelte discrezionali, è opportuno valutare quali siano le conseguenze che ne derivano. Infatti, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l'articolo 112 assume nel nostro ordinamento una funzione di garanzia nei confronti di alcuni fondamentali diritti che vengono previsti dalla nostra Costituzione, in particolare il principio di uguaglianza e quello di legalità, e quindi una sua mancata effettività nella prassi, non può non avere ripercussioni su di essi. La violazione di questi principi si sostanzia in un esercizio fortemente diseguale della giustizia sul territorio nazionale, mettendo nelle mani della magistratura requirente il potere di fare scelte di politica criminale, senza dover rispondere in alcun modo di fronte a nessuno. Per meglio comprendere la questione, è utile riprendere un esempio sostenuto da uno dei principali detrattori

19 U. Nannucci Analisi dei flussi delle notizie di reato in relazione all'obbligatorietà e

facoltatività dell'azione penale, in Cassazione penale, 1991, pp. 1669-1670. L'autore

parla di discrezionalità all'italiana comparandola con quella americana e quella inglese nell'articolo.

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dell'obbligatorietà dell'azione penale.20 Il caso giudiziario che viene preso in

esame, riguarda iniziative penali in materia fiscale intraprese dalla procura di Torino la quale, senza alcuna denuncia o sollecitazione, procedette a verificare la situazione patrimoniale e contributiva dei cittadini, alla ricerca di indizi circa la violazione degli obblighi fiscali; dalle risultanze di queste indagini scaturirono molte azioni penali. Questo comportamento fu giudicato legittimo ed opportuno dai magistrati di un'altra procura di grandi dimensioni che anzi si rammaricarono di non avere le risorse per mettere in campo iniziative analoghe, mentre in una terza procura, si sostenne che l'iniziativa torinese aveva travalicato i ruoli della magistratura requirente, e che i sostituti di quella procura si erano comportati come poliziotti organizzando vere e proprie retate. Da questo esempio possiamo facilmente dedurre che la magistratura requirente ha, di fatto, la possibilità di fare scelte che creano un'amministrazione della giustizia molto differenziata da procura a procura. In un articolo del 1994 Carlo Guarnieri21 affronta il tema in modo più

sistematico, partendo dalla constatazione che l'azione della magistratura requirente non sia omogenea, ma che anzi conosca grandi differenze da luogo a luogo. In particolare l'articolo citato compara i comportamenti delle procure di cinque zone del paese, ossia le procure di Milano (che si caratterizza per una particolare attenzione verso i casi di corruzione e per l'affermazione dei singoli magistrati come veri e propri attori politici,22

nonostante sia possibile notare che la loro azione fu autonoma rispetto alle forze partitiche), di Torino (che non fu certo poco attenta nel perseguire i reati contro la pubblica amministrazione, ma si caratterizzò per una maggiore riservatezza, forse dovuta al contesto economico meno incline a competizione e conflitto rispetto a quello milanese), di Roma (spesso oggetto

20 G. Di Federico, Obbligatorietà dell'azione penale, coordinamento delle attività del

pubblico ministero e la loro rispondenza alle aspettative della comunità, in Gaito (a

cura di), Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Jovene Editore, 1991, p.178. 21 Cfr. C. Guarnieri, Geopolitica della magistratura, in Limes, 1994, n4.

22 C. Guarnieri op.cit., p. 109-110. L'autore fa riferimento in particolare a Di Pietro, che prima fu indicato come essenziale per la formazione del primo Governo Berlusconi come elemento di garanzia della qualità morale e poi fondò il proprio partito, e Borrelli, che dialogò con il ministro Biondi su eventuali modifiche al cpp.

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di polemica per la sua grande prudenza nei confronti dei cosiddetti “crimini dei colletti bianchi”,23 forse ciò poteva essere conseguenza del fatto che,

anche a causa del suo particolare rilievo politico, in passato fu diretta sempre da magistrati vicini alla Democrazia Cristiana, fino alla nomina di Coiro di Magistratura Democratica), di quelle della “zona rossa” nella quale Guarnieri riunisce le procure dell'Emilia-Romagna, della Toscana e dell'Umbria (caratterizzate da un numero di iniziative giudiziarie decisamente minore rispetto a quelle delle altre zone del paese) e infine di quelle del sud, anche in questa zona, nei confronti di reati come la corruzione, prevale un atteggiamento molto prudente (questo comportamento è preso in esame dall'autore il quale ipotizza che in quelle zone il problema principale da affrontare sia quello della criminalità organizzata, inoltre si possono notare forti divergenze tra le procure di questa zone, a titolo di esempio, si può citare lo storico contrasto tra la procura di Napoli e quella di Avellino). Da questo quadro emerge quindi che l'esercizio dell'azione penale subisce forti condizionamenti sia dall'ambiente in cui i magistrati lavorano sia dagli assetti che prevalgono nei singoli uffici. Questo comportamento porta ad una giustizia che può risultare fortemente diseguale tra le diverse parti del paese. Il problema assume un rilievo ancora maggiore se consideriamo che nella società moderna il processo stesso, per chi lo subisce, ha sostanzialmente natura di pena,24 in quanto un'incriminazione può dare origine ad una

colpevolizzazione preventiva e ad una stigmatizzazione pubblica, non a caso si è parlato anche di pene processuali e in Italia si verificarono casi eclatanti.25 Dalle considerazioni svolte possiamo capire come la pena possa

in certi casi risultare molto meno temibile dell'esposizione pubblica derivante dal processo,26 e quindi è facile comprendere quanto sia delicato il tema

23 Questa procura ricevette per molto tempo il poco gratificante appellativo di “porto delle nebbie”.

24 L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Edizioni Laterza, Bari, 2000, p. 760.

25 Per citare solo due esempi particolarmente noti possiamo ricordare il processo Valpreda, il processo 7 aprile e il processo Tortora.

26 L. Ferrajoli, op.cit, p. 761. L'autore parla di recupero della funzione infamante del diritto penale premoderno nel quale però il processo era segreto e la pena pubblica mentre ora la pubblica umiliazione non è conseguenza della condanna ma

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dell'utilizzo degli spazi di discrezionalità che necessariamente emergono in tema di esercizio dell'azione penale.

