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Capitolo I L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA IN TEMA DI CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

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Capitolo I

L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA IN TEMA

DI CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

SOMMARIO: 1. Premesse di carattere sostanziale. – 1.1 Le prime risposte legislative al fenomeno mafioso sul versante processuale. – 1.2 La svolta del 1982: associazione di tipo mafioso e Alto commissario antimafia. – 1.3 Le ragioni sottese alla formulazione di un nuovo codice e il modo in cui le istanze particolaristiche del crimine organizzato vengono tradotte nel nuovo impianto processuale. – 1.4 Art. 371 c.p.p.: l’inefficienza di una forma “artigianale” di coordinamento.

1. Premesse di carattere sostanziale

E’noto a tutti il ritardo di cui si è fatto portatore lo Stato nel dare una risposta legislativa concreta al fenomeno mafioso, invero i primi tentativi organici, registrati in materia, risalgono solo agli ultimi vent’anni del secolo scorso. L’assenza dello Stato, nella lotta alla criminalità organizzata, desta particolare stupore considerando che il fenomeno “mafia” affonda le proprie radici già nel periodo preunitario, ma la meraviglia è destinata a crescere sempre più se ci soffermiamo, come faremo nel prosieguo della trattazione, sulle ragioni sottese alla perdurante inerzia del legislatore. Non potendo prescindere del tutto da considerazioni di carattere sostanzialistico, è opportuno ricordare che il fenomeno della criminalità organizzata si traduce, sul piano del diritto positivo penale, nei reati associativi. Infatti la fattispecie associativa rinviene la propria genesi nell’esigenza di reprimere il fenomeno del banditismo il quale ha rappresentato la forma embrionale dell’attuale e più vasto fenomeno criminale. Il codice napoleonico del 1810 già prevedeva una disposizione relativa all’associazione di malfattori, sulla quale sono state disegnate le successive fattispecie associative dei codici

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preunitari. Tuttavia merita ricordare l’esperienza del codice toscano (1819) all’interno del quale rintracciamo la presenza di un nuovo e diverso titolo di reato: l’associazione per delinquere (art. 421). Tale disposizione avanza un significativo distinguo rispetto all’esperienza francese poichè la fattispecie leopoldina dell’associazione non alludeva al brigantaggio quale nozione criminologica e, ai fini della sua integrazione, richiedeva la prova della semplice riunione di consensi. Si sottraeva in questo modo a tutta la problematica probatoria riguardante la dimostrazione circa la sussistenza di un vero e proprio vincolo tra i soci. Si può affermare, come del resto è stato confermato anche dalla dottrina, che il codice leopoldino costituì il modello cui si ispirò il legislatore italiano per la formulazione delle fattispecie di cui art. 248 del codice Zanardelli e dell’art. 416 del codice Rocco.1 Sotto la vigenza

del codice Zanardelli la lotta alla mafia venne per lo più affidata all’operato della polizia, allontanandosi quindi da risoluzioni meramente processuali, basti pensare alle retate del prefetto Mori, il cui

modus operandi non è di certo andato esente da critiche. 2 La fattispecie dell’associazione a delinquere, con l’avvento del codice Rocco, si è poi cristallizzata nell’art. 416 c.p. di cui si è servito lo Stato fascista per legittimare la sua azione di repressione.

Tralasciando considerazioni di carattere storico, che sarebbero in questa sede inopportune, mi accingo a sottolineare come il tema della mafia, o più in generale della criminalità organizzata, fosse completamente estraneo all’impianto del Codice Rocco; tale assenza di riferimenti era da imputare alla difficoltà constatata, sia nell’elaborare un concetto giuridico di criminalità organizzata, sia nel cristallizzare nel codice tecniche di lotta nei confronti di un fenomeno che si evolve frequentemente nel tempo.

1 A. Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 26

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All’interno del Codice Rocco, invece, trovavano ampio spazio i riferimenti alla criminalità politica organizzata, la quale condivideva con la criminalità mafiosa il fatto di disporre di un apparato strutturale permanente e il fatto di ricorrere spesso alla violenza. Ma se guardiamo agli scopi sottesi a queste due forme di contropoteri, ecco emergere il vero distinguo: la criminalità organizzata mira ad acquisire posizioni monopolistiche sul mercato e quindi segue la logica del profitto, la criminalità politica di matrice terroristica, d’altro canto persegue uno scopo di tipo ideologico.3 Altro aspetto discriminante tra i due tipi di criminalità, è rappresentato dall’altissimo livello di penetrazione che il fenomeno mafioso opera negli apparati istituzionali ed in settori del mondo politico.4La complessità registrata nell’elaborazione di un concetto giuridico di criminalità organizzata è stata elusa evitando di intervenire direttamente sul piano del diritto penale sostanziale, spostando così l’azione sul piano processuale e penitenziario.

Oltre a questa problematica, preme ricordare che altre censure vennero mosse nei confronti della nuova fattispecie associativa, invero si criticava l’inadeguatezza dell’art. 416 c.p. a sussumere tutte le realtà associative di mafia, nelle quali non sempre si riscontra la previsione normativa del programma criminoso, o meglio risultava gravosa la prova di requisiti come l’organizzazione e l’atto di adesione dell’affiliato al sodalizio. Se è vero che la disposizione poteva risultare adeguata a “fronteggiare fenomeni locali e circoscritti di delinquenza associata”, scontava inevitabilmente la conseguente inadeguatezza verso “fenomeni imponenti di criminalità organizzata”.5Anche sul piano

applicativo giurisprudenziale l’art. 416 c.p. ha subito diverse incertezze, in particolare l’annosa questione riguardava la possibilità o meno di sussumere l’associazione mafiosa sotto il più ampio spettro

3 G. Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 20 4 A. Pignatelli, Processo penale e criminalità organizzata, in Questione giustizia,

1983, p. 803

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dell’associazione a delinquere, in altre parole si trattava di capire se il mafioso potesse essere considerato un “associato a delinquere”6. La

teoria maggioritaria prevalsa ha finito per inquadrare l’associazione mafiosa nel genus dell’associazione a delinquere, richiedendo però, ai fini dell’integrazione del reato, non solo l’appartenenza del singolo all’associazione ma anche la prova dell’adesione al programma criminoso. La prova di tale adesione risultò fin da subito complicata, pertanto si fece strada una giurisprudenza “elusiva”, in base alla quale l’adesione al programma criminoso risultava essere provata grazie all’appartenenza ad una consorteria classificabile come mafiosa; in sostanza, come si legge in una nota sentenza: “la prova dell’esistenza dell’associazione mafiosa è, per ciò stesso, prova del programma di delinquenza”. Nonostante l’operazione di supplenza compiuta dalla giurisprudenza, rimaneva pur sempre l’incapacità intrinseca dell’art. 416 c.p. di reprimere in maniera efficiente la criminalità mafiosa, tale inadeguatezza unita all’onda stragista degli anni ’80 ha indotto il legislatore all’introduzione di una nuova fattispecie associativa che si riferisce autonomamente all’associazione di tipo mafioso.

