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Capitolo quarto

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Academic year: 2021

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Capitolo quarto

Le azioni internazionali di contrasto al fenomeno

Nei capitoli precedenti si è cercato di descrivere come il traffico illecito d'arte sia diventato nel tempo un fenomeno sempre più diffuso e sempre più remunerativo, costituendo recentemente una minaccia per la sicurezza internazionale, visto il forte legame con i gruppi armati e terroristici. Anche se non ha ancora raggiunto la centralità che gli spetta, il problema è stato preso in considerazione dalla comunità mondiale intera, specialmente a livello di organizzazioni internazionali. Ma quali sono le risposte, e soprattutto le azioni, intraprese dalla comunità internazionale per contrastarlo?

In questo capitolo cercheremo di illustrare gli strumenti, giuridici e non, attivati dal sistema internazionale per arginare e limitare il traffico d'arte e le sue conseguenze negative. Dopo una breve introduzione storica riguardante le varie convenzioni che si sono succedute nella protezione dei beni culturali e l'evoluzione del concetto stesso di bene culturale in esse racchiuso, analizzeremo più nel dettaglio le azioni internazionali intraprese per contrastare il fenomeno del finanziamento a gruppi terroristici.

Le prime forme di tutela internazionale ai beni culturali possono essere trovate nelle convenzioni del XIX secolo riguardanti la protezione del patrimonio in caso di conflitto armato. In questi anni si è visto infatti la formazione di una sensibilità nei confronti del patrimonio culturale di una nazione, espressa nel tentativo di regolamentare e preservare i beni culturali in caso di guerra. Il passaggio si rivelò di estrema importanza perchè in questo momento si formò l'idea dei beni culturali come un insieme unico da proteggere. Quest'ultimi costituivano il patrimonio culturale mondiale appartenente a tutta la comunità internazionale, da preservare e da trasmettere al futuro. Chiaramente si sta parlando di una visione prettamente occidentale che dovette aspettare diversi anni prima di diffondersi nel resto del mondo. Va sottolineato però, che già dal XVII secolo esisteva una tendenza a non considerare più legittimo il cosidetto jus predae, e cioè il diritto di razzia nel territorio del paese sconfitto in guerra. Molto spesso infatti nei trattati di pace dell'epoca si potevano trovare clausole per legittimare tale diritto, ma anche articoli che prevedevano la restituzione di alcune opere razziate. Tale pensiero venne poi codificato nelle due convenzioni dell'Aja1 rispettivamente del 1899 e del 1907. In esse (anche se la

1 Le due convenzioni, insieme a quelle di Ginevra (la prima è databile al 1864), possono essere definite come i primi tentativi internazionali di codifica di regole in caso di conflitto, soprattutto in temi di armamenti e trattamenti umanitari.

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pratica del bottino di guerra non venne totalmente proibita, ad eccezione di particolari categorie di beni) si rendeva perseguibile penalmente il saccheggio di opere d'arte durante le manovre belliche2. Ai fini del nostro studio, queste due convenzioni hanno avuto l'importanza di riconoscere a livello internazionale per la prima volta il bene culturale come soggetto giuridico. Però non comprendevano ancora una definizione omnicomprensiva del bene culturale, definizione che invece venne formulata nel testo della Convenzione dell'Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto. Il trattato era nato dall'esigenza di avere uno strumento specifico di salvaguardia del patrimonio artistico-culturale a seguito della sua distruzione nei due conflitti mondiali e dell'inadeguatezza dimostrata dalle precedenti convenzioni. Nel testo, subito all' articolo 1, si incontrava la descrizione di cosa si intendesse per bene culturale. Veniva superata la precedente definizione alquanto restrittiva di «edifici dedicati all'arte e alla scienza, monumenti storici, opere dell'arte e delle scienze» dei trattati precedenti, e si consideravano i beni culturali senza riferimenti alla loro natura privata o pubblica:

« a) i beni, mobili o immobili, di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o laici; le località archeologiche; i complessi di costruzione che, nel loro insieme, offrono un interesse storico o artistico; le opere d'arte, i manoscritti, libri e altri oggetti d'interesse artistico, storico, o archeologico; nonché le collezioni scientifiche e le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzione dei beni sopra definiti; b) gli edifici la cui destinazione principale ed effettiva è di conservare o di esporre i beni culturali mobili definiti al capoverso a), quali i musei, le grandi biblioteche, i depositi di archivi, come pure i rifugi destinati a ricoverare, in caso di conflitto armato, i beni culturali definiti al capoverso a); c) i centri comprendenti un numero considerevole di beni culturali, definiti ai capoversi a) e b), detti "centri monumentali"»3.

L'importanza di tale definizione risiedeva per prima cosa nel fatto che essa rappresentava il primo tentativo rivolto direttamente alla protezione del patrimonio

2 Inoltre agli stati colpevoli veniva attribuita una responsabilità patrimoniale per i danni e le perdite subite, anche se non era presente nel testo nessuna norma sulla restituzione (che comunque era già considerata prassi consuetudinaria).

