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Capitolo II LA NASCITA DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA

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Capitolo II

LA NASCITA DELLA GIURISDIZIONE

AMMINISTRATIVA

1. La nascita del contenzioso amministrativo nel sistema

francese

Si tratta di capire quando e come nasce la giurisdizione amministrativa e in particolare perché ad un certo momento storico si comincia a sentirne «l’esigenza».

Molti studiosi, tra cui Virga, ritengono che questa nasca con «l’affermarsi dello Stato di Diritto», quando si cominciarono a tutelare le posizioni dei cittadini «non solo nei confronti degli altri cittadini, ma anche nei confronti della Pubblica Amministrazione»1. Mentre altri tra cui Nigro

e Saitta, affermano che tale esigenza viene a nascere prima, già nel XIX secolo, nel periodo delle monarchie assolute, nell’età del c.d. Stato

Amministrativo, cioè quella fase in cui la Pubblica Amministrazione era

dotata non solo di un proprio «statuto speciale, che le attribuiva poteri di imperio capaci di incidere unilateralmente e coattivamente nella sfera giuridica dei cittadini»2 ma anche di un diritto e un giudice «proprio». Tale

sistema si afferma con le lotte accentratrici delle monarchie contro gli istituti feudali: lo Stato Moderno nasce come Stato Amministrativo, caratterizzato da un lato dalla figura unica e unitaria del monarca assoluto, che impersona lo Stato, dall’altro dalla struttura unitaria degli uffici amministrativi, diversi dagli istituti feudali.

1 P.Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1971, p.3. 2 M.Nigro, Giustizia amministrativa, a cura di E.Cardi e A.Nigro, VI, Bologna, 2000, p.23.

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In particolare, in Francia, il contenzioso amministrativo nacque quando il Re cominciò a sottrarre ai Parlamenti e alla giurisdizione del giudice ordinario, il controllo sull’esercizio dei propri poteri e sull’azione autoritativa dello stato3: queste materie cominciarono a essere affidate a

«una specie di tribunale, che presentasse ai suoi sudditi qualche apparenza di giustizia, senza farne temere a lui la realtà»4. Conferma di tale separazione

tra autorità amministrative e quelle giudiziarie, la ritroviamo anche nell'editto

di Saint-Germain del 1641, da cui emerge la distinzione tra liti che spettano

alla giurisdizione delle Cours de parlement e liti riguardanti il Re e le amministrazioni, sottratte a tali giudici, e attribuite a «giudici speciali», quali il Re, il Conseil du roi, le Corti e Camere dei conti e gli Intendenti, cioè quegli amministratori-giudici, che costituiscono il primo nucleo del futuro contenzioso amministrativo.

Tali eccezionali competenze giurisdizionali attribuite ad organi amministrativi e la posizione del monarca «vogliono sottrarre l'amministrazione regia ai controlli giurisdizionali usuali e non mirano ancora a modificare i rapporti fra amministrazione e sudditi con la previsione di qualche tutela per questi ultimi oltre il “grazioso” ricorso alla magnanimità regia»5, infatti esse rispondono al principio del rafforzamento

dell'amministrazione piuttosto che a quello del controllo dell'operato di quest'ultima.

Queste rilevanti innovazioni si diffusero non solo in Francia, ma anche in Germania e in Italia, nello stato pre-unitario, come analizzeremo opportunamente in seguito.

La Rivoluzione francese del 1789, garantì poi il perfezionamento del sistema: da un lato si cristallizzò il principio di separazione dei poteri, per cui, secondo la massima «juger l'administration, c'est encore administrer»6, i tribunali

3 F.Saitta, Commento all’art.113, in Commentario alla costituzione, a cura di

Bifulco-Celotto-Olivetti, vol. III, Torino, 2006.

4 A. de Tocqueville, L'antico regime e la rivoluzione, Milano, 1989, p.95 ss.

5 G.S.Pene Vidari, voce Giustizia amministrativa (storia), in Digesto pubbl., VII, Torino, p.502

ss., anno di pubblicazione 1991.

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ordinari dovevano astenersi da qualsiasi ingerenza sull’operato dell’esecutivo; dall’altro si tentò di evitare che giudizi reazionari ostacolassero le riforme in corso.

Si cercò, lentamente, di garantire dei primi meccanismi di tutela al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, dato che ne erano completamente sprovvisti, in quanto considerati solo ed esclusivamente come sudditi, seppur incontrando notevoli difficoltà a causa della resistenza dell’esecutivo a subire controlli esterni. Queste opposte esigenze, sia dell’amministrazione attiva, per evitare controlli, sia del cittadino, per ricevere finalmente una tutela, portarono, nel 1799, alla nascita del modello del «contentieux administratif», in cui i giudici amministrativi si distaccano e si differenziano dalla amministrazione attiva.

È proprio in questo periodo che si istituì, a livello centrale, il Consiglio di Stato, «figlio» del più antico Consiglio del Re7, e a livello

periferico, i Consigli di prefettura, formati da funzionari amministrativi e presieduti da prefetti, con competenza su determinate controversie tassativamente individuate8: si cominciano ad affermare i principi per cui

«administrer est l'affaire d'un seul», e «juger est le fait de plusieurs»9, che

permettevano di distinguere l’amministrazione attiva dalla giustizia amministrativa.

Con il periodo napoleonico, l’esperienza del contenzioso amministrativo si sviluppa ancora di più: con il decreto dell'11 giugno del 1806, nascono le Commission du Contentieux, interne al Consiglio di Stato, e solo con il decreto del 22 luglio successivo, si istituisce un procedimento autonomo. Il Consiglio di Stato, in questo periodo assume un ruolo centrale, come organo supremo del contenzioso amministrativo, di grado superiore rispetto ai Consigli di prefettura e altri ministri, che costituivano in alcune materie il primo grado di tutela giurisdizionale.

7 Art. 52 Costituzione 22 frimaire, 13 dicembre 1799. 8 Legge 28 pluviose, 17 febbraio 1800.

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Questo modello ha rivestito un ruolo fondamentale, è diventato un punto di rifermento per numerosi Paesi europei – quali Spagna, Portogallo, Grecia, Romania – e per lo stesso Regno d'Italia.