1.1 Le prime risposte legislative al fenomeno mafioso sul versante processuale

Come si evince dalla lettura del paragrafo precedente il legislatore, riscontrando difficoltà sul piano del diritto penale sostanziale, ha preferito approcciarsi al fenomeno mafioso agendo in prima battuta sul versante processuale, vediamo dunque alcuni di questi provvedimenti. In particolare la prima forma di politica criminale adottata dallo stato ha investito il sistema delle misure di prevenzione, possiamo citare la legge n. 575 del 1965, recante “Disposizioni contro la mafia”, avente come ambito soggettivo gli “indiziati di appartenere ad associazioni

6 Si fa riferimento al titolo di un articolo comparso su “La scuola positiva” nel 1930

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mafiose”7. Il ricorso ad un sistema di prevenzione ante delictum veniva

assecondato anche dalla commissione parlamentare antimafia la quale riteneva che “per applicare le misure di prevenzione non occorrono prove sicure di colpevolezza in ordine ad un fatto determinato, ma basta una generica pericolosità sociale desumibile dalla stessa personalità del soggetto e da situazione concrete”, inoltre rispetto alla sanzione penale “i mafiosi temono di più le misure di prevenzione, perché ne percepiscono la maggiore efficacia, per la possibilità di una più facile ed immediata applicazione e per l’effetto che esse possono comportare di un allontanamento degli indiziati dal proprio ambiente”.8

Riguardo al testo legislativo resta sicuramente da apprezzare l’impiego, per la prima volta, del termine “mafia”, ma ancora il legislatore si sottrae nel dare una definizione legale di sodalizio mafioso; infatti la formulazione originaria dell’art.1 della legge 31 maggio 1965 n. 575 aveva suscitato ampi e fondati dubbi di legittimità costituzionale, in relazione alla estrema genericità della definizione legislativa. Non sono però mancati tentativi avanzati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, volti a giustificare l’indeterminatezza della formula con la necessità di contrastare le capacità di mimetizzazione del mafioso.9 Tale indeterminatezza è stata

superata grazie alle legge Rognoni-La Torre del 1982, la quale ha ampliato i soggetti passivi delle misure di prevenzione, per cui la legge si è estesa anche agli indiziati di appartenere “alla camorra od altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”. La nuova formulazione cristallizza il superamento di un tradizionale approccio regionalistico al fenomeno, accresce cioè, la

7 Art 1, legge 31 maggio 1965, n. 575

8 Relazione Commissione parlamentare antimafia 1973, p.75

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consapevolezza della dimensione nazionale di quei fenomeni criminali.10

Altra innovazione legislativa, di non scarsa rilevanza, è rappresentata dal d.l. 21 marzo 1978, n. 59, convertito nella l. 18 maggio 1978, n. 191, recante “Norme penali e processuali per la prevenzione e

la repressione di gravi reati”. In particolare l’art. 4 del suindicato

decreto introduce due disposizioni all’interno del codice di procedura penale: art. 165 bis e art. 165 ter, riguardanti rispettivamente “la

richiesta di copie di atti ed informazioni da parte dell’autorità giudiziaria” e da parte “del Ministro dell’interno”. Entrambe le

disposizioni si inscrivono in una politica di prevenzione rivolta ad una maggiore efficienza nella lotta contro la criminalità organizzata; l’obiettivo è certamente quello di creare un coordinamento tra i vari uffici giudiziari attraverso lo scambio di atti concernenti le relative indagini, anche in deroga al segreto istruttorio. Si è quindi cercato in prima battuta di superare l’insoddisfacente collaborazione tra magistratura e polizia giudiziaria attraverso meccanismi legislativi di trasmissione di copie i quali “consentano di cogliere le trame che collegano episodi delittuosi, apparentemente slegati tra loro, per una più efficace azione repressiva”.11 Tra le due nuove disposizioni la più

discussa è stata l’art. 165 ter, in quanto accusata di aver lasciato la possibilità di delineare una subordinazione dell’autorità giudiziaria all’esecutivo. Inoltre valorizzando il dato normativo, per cui la polizia giudiziaria ha la facoltà di prendere visione dei fascicoli giudiziari, alcuni parlarono addirittura di “neutralizzazione del potere inquisitorio” e di attenuazione del principio di indipendenza della magistratura, prospettando quindi l’interferenza tra autorità giudiziaria e polizia. Il Falcone invece proponeva una lettura della disposizione rispettosa

10 G. Turone, Le associazioni di tipo mafioso, in La legislazione dell’emergenza,

Giuffrè Editore, 1984, p. 17

11 G. Falcone, Il ruolo della magistratura, in Interventi e proposte, (1982-1992), a cura

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dell’assetto costituzionale, o meglio faceva leva sul fatto che la richiesta dovesse avere natura indispensabile ed altresì, a tutela dell’indipendenza della magistratura, che quest’ultima avesse la possibilità di sindacare tale indispensabilità, con la possibilità di apporre motivatamente un rifiuto, laddove ritenesse di non poter derogare al segreto istruttorio. Oltre a questo aspetto problematico, preme sottolineare come le due disposizioni citate cristallizzino la consapevolezza di dover innescare meccanismi di coordinamento per combattere la criminalità organizzata.

1.2 La svolta del 1982: associazione di tipo mafioso e Alto commissario antimafia

Il 3 settembre 1982 venne ucciso il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie ed all’agente di scorta Domenico Russo. Questa ulteriore strage, testimonianza della recrudescenza mafiosa, ha attivato lo Stato italiano il quale, in tempi sorprendentemente celeri, ha varato due significativi provvedimenti. Stiamo parlando del d.l 6 settembre 1982, n 629 e l. 13 settembre 1982, n. 646; il primo di questi prevede una delle prime strutture di coordinamento rappresentata dall’Alto commissario antimafia, il secondo invece agisce sul fronte sostanzialistico introducendo nel codice penale l’art. 416 bis, riguardante l’associazione di tipo mafioso. Si è soliti ritenere che entrambi i provvedimenti rientrino in quella che è stata definita “legislazione dell’emergenza”, per fare riferimento ad un’attività legislativa scandita dagli attacchi che il fenomeno mafioso stava sferrando al cuore dello stato. In molti, tra cui Falcone, hanno criticato questa espressione la quale per lo più sembra alludere ad un fenomeno occasionale, contingente; risulta infatti difficile pensare all’evento “mafia” come un evento transitorio, dato che trattasi di un fenomeno risalente al periodo preunitario. Chiare in questo senso sono le parole del giudice Falcone: “L’attuale considerazione del fenomeno mafioso

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come emergenza è espressione, a mio avviso, di inadeguatezza di approccio al fenomeno stesso; e ciò comporta errori strategici e tattici nello studio e nell’attuazione delle misure più adatte per la sua repressione”.12 Deve essere infatti, per nostra disgrazia, sconfessata

l’idea che la mafia rappresenti un’emergenza tale da essere affrontata con strumenti circostanziali o temporanei, bensì deve farsi strada la consapevolezza che si tratti di un fenomeno strutturale, insito nella storia del nostro paese; allo stesso tempo però tale consapevolezza non deve sconfinare in una politica di rassegnazione, bensì determinare un intervento più globale e più incisivo del fenomeno. Tornando ai due interventi legislativi indicati, questi ultimi confermano nuovamente il tipico modus operandi che lo Stato ha adottato in tema di criminalità organizzata, si è soliti infatti ritenere che esso abbia “proceduto a fisarmonica”13. Il significato di tale espressione si evince dalla relazione

della commissione parlamentare antimafia del 6 aprile 1993, nella quale si legge che “Lo stato non colpiva Cosa Nostra in quanto associazione criminale, ma solo quando compiva omicidi particolarmente gravi”. 14

In particolare, nella stessa relazione, si fa luce anche su alcuni dei motivi che hanno determinato, nel primo ventennio del dopoguerra, un agire così disinteressato da parte delle autorità statali nei confronti della lotta al crimine organizzato; infatti l’inerzia del legislatore in tale materia discende da una vera e propria coabitazione politica con la mafia, ciò vale a dire che di quest’ultima si sono avvalse le componenti politiche di quei tempi per consolidare le loro posizioni. L’infiltrazione della mafia negli apparati statali è stata ulteriormente agevolata dal ruolo rivestito in quegli anni dalla criminalità politica, in quanto tutta l’attenzione e l’impegno dello Stato erano focalizzati su quel fronte, relegando in questo modo la criminalità mafiosa in secondo piano. Tale

12 G. Falcone, Emergenza e stato di diritto, in Interventi e proposte (1982-1992), a cura

della Fondazione G. e F. Falcone, Firenze, 1994, p. 12

13 G. Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Il Mulino, Bologna,1993,p. 23 14 Relazione Commissione parlamentare antimafia, 6 aprile 1993

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combinato disposto ha perciò lasciato alla mafia significativi spazi entro i quali espandersi e manifestare tutta la sua forza criminale, consentendole in maniera indisturbata di evolversi dalla forma più embrionale di mafia agricola a quella più articolata e complessa della mafia odierna.