3 Convenzione per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato (L'AJA,1954), disponibile

al sito

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/SGMiBAC/documents/1352909513694_convenzione_confl itto_armato_italiano.pdf . Inoltre nel prologo del trattato «emerge[va] il concetto di patrimonio culturale universale: i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo apparte[ssero], costitui[vano] danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo contribui[va] alla cultura mondiale. Si è dunque passati dal concetto di tutela del patrimonio inteso come bene comune (nazionale) a quello più ampio di patrimonio mondiale», in M. C. Strappaveccia, Beni culturali fra guerre e calamità. Intervista a

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culturale4. Inoltre, per la prima volta si formulò una definizione totale e precisa di cosa si intendesse per bene culturale5. Infine essa proponeva una protezione per ogni tipo di conflitto, inserendo quindi anche quelli interni allo stato e includendo le occupazioni belliche6.

Con il passare del tempo però cresceva la consapevolezza che il patrimonio culturale mondiale affrontava un'altra minaccia, e cioè il traffico illecito di opere d'arte, e che negli ultimi anni il problema si fosse aggravato con l'entrata in campo delle organizzazioni criminali (tanto da parlare in letteratura di archeomafia). Per ovviare a questa mancanza e porre delle norme per arginare il problema, l'United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO) prese in mano l'iniziativa7 e il 14 novembre 1970 si giunse all' adozione della Convezione UNESCO concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali8. In realtà l'idea di un testo per rendere illecita l'attività e imporre norme per vietarlo, era già stata valutata dai giuristi internazionali qualche decennio prima .

« Un primo approccio al problema si ebbe nel 1933, quando l'Office International des Musèes (OIM), in seno alla Società delle Nazioni, elaborò un "Progetto di Convenzione sul rimpatrio degli oggetti di interesse artistico, storico e scientifico, perduti, rubati o illecitamente alienati o esportati", che però non vide mai la luce a causa della riluttanza di diversi Paesi [...] nel rendere la propria normativa meno liberale. [...] Obiettivo del documento proposto era quello di impegnare gli Stati contraenti alla restituzione allo stato d'origine di tutti i beni presenti sul loro territorio a seguito di perdita, furto o illecita esportazione. Qualche anno dopo, nel 1936, l'OIM lanciò un secondo progetto, in materia di "conservazione per la protezione dei patrimoni storici e artistici nazionali", che però incontrò le stesse resistenze del primo, pur prevedendo la restituzione dei soli beni aventi un notevole interesse storico, artistico o archeologico. Entrambi i progetti avrebbero dovuto essere discussi in seno ad una Conferenza 4 La convenzione negli anni '90, su iniziativa UNESCO, ha subito un processo di revisione che ha portato alla stesura nel 1999 del secondo protocollo aggiuntivo (in vigore dal 2004). Il testo manca ancora della ratifica di numerosi paesi fra cui l'Italia.

5 Occorre notare però che la definizione nei trattati seguenti venne superata e riformulata, al punto che ognitesto presentò la propria concezione di bene culturale.

6 Inoltre venne confermato il divieto di saccheggio e requisizione dei beni culturali durante un conflitto armato. Gli articoli riguardanti la restituzione invece sono presenti nel Protocollo aggiuntivo dove si trovava il divieto di esportazione del bene da un territorio occupato e l'obbligo di sequestro per i beni eventualmente importati durante un conflitto.

7 I lavori preparatori iniziarono nel 1964, quando l'Unesco scelse un comitato composto da 30 membri provenienti da altrettanti paesi per eseguire una analisi del problema ed effettuare la stesura di una prima bozza del testo. Nel 1968 invece venne adottata dalla stessa organizzazione la risoluzione 3334, che autorizzava la creazione di un comitato per la preparazione di un testo che venne fatto circolare ai vari delegati degli stati l'anno seguente.

8 Ad oggi è stata firmata da 131 paesi, fra i quali anche numerosi paesi di provenienza delle antichità illecite (dato al marzo 2016). L'Italia ha ratificato la convenzione nel 1978.

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intergovernativa, che però non fu mai avviata a seguito dello scoppio del Secondo Conflitto mondiale»9.