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2. L’assetto nello stato preunitario

In Italia, il sistema di giustizia amministrativa non nasce grazie all’operato del legislatore, con l’emanazione di un unico atto normativo, ma si è formato mediante diversi atti di legge, adottati in periodi storici diversi, integrati dall’opera della dottrina e della giurisprudenza, peraltro, talvolta contrari alla volontà del legislatore.

Per la prima volta nel nostro ordinamento, il sistema di giustizia amministrativa viene introdotto nel Terzo Statuto costituzionale del Regno d’Italia, del marzo 1805, che istituisce il Consiglio di Stato ed affida nello specifico i contenziosi amministrativi all’apposita Sezione del Consiglio degli Uditori. Successivamente con un dcr. dell’8 giugno 1805, viene affidato ai Consigli di prefettura il contenzioso amministrativo di primo grado ed al Consiglio di Stato quello di secondo, anticipando di un anno il modello francese.

Nei vari stati italiani, in generale, la tutela dei diritti individuali era “assicurata” da ricorsi alle stesse autorità amministrative e al Principe, mezzi quindi meramente illusori10, mentre, nello specifico, la situazione era

diversa da stato a stato.

Possiamo in questa sede esplicare, alcune tra le esperienze più rilevanti. In Lombardia si segnala un deficit rispetto al modello del contenzioso amministrativo, in quanto le questioni di natura pubblica, ad esempio in tema di acque, strade, boschi, imposte e in generale ogni conflitto derivante da un atto amministrativo, non erano devolute a organi giurisdizionali, bensì alla stessa pubblica amministrazione: è evidente la scarnezza dal punto di vista procedurale e il ruolo predominante dell’amministrazione attiva, sebbene fossero stati introdotti istituti processuali rilevanti, come l'iniziativa di parte, la prova testimoniale, l'interrogatorio delle parti, la previsione di fasi orali e dibattimentali, e l'obbligo della motivazione, seppur sommaria.

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Nel Granducato di Toscana la presenza o meno del contenzioso amministrativo era incerta: secondo alcuni11 il contenzioso amministrativo

in senso proprio non era presente, in quanto erano affidate ad un unico giudice – secondo il principio della giurisdizione unica– tutte le controversie, salvo questioni eccezionali come in materia di pensioni, acque e contratti pubblici in materia di appalto12; altri invece, primo tra tutti

Cammeo, avendo analizzato minuziosamente legislazione e giurisprudenza del tempo, affermava la presenza di specifici organi di giustizia amministrativa, come la Corte dei conti, il Consiglio di Stato e il Consiglio di prefettura13.

Nel Ducato di Parma era presente un Consiglio di prefettura, avente competenza nella risoluzione di affari amministrativi, a cui, con un regolamento organico del 1814, si affianca un Consiglio di Stato, diviso in una sezione ordinaria e una straordinaria.

Infine, nel Regno di Napoli vigeva la legge sul contenzioso amministrativo del 21 marzo 1817, per cui erano di competenza del giudice amministrativo – i Consigli d’intendenza, in primo grado, e la Gran Corte dei

conti, in appello–, materie come strade, acque e lavori pubblici, che

interessavano direttamente o indirettamente la pubblica amministrazione, escludendo però espressamente le questioni riguardanti la proprietà di immobili, azioni civili e, in generale, dove il contenzioso non aveva origine da un atto amministrativo illegittimo. Le decisioni della Gran Corte non erano esecutive senza l’approvazione del Re: come molti hanno affermato, vigeva il principio della giustizia ritenuta. Il contenzioso amministrativo napoletano si evidenzia dunque per la completezza della struttura e delle garanzie riconosciute alle parti e per il forte contributo scientifico in ambito amministrativo.

Nonostante questo particolare sviluppo del sistema napoletano, il punto di partenza per la nascita del sistema di giustizia amministrativa italiano è da rinvenire nella legislazione piemontese, del Regno di Sardegna.

11 M.Bertetti, Il contenzioso amministrativo in Italia, Torino, 1865, p.74.

12 G.Astuti, L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, Napoli, 1966, p.97ss. 13 F.Cammeo, Commentario alle leggi sulla giustizia amministrativa, I, Milano, 1911, p.377.

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Qui, avendo a monte una situazione in cui i contenziosi contro l’amministrazione erano spartiti in via piuttosto confusionaria tra «intendenti» e «tribunali di prefettura», il contenzioso amministrativo venne inserito per la prima volta con le RR. Patenti 25 agosto e 31 dicembre del 1842. Queste distinguevano le questioni economiche, cioè quelle puramente amministrative assegnate agli «intendenti», da quelle amministrative contenziose, assegnate in primo grado ai Consiglio di intendenza, collegi speciali dotati di giurisdizione, e alla Camera dei conti in appello, nelle cui decisioni il Re14

non interferiva in alcun modo, nemmeno sotto forma di visto di esecutività.

Con lo Statuto albertino del 1848, cominciò una fase di rivoluzione di tutto il sistema di giustizia amministrativa, che si concluse solo nel 1889, quando nacque effettivamente la giurisdizione amministrativa. In questo nuovo contesto le due leggi regie del 1842 risultarono inadatte e insufficienti a regolare la materia e il modello francese risultava ormai superato, dunque si presentarono diversi tentativi di riforma: in conformità con la costituzione belga del 1831 – basata sul principio generale della

giurisdizione unica, per cui il giudice ordinario aveva la competenza a

sindacare la legalità degli atti amministrativi, potendone pronunciare

l’annullamento e la modifica ma senza poterli valutare nel merito–, venne

presentato dal ministro Galvagno il progetto di legge del 2 dicembre del 1850, in cui si proponeva l’abolizione del contenzioso amministrativo, sopprimendo peraltro i giudici competenti in materia, e, conseguentemente, la devoluzione alla giurisdizione ordinaria di tutti i conflitti contro l’amministrazione, in ambito civile e penale, separando la competenza di quest’ultima dalla amministrazione, alla luce della distinzione tra diritti e interessi15: il giudice ordinario era stato individuato

come garante, seppur in via limitata perché non poteva contestare nel merito l’attività amministrativa.