Sicuramente, da quanto detto fino ad ora, possono emergere fondati timori circa la tutela dei diritti dei cittadini, in un contesto dove la previsione dell'articolo 112 non gode di una reale effettività. Tuttavia non si può non notare che tali lesioni derivino appunto dai margini di discrezionalità di cui – nei fatti – può godere la magistratura requirente. Appare quindi singolare la posizione di chi, per meglio garantire i cittadini, propone come soluzione l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale per introdurre invece un sistema in cui viga il principio opposto di discrezionalità, sebbene corredato da una responsabilità dei Pubblici Ministeri. Non sembra possibile mettere in dubbio il fatto che il sistema basato sulla legalità nell'uguaglianza, dove la magistratura agisce in maniera autonoma e indipendente e del quale l'articolo 112 rimane fondamentale garanzia, possa meglio garantire le libertà individuali. Possiamo quindi dire che una serie di argomenti, sia di opportunità che sistematici, fanno guardare con favore al mantenimento del principio di obbligatorietà, ma allo stesso tempo sarebbe sbagliato considerare immodificabile l'articolo 112,27 purché non si agisca per mettere

in dubbio il principio, ma piuttosto si operi per inverarlo al massimo livello. Possiamo considerare il processo penale una risorsa scarsa, dispendiosa e traumatica per chi ne viene coinvolto, e quindi dovremo introdurre un criterio di economicità nell'accesso ad esso.28 In parte questa esigenza viene assolta

dall'archiviazione che, con il pregio di non agire a priori ma sulla base degli atti del procedimento e sotto il controllo del giudice, impedisce di sprecare la preziosa risorsa del processo di fronte all'irrilevanza e sostanziale inoffensività del fatto contestato e, di fronte all'inidoneità delle risultanze procedimentali, a sostenere l'accusa in giudizio. Tuttavia, è evidente che l'archiviazione non basta a rendere effettivo il principio di obbligatorietà,

dell'incriminazione e la gogna è stata sostituita dai mass media.

27 G. Monaco, Pubblico Ministero e obbligatorietà dell'azione penale, Giuffré, 2003, p. 356.

28 A. Rossi, Per una concezione realistica dell'azione penale, in Questione Giustizia 1997, n2, p. 316.

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dobbiamo quindi prendere atto dell'insufficienza di qualsiasi rimedio, se considerato in maniera isolata, volto a risolvere questo problema della giustizia penale. Occorre di conseguenza intervenire in maniera sistematica, introducendo coraggiose scelte di politica criminale, le quali non necessariamente possono incontrare il favore della popolazione.

3 Definizione di politica criminale e le sue attuali linee di

indirizzo

Prima di analizzare quali possono essere gli accorgimenti idonei a favorire l'effettività del principio contenuto nell'articolo 112, è opportuno definire meglio in cosa consista la politica criminale (o politica penale). Questa rientra nelle scienze criminali, ossia fra le discipline che annoverano i fenomeni delittuosi come loro interesse fondamentale e come nucleo del proprio sapere. Nello specifico la politica criminale ha come obiettivo quello di studiare, elaborare e proporre gli strumenti e i mezzi per combattere la criminalità, dando luogo all'insieme delle valutazioni e delle misure recepite dal legislatore per abbassare il numero delle offese all'ordinamento giuridico-penale.

Per quanto riguarda i rapporti della politica criminale con il diritto penale, per lungo tempo ha prevalso l'impostazione positivistica la quale partiva dall'assunto che “il diritto penale è l'insormontabile limite dalla politica criminale”,29 contrapponendo i principi che ispirano il trattamento del

comportamento sociale deviante e i metodi giuridici usati per elaborare e inquadrare a livello sistematico-concettuale come presupposti del reato. Secondo questa impostazione, l'idea dello scopo del diritto penale è la guida della politica criminale, mentre il codice penale è chiamato a difendere non la comunità, ma chi delinque, sancendo il suo diritto a essere punito solo nel rispetto dei presupposti ed entro i limiti fissati dalla legge.30

29 La frase è di F. von Listz ed è contenuta nel suo libro Strafrechtliche Aufsatze und

Vortrage, vol II, 1905, p. 80.

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A questa impostazione, si contrappone una visione sistematica,31 la quale

invece vede nel diritto penale oltre alla funzione garantistica anche quella di dettare norme di comportamento agendo per garantire la conformazione sociale,32 infatti i problemi di politica criminale, nel diritto penale sono il

contenuto proprio della teoria generale del reato. Secondo questa visione quindi la vincolatività del diritto e il finalismo della politica criminale non possono essere contrapposti, ma anzi vanno ricondotti a sintesi. Questa unità sistematica si attua nella costruzione della teoria del reato, e rappresenta un adempimento dei compiti che il nostro ordinamento giuridico è chiamato ad assolvere nei vari settori.33

La politica criminale interagisce anche con il processo penale, aspetto che – ai nostri scopi – è maggiormente rilevante. Questo infatti, con la determinazione dei tempi e dei modi con cui dare attuazione alle scelte di valore della scienza penale in esame, risulta svolgere un ruolo di controllo sociale.34 Infatti la capacità di un ordinamento di orientare i comportamenti

dei consociati, dipende in buona misura dal funzionamento dei meccanismi processuali. Le scelte del legislatore penale incidono a vario livello sugli aspetti processuali e, in particolare, merita attenzione il modo con cui il processo penale offre risposta alle esigenze di accertamento dei fatti penalmente rilevanti; possiamo notare infatti che esso deve essere in grado di assicurare una traduzione concreta delle gerarchie di interessi perseguiti dal legislatore con i suoi interventi in materia penale.35 In ambito processuale

le scelte di politica criminale possono concretizzarsi in provvedimenti come i criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale, della trattazione dei processi e nelle diverse discipline dei mezzi di ricerca della prova.

“magna charta del delinquente”.

31 Cfr C. Roxin, Politica criminale e sistema del diritto penale, traduzione di S. Moccia, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998.

32 Il principio nullum crimen è per i sostenitori di questa tesi l'esempio più chiaro di ciò. 33 In realtà a livello di dommatica questa impostazione non ha avuto molto successo e

prevale la visione positivistica.