Le considerazioni che precedono sono utili per iniziare a parlare di uno dei provvedimenti “antimafia”, in particolare la legge 13 settembre 1982 n. 646, ricordata per lo più come legge Rognoni- La Torre, in ricordo del segretario Pio La Torre, assassinato dalla mafia il 30 aprile dello stesso anno. Finalmente l’art 416 bis c.p., rubricato “Associazione di tipo mafioso” obiettivizza i comportamenti propri di questa forma di sodalizio, realizza quindi il passaggio, tanto agognato, dal piano astratto-criminologico a quello normativo. La definizione giuridico-penale dell’organizzazione mafiosa è consolidata nel comma 3, nel quale leggiamo che “l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.” I tratti specializzanti della nuova fattispecie associativa sono rappresentati dunque dalla potenzialità d’intimidazione dalla quale deve derivare la condizione di assoggettamento e di omertà e dallo scopo di ottenere profitti o vantaggi ingiusti. Con l’introduzione del nuovo precetto penale si colma finalmente l’inadempienza protratta dalla scienza giuridico-penale e si fornisce una disposizione di “diritto penale speciale” di lotta contro il fenomeno della criminalità organizzata.15

15 G. Turone, Le associazioni di tipo mafioso, in La legislazione dell’emergenza,

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Ora prendiamo in considerazione il secondo dei provvedimenti citati, il d. l 6 settembre 1982, n. 629, recante “Misure urgenti per il

coordinamento della lotta contro la criminalità organizzata”, istitutivo

dell’Alto commissario antimafia, avente l’intento di concentrar in questa nuova figura poteri di coordinamento tra gli organi amministrativi e di polizia, sul piano locale e nazionale. Preme sottolineare che il Generale Dalla Chiesa, negli anni del suo operato in Sicilia, aveva più volte manifestato l’impellente necessità di attribuire al Prefetto di Palermo speciali poteri di coordinamento; in questo senso emblematica e carica di amarezza risulta questo suo pensiero: “Mi mandando in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del Prefetto di Forlì”.16 Solo a seguito

del suo assassinio si diede seguito a quelle richieste, infatti il decreto, convertito a breve distanza nella legge 726 del 1982, attribuiva al Ministro dell’interno la facoltà di delegare ad un prefetto della Repubblica poteri di coordinamento ai fini della prevenzione e della lotta contro la delinquenza mafiosa.

Per capire se effettivamente questo rinnovo istituzionale sia stato utile ed efficiente ai fini della lotta contro “l’associazione malandrinesca”, dobbiamo prendere in considerazione i poteri attribuiti all’Alto commissario. Quest’ultimo prima di tutto doveva essere necessariamente un prefetto della Repubblica e si doveva attenere, nell’esercizio del potere conferitogli, alle modalità ed ai limiti stabiliti dal Ministro dell’interno con proprio decreto. L’Alto commissario antimafia diveniva, sulla base della legge di conversione, titolare di poteri di coordinamento, ma anche di altre attribuzioni, in particolare avrebbe potuto esercitare poteri di accesso e di ispezione presso le pubbliche amministrazioni, banche ed istituti sospettabili di attività mafiosa. Si trattava dunque di un potere rientrante nelle funzioni di polizia amministrativa in senso stretto, la cui ratio risiedeva nel consentire all’Alto commissario di esercitare controlli di tipo

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commerciale, fiscale e valutario nei confronti di soggetti economici poco affidabili, potendo avvalersi degli organi di polizia tributaria. Allo stesso fine diveniva titolare di poteri informativi verso le società aggiudicatarie o stazioni appaltanti allo scopo “di individuare gli effettivi titolari dell’impresa ovvero delle azioni o delle quote sociali”.17

Godeva anche di un potere informativo passivo essendo destinatario del flusso di notizie provenienti dal Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE) ed anche di quelle provenienti dal Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI), qualora i fatti attenessero ad attività di tipo mafioso. Per quanto riguarda il potere di coordinamento esso consisteva, così come si desume dai vari decreti ministeriali susseguitisi nel tempo, nell’adottare tutti quei provvedimenti necessari per rendere univoca ed omogenea l’attività delle autorità provinciali e locali di pubblica sicurezza, avendo inoltre la possibilità di partecipare alle riunioni del Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Questo era il regime originario pensato per la figura dell’Alto commissario, ma i vari titolari, susseguitisi nel tempo, hanno fin da subito lamentato lo scarso potere di coordinamento di cui godevano e denunciato le deficienze insite nell’apparato organizzativo. Si è dunque provveduto, a soli sei anni di distanza, ad una rivisitazione della figura dell’Alto commissario, per rafforzare, da un lato, la funzione di

intelligence e di coordinamento, per conferire un maggiore impulso

investigativo ed operativo, e dall’altro per insediare nuovi poteri. Sotto il primo profilo si è posto, alle dirette dipendenze dell’Alto commissario, un nucleo formato da personale specializzato dei Servizi per le informazioni e la sicurezza, e per apportare una maggiore snellezza nell’espletamento dei propri compiti si è attribuito alla struttura una propria autonomia finanziaria. La funzione di coordinamento invece viene rafforzata attraverso la possibilità di

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convocare conferenze interprovinciali “allo scopo di concertare ogni utile iniziativa degli organi di polizia e delle altre amministrazioni pubbliche”.18

Interessante è stato poi l’insediamento di poteri i quali intrattenevano labili confini con le attribuzioni proprie dell’autorità giudiziaria; si fa riferimento alla facoltà di proporre al presidente del tribunale competente misure di prevenzione da adottare verso coloro che sono sospettati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Tra questi poteri ambigui rientra anche la facoltà di chiedere all’autorità giudiziaria, su delega del Ministro dell’interno, copie di atti processuali ed informazioni ritenute indispensabili per la prevenzione dei delitti di grave allarme sociale di cui art 165 ter c.p.p.. Altra facoltà dell’Alto commissario consisteva nella possibilità di visitare gli istituti penitenziari e di avere colloqui con i detenuti, previa autorizzazione dell’autorità competente. Rispetto a quest’ultimo potere, furono sollevati dubbi circa lo scopo perseguito, non era infatti chiaro se l’obiettivo rientrasse nelle funzioni di pubblica sicurezza, inscrivendosi nella logica della prevenzione dei reati, o nelle funzioni di polizia giudiziaria andando ad individuare i responsabili di crimini già commessi. Si è poi ritenuto, in virtù del fine di prevenzione indicato nel testo legislativo, che egli dovesse attenersi ad un’attività di tipo preventivo, in quanto inoltre non rivestiva la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria.

Nonostante l’intervento della riforma, volto a ritoccare il regime dell’Alto commissario ed a colmare le lacune più vistose, a pochi anni di distanza si è giunti comunque all’epilogo della figura qui in discussione. Le ragioni che hanno portato alla cessazione del ruolo di Alto commissario sono derivate dalla dipendenza gerarchica che questa figura intratteneva con il Ministro dell’interno, egli infatti non aveva la possibilità di esercitare alcun potere sugli organi estranei

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all’amministrazione degli affari interni. Basti pensare all’Arma dei Carabinieri o al Corpo della Guardia di Finanza inquadrate rispettivamente sotto il Ministero della difesa e il Ministero delle finanze. La risoluzione non si è avuta neppure trasformando la nomina da ministeriale a presidenziale, poiché la collocazione istituzionale rimaneva pur sempre alle dipendenze del Ministro dell’interno. Una soluzione poteva essere quella di porre l’Alto commissario sotto il diretto controllo del Presidente del consiglio, per poter ottenere un potere di coordinamento interministeriale.19 Progressivamente quindi i poteri dell’alto commissario sono stati devoluti ad una nuova struttura di coordinamento, la Direzione Investigativa Antimafia.