Il trattato del 1970, oltre a integrare e implementare la convenzione dell'Aja del 1954, si presentava come il primo testo di normativa internazionale che si riferiva direttamente al problema del traffico illecito allo scopo di proteggere i beni culturali in tempo di pace. Inoltre esso prevedeva un coinvolgimento degli stati aderenti che non si fermava alla semplice proibizione o al divieto di certi comportamenti, invitando gli stati all'azione diretta al fine di combattere il problema. La convenzione infatti chiedeva ai paesi aderenti di intervenire in tre campi principali: primo, si sollecitava gli stati a prendere misure preventive come la compilazione di inventari del proprio patrimonio, la messa in atto di campagne educative, il monitoraggio del commercio, l'imposizione di sanzioni amministrative o penali in caso di reato, l'adozione di norme che richiedessero l'uso di certificati per l'esportazione. L'art. 6 poneva agli stati contraenti l'obbligo di introdurre nella legislazione nazionale una specifica norma che imponesse la necessità di un certificato di esportazione, senza il quale l'esportazione risultasse vietata: « The States Parties to this Convention undertake: (a) To introduce an appropriate certificate in which the exporting State would specify that the export of the cultural property in question is authorized. [...];(b) to prohibit the exportation of cultural property from their territory unless accompanied by the above-mentioned export certificate; (c) to publicize this prohibition by appropriate means, particularly among persons likely to export or import cultural property»10. Il secondo punto richiedeva di intraprendere azioni restitutive, come disponeva l'art. 7 (b) (ii): «at the request of the State Party of origin, to take appropriate steps to recover and return any such cultural property imported after the entry into force of this Convention in both States concerned, provided, however, that the requesting State shall pay just compensation [...] Requests for recovery and return shall be made through diplomatic offices.[...]»11. Infine si richiedeva agli stati di cooperare fra loro. Una cooperazione concepita come azione principale di freno al traffico illegale, un'idea che permeava tutta la convenzione. Infatti, all'art 2 si affermava che il traffico illecito di beni culturali era paragonabile ad un impoverimento culturale e che la cooperazione internazionale costituiva un mezzo fra i più efficaci per combattere tale problema ( «The States Parties to this Convention recognize that the illicit import, export and transfer of ownership of cultural property is 9 E. Pagano, Tutela e circolazione dei beni culturali: modelli internazionali, comunitari e nazionali, Tesi di dottorato, Scuola di scienze politiche, Università degli studi di Roma tre, p.31, disponibile al sito

http://dspace-roma3.caspur.it/bitstream/2307/123/1/tesi%20s.stabile%20xx%20ciclo%20sc.%20pol..pdf

10Unesco Convention on the Means of Prohibiting and Preventing the Illicit Import, Export and Transfer

of Ownership of Cultural Property 1970, disponibile al sito

http://www.unesco.org/new/en/culture/themes/illicit-trafficking-of-cultural-property/1970-convention/text-of-the-convention/

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one of the main causes of the impoverishment of the cultural heritage of the countries of origin of such property and that international co-operation constitutes one of the most efficient means of protecting each country's cultural property against all the dangers resulting there from. [...]»12 ). Anche in questo testo, all'articolo 1, si incontrava la definizione di bene culturale, molto più ampia rispetto alla precedente dell'Aja. Infatti venivano considerati beni culturali gli « on religious or secular grounds, is specifically designated by each State as being of importance for archaeology, prehistory, history, literature, art or science and which belongs to the following categories: (a) Rare collections and specimens of fauna, flora, minerals and anatomy, and objects of paleontological interest; (b) property relating to history, [...]; (c) products of archaeological excavations (including regular and clandestine) or of archaeological discoveries ; (d) elements of artistic or historical monuments or archaeological sites which have been dismembered; (e) antiquities more than one hundred years old, [...]; (f) objects of ethnological interest; (g) property of artistic interest, such as: (i) pictures, paintings and drawings [...]; (ii) original works of statuary art and sculpture in any material; (iii) original engravings, prints and lithographs ; (iv) original artistic assemblages and montages in any material; (h) rare manuscripts and incunabula, old books, documents and publications[...]; (i) postage, revenue and similar stamps, [...]; (j) archives, [...]; (k) articles of furniture more than one hundred years old and old musical instruments.»13. La descrizione, oltre a essere più estesa, prendeva in considerazione

molte più categorie come l'etnografia e la cinematografia, considerate prima non facenti parte del patrimonio culturale, e oggetti prima considerati appartenenti al mero collezionismo come i francobolli. Il trattato poneva altri obblighi ai paesi firmatari, quali istituire appositi meccanismi di controllo e di attuare piani di sensibilizzazione al problema, come campagne rivolte verso il pubblico o anche controlli sui musei. Il testo adottato però risentiva molto dell'intervento degli Stati Uniti, il più grande importatore d'arte, che fecero una forte pressione per cambiare e ammorbidire alcune norme, soprattutto quelle che prevedevano controlli rigidi e severi sull'esportazione e sull'importazione dei beni culturali e quelle che ponevano l'obbligo agli stati membri di procedere ad un inventario dei beni presenti sul proprio territorio.

La Convenzione UNESCO del 1970, se da un lato codificava codici di comportamento per gli stati aderenti al fine di combattere il traffico illegale, dall'altro presentava diverse lacune e debolezze. Prima di tutto il testo non era self-executing e quindi si aveva bisogno della collaborazione dei paesi membri affinchè essi provvedessero ad una acquisizione del testo all'interno della propria normativa nazionale. Le norme contenute nella convenzione, poi, erano principalmente (tranne le eccezioni del certificato di esportazione e la previsione di sanzioni penali) di carattere generico, lasciando ampio

12 Ibidem. 13 Ibidem.

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spazio di manovra agli stati. Infine, il documento insisteva molto sulla cooperazione fra paesi membri che però rimanse sempre a livello generico. A esempio di ciò, clausole come la restituzione di un bene si rivelarono campi sensibili in cui si scontrava la riluttanza degli stati nell'applicare un diritto considerato straniero e la reale volontà di collaborazione, tanto da rendere la previsione incerta. Per ultimo, e ciò costituì forse la mancanza maggiore, il documento considerava solamente le proprietà pubbliche e non quelle private. Infine la Convenzione non era applicabile retroattivamente. Quindi veniva fornita protezione al patrimonio solo partendo dalla data della ratifica del trattato in poi. Esportazioni ed importazioni illecite antecedenti alla firma non venivano considerate e sanzionate, avendo così la sensazione che per esse si desse un tacito assenso.