34 Così A. Gargani, Processualizzazione del fatto e strumenti di garanzia: la prova

della tipicità oltre ogni ragionevole dubbio, in Legislazione Penale, 2013, p. 839.

35 E. Marzaduri, Il processo penale e le scelte di politica criminale, in Archivio Penale, 2014, n3, pp. 1-3.

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Per concludere, è utile prendere in considerazione gli indirizzi di politica criminale che si sono sviluppati in Europa. Possiamo notare che, negli ordinamenti europei con una cultura giuridica simile al nostro, si sono sviluppati tre filoni fondamentali del sistema di giustizia penale, i quali risultano caratterizzati dallo scopo prioritario della risocializzazione del reo e mirano a ridurre l'area di intervento del sistema penale e della pena carceraria. Il primo filone è quello della decarcerazione, o meglio del riduttivismo carcerario, questo non va confuso con un tentativo di abolizionismo assoluto, ma piuttosto consiste in un orientamento di riduttivismo della pena detentiva che non viene più vista come la pena principale per ogni tipo di delittuosità. Questa tendenza si è concretizzata in molteplici modalità: la riduzione della durata delle pene carcerarie, la maggiore permeabilità tra carcere e ambiente esterno, la rinuncia alla detenzione nei casi di pena di breve durata, le misure globalmente alternative alla detenzione anche per reati di maggior rilevanza, le misure semialternative al carcere, la detenzione domiciliare, le pene pecuniarie, l'obbligo di prestare servizi socialmente utili e la liberazione condizionale. Un'altra tendenza è quella della depenalizzazione, la quale sarà oggetto di una trattazione più specifica nel prossimo paragrafo, essa consiste nella rinuncia a sanzionare i comportamenti non più considerati meritevoli di repressione penale, in questo modo si vuole porre rimedio all'ipertrofia della legislazione penale. Infine, esiste la degiurisdizionalizzazione, con questo termine si indica lo spostamento della competenza giudicante e sanzionatoria dal giudice penale a un organo amministrativo. Rientrano in questa categoria tutti vari tipi di intervento e, in particolare, i programmi di mediazione penale, i quali mirano ad una giustizia conciliativa in cui si mira alla composizione tra autore e vittima del reato e al risarcimento di quest'ultima. Bisogna sottolineare che la degiurisdizionalizzazione mira ad impedire il ricorso alla giustizia penale quando ci troviamo davanti a condotte punibili in altro modo, e non si spinge a includere interventi stragiudiziali tipici dei sistemi anglosassoni, come la diversion. In questi casi siamo comunque

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di fronte a interventi di carattere sanzionatorio e vincolante, che possono comportare imposizioni di cure, trattamenti psicologici o limitazioni nella gestione della propria vita, i quali quindi – nella nostra concezione – devono essere garantiti dal sistema penale. In conclusione, possiamo notare che, in Italia, sebbene siano stati presenti anche interventi di depenalizzazione e degiurisdizionalizzazione, il filone maggiormente sviluppato è quello della decarcerazione.

4 La depenalizzazione

Fino ad ora abbiamo parlato delle difficoltà di rendere effettivo il principio di obbligatorietà dell'azione penale come conseguenza dell'enorme mole di

notitiae criminis che giungono agli uffici. Non c'è dubbio che una delle ragioni

principali alla base di questa situazione sia l'ipertrofia delle norme penali presenti nell'ordinamento.

Una scelta di politica criminale che potrebbe migliorare notevolmente la situazione, è quella di procedere ad una massiccia opera di depenalizzazione. Con interventi del genere – a livello di diritto sostanziale – si rinuncia a sanzionare penalmente determinati comportamenti, ciò può avvenire per varie ragioni. Innanzitutto, può servire a porre rimedio a situazione di confusione e contraddizione dovute al gran numero di norme penali, regolamenti e norme amministrative, può essere utile a trovare sedi più adeguate dove trattare i reati bagatellari e può aggiornare il sistema, escludendo la punibilità per comportamenti che con il passare del tempo hanno perso la loro pregnanza negativa nella percezione sociale. Purtroppo, al momento prevale una logica diversa, infatti il diritto penale - nell'idea comune - esprime un conflitto ritenuto insanabile, e quindi simbolo di separazione tra vittima e colpevole. Nella attuale contesto, che possiamo definire come società della paura, ciò porta ad individuare interi gruppi sociali come nemici appropriati36 i quali sono colpevoli a prescindere. Siamo di

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fronte alla richiesta di una giustizia di classe con precise caratteristiche sociali, etniche e generazionali capace di individuare come bersagli sopratutto immigrati, tossicodipendenti e mendicanti, in quanto colpevoli di

disorderly behaviour. Da questa concezione nasce il panpenalismo,

atteggiamento volto a sanzionare ogni comportamento fuori dalla norma e ogni conflitto sociale; siamo di fronte ad una pericolosa ideologia che rifiuta ogni forma di perdono e ogni tentativo di reintegrazione.37

Come se le considerazioni fino a qui svolte non fossero sufficientemente problematiche, il panpenalismo porta ad un'inefficacia del sistema, in quanto la produzione normativa eccessiva crea una saturazione strutturale e grandi problemi di coordinamento. Già Cesare Beccaria sosteneva che punire molte azioni indifferenti, non porta a prevenire i delitti ma a crearne di nuovi.38 Pare

quindi preferibile un'impostazione improntata al cosiddetto diritto penale minimo, contrapposta al panpenalismo, il quale invece può essere definito come diritto penale massimo. Questa concezione parte dal pensiero utilitaristico di derivazione beccariana e benthamiana per il quale il sistema deve essere governato dal parametro della massima felicità per il maggior numero di persone, ma non si ferma a questo assunto.39 Infatti, seguendo

questa impostazione, senza integrarla con l'idea garantista di matrice illuministica della pena minima necessaria, metteremo le basi per un sistema che arrivi a giustificare mezzi penali massimamente forti e illimitatamente severi. Nell'ottica che stiamo esaminando inoltre, il diritto penale ha il fine di impedire che in presenza di un'offesa si ricorra alla vendetta, minimizzando in questo modo la violenza presente nella società con il divieto per l'offeso di ricorrere a una reazione punitiva informale, arbitraria e sproporzionata. Insomma, un sistema improntato al diritto penale minimo si pone in un'ottica garantista. L'obiettivo di prevenzione generale riguarda sia i delitti che le

37 Per un'analisi più precisa del concetto di panpenalismo in relazione alla situazione carceraria cfr F. Corleone, “Il carcere specchio (deformato) della società” in

Testimonianze, 465, maggio-giugno, 2009.

