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SATIRA XIV
Del mal del bene (il secondo capitolo)
al signor Pietro Aretino
L’argomento “del mal del bene” viene, in questo secondo testo, trattato con altro
intento: nel capitolo conclusivo, anziché i bisticci verbali della satira precedente,
troviamo una rassegna di arti e mestieri che – sullo sfondo della ricerca del “bene”
– descrive i vizi e le virtù delle varie categorie sociali prese in considerazione, da un
punto di vista che molto riprende del tipico andamento satirico.
Sono già, signor Pier, duo giorni ch’io dovea seguir del “ben” l’intemerata, ma l’opra è ritardata dal desio. La fantasia, nel dir troppo invogliata,
volendo venir fuor con troppa fretta, 5 dal suo troppo la via trovò serrata.
Così a’ castroni è l’uscita interdetta fuor dell’ovil, se frettolosi troppo voglion per porta uscir picciola e stretta,
che uno impedisce l’altro, e fanno un groppo 10 per esser ciascun primo a saltar fuori,
fin ch’un ne sguizza ch’era a gl’altri intoppo: come escono alla larga, ecco i romori
del risonar be be, per campi e prati.
Così propio è avvenuto a questi umori: 15 ne venian contra ’l ben tutti serrati
ma trovando furiosi ’l guado stretto steron due giorni in la penna aggroppati, al fine un d’essi, da gli altri costretto,
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tal che il be be sonerà fin al tetto1.
Questo ch’è uscito, e che ’l ballo n’invia, è la gran dapocaggine del bene, che non può dimostrar quel che si sia.
Ma di nuovo protesto a voci piene 25 ch’io dico mal del ben di qua da’ monti,
non di quel che nell’altra vita viene2.
Sono già stati uomini arditi e pronti
che per dir quel che sia ’l verso d’un becco
libri infeniti hanno frustati e onti, 30 poi col capo a sé asciutto e a gli altri secco,
col predicar che facea ’l prete Arlotto3,
si son trovati con la barca in secco4.
Di questi, alcuni han detto ch’esser dotto
è il bene intero in calze e in cappellina5, 35
ma nel provarlo poi si piscian sotto: la scienza è d’affanni una sentina
se la paccia6 seco non viene al pari
ch’è sorella carnal della dotrina.
Altri dicon che il bene è aver danari, 40 ma son longi da casa al mio parere,
per che son di sei sette i ricchi avari,
1 Si conclude qui la lunga similitudine con cui si apre questo secondo capitolo
“del mal del bene”: similitudine che paragona i pensieri «in la penna aggroppati» alle pecore che «fanno un groppo» quando si ritrovano a uscire frettolosamente per una porta troppo stretta (a spiegazione della ragione per cui, anziché proseguire a scrivere quello stesso pomeriggio, come annunciato ai vv. 233-35 della satira precedente, l’autore ha ripreso a farlo soltanto due giorni dopo).
2 Cfr. quanto detto a tal proposito ai vv. 31-36 nella satira precedente.
3 Sotto il nome di piovano Arlotto è noto Arlotto Mainardi (1396-1484), pievano
fiorentino, famoso in vita per i suoi motti arguti che, raccolti dopo la sua morte sotto il titolo di “Motti e facezie”, ebbero una vasta fortuna; il nome è diventato, poi, un sostantivo che può genericamente valere per “pezzente” o “meschino”, ma anche per “dedito ai bagordi, ingordo e ghiottone”.
4 «Secco» è in rima equivoca col v. 31.
5 Cappellina per “berretto da notte”.
248 e quanto giova all’idruopico il bere
tanto giova oro e argento all’uomo avaro
a cui cresce la sete con l’avere. 45 Sono stati altri, e oggi son più d’un paro,
che tengono aver piaceri e spassi
sia il vero ben, sia quel ben dolce e caro, e di questi, hannolo altri in boccon grassi,
stimando quel piacer che dà il palato 50 essere ’l ben che tutti gli altri passi,
ma il veder questo gottoso e stroppiato, quell’altro andar pel ventre all’ospedale, ne mostra tali uscir del seminato.