Col passare degli anni però i limiti della Convenzione del 1970 si fecero sempre più evidenti, tanto da assistere ad un incremento del traffico illecito, parallelo a pochi ritrovamenti e ancor più esigue restituzioni. L'UNESCO allora affidò, nel 1986, all'Istituto per l'unificazione del diritto privato 14 (UNIDROIT) il compito di preparare un nuovo trattato. Durante la conferenza diplomatica, tenutasi a Roma dal 7 al 24 giugno 1995, fu approvato il testo della Convenzione sui beni culturali rubati o illecitamente esportati15 che ad oggi conta 33 stati partecipanti, di cui solo 22 firmatari. I 21 articoli che costituivano il trattato stabilirono « un corpus minimo di regole standardizzate [ponendosi] come valido strumento giuridico di lotta al traffico illecito di beni culturali mobili, sia sotto il profilo della restituzione dei beni rubati, che sotto quello del recupero dei beni illecitamente esportati»16. Obiettivo principale della convenzione era la restituzione al paese di provenienza di tutti i beni illecitamente rimossi, sia attraverso il furto17, sia attraverso l'esportazione illegale18, con una attenzione particolare ai beni archeologici

14 Formatasi inizialmente nel 1926 come organo sussidario della Società delle Nazioni e ricostituito nel 1940, l'UNIDROIT (acronimo inglese per International Institute for the Unification of Private Law) è un organismo internazionale indipendente costituito da 61 stati membri con sede a Roma. Il suo scopo principale è lo studio e il raggiungimento di strumenti e regole uniformi di armonizzazzione e coordianmento dei diritti privati nazionali.

15 La Convenzione entrò in vigore solo nel 1998. L'italia ratificò il testo nel 1999, ma ad oggi mancano ancora i grandi paesi importatori come Stati Uniti e Gran Bretagna.

16 E. Pagano, op.cit., p. 38

17 Ai sensi dell'articolo 3(2) veniva considerato rubato «a cultural object which has been unlawfully excavated or lawfully excavated but unlawfully retained shall be considered stolen, when consistent with the law of the State where the excavation took place»,in UNIDROIT Convention on stolen or illegally

exported cultural objects, disponibile al sito http://www.unidroit.org/instruments/cultural-property/1995-convention

18 All' art 3(1) si prescriveva che il possessore di beni culturali sottratti illegalmente devesse restituirli al proprio paese d'origine («The possessor of a cultural object which has been stolen shall return it.».)

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provenienti da escavazioni clandestine19. La previsione della restituzione, in aggiunta alla possibilità di compensazione per il possessore che avesse dimostrato due diligence (come enunciava l'articolo 4(1) «The possessor of a stolen cultural object required to return it shall be entitled, at the time of its restitution, to payment of fair and reasonable compensation provided that the possessor neither knew nor ought reasonably to have known that the object was stolen and can prove that it exercised due diligence when acquiring the object.»), costituiva una delle misure legali più

significative nella lotta al traffico illecito, dato anche il suo diretto impatto sul mercato dell'arte. Il testo poi risolveva uno dei principali limiti del precedente trattato, presentando norme direttamente applicabili dagli stati firmatari senza richiedere il passaggio di acquisizione del testo nella propria legislazione.

Caratteristiche del testo erano, da una parte, l'enunciazione di strumenti di salvaguardia per gli attori di mercato e collezioni, sia pubbliche e private, come la due compensation (sempre articolo 4(1)) quando dovuta, e la clausola di non retroattività20. Mentre dall'altra, si trovava la presa in considerazione degli interessi morali e materiali degli stati esportatori21. Infatti se le richieste di restituzioni potevano avvenire entro un arco temporale ben preciso (75 anni), certi beni culturali ne erano esenti come oggetti religiosi o beni di particolare importanza storica e culturale per il paese richiedente, come i beni archeologici.

L'innovazione portata dalle norme contenute nel trattato UNIDROIT fecero sì che esse furono adottate o solamente riconosciute da molte giurisdizioni nazionali anche non firmatarie della convenzione. Un esempio è costituito dal caso della Confederazione Svizzera ( artt. 16 e 24 dell'atto federale sul trasferimento internazionale della proprietà culturale del 2003). Quest'ultimo ha particolare importanza visto il ruolo di molte città

19 Questa precisazione prevista dall'articolo 2 era molto importante visto che nella convenzione del 1970 non era esplicitata nel testo ma «which are addressed [...] only through the interpretation made by certain States of Article 9», in S. Delepierre e M. Schneider, Ratification and Implementation of International

Conventions to Fight Illicit Trafficking in Cultural Property, in in F. Desmarais (ed.), Countering illicit traffic in cultural goods. The global challenge of protecting the world's heritage, Paris, ICOM, 2015, p.