38 L. Ferrajoli, op.cit, p. 467, ricorda che visioni simili a quella di Beccaria sono riscontrabili in Hobbes, Bentham e Montesquieu.

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vendette (possiamo dire che si fanno convivere il principio del ne peccetur con quello del ne punietur);40 lo scopo quindi non è solo quello di difendere

gli interessi costituiti contro i delitti, ma anche quello di tutelare il debole contro il forte, sia che la minaccia sia costituita da un delitto sia che essa sia rappresentata da una vendetta.

La proibizione e la minaccia penale tutelano le parti che potrebbero essere offese da un delitto, mentre il giudizio preserva i sospettati e i rei dalle sanzioni più severe delle vendette. In un sistema impostato in questo modo la sanzione penale è giustificata solamente se la somma delle violenze (vendette, delitti, punizioni arbitrarie) che riesce a prevenire, è maggiore di quelle che si verificherebbero in sua assenza. Individuando, come finalità distinte e concorrenti, il massimo benessere per i non devianti e il minimo malessere per i devianti, come parametro per giustificare la scelta di proibire o meno (e di conseguenza di punire o meno) un certo comportamento, potremo senza dubbio giungere ad una massiccia razionalizzazione del nostro apparato punitivo. Il sistema si ispirerebbe quindi all'idea di economia delle proibizioni penali connotato dal principio di necessità (espresso dall'assioma nulla poenalis sine necessitate), il quale stabilisce che il diritto penale debba intervenire solo quando sia necessario ad impedire che i cittadini si danneggino tra loro, ed il principio di offensività, che si basa sul danno recato ad altri; dalla visione combinata di questi due principi emerge l'idea di un diritto penale orientato alla difesa degli interessi necessari o fondamentali dei soggetti più deboli.

Se volgiamo lo sguardo al nostro ordinamento, possiamo notare come il sistema penale risulti oltremodo saturo e, di conseguenza, ne risenta pesantemente la sua efficienza, come se non bastasse la situazione si è aggravata a livello processuale con il passaggio al nuovo codice di procedura penale, il quale ha introdotto disposizioni capaci di aggravare ulteriormente la situazione, aggiungendo nuove incombenze a carico della magistratura requirente. In questa situazione, intervenire prima di tutto a livello sostanziale

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tramite la depenalizzazione, appare la strada migliore da seguire, tuttavia va sottolineato che un simile intervento non può consistere nel mero passaggio delle fattispecie punite più blandamente al campo delle sanzioni amministrative. Per ottenere uno sfoltimento rilevante occorre fare un intervento più complesso, il quale preveda il degrado di alcuni illeciti ad ipotesi amministrative, la decriminalizzazione totale di alcune fattispecie, l'estensione dello strumento della querela di parte, ed eventualmente l'introduzione di cause di non punibilità in conseguenza di comportamenti riparatori delle situazioni antigiuridiche.41 Non a caso, da anni nel dibattito

pubblico del nostro paese, si parla del tema con espressioni quali: disboscare, tagliare, tranciare. Senza dubbio l'eliminazione di fattispecie ormai desuete sarebbe un atto estremamente positivo, tuttavia pare che fino ad oggi gli interventi di depenalizzazione si siano mossi in un altro senso e sono stati al centro di enormi polemiche. Stiamo facendo riferimento è alle cosiddette leggi ad personam che, secondo i critici, sono intervenute su norme ritenute pericolose per il potere. Fra tutti questi interventi, l'esempio più ricorrente è quello della sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio, un reato lesivo dell'economia pubblica, avvenuta nel 2002,42 al

riguardo l'ex procuratore aggiunto di Torino Bruno Tinti usò parole molto nette: “In Italia il primo strumento di controllo della politica sulla magistratura

consiste nella predisposizione di leggi depenalizzanti (di fatto) di reati tipici della classe politica, tra tutti il falso in bilancio, l'abuso d'ufficio e il finanziamento illecito dei partiti; e ciò con gli strumenti di una fattispecie autoabrogante talmente rapida da non consentire comunque di arrivare ad una sentenza definitiva”.43 Nonostante questi interventi che hanno suscitato

numerose obiezioni non si può negare che un intervento in chiave di depenalizzazione su alcuni settori sarebbe senza dubbio estremamente

41 In questo senso C. Castelli nell'intervento introduttivo al seminario di Magistratura Democratica a Milano il 17 febbraio 1990 dal tema “Discrezionalità e obbligatorietà

dell'azione penale e ruolo del pubblico ministero” riportato in Questione Giustizia

1990 n.1, pp. 99-101.

42 P. Davigo – L. Sisti Processo all'italiana, Bari, Laterza, 2012, p. 150.

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positivo, ne è un esempio la disciplina su stupefacenti e tossicodipendenze che, pur essendo volta ad una feroce criminalizzazione e essendo caratterizzata da un'impostazione fortemente proibizionista, stando a quello che sostengono da anni gli operatori del settore,44 non ha intaccato

minimamente la diffusione del fenomeno, anzi esso risulta in continuo aumento favorendo la criminalità organizzata.

Tuttavia, non può sfuggire che a fronte di una depenalizzazione di alcuni settori, in altri è auspicabile un'espansione del diritto penale, ne è un esempio l'articolato licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera il 18.03.2013 che si propone di inserire nel libro II del Codice Penale un titolo dedicato ai delitti contro l'ambiente, aggiungendo le fattispecie di inquinamento ambientale e disastro ambientale, che si configurano come reati di pericolo concreto o di danno, e rispondono a sollecitazioni che ormai da anni provengono dalla società ed in particolare dal mondo ambientalista.45

Nonostante l'indubbia utilità di un forte intervento depenalizzante, il quale potrebbe condurre a importanti risultati sotto il profilo della civiltà giuridica, della certezza del diritto e della liberalizzazione del sistema. Questo – realisticamente - condurrebbe ad una riduzione solo del 20-30% degli affari penali e sarebbe decisamente lontano dal risolvere i problemi della giustizia penale derivanti dal sovraccarico di lavoro degli uffici, senza contare che è necessario procedere con attenzione per evitare che un simile intervento porti ad un aggravio del carico di lavoro in sede di processo civile. Inoltre, bisogna tenere presente che i grandi numeri della giustizia penale derivano da figure ricorrenti di reati insopprimibili. Quindi, ogni intervento di depenalizzazione per essere veramente utile, deve essere affiancata ad altre scelte legislative e organizzative che restituiscano credibilità al sistema.