1.3 Le ragioni sottese alla formulazione di un nuovo codice e il modo in cui le istanze particolaristiche del crimine organizzato vengono tradotte nel nuovo impianto processuale

Avendo analizzato nei paragrafi precedenti i primi interventi in tema di crimine organizzato, non possiamo di certo dimenticare che nello stesso periodo stragista, avanzava parallelamente l’idea di un nuovo codice. Quanto i fenomeni di criminalità organizzata hanno influito nella spinta verso questo nuovo orizzonte? Si tratta di una domanda alla quale non possiamo rispondere in maniera univoca, essendo state plurime le ragioni sottese alla redazione del nuovo codice. Potremmo però individuare al riguardo tre moventi: prima di tutto la necessità di svecchiare l’architettura del codice passando dal sistema inquisitorio ad un modello accusatorio; la volontà di attenuare i meccanismi che agevolano l’innesto dei maxiprocessi ed infine l’esigenza di introdurre all’interno dello stesso codice specifiche

19 P.Onorato, L’alto commissario per il coordinamento della lotta contro la

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esigenze della lotta contro la mafia, senza ricorrere ad interventi extra-codicistici.

Nel segno del primo movente indicato, appariva chiaro l’art. 2, l. delega 16 febbraio 1987, n. 81, il quale dichiarava apertamente che il nuovo codice dovrà attuare, oltre ai principi della Costituzione, i caratteri propri del sistema accusatorio, abbandonando di conseguenza l’ormai vetusta architettura inquisitoria. La riforma, per inscriversi nella logica accusatoria, ha dovuto seguire specifici criteri e principi elencati nello stesso art.2, in particolare si è proceduto alla “massima semplificazione nello svolgimento del processo”, ha fatto proprio il “metodo orale” e ha reso effettivo il principio di parità tra accusa e difesa.

Tra le novità più significative, l’impianto del nuovo codice ha previsto la nascita del giudice per le indagini preliminari e, al contempo la scomparsa del giudice istruttore, superando in questo modo il disegno della legge delega del 1974 la quale invece si ostinava a mantenerlo in vita. Oltre a questa innovazione sul piano ordinamentale, la riforma ha perseguito l’intento di restituire alle figure del pubblico ministero e del giudice i loro status naturali, per amputare quella ibrida funzione accusatoria-decisoria che il codice Rocco aveva attribuito agli organi istruttori. Infatti se volessimo rintracciare alcuni degli scopi del processo penale, potremmo affermare che questi si rinvengono nella funzione di garanzia esercitata nei confronti dell’imputato e nella funzione di difesa sociale; ebbene a tali due scopi assolvono, nella fisiologia del processo, rispettivamente le figure del giudice e del pubblico ministero, essendo il primo garante del diritto di libertà del singolo ed il secondo rappresentante della pretesa punitiva dello Stato. Sotto la vigenza del codice Rocco si era però creato un fraintendimento riguardo alle due figure, invero si era parlato di un pubblico ministero giurisdizionalizzato

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e di un giudice super pubblico ministero.20 Tale commistione di funzioni era dovuta al fatto che il pubblico ministero conduceva un’istruzione sommaria e giurisdizionalizzata, nel senso che si basava su atti destinati ad essere utilizzati come prova nelle fasi successive del procedimento, il giudice istruttore d’altro canto aveva accresciuto notevolmente i propri poteri sul versante dell’attività di indagine ed era quindi divenuto partecipe dell’interesse alla repressione dei reati, rendendo piuttosto soffusa la sua terzietà. Il nuovo codice finalmente ha debellato tali deformazioni, grazie ad una corretta ripartizione delle fasi e dei ruoli, poiché ha distinto l’esercizio dell’azione penale e la connessa attività di investigazione dalla giurisdizione, per cui la funzione del giudice è sempre e solo quella di garanzia, mentre il pubblico ministero ha acquisito la sua funzione di parte, divenendo l’esclusivo titolare dell’azione penale. Proprio in funzione di una corretta ripartizione delle fasi si è creata di conseguenza una cesura tra il dibattimento e la fase antecedente, la quale è destinata a recepire indagini inidonee a formare la prova. Si è in sostanza capovolto il principio della conservazione degli atti a favore del principio di formazione della prova nel dibattimento, ammettendo comunque tassativamente delle eccezioni.

Istituto inedito del nuovo processo e costituente una deroga al principio di cui sopra è l’incidente probatorio, il quale consentiva, e permane ancora, a certe condizioni, di anticipare l’assunzione della prova in un momento anteriore rispetto al dibattimento. Data la natura eccezionale dell’istituto, il legislatore disciplina tassativamente tutta una serie di casi che hanno come comune denominatore, il pericolo concreto che la fonte di prova, in attesa del dibattimento, possa venire meno o possa essere inquinata. Ora, è chiaro che nei processi di criminalità organizzata l’esigenza di anticipare l’assunzione della prova rappresenti un caso assai frequente per cui si corre il rischio che “la forza delle

20 V.Borraccetti, Pubblico ministero e giudice nel nuovo processo penale, in Questione

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cose imponga una sorta di coordinamento fra le indagini preliminari del pubblico ministero e gli incidenti probatori chiesti al giudice, riproducendo quella sorta di collaborazione fra organi giudiziari con funzioni diverse, che il nuovo codice ha voluto cancellare.”21 Si temeva

cioè che il ricorso eccessivo a questo istituto potesse in maniera surrettizia riproporre lo schema dell’istruzione formale; tali timori venivano sdrammatizzati da coloro i quali, confidando nella professionalità dei pubblici ministeri, ritenevano che questi vi avrebbero fatto ricorso solo in ipotesi di assoluta necessità in riferimento ad una serie circoscritta di elementi probatori.22

Altro dato significativo da cui è emersa la necessità di un nuovo codice è stato il fenomeno del gigantismo processuale il quale ha portato alla luce tutti i difetti del Codice Rocco. Nel linguaggio giornalistico venne coniata l’espressione “maxiprocesso” volta a designare “un processo cumulativo di dimensioni talmente notevoli da comportare profonde alterazioni nella gestione di quasi tutti gli istituti processuali.”23In questa fase esso ha subito una vera e propria

spettacolarizzazione, divenendo il “teatro delle ragioni di stato”24, un

palcoscenico però troppo angusto per raccontare la storia e troppo mediocre per fare giustizia.25 La complessità nella gestione di processi

di questo genere si evince se guardiamo al numero degli imputati: già ai tempi del prefetto Mori i processi registravano non meno di centocinquanta imputati26, per poi arrivare agli anni ottanta con cifre mastodontiche di quattrocentotrentotto imputati. Per evidenziare la

21 G. Falcone, Il ruolo del giudice nel nuovo processo penale, in Interventi e proposte

(1982-1992), a cura della Fondazione G. e F. Falcone, Firenze, 1994, p. 15

22G. Neppi Modona, Il nuovo processo penale tra emergenza e cultura delle riforme,

in Questione giustizia, 1987, p. 140

23 L.Marafioti, Maxiprocesso e processo “giusto”, in AA.VV., Il doppio binario

nell’accertamento dei fatti di mafia, (a cura di) Bargi, (diretto da) Gaito-Spangher, Giappichelli, 2013, p. 654

24 P.Ferrua, I maxiprocessi e la L. 17 febbraio 1987, n. 29, in Cass. pen., 1987, p. 1662 25 M. Ramat, Il maxiprocesso, in Questione giustizia., 1985, p. 263