133, disponibile al sito

http://icom.museum/fileadmin/user_upload/pdf/publications/Book_observatory_illicit_traffic_version_iss uu.pdf

20 Art. 10(1) veniva scritto che «The provisions of Chapter II shall apply only in respect of a cultural object that is stolen after this Convention enters into force in respect of the State where the claim is brought, provided that: (a) the object was stolen from the territory of a Contracting State after the entry into force of this Convention for that State; or (b) the object is located in a Contracting State after the entry into force of the Convention for that State», in UNIDROIT Convention..., op. cit.

21 «The need for legal safeguards is also satisfied by the relatively short statute of limitations on bringing an action to demand restitution. On the other hand, by designating a subset of cultural property to which applies a much longer statute of limitations (75 years), and in some cases, no limitations at all, the text takes into account the material and moral interests of the ‘exporter’ States and, more broadly, those of public collections, religious or cultural institutions, and the protection of archaeological and architectural heritage,» , in S. Delepierre e M. Schneider, op. cit., p.134.

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elvetiche nel traffico internazionale, come già esposto nei capitoli precedenti, come centri di smistamento e fornitura di documentazione falsa. Inoltre, la convenzione è stata assimilata anche a livello dell'Unione Europea, nella direttiva 2014/60/EU adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio del 15 maggio 2014 in relazione al ritorno di oggetti culturali illegalmente rimossi dal territorio di uno stato membro. I beni culturali subacquei, non menzionati esplicitamente nei testi precedenti, furono protetti solo nel 2001 con l'adozione della Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subaqueo22. Obiettivo principale era la protezione del patrimonio subacqueo da parte degli stati specialmente attraverso azioni intraprese in situ, mentre le operazioni di recupero erano da considerarsi solo in caso di effettiva protezione del bene. Inoltre, la convenzione decretava che il patrimonio subacqueo non dovesse essere sfruttato a fini commerciali per evitare la sua dispersione, non escludendo però le escavazioni archeologiche e l'accesso ai turisti23.

Finora però nelle definizione di bene culturale presenti nei vari testi, si era parlato solamente di oggetti fisici. La concezione venne totalmente cambiata nel 2003, quando fu firmata la convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale24, che descriveva all'art 1, come scopi principali « a) salvaguardare il patrimonio

culturale immateriale; b) assicurare il rispetto per il patrimonio culturale immateriale delle comunità, dei gruppi e degli individui interessati; c) suscitare la consapevolezza a livello locale, nazionale e internazionale dell’importanza del patrimonio culturale immateriale e assicurare che sia reciprocamente apprezzato; d) promuovere la cooperazione internazionale e il sostegno»25.

I testi analizzati brevemente qui sopra però, sebbene fornissero mezzi per contrastare l'esportazione illegale, non denunciavano apertamente il furto di beni culturali ad opera del crimine organizzato internazionale. Ancora più lontana era l'ipotesi di traffico illecito di beni culturali inteso come finanziamento di gruppi armati. Infatti, i primi

22 Si considerava tale ogni manufatto umano a carattere culturale, storico- archeologico che sia stato sott'acqua anche parzialmente per almeno 100 anni.

23 About the Convention on the Protection of the Underwater Cultural Heritage, disponibile al sito

http://www.unesco.org/new/en/culture/themes/underwater-cultural-heritage/2001-convention/

24 Come patrimonio immateriale si intendeva, all'art 2(1), «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile. » Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale

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strumenti giuridici direttamente indirizzati a questa specifica tematica sono costituiti dalle risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU in relazione alla situazione irachena e siriana, all'indomani dell'invasione statunitense in Iraq. Per essere precisi, i primi accenni al traffico illecito si potevano già trovare nelle risoluzioni adottate durante la prima guerra del golfo. Le Risoluzioni 660 e 661, entrambe del 1990, ad esempio ponevano all'Iraq pesanti sanzioni economiche proibendo qualsiasi esportazione di ogni bene prodotto in territorio iracheno. In tale categoria rientravano anche le antichità, ma ancora, si trattava di un riferimento implicito. Si dovette attendere tredici anni e la Risoluzione 1483 per trovare esplicitato il settore del patrimonio culturale.

Adottata il 22 maggio 2003 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con 14 voti a favore e la sola astensione della Siria26, la risoluzione 1483 era dedicata totalmente alla questione irachena e alle azioni da intraprendere per la ricostruzione e per quanto riguardava le popolazioni e gli aiuti umanitari. Essa era il frutto del compromesso fra la visione più rigida condivisa dagli Usa e dai e i suoi partner inglese e spagnolo, e quella sostenuta da Francia, Russia e Germania. Il testo imponeva la fine delle sanzioni di imbargo imposte nel 1990, tranne quelle riguardanti le armi. Inoltre si prevedeva la fine del programma Oil for Food, varato nel 1996, entro sei mesi dall'approvazione della risoluzione. Il fatto più importante, era costituito dal il passaggio di consegne alle potenze occupanti (Stati Uniti e Gran Bretagna) che inizialmente avrebbero aiutato a formare una amministrazione provvisoria irachena fino ad un vero e proprio governo riconosciuto a livello internazionale. Tornando ai fini del nostro studio, l'art 7 era totalmente dedicato al patrimonio culturale, che

« Decides that all Member States shall take appropriate steps to facilitate the safe return to Iraqi institutions of Iraqi cultural property and other items of archaeological, historical, cultural, rare scientific, and religious importance illegally removed from the Iraq National Museum, the National Library, and other locations in Iraq since the adoption of resolution 661 (1990) of 6 August 1990, including by establishing a prohibition on trade in or transfer of such items and items with respect to which reasonable suspicion exists that they have been illegally removed, and calls upon the United Nations Educational, Scientific, and Cultural Organization, Interpol, and other international organizations, as appropriate, to assist in the implementation of this paragraph»27.