44 Solo per fare un esempio al riguardo si possono prendere in considerazione le proposte di Magistratura Democratica e del Gruppo Abele alla seconda Conferenza triennale su stupefacenti e tossicodipendenze svoltasi a Napoli dal 13 al 15 marzo 1997 e riportate in Questione Giustizia, 1997, n.1.

45 Sul tema cfr. C. Ruga Riva, Commento al testo base sui delitti ambientali adottato

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5 I criteri di priorità: gli esempi della circolare Zagrebelsky e

della circolare Maddalena

5.1 La nascita della necessità di avere criteri di priorità

Come già illustrato, il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che caratterizza il nostro ordinamento, imporrebbe di procedere per ogni notizia di reato, effettuando quantomeno gli atti di indagine volti alla ricerca del responsabile e all'assunzione degli elementi utili, tuttavia è presente una discrasia notevole tra il principio e ciò che avviene nella realtà. Si rende necessario quindi un intervento volto ad impedire che la previsione dell'articolo 112 Cost venga ridotta ad un mero feticcio,46 un tipo di intervento

che viene proposto al riguardo, in ottica di razionalizzazione, è quello dell'introduzione dei cosiddetti criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale, i quali cerchino di eliminare i margini di discrezionalità presenti nelle scelte dei Pubblici Ministeri.

I criteri in esame consistono in indicazioni a cui la magistratura requirente deve attenersi nella trattazione delle notizie di reato da perseguire, coloro i quali sostengono questo genere di provvedimenti partono dall'idea che in questo modo si impedirebbe di lasciare al singolo magistrato il compito di scegliere la notitia criminis su cui indagare, estendendo anche in questo campo la previsione di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione contenuti nell'articolo 97 Cost. Inoltre, i sostenitori di questa posizione tendono ad escludere problemi di contrasto con l'articolo 112 poiché i criteri di priorità operano prima dell'esercizio dell'azione penale, fissando delle direttive che dovrebbero risultare utili nel far fronte allo smaltimento della mole di lavoro pendente, naturalmente a condizione che non ci si spinga fino ad individuare moduli organizzativi capaci di portare all'esclusione assoluta dell'azione nei confronti di determinati fatti che la legge qualifica come reati.47

46 Il termine feticcio in riferimento all'esercizio dell'azione penale è stato usato da C. Castelli op.cit. e da G. Falcone.

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Tuttavia, non appaiono del tutto infondati i dubbi di costituzionalità avanzati da più parti. Innanzitutto, l'assunto per cui il principio di obbligatorietà verrebbe leso solamente in presenza di valutazioni di opportunità inerenti alla singola notizia di reato e non in presenza di scelte di carattere generale. Non è del tutto corretto in quanto anche nella seconda modalità si configurerebbero ampi spazi per predisporre strumenti funzionali a svuotare il principio costituzionale contenuto nell'articolo 112. Anche l'accorgimento di evitare l'esclusione assoluta dell'esercizio dell'azione penale per alcune fattispecie criminose, non pare sufficiente ad assicurare la legittimità costituzionale dei criteri di priorità,48 infatti se il presupposto è l'impossibilità

materiale di trattare tutte le notizie di reato, è ovvio che i fatti non prioritari sarebbero destinati alla prescrizione. Individuare criteri generali in questo modo, comporterebbe l'elevatissimo rischio di accettazione del fatto che certi reati non vengano perseguiti. Risultati analoghi si otterrebbero ricorrendo alla depenalizzazione senza intaccare il principio di uguaglianza e quello di obbligatorietà dell'azione penale, e criteri più precisi porterebbero comunque alla dichiarazione di non punibilità di certi reati con evidenti conseguenze negative in termini di prevenzione generale. Parte della dottrina propone una soluzione mista,49 in cui sarebbero resi pubblici solo i criteri generali mentre

rimarrebbero riservati quelli più analitici, ma non si considera le polemiche che si sono verificate nel Regno Unito, sistema ispiratore di tale proposta, in merito all'impossibilità per l'opinione pubblica di controllare queste scelte. Un ultimo rilievo di costituzionalità viene fatto in relazione all'articolo 138,50 in

quanto se si permettesse a fonti di rango inferiore di stabilire il campo di azione dell'obbligatorietà penale, permetteremo di flettere il contenuto di un principio costituzionale sulla base di una legge formale.

A fronte di queste obiezioni, pare opportuno ricordare che per quanto

in AA.VV., Il pubblico ministero oggi.

48 Sulla difficile compatibilità tra criteri di obbligatorietà dell'azione penale cfr. N. Zanon,

Pubblico Ministero e Costituzione, CEDAM, 1996.

49 Cfr. G. Di Federico, Dilemmi del ruolo del pubblico ministero: indipendenza e

responsabilità, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi.

50 F. R. Dinacci, Criteri di priorità nella formazione dei ruoli d'udienza e rinvio dei

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riguarda la scelta dei criteri di priorità, questi sono già citati dall'articolo 227 del dlgs 51/1998 sul giudice unico. Questa previsione, sebbene riguardi solo l'ambito dell'organizzazione del lavoro degli uffici giudicanti, ha consentito che venisse instaurata nelle procure una prassi che ha portato anche la magistratura requirente ad andare oltre al mero fattore cronologico dell'arrivo delle notitiae criminis, portandole a prendere in considerazione anche la gravità e l'offensività del singolo fatto. Non sarebbe invece accettabile predisporre una gerarchia per categorie di reati o per singole fattispecie. A sostegno della tesi opposta, non sembra essere sufficiente invocare il principio dell'efficienza del processo, in quanto esso è strumentale rispetto alla realizzazione di un processo secondo le regole, in caso contrario si giungerebbe ad un sistema dove il risultato processuale conta più delle modalità con cui esso viene perseguito.