14 M.Clarich, La giustizia, in Tratt. dir.amm., a cura di Cassese, II, Milano, 2003, p.2035;

G.S.Pene Vidari, voce Giustizia amministrativa (storia), in cit., 1991, p.506.

15 M.S.Giannini- A.Piras, voce Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti

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Questa corrente di matrice liberale, in cui rientrava anche Boncompagni, non riuscì a prendere campo, tant’è che il progetto di legge di Galvagno non arrivò mai alla discussione. Dopo circa un decennio di discussioni e contrasti, prevalse la tendenza, avanzata dal ministro Rattazzi, di proporre un mero riordinamento del contenzioso amministrativo: dopo tre progetti di legge andati a vuoto, furono emanati contemporaneamente quattro decreti reali –r.d. 30 ottobre 1859, n. 3705-3708–, con cui, sostituendo la Camera dei conti con la Corte dei conti, vennero riordinate le competenze di questa ed alcune di esse vennero attribuite al Consiglio di Stato.

Il sistema di giustizia amministrativo sardo, allora, risultava così ordinato: accanto ai c.d. «giudici ordinari del contenzioso amministrativo», costituiti dai Consigli del governo in primo grado e dal Consiglio di Stato, in appello, vi erano i c.d. giudici speciali del contenzioso. Le competenze del giudice ordinario di primo grado erano specificamente enumerate – salvo alcuni ampliamenti della giurisprudenza, in casi connessi per analogia– e comprendevano controversie riguardanti diritti civili (tra privati e pubblica amministrazione, principalmente in materia di appalti), controversie di

diritto pubblico (di natura patrimoniale, come imposte e tasse, o di natura

amministrativa, riguardo strade, confini acque pubbliche) e contravvenzioni alle leggi su imposte dirette, le gabelle e sui beni demaniali.

I giudici speciali del contenzioso amministrativo, invece, avevano competenze specifiche in materia contabile, in materia di opere pie e di istruzione pubblica. Accanto a questi poi residuava una competenza della giurisdizione civile, per ogni conflitto in cui lo stato rivestiva una posizione di puro diritto privato o, di rapporti di diritto pubblico eccezionalmente attribuitile, come in materia di imposte dirette ed espropriazioni.

Come hanno sottolineato alcuni autori16, anche se la scelta di Rattazzi

avrebbe potuto teoricamente rappresentare una valida difesa dall'unicità della giurisdizione, anche per il riconoscimento della «qualifica dei giudici

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del contenzioso come «giudici ordinari»17, in realtà, le stesse decisioni del

Consiglio di Stato sabaudo dimostrarono che ormai si era affermata la tendenza a ridurre la portata del contenzioso amministrativo18. A ciò si

aggiunga che erano rimaste prive di tutela, in quanto non attribuite alla cognizione dei tribunali ordinari, numerose fattispecie, nelle quali il cittadino era costretto a rivolgersi alla stessa amministrazione attiva: era un sistema che strideva con la dottrina liberale che si stava affermando, dunque rappresentò un'ulteriore ragione giustificativa dell'abolizione dell'intero sistema del contenzioso amministrativo19.

17 S.Sambataro, L'abolizione del contenzioso nel sistema di giustizia amministrativa, Milano, 1977,

p.113.

18 G.S.Pene Vidari, voce Giustizia amministrativa (storia), in cit., 1991, p.506. 19 M.Clarich, cit., 2003, p.2036.

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3. La legge abolitiva del contenzioso amministrativo, 20

marzo 1865, n. 2248

Nel 1861, a seguito dell’unificazione politica dell’Italia, si necessitava anche di un’unificazione dal punto di vista della giustizia amministrativa, dal momento che la situazione presente era paragonabile ad una sorta di

mosaico20 di ordinamenti diversi. I regi decreti del 1859, si applicavano non solo nel Regno di Sardegna, ma erano stati estesi anche ai governi provvisori di Lombardia e Marche; nel Regno di Napoli, nell’ex Ducato di Parma e in Toscana si era conservato l’assetto precedente; in Umbria e Romagna i governi provvisori che si erano insediati avevano inserito un sistema di giurisdizione unica. È evidente la forte esigenza di uniformare e unificare la giurisdizione amministrativa all’interno del nuovo stato unitario, ispirandosi alle altre esperienze europee, quali da un lato il modello francese, dall’altro quello belga.

Proprio in virtù di questa scelta, le forze politiche si divisero. La parte maggioritaria, di stampo liberale, alla quale appartenevano personalità come Minghetti, Boncompagni, sosteneva l’abolizione del

contenzioso amministrativo e la conseguente attribuzione al giudice ordinario

del potere di conoscere su diritti, civili e politici, di cittadini lesi dalla pubblica amministrazione: giudice e amministrazione dovevano essere due poteri separati, anche e soprattutto quando il primo doveva giudicare l’operato della seconda.

L’altra parte, minoritaria, dove troviamo figure come Crispi e Rattazzi, sosteneva invece il mantenimento e il miglioramento del contenzioso amministrativo, in via «autoritaria» e «garantistica».

Dopo diversi tentativi di riforma non andati in porto, si arrivò nel 1864 ad un nuovo progetto emanato da Peruzzi, che «dopo una amplissima discussione, durante ben sedici sedute dal 9 al 22 giugno 1864»21, fu

approvato dalle Camere con piccole modifiche, giungendo così

20 M.Nigro, cit., 2000, p.62. 21 G.Astuti, cit., 1966, p.101.

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all’approvazione della legge 20 marzo 1865, n. 2248, con cui all’allegato E si l’abolì il contenzioso amministrativo.

Viene ad affermarsi un sistema in cui, ex art. 1 della suddetta legge, si dichiarano aboliti i «tribunali speciali attualmente investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo», devolvendo ex art. 2 «alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione», mentre secondo l’art. 3 «gli affari non compresi nell'articolo precedente» sono di competenza delle autorità amministrative, quindi per le materie residuali, viene a delinearsi un criterio in negativo per cui tutto ciò che non ha la forma di diritto soggettivo perfetto, quindi gli interessi, è lasciato alla mera valutazione della stessa amministrazione.