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differenza rispetto alle forme processuali tradizionali, si era parlato di processo-inchiesta, il quale sarebbe rivolto non tanto all’accertamento di responsabilità individuali rispetto alla commissione di fatti specifici, piuttosto all’ambiente, all’organizzazione nel suo complesso, per poi ricercare al suo interno e in un secondo momento le responsabilità proprie dei singoli. La peculiarità dell’oggetto del processo-inchiesta generava a cascata tutta una serie di deformazioni che coinvolgevano diversi aspetti processuali, in particolare il giudice istruttore veniva a configurarsi alla stregua di un dirigente di polizia giudiziaria, divenendo ancora più palese la commistione tra la sua funzione e quella del pubblico ministero. In sostanza il fenomeno del gigantismo processuale unito all’architettura inquisitoria vanificava il carattere super partes del giudice, combinando poi la “parzialità” del giudice all’ambiente come oggetto di indagine si finiva per svilire ed ostacolare la difesa del singolo imputato, trasformando il difensore in un curatore dell’associazione criminosa. 27

Ma dove risiedevano le cause di tale fenomeno? Non esistono fattori esclusivi, bensì si può parlare di serie causali incentivanti simili deformazioni, riguardo a ciò è bene compiere alcune considerazioni inziali. Prima di tutto deve essere sconfessata la teoria la quale avrebbe visto come causa del maxi-processo il protagonismo dei giudici, finendo per parlare addirittura di un “fatto di costume giudiziario”, allo stesso tempo è bene prendere atto che il fenomeno rappresentava “una conseguenza necessitata e inevitabile, in presenza di organizzazioni criminali e, più in genere, di fenomeni di criminalità di massa di vaste proporzioni”.28 In sostanza il maxiprocesso rappresentava la traduzione

in termini giuridici della vasta e complessa realtà criminale. Oltre a questo aspetto fisiologico, è pacifico che un significativo contributo alla creazione di processi-mostro sia stata rappresentata dal principio di

27 G. Colombo, Aspetti pratici del processo-inchiesta,in Questione giustizia, 1987,p.90 28 G. Falcone, Lotta alla criminalità organizzata e nuovo modello processuale, in

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obbligatorietà dell’azione penale, aggravata oltremodo dall’assenza di meccanismi processuali deflattivi. La portata deformante di tale principio era facilmente riscontrabile guardando ai paesi che hanno fatto proprio il principio di discrezionalità dell’azione penale, infatti in questi ultimi, nonostante la presenza di rilevanti fenomeni criminali, non si è assistito a processi ciclopici. Sul fronte sostanzialistico, invece, un fattore scatenante è stato rappresentato dalla configurazione dei reati associativi, i quali punivano la mera appartenenza all’associazione criminosa, anche senza la prova della commissione degli specifici reati. Invero si profilava una giurisprudenza rivolta all’approssimazione degli elementi qualificanti l’affectio societatis scelerum, valorizzando le implicazioni ambientali, i precedenti penali e lo stesso tenore di vita dell’imputato.

Proseguendo nella trattazione circa le cause endogene al processo determinanti elefantiasi processuale, non possiamo dimenticare l’assenza di meccanismi deflattivi, dovuto alla presenza di un unico modello processuale valido per qualsiasi esigenza a prescindere dal tipo di criminalità. Il fatto di ritenere perfetto, esaustivo e razionale quell’unico modello processuale ha fatto parlare di un vero e proprio “ideologismo” processuale il quale, anche grazie ai processi-inchiesta, ha ceduto il passo ai riti differenziati. In questo modo i riti speciali verranno riservati alle forme delinquenziali più lievi, mentre il processo ordinario riguarderà le forme di criminalità organizzata. 29

La stessa architettura del codice Rocco inoltre risultava portatrice di istituti incentivanti il gigantismo processuale, in particolare si allude alla connessione disciplinata all’art. 45 c.p.p., la quale contemplava un vasto tessuto connettivo dai contorni molto flessibili e pertanto suscettibili di esiti ermeneutici diversi. Tale istituto rinviene la propria ratio sotto diversi profili, prima di tutto in termini di

29 G.Neppi, Il nuovo processo penale tra emergenza e cultura delle riforme, in

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economicità dei mezzi, ma soprattutto la trattazione unitaria delle regiudicande consente di condurre un accertamento coerente e completo, prevenendo sul lungo termine eventuali contrasti tra giudicati, ma certamente tale convenienza sconta il fatto di rendersi premessa di mostri processuali. In realtà la connexitatis causa che più alimentava il cumularsi delle regiudicande era rappresentata dall’ipotesi di connessione probatoria di cui all’art 45, n. 4, c.p.p. 1930, infatti l’indeterminatezza della formulazione aveva finito per ricomprendere “qualsiasi situazione d’identità o di semplice interferenza logica tra le valutazioni necessarie ai fini della decisione sull’esistenza di due o più reati, oggetto di separati procedimenti”, superando oltremodo l’ipotesi originaria legata alla mera comunanza totale o parziale di prove tra diversi procedimenti. L’ampio ricorso all’istituto della connessione era inoltre giustificato dalla disciplina del contrapposto istituto della separazione, infatti l’art 414. c.p.p. 1930, si ancorava al presupposto della celere definizione dei giudizi, lasciando però ampia discrezionalità al giudice. Tutto ciò veniva avvalorato da una giurisprudenza volta a salvare la connessione probatoria verso la presunta violazione dell’art 25, comma 1, Cost.

Completamente diverso era lo spirito della legge delega, la quale all’art. 2 n. 14 palesava l’intento di ridurre le ipotesi di connessione riversando nella tassatività e di ampliare contestualmente le ipotesi di separazione. L’art. 12 c.p.p. accetta la competenza per connessione solo nelle ipotesi di concorso di persone nel reato, o nel caso di unico autore di più reati consumati, elidendo la connessione probatoria. Il legislatore ha ripensato però anche agli istituti della riunione e della separazione, in particolare la prima la troviamo disciplinata nell’art. 17, comma 1 c.p.p.; essa può essere disposta quando “non pregiudichi la rapida definizione” dei processi, comprendendo però anche l’ipotesi della passata connessione probatoria, cioè quando la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di una sua

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circostanza. Parallelamente vengono ampliate le ipotesi di separazione di cui art. 18 c.p.p., ipotesi non più soggette alla discrezionalità del giudice, applicabile salvo che si ritenga “la riunione assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”.

Di fronte a tale innovazione, connotata da un certo favor

separationis, fin da subito si era paventato il rischio di un’eccessiva

frammentazione del procedimento cumulativo, pertanto si è cercato di far fronte alla possibile polverizzazione del processo intervenendo sul fronte investigativo. In tale ottica risultava la direttiva n. 16 della legge delega la quale prevedeva il potenziamento del collegamento investigativo tra diversi uffici requirenti per assicurare “speditezza, economia ed efficacia delle indagini medesime”. Questo intento viene concretizzato nell’art. 371 c.p.p., il quale dunque rappresenta una delle disposizioni portatrici di un’istanza di specialità, per questo la prenderemo in considerazione poco più avanti.

Proprio il riferimento all’ultima disposizione citata ci consente di fare un discorso più ampio, che si collega al terzo movente di cui abbiamo accennato all’inizio, infatti si diffuse l’idea di dar vita ad un codice che incarnasse esso stesso risposte alle esigenze peculiari poste dalla criminalità organizzata, evitando ricorsi extra-codicistici. A ben vedere però, il legislatore delegato menzionava espressamente il fenomeno criminale solo per quanto atteneva la durata massima delle indagini preliminari, prevedendo diciotto mesi nelle ipotesi ordinarie e due anni per i reati della “grande criminalità e in ipotesi eccezionali specificatamente indicate” in ossequio all’art. 2, n. 48, della l. delega n. 87/1987. E’ altrettanto vero però che il nuovo codice contemplava disposizioni le quali, nonostante la mancanza dell’esplicito riferimento alla criminalità organizzata, rispondeva ad esigenze proprie e peculiari avanzate dallo stesso fenomeno; mi riferisco all’istituto dell’incidente probatorio, all’introduzione di riti speciali e da ultimo alla disposizione di cui art. 371, circa il coordinamento investigativo.