Sul tema dei criteri di priorità si è sviluppato un ampio dibattito dottrinale che pare convergere intorno all'ammissibilità dei criteri di priorità, sulla base del fatto che il principio di obbligatorietà dell'azione penale non si possa intendere in maniera formalistica e avulsa dalla realtà:51 in particolare

Vladimiro Zagrebelsky52 sostiene che l'indicazione di criteri di priorità suscita

problemi sul piano dei principi fondamentali e costituzionali dell'organizzazione giudiziaria e della funzione del Pubblico Ministero, ma non c'è contrasto con l'articolo 112, in quanto l'eventuale mancato esercizio dell'azione penale non deriverebbe da valutazioni di opportunità, ma da un limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro. Invece Mario Chiavario53 sostiene che il principio di obbligatorietà non vale a escludere gli

ampi margini di discrezionalità, ma piuttosto è utile a distinguere la discrezionalità basata su valutazioni di opportunità sulla singola notizia di reato rispetto quella che implica scelte di priorità di carattere generale per la

51 La rassegna di opinioni citate può essere reperita in V. Pacileo, Pubblico Ministero.

Ruolo e funzioni nel processo penale e civile, UTET, 2011, pp. 207-209.

52 V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità nell'esercizio obbligatorio della azione penale in Il

Pubblico ministero oggi, Giuffré, 1994, p. 35.

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trattazione delle notizie di reato. Infine Nicolò Zanon54 afferma che bisogna

distinguere la discrezionalità che deriva dall'impossibilità di trattare tutti gli affari, la quale implica l’elaborazione di criteri di priorità dalla decisione di non trattare un determinato affare, perché si ritiene opportuno non procedere. Secondo queste opinioni - in sostanza - giustificano i criteri di priorità, ammettendo la legittimità di una discrezionalità di ordine tecnico orientata da una scala di valori di ascendenza o compatibilità costituzionale. Per ricapitolare possiamo concludere che, affinché possano essere considerati legittimi, i criteri di priorità non devono trasformarsi in valutazioni di opportunità in quanto queste, oltre a violare il principio di obbligatorietà dell'azione penale, inciderebbero sul contenuto e sull'efficacia della norma penale stessa.55

A questo punto rimane da stabilire quale dovrebbe essere l'organo deputato a stabilire gli eventuali criteri. Ragionando de jure condendo ci sono varie ipotesi organizzative che vanno in questo senso, alcune delle quali saranno analizzate nel paragrafo 6, e tutte impongono modifiche della posizione ordinamentale del Pubblico Ministero o interventi sulle attuali strutture delle procure: 1) l'elettività dei dirigenti delle procure 2) subordinazione del PM al Ministro della giustizia 3) subordinazione del PM al Parlamento o ad un organo da esso espresso 4) direttive emanate dal CSM 5) singole scelte operate dai procuratori della repubblica 6) criteri di intervento elaborati in assemblee delle procure.

5.2 La circolare Zagrebelsky

In questo quadro caratterizzato da una normativa fortemente lacunosa sul tema dei criteri di priorità, assume una rilevanza fondamentale lo strumento delle circolari dei capi dei singoli Uffici giudiziari territoriali. Sebbene questo

54 N. Zanon, Pubblico Ministero e Costituzione op.cit., p. 182.

55 Cfr. G. D'Elia, I principi costituzionali di stretta legalità, obbligatorietà dell'azione

penale ed uguaglianza a proposito dei “criteri di priorità” nell'esercizio dell'azione penale, in Giurisprudenza costituzionale, 1998.

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crei notevoli problemi sotto il profilo della coerenza del sistema. Infatti lasciare ai dirigenti totale discrezionalità sull'opportunità di fissare questi criteri e sul loro eventuale contenuto può portare (e ha portato) ad esiti radicalmente diversi, suscitando perplessità circa il rispetto della ratio dell'articolo 112 e dei principi che dovrebbe tutelare.56

Sul versante delle circolari possiamo ricordare molti esempi e appare di particolare interesse il caso di Torino. Infatti il primo caso di circolare rilevante ai nostri fini è quella firmata dal Presidente della Corte d'Appello, Luigi Conti, e dal Procuratore Generale della Corte D'Appello, Silvio Pieri, del 08 marzo 1989.57 In questo documento si cerca di ribaltare il paradigma dell'ottica

individualista del lavoro degli uffici e dei magistrati, sostituendola con una visione complessiva del servizio giudiziario. Lo scopo dichiarato è quello di una razionalizzazione delle risorse a disposizione per rispondere alla conclamata carenza di risorse, la quale rende impossibile esaurire integralmente il lavoro giudiziario (nella circolare si sostiene che sarebbero servite almeno otto sezioni penali a fronte delle quattro che erano consentite dall'organico). Bisogna sottolineare che la circolare è stata emessa nel momento di passaggio al nuovo cpp. In sostanza la circolare segnala ai Presidenti dei Tribunali e i Procuratori della Repubblica del distretto la necessità di individuare un filtro scrupoloso delle priorità da assegnare ai singoli processi; la circolare prevede esplicitamente di “evitare di sprecare,

tempo, fatica e denaro dello stato in attività praticamente inutili – quale la minuziose e scrupolosa celebrazione di processi destinati inevitabilmente alla prescrizione”.

La circolare “Pieri-Conti” è l'antecedente di quella più nota del 16 novembre 1990 emanata dal Procuratore della Repubblica presso la Pretura di Torino Vladimiro Zagrebelsky,58 il quale, partendo anch'essa dalla constatazione

56 A. Peri, Obbligatorietà dell'azione penale e criteri di priorità. La modellistica delle

fonti tra esperienze recenti e prospettive de jure condendo: un quadro ricognitivo, in Forum di Quaderni Costituzionali, p. 1.

57 Pubblicata in Cassazione Penale 1989 preceduta dal commento di V. Zagrebelsky dal titolo Una “filosofia” dell'organizzazione del lavoro per la trattazione degli affare

penali, pp. 1615 sgg.