Il discrimen su cui si basava il riparto di competenze era quindi costituito non dalla natura della parte resistente – come cittadino privato o come pubblica amministrazione–, ma dalla situazione giuridica soggettiva, individuata nella formula particolarmente ambigua di «diritto civile e politico», per cui, in presenza dello stesso è necessario andare di fronte al giudice ordinario, anche se risulta interessata la pubblica amministrazione, mentre per tutte le altre situazioni si andrà di fronte all’amministrazione stessa. La nozione di «diritto civile e politico» era interpretata in modo restrittivo22 in

quanto, pur ricomprendendo sicuramente i diritti di partecipazione politica, era incerto se fossero ricompresi i diritti di libertà.

Se questi erano i c.d. limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario, dobbiamo ora valutarne i limiti interni, cioè le azioni esperibili di fronte allo stesso, definiti agli artt. 4 e 5.

All’art. 4, comma 1, rispetto alla cognizione del giudice ordinario, si afferma che quando questo deve occuparsi di un conflitto riguardante «un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa», esso deve limitarsi «a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio»: l’oggetto del sindacato del giudice allora non è l’atto

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stesso ma solamente gli effetti dello stesso sul diritto soggettivo. Il comma successivo poi riconferma la regola per cui «l'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative»: il giudice ordinario quindi non ha il potere di emanare sentenze costitutive né di sostituirsi alla pubblica amministrazione nelle attività ad essa riservate.

Infine, l’art. 5 attribuisce al giudice ordinario il potere di disapplicare gli atti illegittimi: «le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi».

Secondo Santi Romano23 dall'art. 4 non deriva «che l'autorità

giudiziaria debba sempre limitarsi ad una dichiarazione pura e semplice del diritto, e non possa in nessun caso procedere alla sua effettiva integrazione. Solo la modificazione e la revoca formale dell'atto amministrativo sono ad essa interdette, ma ciò non vieta l'emanazione di provvedimenti giudiziari che, senza pronunciare l'annullamento o la modificazione dell'atto amministrativo medesimo non tengano di questo conto – all’art. 5 – e, rispetto al caso deciso, lo privino di ogni suo effetto – all’art. 4 –».

La scelta di questo modello si rivelò profondamente inadeguata e

inidonea a tutelare i diritti di competenza del giudice ordinario, in quanto,

provocò di fatto una limitazione e una riduzione del sindacato verso il potere pubblico: potendo invocare la tutela giurisdizionale – ordinaria– per i soli casi di più grave lesione di diritti soggettivi, il cittadino era così costretto ad affidare la propria tutela ai soli ricorsi amministrativi24, che ovviamente non

offrivano sufficiente garanzia di giustizia. Samabataro, peraltro, facendo un confronto con il contenzioso amministrativo del Regno di Sardegna, è arrivato ad affermare che «nel 1865 si abolì non soltanto un “giudice” ma anche un “processo”»25.

23 S. Romano, Principi di diritto amministrativo, Milano, 1912, p.211.

24 F.Benvenuti, voce Giustizia amministrativa, in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970, p.590. 25 S.Sambataro, cit., 1977 p.8.

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Pertanto la scelta dell’unità giurisdizionale secondo molti non è di certo qualificabile come punto di partenza della giustizia amministrativa in Italia, anzi, non può che considerarsi un fallimento, un regresso che invece di garantire maggiore protezione e libertà per i cittadini, ha favorito le prerogative della Pubblica Amministrazione, nonché l’ampliamento delle sue attività, assolutamente svincolate da qualsiasi sindacato e controllo da parte del potere giudiziario: non solo questo era soggetto a restrizione nella sua attività di controllo, ma si trovava anche in una situazione di vera e propria inferiorità rispetto al potere esecutivo, dal momento che questo esercitava sui magistrati una sorveglianza morale e ne controllava l’operosità professionale e la condotta politica. Anche Spaventa ha sottolineato che, sebbene fosse «certamente una riforma liberale» ci si preoccupò «solo del lato meramente politico del diritto pubblico, cioè di quella parte dei

suddetti rapporti che concerne la partecipazione dei cittadini al governo dello Stato, come sono le questioni di elettorato, eleggibilità e simili, messe sotto la protezione sicura di giudici indipendenti e imparziali; trascurando quasi tutto il resto, cioè quei rapporti giuridici, o, se volete, interessi, d’indole puramente amministrativa, ma non meno importanti nella vita di un uomo moderno, che la qualità di elettore o di eleggibile»26.

In conclusione quindi possiamo dire che la legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 provocò un rilevante ampliamento dei poteri della pubblica amministrazione, lasciando i cittadini sprovvisti di tutela giurisdizionale. Come ha sottolineato Salandra, «tutto o quasi il diritto

pubblico rimaneva in balia di quella che può chiamarsi amministrazione arbitraria, non in quanto arbitrio implichi sempre, secondo il significato volgare della parola, ingiustizia o abuso, ma in quanto implica potere incensurabile, e quindi la possibilità di irrimediabili ingiustizie e abusi».

26 S. Spaventa, La giustizia nell'amministrazione, Torino, 1949, con altri scritti a cura di P.

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4. La Legge Crispi 31 marzo 1889, n. 5992

Fin da subito, si aprirono ampli dibattiti politici e dottrinali che criticavano il nuovo assetto e che avanzavano proposte per poter superare questa situazione, caratterizzata dalla presenza di una tutela limitata, né piena né effettiva. Primo tra tutti Francesco Crispi, che da sempre si era pronunciato in opposizione alla giurisdizione unica, nel 1873 avanzò un progetto di riforma che mirava ad inserire un giudizio contenzioso di fronte al Consiglio di Stato, per tutte quelle materie che risultavano di fatto sprovviste di tutela giurisdizionale, perché rientravano nella competenza dei tribunali amministrativi.