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1. 4 Art. 371 c.p.p.: l’inefficienza di una forma “artigianale” di coordinamento

Dovendo rintracciare, all’interno del più vasto progetto di riforma del codice di rito penale, le intenzioni programmatiche che il legislatore ha predicato nella lotta contra la criminalità organizzata, sono due gli interventi che richiamano la nostra attenzione. Specificatamente mi riferisco alla riduzione delle ipotesi di connessione ed al coordinamento delle indagini relative a materie collegate di cui art. 371 c.p.p. . La drastica riduzione delle cause di connessione, in particolare l’elisione della connessione probatoria, rispondeva all’esigenza di ovviare al maturare di elefantiasi processuale, dimenticandosi, (circostanza riemersa poco dopo), che la cumulazione processuale è un dato quasi connaturato alle realtà criminali organizzate e soprattutto altro non è che la traslazione dei reati associativi sostanziali, sul piano processuale.

Di significativa portata è invece l’art 371 c.p.p., rubricato “Rapporti tra diversi uffici del pubblico ministero”, il quale verte sul coordinamento che deve sussistere tra questi attori procedimentali in presenza di indagini collegate. Tra l’altro in giurisprudenza si era affermato che il collegamento fra indagini, non necessita di alcuna formale dichiarazione, poiché quando ci si trova in presenza dei presupposti indicati dall’art. 371, le indagini di diversi uffici del p.m., si considerano collegate con tutti gli effetti che ne derivano. Come spiega la norma il coordinamento assolve all’obiettivo di rendere le indagini più spedite, efficaci e meno dispendiose a livello economico, poiché tale

modus operandi avvantaggia l’attività di indagine la quale risulterà più

approfondita, anche grazie alla possibilità di avvalersi di più risorse umane. Per quanto attiene invece alle modalità nelle quali si estrinseca il coordinamento, esso consta di tre attività: nello scambio di atti e di informazioni tra gli organi del pubblico ministero, nella comunicazione

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delle direttive impartite alla polizia giudiziaria ed infine nel compimento congiunto di atti specifici, cioè tutti quegli atti di indagine contemplati nel Titolo V, Libro V del codice penale di rito, riferito all’attività del pubblico ministero.30

Il presupposto che determina l’obbligo del coordinamento è rappresentato dal collegamento delle indagini, concetto che viene definito dal secondo comma, attraverso il quale si evince che la portata applicativa del collegamento ricomprende al suo interno la connessione, instaurandosi tra i due un rapporto di genus a species. In particolare sono tre i tipi di collegamento richiamati: a) collegamento-connessione poiché coincide con le ipotesi di cui art. 12 c.p.p.; b) collegamento

interprobatorio il quale si verifica in presenza di una interferenza tra

valutazioni di un medesimo elemento di fatto che proietta la sua efficacia probatoria in rapporto a due distinti reati; c) collegamento derivante dalla comunanza di una fonte di prova il quale è ravvisabile a seguito di dichiarazioni rilasciate da collaboranti su diversi episodi criminosi.31 A questi tre tipi di collegamento corrisponde un diverso regime normativo, in quanto solo il primo tipo di collegamento può giustificare riunioni di processi anche con spostamenti di competenza, il secondo solo riunioni di processi pendenti nello stesso stato e grado davanti al medesimo giudice, mentre l’ultimo tipo di collegamento non produce alcuno di questi due effetti.

Se appaiono privi di ambiguità i collegamenti delle lettere b) e

c), meno chiaro è il collegamento-connessione, infatti nell’immediato

non si comprende in quali ipotesi le indagini connesse dovrebbero dar vita ad un coordinamento tra diversi uffici del pubblico ministero, partendo dall’assunto che nei casi di connessione, appartenendo la competenza per tutti i reati ad un solo giudice, le relative indagini

30 L. D’ambrosio, in A.A.V.V., Commento al nuovo codice di procedura penale, Vol.

IV, Torino 1990, p. 296

31 G. Turone, Le indagini collegate nel nuovo codice di procedura penale, Giuffrè

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dovrebbero concentrarsi presso il corrispondente ufficio del pubblico ministero.

L’ambito di operatività della disposizione dovrebbe ritenersi riferita esclusivamente ai quei casi di connessione che non giustificano la trattazione unitaria, quali le ipotesi di reati commessi da maggiorenni e minorenni, poiché in base a quanto prescrive l’art. 14 c.p.p. la connessione non opera tra procedimenti relativi ad imputati minorenni e maggiorenni, e le ipotesi di reati comuni connessi con più gravi reati militari. 32

In realtà l’art 371 comma 2 lett. a) è molto più significativo e rappresentativo di quanto possa sembrare, in quanto il legislatore attraverso questa previsione, consente ai pubblici ministeri in ordine ad indagini connesse, di non operare la trattazione unitaria, bensì di procedere al coordinamento investigativo. Attraverso quella previsione si consente quindi ai diversi uffici del pubblico ministero di coordinarsi tra loro, anziché rivendicare la titolarità delle indagini. Emblematico di quanto il legislatore confidasse in un vero e proprio coordinamento tra i vari uffici del pubblico ministero, era l’assenza di meccanismi di composizione dei contrasti positivi, avvallata dalla disposizione di cui art. 28, comma 3 c.p.p., la quale prescrive che “nel corso delle indagini preliminari non può essere proposto conflitto positivo fondato su ragioni di competenza per territorio determinata dalla connessione”.

Il nuovo codice tuttavia presentava delle incongruenze, poichè a fronte dell’attribuzione alla connessione di figura autonoma di competenza, dalla quale quindi sarebbe dovuta discendere una considerazione ab initio dell’istituto, non vi corrispondeva una disciplina processuale che confermasse questo dato.33 Sono diverse le

32 Per completezza si segnala anche l’ipotesi, ormai vetusta, per cui un altro spazio di

operatività della disposizione di cui art. 371 lett. a), si ha con riferimento ai delitti ex art 51 terzo comma bis, instaurati prima dell’entrata in vigore delle direzioni distrettuali antimafia, in questo senso E. Svariato, Procedimenti connessi ed indagini collegate, in Giur. Merito, 1993, p. 1584

33 M. Catalano, L’operatività della connessione nella fase delle indagini preliminari:

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previsioni che propendono in questo senso, specificatamente la direttiva n. 15, art. 2 della legge delega, la quale prevedeva con riferimento ai conflitti di giurisdizione e di competenza, “una particolare

regolamentazione per la fase delle indagini preliminari ispirata al rispetto della competenza per territorio anche in deroga alle regole sulla connessione”; l’art 28, comma 3 c.p.p. indicato sopra e lo stesso

art 371 comma 2 lett. a), il quale annoverando tra le ipotesi di indagini collegate che danno luogo al meccanismo del coordinamento fra gli uffici del p.m., i procedimenti connessi, presuppone la trattazione separata di questi pur ricorrendo il vincolo della connessione.34 Si ravvedeva dunque una discrasia tra l’idea della connessione quale criterio originario di competenza, e quindi la sua relativa applicazione fin dalla fase delle indagini preliminari, e la restante disciplina la quale ancorava la sua operatività a partire dall’udienza preliminare in poi. In realtà la ratio sottesa al punto n. 15 della legge delega, di cui l’art. 28 ne rappresenta un’attuazione, era quella di evitare effetti paralizzanti di eventuali conflitti e di evitare fenomeni di gigantismo processuale sin dalle fasi iniziali del procedimento. In definitiva il legislatore, temendo il riproporsi del fenomeno dei maxiprocessi non solo ha rivisitato la disciplina della connessione ma ne ha anche limitato l’operatività nella fase delle indagini preliminari. Pertanto i procedimenti connessi costituiscono un’ipotesi di indagine collegate e legittimano gli uffici requirenti che procedono alla loro trattazione a mantenere la titolarità delle indagini relative al reato commesso nel loro territorio, e tale meccanismo di coordinamento è volto a colmare il vuoto creato dalla mancata previsione dell’istituto del contrasto positivo.