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dell'insufficienza delle risorse a disposizione, riprese e sviluppò il tema dei criteri di priorità. Lo scopo era quello di individuare delle corsie preferenziali per alcune ben individuate notizie di reato. Per quanto riguarda la selezione effettuata tramite i criteri di priorità, la circolare definisce gli elementi della semplicità e della rapidità della definizione delle indagini preliminari come non idonei a indirizzare l'esercizio dell'azione penale, almeno se considerati da soli, mentre assegna un ruolo centrale quello della gravità della lesione tipica. Nel caso di fattispecie diverse per stabilire le priorità di trattazione si usano vari indici ossia l'entità della pena edittale intesa come quella che viene concretamente inflitta dai giudici (incluse le pene accessorie) per i reati presi in considerazione, e la rilevanza degli interessi tutelati dalle norme incriminatrici. Inoltre la circolare stabilisce che ogni magistrato curerà i decreti di citazione dando priorità ai procedimenti dove siano state adottate misure cautelari personali o reali, affrontando successivamente quelli relativi ai fatti di reato da considerare gravi e infine i procedimenti residui.

Possiamo concludere che la circolare “Zagrebelsky” è stata un'esperienza utile e un'importante sforzo intellettuale, essa si presentava come una risposta trasparente ad uno stato di necessità. Tuttavia l'esperimento non venne trasposto sul piano istituzionale complessivo: non si arrivò alla configurazione di un potere di indirizzo in materia di azione penale realmente efficace, non venne a crearsi un centro di imputazione accettabile per tale funzione, e non si crearono forme di esercizio del potere coerenti sul piano dei principi della razionalità operativa.

5.3 La circolare Maddalena

Il 10 novembre 2007, sempre a Torino, venne emanata la circolare “Maddalena”.59 Questo documento è un altro elemento fondamentale per

quanto riguarda i criteri di priorità, con questo atto si indicano linee, che prendono in considerazione l'impatto del provvedimento di indulto. Esso

del lavoro per la trattazione degli affari penali., pp. 362 sgg.

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venne approvato nel medesimo periodo, per la selezione e l'accantonamento di un predeterminato catalogo di reati e per una valutazione ampia dei presupposti di archiviazione, la quale dovrà essere chiesta ogni volta che sembri possibile, anche in maniera generosa. Bisogna segnalare però che la circolare introduce alcuni opportuni accorgimenti per assicurare all'imputato il diritto di ottenere una decisione di merito e per garantire alla persona offesa di poter ottenere l'espletamento delle indagini relative al reato subito, si stabilisce infatti che si dovrà comunque procedere: quando l'autore del reato è stato sottoposto a misure restrittive della libertà personale, se l'offeso ha manifestato interesse a che si proceda, e infine se vi è richiesta da parte dell'indagato.

Questa circolare presenta non poche problematiche. Appare infatti dubbia la compatibilità del documento con il principio di obbligatorietà dell'azione penale (specialmente in riferimento all'esplicita indicazione di chiedere archiviazioni generose). L'Unione della Camere Penali Italiane ha affermato al riguardo che il Procuratore di Torino ha sostanzialmente provato a introdurre il principio di opportunità. Inoltre, i criteri verrebbero indicati da ogni Procuratore variando potenzialmente da una procura all'altra, rischiando di compromettere anche i principi di legalità e di uguaglianza di fronte alla legge. La selezione delle notitae criminis sarebbe dipendente dalle scelte di valore che non necessariamente saranno omogenee sul territorio nazionale, il rischio è quello che si crei una “mappa per delinquere” sulla base delle priorità, assicurando in questo modo l'impunità a chi vuole violare la legge.60

Suscita molti dubbi anche il fatto che venga considerato inutile il perseguire i reati coperti da indulto in quanto anche in caso di condanna la pena non verrebbe inflitta. La funzione del processo non si limita a questo, ma esso deve anche permettere di accertare la commissione di un reato e consentire all'imputato di difendersi. Tutti questi problemi vennero evidenziati fortemente

60 Cfr. R. E. Kostoris, Criteri di selezione e moduli deflattivi nelle prospettive di riforma in Il giudice unico nel processo penale, Milano, 2001. Cfr. S. Catalano, Rimedi

peggiori dei mali: sui criteri di priorità nell'azione penale, in Quaderni Costituzionali,

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dall'Unione delle Camere Penali Italiane, le quali sostennero che la circolare viola la legalità giudiziaria poiché “gli organi della magistratura non hanno il

potere di stabilire quali reati siano da perseguire e quali siano da lasciare impuniti. Simili scelte giudiziarie di opportunità non sono legittimate dalla legge e si traducono pertanto nell'esercizio arbitrario della funzione giudiziaria”.61 Da quanto detto emerge che la natura di questa circolare è

profondamente diversa da quella precedente firmata da Zagrebelsky, infatti, mentre quest'ultima effettuava una selezione positiva rivolta al futuro, apparendo come il vero prototipo dei criteri di priorità, le indicazioni di Maddalena operano invece una scelta rivolta al passato tramite l'accantonamento dei fascicoli relativi ai processi già pendenti.

5.4 Gli interventi del CSM

Il Consiglio Superiore della Magistratura si è espresso più volte sul delicato tema dei criteri di priorità, avallando quasi sempre le circolari che li prevedevano. In particolare bisogna segnalare il caso Vannucci del 1997. Si tratta un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato che, in occasione del trasferimento ad altro ufficio, fu accusato di aver lasciato un notevole arretrato, nello specifico si trattava di circa 7000 fascicoli introitati negli anni precedenti, lasciati non definiti e ciò in conseguenza della decisione del magistrato di privilegiare reati di maggiore gravità o che suscitassero maggiore allarme sociale (infortuni sul lavoro, falsi nella qualifica di medico, truffa, falsificazione...). In tale occasione il CSM non si limitò al singolo caso, ma affermò un principio di portata generale, questo consiste in un vero e proprio dovere posto in capo ai Procuratori della Repubblica di elaborare criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato. In loro mancanza, il sostituto, che lasci un consistente arretrato in conseguenza ad un'autonoma scelta di privilegiare gli affari di maggiore gravità, si comporta in maniera pienamente legittima.62 In sostanza, si

61 (ANSA) – Roma 15 Marzo.