26 La risoluzione punto per punto, Repubblica.it ,2003, disponibile al sito

http://www.repubblica.it/online/esteri/iraqattaccotrentadue/scheda/scheda.html

27 Resolution 1483 (2003) Adopted by the Security Council at its 4761st meeting, 2003, disponibile al sito

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Gli stati quindi erano tenuti a prendere provvedimenti di natura anche militare, in quanto il testo era stato approvato sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, per arginare il fenomeno del traffico illecito e per restituire tutti gli oggetti trafugati illegalmente a partire dal 1990. Nell' esplicitare quest'ultimo obbligo nel testo si riconosceva implicitamente che i paesi di destinazione dei beni trafugati illecitamente erano i paesi ricchi e quelli dell'Occidente. Il testo proseguiva invitando tutti paesi a collaborare con gli organismi competenti, primi fra tutti l'INTERPOL e l'UNESCO per raggiungere una soluzione del problema. Di particolare rilevanza era la presenza nel testo del divieto di compravendita di manufatti a partire dall'epoca della prima guerra del golfo e quindi inserendo anche il periodo di tempo tra la prima e la seconda guerra del golfo non propriamente definibile un periodo di conflitto, ma certamente caratterizzato da importanti restrizioni commerciali verso l'Iraq.

Il 12 febbraio 2015 venne approvata all'unanimità da parte dei 15 membri del Consiglio di sicurezza dell'ONU la risoluzione 2199, proposta dalla Federazione Russa e sostenuta da 35 paesi, fra cui l'Italia. Il testo risolutivo aveva particolare importanza perchè, sebbene non fosse la prima risoluzione adottata concernente il patrimonio culturale, in essa però compariva per la prima volta il riconoscimento del legame fra antichità mediorientali e finanziamento al terrorismo.

Infatti essa descriveva gli obblighi e i provvedimenti da prendere da parte degli stati membri delle Nazioni Unite allo scopo di prevenire e impedire che i gruppi terroristici di Iraq e Siria beneficiassero e traessero finanziamenti dal commercio di petrolio e di antichità, dal riscatto per gli ostaggi e dalle donazioni. Inoltre nel testo si proibiva per gli stati membri ogni commercio con l'Isis, il fronte al-Nusra e tutte le altre entità associate ad al-Qaeda28. Nella risoluzione alle minacce del patrimonio venne dedicato un intero paragrafo a sè stante, diviso in tre articoli (dal 15 al 17), in cui si condannava la distruzione del patrimonio in Iraq e Siria «particulary by Isil and Anf, wheter such destrution is incidental or deliberate, including targeted destruction of religous sites and objects»29 (art 15). Andando avanti, si constatava con preoccupazione che i gruppi terroristici sopra citati beneficiavano di profitti ricavati dal loro coinvolgimento diretto ed indiretto nello scavo e traffico di oggetti artistici-culturali da siti archeologici, musei,

28 Elencate nelle risoluzioni 1267(1999) e 1989 (2011).

29 Unanimously adopting resolution 2199 (2015), security council condemns trade with Al-Qaida

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biblioteche, archivi e altri siti, al fine di «support their recruitment efforts and strengthen their operational capability to organize and carry out terrorist attacks»30 (art 16). Infine, riaffermando le decisioni stabilite nel paragrafo 7 della Risoluzione 1483 (2003), si decideva che gli stati membri delle Nazioni Unite dovessero intraprendere le appropriate azioni per prevenire il commercio «in iraqi and syrian cultural propriety [...] removed from Iraq since 6 August 1990 and from Syria since 15 march 2011»31, incluso il commercio «cross-border [...] thereby allowing for their eventual safe return to the iraqi and sirian people»32 e la collaborazione con INTERPOL, UNESCO e altre organizzazioni internazionali per l'implementazione dello stesso paragrafo (art 17). La risoluzione, anch'essa approvata ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, lasciava quindi spazio ad azioni anche di natura militare (anche se non vi era alcun riferimento esplicito). Essa però non esprimeva chiaramente i provvedimenti da prendere, lasciando così libere le nazioni di adottare le azioni a loro più consone, limitandosi solo a dettare delle linee guida. Tuttavia, i provvedimenti presi dalle nazioni dovevano essere illustrati tramite la formulazione di un rapporto inviato ad un comitato, stabilito secondo le Risoluzioni 1267(1999) e 1989 (2011), entro il centoventesimo giorno dall'inizio di tali misure (e cioè entro il 12 giugno 2015)33, «and thereafter to

incorporate reporting on the impact of these new measures into their reports to the Commitee in order to track progress on implementation, identify unintended consequences and unexpected challenges, and to help facilitate further adjustments as required[...]»34. Altra caratteristica della risoluzione risiedeva nell'identificazione temporale ben precisa per la Siria (come già nella Risoluzione 1483 per l'Iraq) degli oggetti illecitamente sottratti e venduti. Inoltre essa si distingueva anche per il miglioramento della giurisprudenza rispetto alle risoluzioni sanzionatorie precedenti in materia di fonti di finanziamento al terrorismo, facendo luce in particolare sui grossi proventi illeciti che i gruppi terroristici traggono dallo sfruttamento di risorse naturali del territorio (come il petrolio) e dal traffico illecito di antichità irachene e siriane.