Rilevante in questo periodo di riforma fu anche il movimento politico e dottrinale liberale, che voleva sottoporre l’attività amministrativa al controllo giurisdizionale, rendendola «giustiziabile», creando – grazie anche al contributo della dottrina tedesca del Rechtsstaat– un giudice ad hoc per le liti contro la pubblica amministrazione: è proprio in questo contesto che si inserisce il contributo di personalità di spicco come Silvio Spaventa, con il già citato discorso di Bergamo del 6 maggio 1880, o come Marco Minghetti e Giuseppe Mantellini.

Successivamente vennero proposti altri progetti di legge, tra cui indichiamo quello del 1877 del ministro Nicotera e gli altri due di Depretis – uno del 1884 l’altro del 1886–, che erano diretti ad ampliare le competenze contenziose del Consiglio di Stato, ma nessuno di tali progetti andò in porto.

È solo con la legge Crispi del 31 marzo 1889, n. 5992 che si arriverà ad una nuova soluzione: si istituisce la IV Sezione del Consiglio di Stato, la quale, ex art. 3, era chiamata a «decidere sui ricorsi per incompetenza, per

eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di

un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d'individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell'autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni

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contenziose di corpi o collegi amministrativi»: doveva quindi risolvere ricorsi per vizi di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge di un atto o un provvedimento amministrativo, che avesse ad oggetto diritti individuali o di enti morali giuridici quindi in caso di lesione di un interesse giuridico rilevante del cittadino.

Il legislatore volle espressamente conferire tutela agli interessi, seppur con «un carattere di residualità»27 rispetto a quella del giudice ordinario,

affidandola ad un apposito organo, rimanendo però esclusi i ricorsi contro i provvedimenti emanati dal governo, nell'esercizio del potere politico: in caso di accoglimento del ricorso, ex art. 17 la IV Sezione poteva solamente

«annullare l'atto o il provvedimento, salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa».

Viene a delinearsi allora un sistema di giustizia amministrativa in cui il Consiglio di Stato aveva una competenza generale rispetto alla particolare situazione giuridica soggettiva dell’interesse, lesa da un atto o un provvedimento della pubblica amministrazione, distinguendo il sindacato di mera legittimità, che annullava l’atto per i soli tre vizi individuati da quello di merito, esteso ad altri casi, come in caso di ricorsi diretti ad ottenere dalla pubblica amministrazione l’adempimento dell’obbligo a conformarsi al giudicato, in violazione di un diritto civile e politico: si tratta di un modello dualistico e impugnatorio – o cassatorio– di fronte alla IV Sezione, verso atti amministrativi illegittimi lesivi di interessi.

Perché viene scelto proprio il Consiglio di Stato come organo giurisdizionale?

Questo rivestiva già un ruolo centrale, anche perché era dotato di una duplice natura, sia consultiva che giurisdizionale, infatti era giudice ordinario già nel contenzioso amministrativo finché non diventa giudice amministrativo speciale, poi nel 1865 diventa organo di impugnazione contro le decisioni della Corte dei conti e infine aveva anche un ruolo consultivo per i ricorsi straordinari al re, esprimendosi con pareri.

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Questa duplice natura è rimasta indefinita anche a seguito della riforma del 1889, dando vita ad un lungo dibattito dottrinale, che finirà solo con la successiva legge del 1907, anche se la giurisprudenza fin da subito ne aveva sostenuto la natura giurisdizionale.

A conclusione di questa opera di riforma, vennero istituiti prima con la legge 30 dicembre 1889, n. 5865, poi con il successivo T.U. del 10 febbraio 1890, n. 5921, degli organi giurisdizionali provinciali, le Giunte

provinciali amministrative –formate da due consiglieri di prefettura, quattro

membri elettivi nominati annualmente dal Consiglio provinciale e presieduti dal Prefetto–, la cui natura era incerta, se giurisdizionale o meramente amministrativa; a queste, con la legge del I maggio 1890, n. 6837, verrà affidata la risoluzione dei contenziosi amministrativi a livello locale.

Le principali critiche avanzate su questa legge riguardano l’assenza di un principio unico regolatore della competenza del contenzioso amministrativo – definito solo sulla base di casi empirici–, la confusione tra diritti soggettivi e interessi con la conseguente indeterminatezza dei caratteri di attribuzione affidata al Consiglio di Stato, nonché il mantenimento ingiustificato di numerose giurisdizioni speciali28. In questa

situazione particolarmente confusionaria e piena di equivoci nella distinzione tra diritti e interessi, alcuni pensavano che la giurisdizione amministrativa fosse ordinata secondo il criterio dell’enumerazione, altri pensavano che fosse una giurisdizione piena sia per quella di legittimità che per quella di merito, mentre altri ancora pensavano che solo la giurisdizione di merito fosse totalmente priva di limitazioni. Peraltro alcuni si domandavano se qualsiasi interesse, anche meramente morale, potesse essere suscettibile di ricorso: la dottrina era divisa anche se si propendeva a dare una risposta affermativa. Peraltro la citata legge n. 6837, come affermarono i ministri Meucci e Orlando, creò più dubbi che altro, perché

28 L.Meucci, Il principio organico del contenzioso amministrativo in ordine alle leggi recenti, in Giustizia

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oltra a non affermare un doppio grado di giurisdizione, risultava particolarmente criticabile l’enumerazione eseguita tramite un criterio

tabellare delle materie in cui il Consiglio di Stato poteva giudicare nel merito,

facendo nascere sempre più dubbi sulla distinzione tra quest’ultima e la giurisdizione di legittimità, quando invece si avrebbe voluto accentuare il «profilo obbiettivo» della funzione di tutela29.

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5. Dal 1890 fino alla Costituzione

Abbiamo visto come la legge Crispi non portò ai risultati sperati, anzi, poiché aveva aumentato le incertezze nel sistema, fin dal 1901 si susseguirono interventi di riforma che però non portarono a grandi risultati: si segnalano il progetto di legge Orlando del 16 maggio 1901 e l’istituzione nel 1902 di una speciale commissione per studiare e proporre modificazioni di leggi, che si sciolse nel 1904.