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valorizza il dovere dei dirigenti di occuparsi della direzione e organizzazione dell'ufficio, tale compito consiste nell'assumersi la responsabilità della concreta trattazione dei procedimenti e di fissare criteri generali che i singoli magistrati devono seguire nella scelta dell'ordine dei reati da trattare,63 per

evitare una disinvolta selezione a posteriori rimessa ai singoli magistrati.64 Il 2

luglio dello stesso anno il CSM si espresse nuovamente sule tema con una risoluzione nella quale si stabilì che la legge impone la registrazione di tutte le notizie di reato anche al fine della decorrenza dei termini e che eventuali disposizioni circa l’organizzazione del lavoro e le priorità di trattazione delle notizie di reato, non possono essere generiche e discrezionali.65

Dopo la “Riforma del giudice unico” il CSM consolidò il suo indirizzo continuando a sostenere che, considerata la carenza delle risorse, i criteri di priorità non contrastano con il principio di obbligatorietà dell'azione penale e anzi sono un mezzo per garantirlo e rappresentano una “leva” per assicurare eguaglianza di trattamento e buon andamento degli uffici requirenti e giudicanti.

Nella circolare del 12 aprile 1999 il Consigli Superiore della Magistratura affermò che: “le indicazioni dell'art. 227 sono il segno di un orientamento che

evidenzia la discutibilità di criteri meramente cronologici di trattazione dei processi, che possono avere come effetto quello di far si che la prescrizione si verifichi eventualmente in altri uffici. In tale prospettiva, appare pertanto necessario che in ogni distretto venga organizzata una “conferenza degli uffici” cui dovranno partecipare i dirigenti di tutti gli uffici giudicanti e requirenti”,66 questa avrebbe avuto la competenza di elaborare soluzioni

operative volte ad assicurare una più rapida definizione dei processi pendenti. La posizione del CSM venne ribadita anche nel 2006 in una

63 Cfr. D. Carcano, Stabilire i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti è un

dovere dei capi degli uffici, in Cassazione Penale, 1998.

64 Cfr M. Chiavario, L'obbligatorietà dell'azione penale: il principio e la realtà, in

Cassazione Penale, 1993.

65 Le due pronunce del CSM sono citate in L. Verzelloni, Il lungo dibattito sui criteri di

priorità negli uffici giudicanti e requirenti, in Archivio Penale, 2014, n3, p. 3.

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risoluzione67 in risposta alla nota, del 9 novembre del medesimo anno, del

Ministro della Giustizia. Il Consiglio ribadì, in quell'occasione, la posizione per cui i dirigenti degli uffici hanno il dovere di razionalizzare la trattazione degli affari e l'impiego delle risorse. I provvedimenti presi a questi fini vanno collocati nell'ambito del sistema finalizzati a assicurare predeterminazione, uniformità e trasparenza in modo che non si crei “una giurisdizione che

produce disservizio, assumendosi la responsabilità di formulare progetti di organizzazione che esplicitino le scelte di intervento adottate per pervenire a risultati possibili e apprezzabili”.

Vi è stato un intervento anche in merito alla citata circolare “Maddalena”, in questo caso il CSM intervenne al culmine di un'aspra polemica, nella quale era anche intervenuto il Ministro della Giustizia a sostegno dell'iniziativa torinese, sostenendo che la selezione dei procedimenti da trattare prioritariamente non compromette l'eventuale trattazione delle altre e che le indicazioni di priorità rientrano tra le scelte di natura organizzativa.68 Il

Consiglio assunse un atteggiamento equilibrato con la delibera del 17 maggio 2007 n. 12102/07 dove venne esaminato un esposto dell'Unione delle Camere Penali Italiane. La decisione del Consiglio riconosce alcune criticità della circolare esaminata. Il termine accantonamento può creare equivoci, perché può essere interpretato come un'esortazione a non esercitare l'azione penale per alcuni reati, e lo stesso può dirsi per l'invito a fare un ricorso generoso all'archiviazione, la quale potrebbe essere interpretata come un'interferenza con l'attività giurisdizionale. Tuttavia si decise di non censurare il provvedimento in esame e ne venne fornita un'interpretazione costituzionalmente conforme. Secondo questa decisione bisogna prendere in considerazione che le indicazioni prioritarie hanno natura temporanea e il riferimento all'archiviazione va intesa come un invito ad un suo esercizio oculato. Questa decisione tuttavia si presta ad alcune

67 Cfr Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il biennio 2002 - 2003, P-24710/2001 del 21.12.2001.

68 Queste posizioni furono espresse dal Ministro in un'intervista pubblicata con il titolo

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critiche: la prima riguarda il tipo di dispositivo adottato, in quanto ricorda le sentenze interpretative della Corte Costituzionale e un simile compito di interpretazione autentica non rientra tra le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura,69 mentre la seconda critica è inerente

all'interpretazione del termine accantonamento, essa infatti non è molto coerente con la Risoluzione del 9 novembre 2006 (dello stesso CSM) che vieta agli organi giurisdizionali e al Consiglio stesso di individuare soluzioni le quali possano comportare l'inevitabile accantonamento di alcuni provvedimenti.70

5.5 Le previsioni in merito ai criteri di priorità per la magistratura giudicante

Il tema dei criteri di priorità non ha riguardato solo l'esercizio dell'azione penale, ma anche i compiti della magistratura giudicante, infatti in più occasioni si è intervenuto nell'ottica di razionalizzare della trattazione dei procedimenti e della formazione dei ruoli di udienza. Tali aspetti naturalmente hanno ricadute anche sul lavoro della magistratura requirente e nella prassi possono portare i PM ad adeguare ad essi anche le priorità dell'esercizio dell'azione penale.

Il primo intervento che ha introdotto questo tipo di criteri di priorità è contenuto nell'articolo 227 del dlgs 51/1998. Si tratta della riforma in materia di giudice unico di primo grado, che presentava istanza di decongestione e razionalizzazione del sistema. In questo quadro è facile capire che l'introduzione dei criteri di priorità sia un aspetto centrale in quanto questi rappresentano interessanti modelli sperimentali.71 L'articolo 227 quindi

introduce degli strumenti organizzativi che, nelle intenzioni del legislatore, hanno l'obbiettivo di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti

69 Era stata presentata anche la proposta di delibera “A”, poi non approvata, che riconosceva che l'interpretazione dell'atto è un'operazione che solo il suo autore è legittimato a compiere.

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