In realtà l’aspettativa del legislatore circa il coordinamento spontaneo venne delusa, in quanto emerse ben presto la scarsa inefficacia della relativa previsione, la quale a detta di molti, conteneva

34 G. Melillo, Procedimenti connessi e coordinamento delle indagini in materia di

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raccomandazioni e non norme35, non aveva dunque natura precettiva bensì valore di direttiva programmatica36; infatti tale coordinamento ha

natura consensuale ed inoltre deve derivare dall’autonoma decisione di ciascun pubblico ministero competente. In questo modo il coordinamento si presenta eventuale e spontaneo,37 rimesso cioè alla libera valutazione dei singoli uffici di procura competenti allo svolgimento delle rispettive indagini. In conclusione la disposizione, per tutelare l’autonomia dei singoli uffici, non ha voluto prevedere uno strumento giuridico o un intervento esterno (in particolare l’intervento sarebbe dovuto provenire dai procuratori generali) volto ad assicurare l’effettività di tale coordinamento, correndo il rischio, peraltro verificatosi, di risultare inidonea ad assicurare l’effettività delle necessarie condivisioni conoscitive tra gli organi inquirenti. 38 Come chiaramente espresse Falcone: ”Il prevedere che il coordinamento

debba operare su base consensuale e debba risultare dall’autonoma decisione di ciascun pubblico ministero competente si risolverà nell’assoluta aleatorietà del coordinamento stesso e favorirà l’accentuazione dei personalismi tra i vari titolari delle inchieste che possono essere affrontate solo in una visione globale ed unitaria”39.

Ecco perché progressivamente sono stati introdotti dei controlli autoritativi, tra i primi ricordiamo l’art 118 bis disp. att. c.p.p.40, il quale

obbliga il pubblico ministero a segnalare al procuratore generale presso la corte di appello, tutti i procedimenti che hanno ad oggetto indagini

35 F. Cordero, Codice di procedura penale, Torino, 1990, p. 420, per il quale il senso

dell’art. 371 sarebbe: “chi vuole coopera”.

36 L. Ferrajoli, Il coordinamento delle indagini nei procedimenti per delitti di

criminalità organizzata, in Mafia e criminalità organizzata, p. 439

37 Alcuni studiosi, riguardo alla disposizione di cui art. 371, preferiscono parlare di

cooperazione e non di coordinamento, poiché il secondo presuppone sempre un soggetto coordinatore che non era appunto presente nelle dinamiche della disposizione presa in considerazione, in questo senso De Leo, Il coordinamento giudiziario in Italia e in Europa, in Questione Giustizia, 2005, p. 1120

38 Ibidem

39 G. Falcone, Lotta alla criminalità organizzata e nuovo modello processuale, in Ind.

Pen., 1989, p. 436

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collegate, e in ogni caso tutti i procedimenti che abbiano come oggetto i delitti di grave allarme sociale indicati nell’art. 407, comma 2 lettera

a). La disposizione rende il procuratore generale titolare di poteri di

sollecitazione e di impulso potendo, nel caso in cui la notizia comunicatagli riguardi un reato che rientri nel novero dei delitti ivi previsti, dare segnalazione agli uffici interessati ed indire riunioni tra i procuratori della Repubblica che procedono ad indagini collegate. L’art. 118b bis, ha cercato di colmare il coordinamento “artigianale” e spontaneo dell’art. 371 c.p.p., prevedendo poteri di informazione e di iniziativa in capo al procuratore generale, attribuzione che non era bene vista da Falcone il quale segnalava: “come è possibile che le indagini degli uffici di pubblico ministero vengano coordinate da un ufficio, che sulla base del codice, non ha competenze in materia di indagini preliminari?”41 Grandi risultati non erano stati ottenuti neppure con la

previsione di una inedita figura di avocazione da parte del procuratore generale, con riferimento alle ipotesi in cui, nei medesimi procedimenti, nonostante le iniziative adottate, non fosse stato promosso o non risultasse effettivo il coordinamento delle indagini previsto dall’art. 371.42 Sullo sfondo vi era inoltre la consapevolezza che difficilmente si

sarebbero ottenuti maggiori risultati attraverso mere convocazioni di conferenze e di riunioni fra gli uffici del pubblico ministero, si auspicava invero una maggiore professionalità e strutture organizzative più concrete.

Giungendo al termine dell’analisi circa gli aspetti innovativi del nuovo codice, non resta che domandarci se effettivamente tale impianto sia risultato più incisivo e più convincente nella lotta contro la criminalità organizzata. Molte riserve erano infatti state avanzate dalla magistratura la quale temeva che il nuovo modello processuale rendesse

41 G. Falcone, Sull’efficacia di alcuni provvedimenti d’emergenza, in Interventi e

proposte, (1982-1992), p. 27

42 V. Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata,

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meno efficiente la lotta giudiziaria nei confronti dei contropoteri. I timori discendevano dalla constatazione che con lo schema dell’istruzione formale si era riusciti ad ottenere importanti risultati in processi particolarmente difficili, facendo leva sulla continuità delle indagini che veniva assicurata dal sistema inquisitorio. Evidentemente la magistratura in un primo momento non era in grado di percepire le potenzialità offerte dal nuovo modulo investigativo, infatti oltre a prevedere una durata massima delle indagini più lunga alla quale quindi corrispondeva una maggiore segretezza, il nuovo modello processuale rendeva più stringente il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, attribuendo quindi maggiore incisività all’attività investigativa. Ma a pochi anni di distanza dall’entrata in vigore del nuovo codice, il bilancio registrava competenze frammentate e polverizzate in un numero alto di procure, tale infatti non era altro che il riflesso della riduzione delle ipotesi di connessione, per assecondare il famoso slogan “no ai maxiprocessi, sì alle maxi indagini”43. Apparve

chiara quindi l’esigenza di ampliare nuovamente l’operatività dell’istituto della connessione per evitare di disperdere tutto il sapere accumulato e raccolto. Dunque la realtà mostrò quanto ancora vi fosse bisogno di modellare il processo in base alle esigenze poste dai contropoteri criminali, ed allora, sulla base dell’art. 7 della legge delega la quale aveva previsto la possibilità di emanare, entro tre anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, disposizioni integrative e correttive dello stesso codice di rito, si è riaperta una stagione di interventi novellistici che hanno innescato il vero regime differenziato nella lotta contro la criminalità organizzata.

43 M.Maddalena, I problemi pratici delle inchieste di criminalità organizzata, in

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Capitolo II

I MODELLI ORGANIZZATIVI

SOTTO IL PROFILO INVESTIGATIVO

SOMMARIO: 1. L’innesto del “doppio binario”. - 2. Il coordinamento delle forze di polizia e la nascita della Direzione investigativa antimafia. - 3. Il decreto 367/ 1991: ampliamento delle ipotesi di connessione e contrasti positivi. - 3.1. Direzioni distrettuali antimafia: profili di specialità ed estensione dell’ambito distrettuale. - 3.2. I dubbi relativi alla costituzione della Direzione nazionale antimafia. - 3.3 I poteri del Procuratore nazionale antimafia: art. 371 bis c.p.p.. – 3.4 Un’ipotesi di sconnessione normativa. - 3.5 La Dna secondo le altre disposizioni legislative: una “visione integrata”. – 3.6 Ulteriore deroga alle regole di determinazione della competenza: il g.i.p. distrettuale. - 4. Eurojust: una risposta al crimine globalizzato

1. L’innesto del “doppio binario”

Nel paragrafo precedente abbiamo messo in evidenza la specialità, piuttosto timida, che il nuovo codice aveva apportato nelle tecniche di lotta giudiziaria contro la criminalità organizzata; invero, oltre alla espressa estensione della durata massima delle indagini preliminari, l’innovazione più significativa era contenuta nell’art. 371 c.p.p., il quale però non ebbe il “coraggio” di prescrivere in maniera imperativa il coordinamento investigativo, confidando (forse troppo) e relegando la sua applicabilità alla mera volontà degli uffici del pubblico ministero. Abbiamo visto altresì che, ai fini di un coordinamento più efficiente, poco hanno contribuito le rettifiche intervenute a seguito, si allude all’art. 118 bis disp. att. ed alla previsione di una inedita possibilità di avocazione, da parte del procuratore generale, in caso di ineffettivo collegamento delle indagini tra gli uffici di procura.