Il primo intervento rilevante si avrà solo con la legge 7 marzo 1907, n. 62, la quale al fine di porre rimedio all'accumulo di ricorsi alla IV Sezione verificatosi in quegli anni, porterà oltre che a misure di razionalizzazione del procedimento, alla istituzione della V Sezione del Consiglio di Stato, a cui venne deferita la giurisdizione di merito, ampliandola, lasciando alla IV Sezione il giudizio di legittimità. Vennero qui istituite le Sezioni Unite del Consiglio di Stato che tramite l’Adunanza Plenaria avevano la capacità di risolvere i conflitti tra le due sezioni e di decidere su questioni di diritto controverse tra le sezioni semplici.

L’elemento più rilevante della riforma però fu di conferire formalmente la natura giurisdizionale alle due sezioni, dando ai provvedimenti da esse emanate efficacia di giudicato e rendendoli impugnabili in Cassazione per difetto di giurisdizione: per la prima volta il Consiglio di Stato è «giudice» a tutti gli effetti.

È stata definita come «legge minore, che creava più problemi di quanti non

ne risolvesse»30, infatti si era creato un sistema particolarmente lento perché non vi erano organi ed uffici efficienti, nonché la Cassazione non faceva altro che negare il potere di conoscere su questioni preliminari e incidentali, di diritto civile o politico per il Consiglio di stato, aumentando ancora di più le incertezze. In più venne approvato il r.d. 17 agosto 1907, n. 64, un regolamento di procedura per i giudizi innanzi al Consiglio di Stato, rimasto

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in vigore fino all’emanazione del nuovo Codice del processo amministrativo.

Si auspicavano allora nuove riforme che portassero a una migliore ripartizione di competenze tra giudice ordinario e amministrativo, con distacco di quest’ultimo dal potere esecutivo e dalla Cassazione. Il presidente del consiglio Luzzatti istituì nel 1910 una commissione per le riforme, di cui facevano parte personalità come Mortara, Scajola, Salandra, Orlando, Codacci Pisanelli, i cui lavori finirono nel 1912 e la relazione venne pubblicata nel 1916, ma portò solo a «parziali modificazioni e prudenti

ritocchi».

Per avere una vera e propria riforma dovremo aspettare il 1923, con la legge delegata 30 dicembre, n. 2840, che – accogliendo parzialmente alcuni dei lavori della Commissione– unificò le due sezioni, rendendo il Consiglio di Stato come unico organo di impugnazione e introdusse la giurisdizione esclusiva ratione materiae per alcune controversie, estendendo la sua competenza a diritti soggettivi o strettamente connessi ad interessi legittimi o perché pregiudiziali o incidentali rispetto alla questione principale: si arrivò così alla emanazione del testo unico sul Consiglio di Stato –r.d. 26 giugno 1924, n. 1054.

È pacifico che la disciplina adottata da questi interventi legislativi sia di fatto stata presa in via affrettata, senza rispondere alle principali esigenze del tempo: non si riesce a definire il concetto di giurisdizione, il riparto tra tribunali ordinari e amministrativi, ma soprattutto, la distinzione tra diritti e interessi continua ad essere priva di definizione normativa. Si denota una eccessiva atteggiamento restìo del legislatore che solo l’operato della giurisprudenza riuscì a superare. Anche rispetto alla giurisdizione di merito, il legislatore avrebbe potuto definire in maniera più completa i connotati di questa attività, individuandone anche una più esatta ratio rispetto a quella individuata dall’art. 27 del T.U.

Dal momento che fino alla Costituzione poi non avvennero riforme rilevanti dal punto di vista legislativo, anche qui fu l’attività della

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giurisprudenza ad operare per garantire maggiori certezze: si raggiunsero risultati particolarmente rilevanti – specialmente se confrontati con quelli raggiunti dal legislatore–, come l’identificazione della causa petendi come criterio per la ripartizione di giurisdizione, la fissazione della natura di processo di parti del giudizio amministrativo; il consolidamento del concetto di eccesso di potere, che rientra definitivamente nelle giurisdizione del Consiglio di Stato; l’affermazione della natura sostanziale dell’interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa come giurisdizione piena, senza limiti di decadenza ma con il solo divieto per la sentenza di assumere la forma della condanna.

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6. Il nuovo assetto con la Costituzione Repubblicana

La Costituzione italiana ha fortemente contribuito alla formazione del sistema di giustizia amministrativa e alla definizione della giurisdizione amministrativa, completando, migliorando e «rinnovando» l’assetto e gli istituti presenti fino a quel momento.

Nonostante il tentativo – di cui Calamandrei fu il promotore– di tornare ad un modello di giurisdizione unica, dove la tutela giurisdizionale in generale, quindi anche quella contro gli atti della pubblica amministrazione, era affidata al solo giudice ordinario, l’Assemblea costituente, seguendo la tendenza conservatrice promossa da Mortati, decise comunque di impiantare un modello dualistico basato sulla situazione

giuridica soggettiva lesa, per cui i diritti soggettivi appartengono alla

giurisdizione del giudice ordinario, gli interessi legittimi a quella dei giudici amministrativi, peraltro con la possibilità per il legislatore di creare nuove giurisdizioni speciali per tali controversie31. Volendo superare la

concezione per cui la giurisdizione amministrativa risultasse minore ed eccezionale rispetto a quella ordinaria, nella Costituzione si volle affermare in via espressa l’assoluta parità tra le due giurisdizioni. Vennero portare avanti due direttive, in astratto contraddittorie, per cui da un lato si volle ampliare la funzione del giudice ordinario, conferendogli il potere di annullare atti della pubblica amministrazione, seppur in via eccezionale, dall’altro si estesero i poteri anche del giudice amministrativo, potendo ex art. 103 Cost., pronunciarsi anche in materia di diritti soggettivi. A conferma di questa seconda direttiva vi sono i successivi interventi legislativi, che definiscono il giudice amministrativo come «giudice ordinario della pubblica amministrazione»32 oppure come «giudice naturale» per

materie specifiche come quelle di amministrazione, economia e territorio. Oltre all’art. 24 Cost., che assicura la piena tutela giurisdizionale sia a diritti soggettivi che a interessi legittimi, anche nei confronti della pubblica

31 Seduta 21 novembre 1947, in A.C., V, p.3967 ss. 32 A.Pajno, in cit. 1994, p.472ss.

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amministrazione, dal punto di vista organizzativo, è rilevante anche l’art. 103 Cost., che individua come giudici amministrativi, oltre al Consiglio di Stato, la Corte dei conti, i Tribunali amministrativi regionali e i Tribunali militari, rimanendo dubbia la qualifica del Tribunale superiore delle acque pubbliche.