Altri, cedendo al dolce naturale, 55 stiman che un lieto, un ben contento amore,
sia il sommo ben che più d’ogn’altro vale: per questo ha sempre in bocca un amadore “Ben mio, mio ben dolce, ben di mia vita,
ben del mio cu... (vuolsi dir) del mio cuore”. 60 Se tal dolcezza non fosse condita
con mille amaritudini, io direi costor toccarne ’l fondo con le dita, ma il vederla portar sempre con lei
quell’insegna da fabri7, ne fa fede 65
che son questi in error più che i giudei8.
Or, per mostrarvi ove gl’ha fermo ’l piede quel “ben del corpo mio” di questi amanti, che pesca al fondo più ch’altri non crede:
se vi ricorda, io dissi poco innanti 70
7 Probabilmente il martello, nel senso di “tormento amoroso”.
8 L’autore passa in rassegna le opinioni comunemente diffuse riguardo a che
cosa significhi possedere il bene: nessuna, tuttavia, sembra soddisfare i suoi criteri (non costituiscono alcun bene, a suo parere, né le ricchezze, né il cibo, né l’amore).
249 che questa voce “ben” senz’ n è quella
propria che fa conoscere i belanti9;
però quand’un amante a donna bella dice “ben mio” vaglion questi epittetti
come a dir “capra o madre di vitella”, 75 s’al suo amador la donna ha questi detti,
con quel “dolce mio ben” suole inferire “dolce castrone o padre de’ capretti”. Ma, perché forse aspettate d’udire
il parer mio di quel che sia tal cosa, 80 vi risolvo ch’anch’io non vel so dire.
L’è (com’io dissi) una voglia dannosa radicata ne gl’animi mortali,
del pensier nostro una rogna franciosa10,
la qual, se è ben peggior di tutti i mali, 85 non di meno, bramando esser contento,
ogn’uomo dietro gl’abbandona l’ali. La natura ne dà questo tormento che siamo in cercar ben basiti e persi:
egli sempre ne fugge come un vento, 90 onde per mille vie, per mille versi,
l’uomo lo traccia, e di prenderlo tenta con mille ingegni e con lacci diversi, né però alcun fia mai che dir si senta
d’averli tocca pur l’ombra del manto, 95 perché niun del suo stato si contenta.
Par a molti che l’esser Padre Santo al sommo d’aver ben sia già venuto
e che l’abbia da vendere all’incanto11,
9 Cfr. XIII v. 148-50.
10 Definizione quasi identica troviamo in XIII v. 29.
11 La vendita all’incanto è la “vendita al miglior offerente”, come a voler dire che
250 ma se il papato avesse ’l bene avuto 100 quel papa pezzo d’uomo non avrebbe
fatto per aver bene ’l gran rifiuto12.
Forse a questo risponder si potrebbe
che in quei tempi anco non avea quel grado
preso ’l ben, dappoi ’l prese e sempre l’ebbe, 105 che un papa non comprava ’l parentado
dell’imperio, de’ regi alti e potenti, e poneva l’imposte più di rado, né potea dar gl’alti stati a’ parenti,
ma che or, sendo venuto in tanta altezza, 110 gl’ha ’l bene intero, e può darne alle genti.
Se l’aver, poter dar stato o ricchezza, fesse l’uomo contento, anch’io confesso che il papa averia ’l ben per la cavezza,
ma quel sempre appitir dimostra espresso 115 che, dicendo aver ben, diria bugia
il papa, il turco e il prete Gianni13 appresso.
Né anco l’imperador credo che sia
vicino a un miglio al ben che fugge e vola
perché le gotte14 ’l fermano tra via, 120
ma, per dirvi di tutti una parola, l’avarizia de’ principi ne dice
che tutti hanno del ben la mostra sola: se il ben s’intende essere lieto o felice,
veggendo in questi una sete sì grande, 125 chi crederà che il ben v’abbia radice?
12 Il riferimento, mediante la nota definizione dantesca (cfr. If., III vv. 59-60)
che viene ripresa quasi letteralmente, è a papa Celestino V.
13 Il nome pretegianni indica un presunto sovrano extraeuropeo di fede cristiana,
la cui leggenda si diffuse in occidente al tempo delle crociate e al quale si attribuivano grandi ricchezze.