I concetti qui descritti furono ripresi nella Risoluzione 2253 emanata il 17 dicembre 2015. Votata all'unanimità dai rappresentanti dei ministri delle finanze, la risoluzione venne presentata dalla Federazione Russa e dagli Stati Uniti con l'appoggio di altri paesi

30 Ibidem. 31 Ibidem. 32 Ibidem.

33 Come ricordava il presidente UNESCO I. Bokova ai membri dell'organizzazione in una nota datata il 6 marzo 2015, in United Nations Security Council Resolution 2199, 2015, p.2, disponibile al sito http:// unesdoc.unesco.org/images/0023/002321/232164e.pdf

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tra cui l'Italia. Il testo ribadiva il bisogno di intraprendere reali azioni per fermare i finanziamenti dell'Isis ed criticava il poco impegno degli stati membri nell' attivare le risoluzioni precedenti, specialmente la Risoluzione 2199 del febbraio dello stesso anno, ancora senza efficaci risultati. L'innovazione che si poteva trovare nel testo era costituita dalla previsione che il Segretariato Generale dell'ONU proponesse una strategia entro 45 giorni dalla approvazione della stessa risoluzione, e che dovesse effettuare un report ogni quattro mesi per informare sugli aggiornamenti.35

Confrontando le due Risoluzioni, la 1483 e la 2199, si possono notare i progressi della giurisprudenza delle Nazioni Unite avvenuti in 12 anni. Anche se in entrambi i testi le azioni da intraprendere non venivano ben definite, ma lasciate alle decisioni arbitrarie di ciascun paese membro, le differenze tra i due testi sono di immediata comprensione. Da un solo articolo dedicato al tema del patrimonio nel testo del 2003, si passa a un intero paragrafo in quello del 2015. Ma ancora più importante è che se nella prima risoluzione si parlava di mera restituzione degli oggetti, anche se sottratti illegalmente, dal 1990 e si auspicavano azioni tali da impedirne il traffico, nella risoluzione del 2015 si sosteneva non solo la necessità di restituire gli oggetti, ma anche quella di prendere provvedimenti per fermare il traffico illecito che rappresentava un problema storico-culturale, ma soprattutto una minaccia alla sicurezza in quanto i proventi andavano ad alimentare la compravendita di armi e a finanziare altri atti teroristici.

La Risoluzione 2199, quindi, esplicitava il legame tra terrorismo, il suo finanziamento e il traffico di beni culturali, mentre la numero 1483 si riferiva a qualsiasi tipo di commercio anche quello più semplice effettuato dalla popolazione che adopera il saccheggio come mezzo di sussistenza.

Ad oggi non esiste ancora un testo convenzionale dedicato direttamente alla minaccia del terrorismo e dei gruppi armati sul patrimonio culturale mondiale. Fatto ancora peggiore è che non esista un progetto cooperativo a livello internazionale volto a contrastare tale fenomeno. Per quanto non siano ancora di natura ufficiale, dati e prove del volume del traffico e dei danni provocati sono sotto gli occhi di tutti. Continui sono gli appelli da parte di organismi internazionali ad intraprendere azioni, perlomeno di contenimento. Ma finora si registrano solo azioni individuali. Una su tutte il programma UNESCO #United4Heritage. Esso consiste in un movimento globale «powered by UNESCO that aims to celebrate and safeguard cultural heritage and diversity around the world. Launched in response to the unprecedented recent attacks on heritage, the campaign calls on everyone to celebrate 35 Resolution 2253 (2015) Adopted by the Security Council at its 7587th meeting, 2015, p.15, disponibile

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the places, objects and cultural traditions that make the world such a rich and vibrant place» 36. Lanciato nei primi mesi del 2015 a seguito delle distruzioni effettuate dall'Isis sul patrimonio mediorientale, esso è rivolto alla protezione di qualsiasi espressione culturale («Cultural heritage also includes intangible forms such as performance, knowledge and cultural traditions, which must be safeguarded alongside built heritage. It's the diversity of cultural expressions that form the basis of the rich fabric of human civilisation »37) e affronta il problema del traffico illecito («Illicit trafficking of cultural

objects not only threatens heritage, but also provides a source of funding for extremist groups. Supported by the recent UN Security Council Resolution 2199, we've built a global coalition of partners dedicated to ensuring that objects cannot be moved across borders and are implementing training and assistance programmes on the ground»38). Il programma comprende al suo interno varie azioni che