Pertanto riemerse l’esigenza di prefigurare un’adeguata strategia, sotto il profilo degli strumenti normativi, ma soprattutto di predisporre apparati organizzativi idonei e modellati sulle esigenze della criminalità

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organizzata; era giunto quindi il momento di fronteggiare “l’organizzazione criminale attraverso una vera e propria organizzazione dell’indagine”44, in modo da archiviare il pensiero, tra

l’altro di molti, che si stesse combattendo la criminalità organizzata in maniera completamente disorganizzata. 45 L’intento innovatore si è sviluppato lungo due direttrici: attraverso l’introduzione di vere e proprie strutture investigative antimafia, quali la Direziona Distrettuale Antimafia, Direzione Nazionale Antimafia e la Direzione investigativa, e attraverso il potenziamento degli strumenti investigativi, avvenuto grazia al rafforzamento dei rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero e grazie ad un nuovo regime differenziato delle indagini preliminari. A seguito di questi interventi l’impianto del codice si è dunque arricchito, in tema di criminalità organizzata, di una disciplina dalla portata derogatoria, all’interno della quale si inscrivono strutture e strumenti investigativi speciali, rispetto alla disciplina ordinaria. Si è pertanto parlato di un “doppio binario” che corre all’interno dello stesso codice, essendovi contenuti degli istituti processuali che si declinano in maniera peculiare, laddove siano rivolti al fenomeno della grande criminalità. Attorno alla progressiva introduzione, di sottosistemi normativi, espressione di regimi processuali differenziati, molti studiosi hanno denunciato la perdita di organicità, di coerenza del codice ed una consequenziale disgregazione del sistema processuale penale. Si è parlato infatti di “particolarismo processuale”46 per designare il carattere speciale del processo penale predicato verso i fenomeni di criminalità

44 Relazione del Governo al disegno di legge n. 3066/S di conversione in legge del

decreto-legge 20 novembre 1991 n. 367

45 G. Falcone, I provvedimenti d’emergenza in materia di coordinamento investigativo,

in Interventi e proposte, (1982-1992), p. 33

46 P. Maggio, Prova e valutazione giudiziale dei comportamenti mafiosi, in Scenari di

mafia, Giappicchelli, Torino 2010, p. 502. E’ opportuno rilevare che l’esistenza di una disciplina processuale ad hoc per i fatti di mafia non è priva di critiche, soprattutto da parte di coloro i quali ritengono che quelle disposizioni speciali rechino pregiudizio al diritto di difesa dell’imputato, in questo senso si esprime la Giunta dell’Unione delle Camere Penali italiani nel documento, del 28 ottobre 2008, intitolato Doppio binario: una deriva autoritaria del processo su cui iniziare una serie riflessione, su www.camerepenali.it

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organizzata. E’ vero che l’avanzare di una pretesa punitiva speciale asseconda maggiormente istanze sostanzialistiche di difesa sociale, apportando una flessibilizzazione all’assetto delle garanzie individuali, ma è altrettanto vero che sarebbe utopistico pensare di destinare qualsiasi ipotesi di reato, ad un unico modello processuale. Pertanto, se una diversificazione delle regole processuali per fatti di criminalità organizzata è irrinunciabile, alcuni indirizzi suggeriscono l’opportunità di “depurare il testo codicistico dalle norme costituenti il sottosistema regolatore delle forme processuali per l’accertamento dei reati in materia di criminalità organizzata e dei reati assimilati”47, allestendo quindi un

corpus normativo autonomo ed esterno al codice.48

Tralasciando il nomen sotto il quale viene sussunta tale politica legislativa, preme sottolineare che le novità di cui stiamo trattando, ancora una volta, non sono derivate da un progetto organico, conseguenza di una valutazione complessiva del fenomeno, piuttosto esse sono discese da singoli e contingenti momenti di lucidità legislativa, occasionati magari da “vistose disfunzioni nell’operatività di determinati meccanismi normativi, o, addirittura, all’esigenza di risolvere i problemi derivanti da certe assurde interpretazioni giurisprudenziali”.49 Viene dunque a riconfermarsi quell’andamento a

“fisarmonica” di cui abbiamo parlato, e ciò è testimoniato dal fatto che tutte le leggi antimafia sono successive ai grandi delitti, invero la legislazione degli anni novanta è stata preceduta ed accompagnata “da un fortissimo clima di tensione dovuto ad un eccezionale numero di omicidi nelle regioni tradizionalmente infestate dalla mafia”, in particolare “le misure antimafia contenute nel decreto legge 8 giugno 1991, sono state introdotte quindici giorni dopo l’assassinio del giudice

47 E. Amodio, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, in Ind. Pen.,

2003, p. 16

48 L’esigenza di costruire un corpus normativo omogeneo è avvenuta in parte con il

decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, introduttivo del Codice penale antimafia, il quale provvede ad armonizzare la disciplina relativa alle misure di prevenzione e la materia della documentazione antimafia.

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Falcone e furono convertite in legge 7 agosto 1992, diciannove giorni dopo l’assassinio del giudice Borsellino. Le prime proposte di riforma del codice di procedura penale, accolte in quel decreto, erano state avanzate dalla Commissione antimafia nell’ottobre 1991”.50

Non troveremo quindi un unico intervento legislativo, bensì diversi provvedimenti dal contenuto non omogeneo, poiché le novelle non afferiscono solo all’ambito processuale, ma anche all’ordinamento giudiziario e penitenziario. Per evitare confusione nella disamina dei vari interventi, il mio approccio seguirà l’ordine cronologico dei tre interventi legislativi che interessano l’argomento; in particolare si prenderà le mosse dal decreto legge 29 ottobre 1991, n 345, il quale ha istituito la Direzione Investigativa Antimafia; il decreto legge 20 novembre 1991 n. 367, il quale non solo ha ampliato le ipotesi di connessione, vanificando quindi il recente intervento inscritto nella filosofia opposta, ma ha introdotto due nuovi organi antimafia, la DNA e le DDA, elevandosi la prima sul piano nazionale, centrale e le seconde operanti a livello periferico. E’proprio attraverso l’insediamento di questi nuovi organi antimafia che passa, e si concretizza allo stesso tempo, quell’esigenza di “coordinamento delle attività informative ed investigative” e “coordinamento delle indagini”, proprio come recitano le rubriche dei rispettivi testi legislativi. Dalla lettura sistematica di questi due interventi legislativi, si evince che allo spirito di parcellizzazione del procedimento, fatto proprio dal legislatore del 1988, si sostituisce una politica di centralizzazione delle investigazioni, quale unica strada di contrasto alla delinquenza organizzata. Tra le ragioni sottese all’intento accentratore, aveva contribuito lo sviluppo di organismi centralizzati di polizia giudiziaria, quali appunto la DIA, ai quali però non corrispondevano altrettante strutture centralizzate sotto il profilo dell’autorità giudiziaria.51, vi era infatti l’esigenza di colmare il

50 Relazione della Commissione parlamentare antimafia, 6 aprile 1993

51 G. Salvi, Commento al d.l. 20 novembre 1992, n. 367, in Legislazione penale, 1992,

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