14 Avere la gotta alle mani vuol dire “essere avaro”; nell’uso antico era preferita la
251 Quel toglie al zio per fino alle mutande,
fa lega e accordo fin co’l Trenta para e fa piovere i Turchi in queste bande
per vincer la sua rissa e la sua gara 130 col suo cognato, e quell’altro abbandona
l’impresa del sepolcro a Dio sì cara sol perché l’avarizia ambi sperona,
con cui il ben non può essere e non vuole,
dato ch’anch’egli non sia cosa buona. 135 Ma, perché (fuor che voi) ciaschedun suole
parlar de’ personaggi inconvertendo, però di lor lascio a voi le parole.
E, seguendo del ben che va fuggendo15,
credono molti a giognerlo aver l’ale 140
Bartoli e Baldi e testi rivolgendo16,
altri ’l cercano in fin nell’orinale, altri stillando ’l capo in poesie, altri in far argomenti senza sale,
ma tutte al creder mio son frenesie 145
che né mai volge foglio o imbratta carte 17
seppe trovar dal ben le buone vie, anzi, più longi da costor si parte, che l’adular non si parte da voi,
o il dir bugie, che mai non fu vostra arte; 150 più tosto il ben da’ bufali e da’ buoi
giogner si lascierà che da costoro che fino in fasce son nemici suoi. Non hanno bene i dotti in vita loro
15 Dopo aver dimostrato come neanche il papa o l’imperatore possano definirsi
possessori del bene, il poeta comincia a elencare – in un diminuendo di prestigio – le varie professioni che potrebbero eventualmente esserlo: rassegna che, dal precettore al soldato, sembra rivelarsi nuovamente vana.
16 Coloro che sfogliano «Bartoli e Baldi» sono gli avvocati.
252 perché fanciulli stan sotto ’l pedante 155 che fa lor dietro un cattivo lavoro,
con quella scuriata18 aspra e pesante,
di cui tremano sì i fanciulli, quando passeggia il que pro et fa il gigante
con quel suo ceffo che faria tor bando 160 dal Cielo all’allegrezza e con quei gesti
da spaventar Rodomonte19 e Orlando.
Oltra i disagi che patiscon questi
di prima età, che in preda al mal si danno
per correr dietro al ben perché s’arresti, 165 cresciuti poi a studio se ne vanno,
in Siena, in Pisa, in Padova, in Bologna20,
né il ben trovano mai, né mai ben fanno.
Fatto un legista o un medico da rogna21,
arcipoeta o di simil composta, 170 mai non ha ben se talor non sel sogna.
I legisti convien viver a posta
altrui, schiavi venduti e comparati dalle liti, a cui il ben mai non s’accosta:
mai non dormeno o mangian gl’avvocati 175 che non sian molestati da’ clienti,
nemici al ben come al disagio i frati22.
I medici né amici né parenti
mai foro al ben che fugge a tutta briglia
da gli infermi, da’ gridi e da’ lamenti: 180
18 La scuriata è la “sferza di cuoio”, ma anche la “sferzata” che con essa si dà.
19 Rodomonte, dal nome del personaggio cavalleresco, è “colui che si comporta in
modo spavaldo, vantandosi di imprese straordinarie o cimentandosi in azioni temerarie solo per ostentare la propria presunta superiorità”.
20 Città sedi di importanti università.
21 Definire qualcuno o qualcosa «da rogna» vuol dire descrivere “qualcuno o
qualcosa di molto molesto, che può recare grave danno o che suscita insofferenza”.
253 un medico non è gran maraviglia
se ’l mal sempre cercando il ben non trova che dal mal sempre fugge a mille miglia. Voi non dovete aver per cosa nuova
che il distillarsi notte e dì il cervello 185 poco o niente alli poeti giova,
ché da loro fugge il ben com’un ucello, e non è ver poeta a’ giorni nostri chi non ha pegno la vesta e ’l mantello;
né voglio che in contrario mi si mostri 190
la tazza o quelle lingue d’oro23 fino
ch’a voi già partoriro i neri inchiostri, perché, non per poeta o per divino,
Cesar vi paga o Francia vi trabutta24,
ma sol perché voi sete l’Arettino. 195 Oggi la poesia va tanto asciutta
che se tornasse al mondo quel valente che per pidocchi fe’ morte sì brutta s’impiccheria di nuovo impaziente,
non per enigme pescarecce e strane 200 ma per mancarli l’essercizio al dente.