coinvolgono diversi attori. Non solo studiosi o accademici, ai quali vengono riservate le campagne di divulgazione o di sensibilizzazione, come possono essere conferenze, pubblicazioni o mostre ed esibizioni. Il movimento #United4Heritage è direttamente rivolto ai comuni cittadini, con l'idea che un coinvolgimento della popolazione civile possa essere di effettivo aiuto nel contrasto alla distruzione dell'eredità collettiva dell'umanità. Il privato cittadino può partecipare in diversi modi, soprattutto avvalendosi dei nuovi mezzi di comunicazione e dei social media. Parole d'ordine sono condivisione e partecipazione. Lo scopo è sensibilizzare il più vasto pubblico possibile al problema. Infatti, si possono condividere attraverso i social gli eventi o gli articoli pubblicati dal movimento, ma soprattutto le esperienze personali vissute, raccontando o promuovendo il patrimonio culturale di appartenenza. Ma soprattutto si può attivamente partecipare, specialmente nel caso si scelga di diventare World Heritage Volunteer («an incredible opportunity for you to immerse yourself in learning about the day-to-day life in a World Heritage property, to acquire basic preservation and conservation skills, and to engage in intercultural exchanges with the local community »39).

Il programma dell'UNESCO si è rivelato particolarmente importante per l'Italia perchè è al suo interno che si è firmato l'accordo per la creazione dei caschi blu della cultura. Il nostro paese infatti è sempre stato in prima linea per quanto riguarda la protezione dei beni culturali, diventando un modello per gli altri stati (classico esempio è il nucleo dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, come descritto in appendice). Nell'ottobre del 2015 l'allora ministro italiano dei Beni e delle Attività Culturali e del

36 http://www.unite4heritage.org/

37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Ibidem.

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Turismo,Dario Franceschini propose in sede UNESCO la creazione di una task force internazionale specializzata nella protezione del patrimonio culturale da catastrofi naturali o attentati terroristici, perchè «i beni culturali non rappresentano solo il patrimonio del Paese che li detiene, ma dell’umanità intera. Difenderli insieme diventa per questo un obbligo per la comunità internazionale»40. La proposta trovò largo consenso anche all'interno delle Nazioni Unite. Infatti in un incontro tenutosi a Roma tra Franceschini e l'ambasciatore Yury Fedotov (Direttore generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il contrasto della droga e la prevenzione del crimine (UNODC) e anche vice segretario ONU), quest'ultimo ha riconosciuto « il protagonismo dell’Italia per l’istituzione dei caschi blu della cultura e si è reso disponibile ad organizzare [...] la presentazione del modello italiano per il contrasto al traffico illecito dei beni culturali e l’azione svolta dal nostro Paese nell’ambito della protezione del patrimonio culturale »41. Nel febbraio 2016 si è siglato l'accordo

"alla presenza dei ministri Gentiloni, Franceschini, Pinotti, Giannini e della DG Unesco Bokova [...] nell’Aula X delle Terme di Diocleziano [a Roma]"42. Il memorandum definiva la nascita sotto egida UNESCO di un gruppo internazionale pronto ad intervenire nelle aree di crisi. «La task force, addestrata all’azione in situazioni di pericolo, è composta da un primo nucleo di carabinieri del comando tutela patrimonio culturale, storici dell’arte, studiosi e restauratori dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, dell’Istituto Centrale per la Conservazione e il Restauro del Patrimonio Archivistico e Librario e dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. In futuro entreranno a far parte di questa unità anche docenti universitari che hanno già manifestato la propria disponibilità. La task force interverrà su richiesta di uno stato membro che sta affrontando una crisi o colpito da una catastrofe naturale per stimare i danni sul patrimonio culturale, pianificare operazioni per misure di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale colpito, fornire supervisione tecnica e formazione per assistere i restauratori locali nelle azioni di tutela, prestare assistenza al trasporto in sicurezza di beni culturali mobili, contrastare il saccheggio e il traffico illecito di beni culturali»43.

Questo rappresenta un accordo che sicuramente fornisce prestigio alla Repubblica Italiana, ma che si risolve in un accordo bilaterale. Un'azione comune a livello internazionale è ancora molto distante. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che il problema tocca molti settori (come il controllo alle frontiere e il monitoraggio sui commerci) di

40 Caschi blu della cultura, la proposta italiana piace all’ONU. Franceschini ha incontrato il vice

segretario ONU Fedotov, 2015, disponibile al sito http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_170991632.html

41 Ibidem.

42 Caschi blu cultura: siglato l'accordo con l’UNESCO per la task force italiana. Pronto un primo

contingente di 60 unità fra storici dell’arte, studiosi, restauratori e carabinieri del comando tutela patrimonio culturale per intervenire nelle aree di crisi, 2016, disponibile al sito

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cui gli stati sono molto gelosi e solo con molta riluttanza, ed eccezioni, si renderebbero disponibili a collaborare. Inoltre coinvolto non è solo il settore pubblico, ma anche quello privato. E su quello è molto più difficile intervenire a livello globale se non con massicce campagne di sensibilizzazione ed educazione al senso di patrimonio comune. Ma queste sono azioni i cui effetti saranno visibili dopo parecchi anni, mentre occorre una soluzione immediata.

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