La Cassazione ha competenza per i ricorsi su decisioni di giudici amministrativi speciali e in caso di conflitti di giurisdizione, dovendosi peraltro coordinare con il sindacato della Corte costituzionale, rispetto alla competenza a giudicare sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello stato,

ex art. 134.

Con l’art. 113 peraltro, vennero riconosciti al giudice ordinario anche poteri di annullamento degli atti amministrativi, limitato al solo caso di

«violazione di diritti», senza poter condannare la pubblica amministrazione ad

un certo dare o facere, e in più anche il giudice amministrativo non poteva emettere qualsiasi tipo di sentenza. Per assicurare una tutela piena ed effettiva, si prevedeva infine la possibilità di esperire qualsiasi azione di fronte al giudice amministrativo.

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7. L’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali

L’art. 125 Cost., affermando che

«Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado,

secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione»,

contiene una direttiva di decentramento che oltre favorire la creazione di organi come il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana – e inizialmente anche la Giunta giurisdizionale amministrativa della Val d’Aosta che però venne subito definita incostituzionale insieme alle Giunte provinciali amministrative– ha portato alla emanazione della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, con cui si sono istituiti i Tribunali amministrativi regionali. Questa fu la decisione scelta a seguito di un lungo dibattito, cominciato subito dopo l’emanazione della Costituzione, in cui si proposero soluzioni molto diverse tra loro, infatti alcune favorivano il secondo grado di giurisdizione, altre invece lo limitavano, lasciando il Consiglio di Stato come unico organo presente; altri punti controversi erano le materie di cui il giudice amministrativo aveva competenza a giudicare nel merito e riguardo la composizione degli organi giudiziari, se da soli magistrati o anche soggetti eletti.

Con la suddetta legge, si è poi deciso definitivamente di affermare un sistema giurisdizionale diffuso, in cui i Tribunali amministrativi regionali, con sede in ogni capoluogo di Regione, sono organi di giustizia amministrativa di primo grado, con la possibilità di appellare di fronte al Consiglio di Stato, che rimane pressoché soltanto giudice di appello. I giudici dei Tribunali amministrativi, necessariamente professionisti, in parte scelti tra i magistrati del Consiglio di Stato, in parte tra i magistrati amministrativi regionali, potevano pronunciare oltre che sentenze costitutive e di accertamento, anche sentenze di condanna per la pubblica amministrazione, al pagamento di somme di denaro, «nella materia relativa

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a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e di merito», peraltro ampliate a molti altri casi.

Tra le tante novità inserite, è opportuno soffermarsi su quelle che riguardano la giurisdizione: recependo gli orientamenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato, si sono attribuite al giudice amministrativo le controversie in materia di operazioni elettorali relative alle elezioni amministrative e si è estesa la giurisdizione esclusiva ai ricorsi in materia di rapporti di concessione di beni e di servizi pubblici.

Pur essendo una delle riforme più rilevanti dal 1889, è stata particolarmente criticata dalla dottrina a causa di alcuni profili, specialmente di natura processuale, che spesso non combaciavano con le regole già esistenti, come ad esempio quella di aver creato un processo diverso nello svolgimento tra il primo e il secondo grado: è una disciplina insufficiente e non esauriente che non ha portato nemmeno ad una rivalutazione sistematica delle tutele contro gli atti della pubblica amministrazione.

I Tribunali amministrativi regionali hanno concretamente cominciato a funzionare nell’aprile del 1974, quando è venuta meno la competenza differita del Consiglio di Stato. Si è da lì registrato un amplio ricorso alla giustizia amministrativa rispetto al passato: questo significa che se da un lato l’aver «avvicinato il giudice ai centri periferici, ha soddisfatto il bisogno

di giustizia»33, dall’altro ha evidenziato il forte bisogno di una riforma

processuale, che superasse l’assetto eccessivamente arcaico ed elementare del tempo, cominciando a garantire fondamentali tutele per il privato, nonché conferendo garanzie di natura processuale come nuove istruzioni probatorie, il principio del contraddittorio in via piena ed effettiva e la tutela dei terzi.

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8. Le recenti riforme fino al Codice del processo

amministrativo

Le riforme più recenti, che, seppur in via frammentaria, hanno inciso su questioni di rito e di merito, hanno portato soprattutto ad un ampliamento della giurisdizione amministrativa esclusiva in alcune materie, come quella edilizia e urbanistica, in ordine agli accordi amministrativi, alla tutela della concorrenza e in tema di affidamento di lavori, servizi e forniture pubbliche: si era così formato un criterio di riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario basato sulla materia, ritenuto migliore di quello indicato all’art. 103 Cost., tant’è che, in questo senso, era stata promossa anche una riforma costituzionale, che però non ebbe successo.

È stata avanzata anche una riduzione della giurisdizione amministrativa in altre materie, specialmente a causa del c.d. «processo di

privatizzazione» degli anni 90 che ha conferito al giudice ordinario, in

particolare al giudice del lavoro, le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione –salvo questioni riguardanti procedure concorsuali e alcune cariche come magistrati e militari–: il giudice ordinario, a cui spettano conflitti riguardanti l’utilitas

singulorum, si distingue dal giudice amministrativo, che tutela invece l’utilitas publica.

Si trattava in generale di un sistema piuttosto rigido, che si avvicinava ai ricorsi gerarchici34, anche se colui che si pronunciava sulla legittimità

dell’atto era un giudice, soggetto terzo e imparziale, e non la pubblica amministrazione. Era quest’ultima a rivestire un ruolo centrale e privilegiato, perché era portatrice di un interesse pubblico. Si crea peraltro un processo non satisfattivo perché il giudice altro non poteva che pronunciarsi sulla legittimità dell’atto, non potendo invece obbligare la pubblica amministrazione a conformarsi a quanto disposto dal giudice,

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come avveniva per l’esecuzione forzata nel processo civile: ecco perché Nigro era arrivato a dire che «il processo amministrativo costituiva in realtà un incidente nel corso dell'azione amministrativa»35.