Patirebbe oggi carestia del pane se fosse al mondo arma virumque cano
con quattromila pive mantovane25.
Ma, per fornirla, il ben fugge lontano 205 da le Muse, e da quelle si dilegua
come lo stral dall’arco e da la mano. Un mercatante, ancor che sempre segua
23 Le «lingue d’oro» potrebbero essere quelle che, unite insieme a comporre una
catena, Aretino ricevette in dono dal re di Francia, Francesco I.
24 Forma antica per “tributare”, nel senso di “onorare una persona, facendola
oggetto di manifestazioni di ossequio per la dignità sociale che detiene”.
254 questo ben, non però l’arriva mai,
né mai col suo contrario ha pace o triegua: 210 quel ch’ha più robba, ha più fastidi e guai
perché a’ granari pieni le formiche e i ladri vanno ove puon torre assai;
sempre un mercante ha ’l cuor fra mille ortiche
temendo ch’una lima non li toglia 215 l’acquistato con sì longhe fatiche.
Oltra questo, or del ben lo priva e spoglia
la ripresaglia26, or quel banco fallito,
ora il mar, più volubile che soglia:
non è mercante buon chi non è ardito 220 dare al mar, vita, robba e l’alma insieme,
e scherzar con la morte presso un dito; donque, i disagi e le miserie estreme, i perigli del mar sì spaventosi,
scacciano ’l ben che fugge ogn’uom che teme, 225 e pur tra l’onde e scogli perigliosi,
tra i corsari, il ben falso a sé gl’invita, né vuol ch’un mercatante mai riposi, tal che a pena pur ier la nuda vita
trasse dell’acque, oggi ardito vi torna 230 tratto da sì dannosa calamita,
lassa i teneri figli e moglie adorna
e corre dietro al ben di là dal mondo, spesso in luogo di cui trova le corna.
Ma del marinaresco viver tondo 235 spero scriver un giorno più per agio
che gli è soggetto da toccarne ’l fondo: or, basta dir che questo ben malvagio fugge da loro per tema della morte,
255 e perché il ben non può star col disagio. 240 Altri tendeno al ben le reti in corte,
schiavi per fine al guattaro del cuoco, soggetti alle schifezze d’ogni sorte: un tal, perduti gl’anni, al fin del gioco
giura morendo, in su le mille croci, 245 che il ben mai non fu in corte assai né poco.
Altri infeniti van presi alle voci che i panni longhi e la testa pelata sian per giognere al bene ale veloci:
non dico al ben della vita beata 250 di cui non parlo benché a cercar questo
noi molto s’assotiglia la brigata27;
ma perché il mondo vede manifesto
la frataria mangiar col capo in sacco28,
vivere a sé, non si curar del resto, 255
delle fatiche altrui vivere a macco29,
fuggir gl’affanni per l’amor di Dio,
avere inchini e sberrettate a sbacco30,
e l’andar del pavon contrario al mio.
Vedendoli sì il mondo rossi e grassi 260 gli stima assenti d’ogni caso rio,
stima che i frati sian presso a due passi, anzi, che gli abbian convenzioni e patti con questo “ben” da cacciar via co’ sassi,
e però, assai di quei che mal sono atti 265 a correr dietro al ben, che la natura
fe’ zoppi, guerci, scempi o contrafatti,
27 Cfr. l’inizio di questa satira (vv. 25-27).
28 Mangiare col capo nel sacco si dice di “chi vive spensieratamente, lasciando siano
altri a prendersi cura di lui”.
29 A macco, locuzione d’area toscana che significa “in abbondanza”.
256 corron per questa via corta e sicura,
al creder loro, e vi corrono molti
di tristo peso e scarsi di misura, 270 con infeniti alla miseria tolti,
non si arrischiando andar per altra via, corron per questa ne’ cappucci involti, molti ancor l’Amoraccio ve n’invia
a forza di martel, molti conduce 275
Saturno o la feral malinconia31.
La gente, dunque, a credere s’induce
che i frati abbiano al ben le mani al crine ma, in ver, non è tutt’oro quel che luce:
i digiuni sforzati e discipline, 280 i rettori con poca discrezione,
l’odio fratil che non ha fondo o fine, invidie, sette e risse, son cagione
che il ben si fugge così ben da’ frati,
come un can forestier fugge ’l bastone. 285 Quell’esser grassi, freschi e sfaccendati
avviene a molti per quel ben che ingrassa i buoi da carne e i capponi ingabbiati. Metterei i preti in questa mia matassa
ma certo che ch’io veggio in voi mi grida: 290
- Di lor non ragionar ma guarda e passa - .32
Con simil gente il ben non vi s’annida perché fan le pensioni e gl’usufrutti che un prete de se stesso non si fida,
oltra ciò, la più parte, se non tutti, 295 son padri di fameglia e hanno pensiero
del far le spese alla puttana e a’ putti,
31 Vengono elencati qui i motivi per cui molti, a parer dell’autore,
prenderebbero i voti.
257 però da loro il ben fugge leggiero,
come da gli altri e più, perché il consiglio
vuol riformarli e far la chierca un zero. 300 Non s’accosta un soldato a mezzo miglio
il ben perché l’artegliaria lo scaccia, e fugge ogni fatica e ogni periglio. Gl’artefici e i villani a Dio non piaccia
che gl’abbiano mai ben perché sarebbe 305 propio un fargli annegar nella vernaccia:
se questi avesser ben, chi poi vorrebbe zappar la terra? ognun faria ’l gentile, così di grosso il mondo patirebbe,
ove or, seguendo ’l ben, la gente vile 310 le mani imbratta, s’affatica e suda,
e del ben ghiotta è riverente e omile. Io che la naturaccia altiera e cruda di questo ben leggiero oggi dipingo
dinanzi a tutto ’l mondo aperta e nuda, 315
trenta quatro anni già ’l prego e losingo33,
fo l’amor seco e ’l seguito a gran corso, e per lui sol affanni abbraccio e stringo. Però v’ho fatto sì longo discorso
del suo fuggire, or è tempo ch’io dica 320 chi lo cavalca e chi li pone ’l morso.
Questo benaccio, per usanza antica,
fugge chi ’l segue, e segue e dassi in preda a chi in cercarlo mai non s’affatica.
Donque, non fia chi mai prender lo creda 325
33 Riferimento all’età dell’autore nel momento della composizione della satira:
ciò permetterebbe, dunque, di ipotizzare una data di stesura del testo, e conseguentemente anche del precedente (così come della XVI satira, dedicata al Bentivoglio e a queste due, per certi versi, collegata); essendo Nelli nato nel 1511-12, la data di composizione dovrebbe, quindi, essere immediatamente a ridosso della pubblicazione della raccolta, vale a dire intorno al 1545.
258 fin che lo segue, alor ne sia signore
che non curi d’averlo e non lo veda. Ma quando fia che l’uom non v’abbia ’l cuore, se non quand’egli ha perso l’intelletto,
che ’l piacer non discerne dal dolore? 330 I pazzi, donque, han le mani al ciuffetto
al ben tignoso, i pazzi han tal bruttura: e quel più n’ha ch’è più pazzo perfetto; né mi torrò molta fatica o cura
in provar quel ch’io dico essendo chiaro 335 che dietro a’ pazzi corre la ventura,
ben voi ne conoscete più d’un paro che visu, verbo et opere arcimatti
mai non ebbero in vita un giorno amaro.
Or, se questo benaccio ha questi tratti, 340 non vi par, signor Pier, soggetto degno
che de’ suoi biasmi ognun le carte imbratti? deh, perché, donque, il divin vostro ingegno non si cava le brache e salta in banco
per dispregare ’l mondo del ben pregno34? 345
Io n’ho assai detto, e avrei da dirvene anco fin a doman, ma v’ho compassione ché di legger dovete essere stanco, e per venirne alla conclusione,
il nome “ben, da ben, per bene” è inganno 350 che fa perder la fede alle persone,
e la voglia del ben ci dà ’l mal anno.
34 La volontà di parlare “mal del bene” trova conclusione in questa descrizione
finale secondo la quale gli unici a godere del bene sarebbero coloro «che ’l piacer non discernono dal dolore», vale a dire quelli che il poeta definisce «arcimatti».