È da segnalare poi la rilevante opera della giurisprudenza che ha portato alla creazione di un diritto vivente, diverso da quello scritto nei testi fondamentali, ma almeno garantista dell’effettiva tutela giurisdizionale, da cui prendono spunto gli interventi legislativi degli anni ’90, come i tentativi di riforma del d.d.l. del 12 ottobre 1989, n. 788 e il d.d.l. del 1994 su proposta del Senato –che però non ebbero alcun successo– e soprattutto il d.lg. n. 80 del 1998 e la legge 21 luglio 2000, n. 205, con cui si va incontro ad una vera e propria riforma del sistema.

La legge 21 luglio 2000, n. 205, la c.d. mini riforma del processo

amministrativo, intervenendo direttamente sul processo amministrativo per

garantire una maggiore efficienza ed effettività dello stesso, ha trasformato la disciplina relativa alla tutela cautelare e sul silenzio amministrativo, ha inserito altri riti speciali e accelerati, per garantire la ragionevole durata del processo, e riguardo la giurisdizione esclusiva, oltre ad aumentare ulteriormente la sua estensione a materie come l’affidamento di lavori, servizi e forniture, si sono inseriti anche ulteriori poteri istruttori e decisori del giudice. Infine, l’altro obiettivo perseguito con la legge in esame, era relativo alla azione per il risarcimento del danno derivante dalle lesioni di interessi legittimi. Rinviando ad altra sede l’analisi approfondita di questo argomento, possiamo sinteticamente affermare, grazie alla notissima sentenza 22 luglio 1999, n. 500, della Cassazione, a Sezioni Unite, si supera l’assetto precedente e si stabilisce che l’azione risarcitoria relativa alla lesione di interessi legittimi rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, nella tradizionale azione di annullamento, consentendo anche la reintegrazione in forma specifica.

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Si è reso così un sistema uniforme, anticipando per molti aspetti il Codice del processo amministrativo.

Avevamo quindi un assetto per cui il primo grado di giurisdizione trovava la sua disciplina nella legge del 1971, novellata dalla legge n. 205/2000, mentre il secondo grado era disciplinato ancora dal T.U. 1907: era una situazione quanto mai frastagliata e complessa, aggravata da sentenze additive e manipolative che ampliavano il campo di applicazione di alcuni istituti formulati in via troppo ristretta.

È in questa situazione che si inserisce, molto in ritardo rispetto ad altre branche del diritto, il Codice del processo amministrativo, il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, emanato sulla base della legge delega 18 giugno 2009, n. 69, titolata «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione e la

competitività, nonché in materia di processo civile». In tale legge, rileva l’art. 44, che

contiene la delega per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, una delega omnicomprensiva, che permette al Governo di avvalersi di tutta una serie di opzioni, come la possibilità di cancellare, rimodellare e crearne di nuovi, che hanno cercato di velocizzare, di semplificare e di rendere anche più competitivo e appetibile il processo amministrativo, senza talvolta raggiungere i risultati sperati.

Viene a formarsi una Commissione governativa, composta da soggetti esperti professionisti – come magistrati, professori universitari, soggetti che rivestono cariche pubbliche di un certo livello –, che entro un anno doveva raggiugere determinati obiettivi, tre finalità: rivedere e «rimettere in piedi» il processo amministrativo, aggiornandolo e adeguandolo con la giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori; completarlo eventualmente facendo riferimento anche a regole del Codice di procedura civile; infine, garantire una concentrazione delle tutele.

Con l’approvazione del progetto da parte del Consiglio di Stato – che comunque non si astenne da proporre delle modifiche sostanziali –, il processo amministrativo comincia ad avere una normativa unitaria e precisa, inserita in un codice solo a partire dal 2010. Da un lato la nuova

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disciplina si poneva in stretta correlazione con le disposizioni e gli orientamenti giurisprudenziali pregressi, garantendo quindi continuità con l’assetto precedente; dall’altro si inserirono rilevanti novità finalizzate ad ottenere un miglioramento della struttura e delle garanzie del processo, come quella del contraddittorio. Con l’entrata in vigore del Codice, il 16 settembre 2010, vengono abrogate le fonti precedentemente rilevanti come il regolamento di proceduta del 1907, il T.U. sul Consiglio di Stato del 1907 e le disposizioni della legge istitutiva dei T.A.R. e della legge n. 205/2000; rimangono in vigore invece alcune disposizioni del d.lgs. n. 53/2010 per la disciplina sulle controversie sull’attività contrattuale della pubblica amministrazione.

Le principali innovazioni inserite dal Codice seguono specifici principi e criteri direttivi, alla luce del principio del giusto processo.

Si cerca di creare un sistema che garantisca una maggiore effettività della tutela, aumentando le tipologie di azioni esperibili e creando una struttura più veloce e snella, che assicura così l’utilità della pronuncia.

Si incide anche su nuovi riti speciali, sul processo di ottemperanza, sulla tutela cautelare che viene ampliata, garantendo in via anticipata

ante-causam la tutela sommaria ed infine riguardo le impugnazioni, di cui molto

viene ripreso dalla disciplina processual-civilistica.

Nella legge delega, era inserita anche l’indicazione specifica per cui nei due anni successivi al suo primo esercizio, il Governo aveva il potere di emanare altri d.lgs. che contenevano le «correzioni e integrazioni che

l’applicazione pratica renda necessarie e opportune»: si tratta di un periodo di

tempo utile per verificare che l’assetto prospettato fosse adeguato e conforme alla società, che ha portato alla emanazione del d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e del d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160, che hanno introdotto «disposizioni correttive e integrative» al Codice, intervenendo soprattutto in materia di azione di condanna e riti speciali.

Il processo amministrativo acquista un carattere autoreferenziale, anche se oggi è soggetto a numerosi dibattiti che vorrebbero addirittura riscriverlo partendo da zero, ma per ora siamo ad un punto morto nella riforma.

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