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CAPITOLO 2 IL SACRIFICIO CRUENTO NELL’ANTICA GRECIA

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CAPITOLO 2

IL SACRIFICIO CRUENTO NELL’ANTICA GRECIA

2.1 Etimologia e definizione

La parola italiana “sacrificio” deriva dal latino “sacrificium”, nomen effectuum dell’aggettivo sacer. Etimologicamente quest’ultimo si ricollega alla radice greca a9g- , che a sua volta risale a un’ulteriore radice indoeuropea *sag- : secondo le leggi della fonetica greca, spesso l’originario sigma indoeuropeo cade dando luogo alla formazione di un iniziale spirito aspro; in questo caso perciò, in latino, la radice si è assimilata in sac- , che talora può presentare anche un infisso nasale

sa(n)c-. Proprio dalla radice a9g- preceduto dalla preposizione prefissale e0n, è

derivato il verbo e0nagi/zein nell’accezione più ampia di “sacrificare”.1

Il sacrificio consiste in un atto rituale attraverso il quale si dedica un oggetto o un animale o un essere umano ad un’entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio. L’offerta o il dono di un oggetto o di un essere vivente alle potenze del mondo non umano o divino, assume grande importanza in svariati contesti religiosi. La natura dell’offerta, il significato e gli scopi di ciò che viene sacrificato, come pure il contesto in cui si colloca tale attività, variano notevolmente nelle diverse culture, tanto che spesso è difficile distinguere il sacrificio vero e proprio da altre forme cerimoniali che implicano offerte, doni, oblazioni.

1

Etimologia desunta da Ugolini, G. , Lexis, Lessico per radici della lingua greca, Milano, 1992, p. 91.

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39 2.1.1 La prospettiva religiosa di uno scambio

Svariati autori hanno ritenuto di rilevare alcuni elementi comuni e ricorrenti nelle diverse forme di sacrificio. Ad esempio J. van Baal2 ritiene che vi sia sacrificio tutte le volte che si verifichi un’offerta diretta ad un’ entità soprannaturale, accompagnata dall’uccisione rituale dell’oggetto dell’offerta stessa. Questa definizione evidenzia due aspetti importanti: la dimensione religiosa del sacrificio, in cui ci si rivolge ad una potenza o ad un essere sovrumano o soprannaturale, e l’aspetto cruento dell’atto sacrificale, l’uccisione di un essere vivente. Per ciò che concerne il primo elemento, si può riscontrare una sostanziale concordanza di vedute tra i diversi autori, sebbene ciascuno interpreti in modo specifico il significato di questo riferimento a un essere non umano; relativamente al secondo aspetto, esso si presenta immediatamente più problematico. Nella definizione di van Baal, infatti, sembrano escluse tutte le forme di sacrificio che non comportano un’uccisione rituale. Nonostante ciò, è possibile trovare offerte di oggetti, quali frutta, ortaggi, semi, bevande, pezzi di stoffa o di tabacco. Inoltre, anche se in molti casi il sacrificio comporta l’uccisione di un animale e, in casi più rari di esseri umani, talvolta l’offerta di un oggetto o di un prodotto vegetale si può considerare sostitutiva di quella di una vittima.3

Il sacrificio, in quanto atto cerimoniale, presuppone generalmente un’attività rituale più o meno solenne, il coinvolgimento di più individui, l’esecuzione di pratiche rigidamente codificate e di rilevanza collettiva. Proprio in ciò esso si differenzia dal ben più vasto campo di offerte, che, al contrario, possono anche essere semplici atti individuali di devozione o di supplica nei confronti di un’entità spirituale. Per di più il sacrificio si caratterizza sempre come un dono, il quale a sua volta comporta una controparte senziente e consapevole: questa riceve l’offerta e risponde, concedendo la propria benevolenza e accogliendo le

2

J. van Baal, Offering, sacrifice and gift, “Numen” 23, pp. 161-78, 1976.

3

Hughes, D.D. , I sacrifici umani nell’antica Grecia, (trad. it. A cura di Falaschi, L.) , pp. 137-49, Roma, 1991.

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richieste degli officianti. Proprio questa peculiarità di rapporto di scambio tra sacrificante e destinatario contraddistingue il sacrificio da altre forme di uccisione rituale, quali la deposizione di esseri umani o animali nel sepolcro per accompagnare il defunto e l’uccisione di una vittima come rito di eliminazione di malattie o di influssi impuri e malefici.4

2.2 Studi critici sul sacrificio: dal Positivismo di secondo Ottocento alla Scuola Romana di Storia delle Religioni

2.2.1 Tylor: il sacrificio come “dono”

Gli studi scientifici sul significato del sacrificio partono dalla comparazione di usi rituali, empiricamente considerati come analoghi, delle varie società. Per E.B. Tylor, iniziatore della comparazione etnologica, fondamento del sacrificio è l’antropomorfismo degli dei: come quando si vuol guadagnare il favore di una persona potente, le si presentano doni, così anche agli dei concepiti antropomorficamente si offrono sacrifici per ottenere la loro benevolenza o attutire la loro contrarietà. Al principio del do ut des risalirebbe anche il sacrificio preventivo come il sacrificio di fondazione o i sacrifici offerti alla vigilia di imprese rischiose. In un’ottica evoluzionistica, oggi soggetta a critiche, da questo concetto affaristico del sacrificio si sarebbe sviluppata l’idea del sacrificio come omaggio e, più tardi ancora, come atto di rinuncia volontaria.5 Con la formazione della teoria del preanimismo, anche la concezione del sacrificio subì rilevanti modifiche. Gli studiosi misero in rilievo il fatto che esistono sacrifici che non presuppongono affatto un’idea antropomorfica del destinatario. L’essenza del sacrificio non sarebbe dunque un dono per ottenere la ricompensa, ma un’operazione magica intenta ad agire sulle potenze impersonali.

4

James, E.O. , Origin of Sacrifice. A Study in Comparative Religion, London, 1933, pp. 115 sgg.

5

Una summa del pensiero di Tylor in Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, Oxford, 1871.

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2.2.2 Robertson-Smith: il sacrificio come “rito comunitario”

Nello stesso periodo ad occuparsi della valenza sociale del sacrificio fu W. Robertson Smith. Egli nel 1889 analizzò le forme sacrificali riscontrabili nell’antico mondo semitico, giungendo ad alcune suggestive conclusioni: il sacrificio, secondo lui, consisteva in una cerimonia pubblica di un clan o di un villaggio, in cui la folla si radunava intorno al santuario oppure al tempio per celebrare l’offerta alla divinità. Il sacrificio vero e proprio, però, consisteva nell’uccisione di un animale che, macellato e cucinato, sarebbe stato consumato dalla comunità in festa. In pratica, Robertson Smith, procedendo sulla linea evoluzionista della seconda metà dell’800, faceva risalire la comunione cristiana a certe pratiche degli Australiani consistenti nella consumazione rituale in comune dell’animale-totem. L’attenzione di Robertson Smith era attirata soprattutto dalla vittima sacrificale: questa, una volta entrata nel recinto del luogo di culto, assumeva una caratteristica sacrale. Si tratta, per l’appunto, della sacralità derivata dal ricordo dell’animale totem che originariamente veniva sacrificato affinché i membri del clan potessero entrare in comunione con la divinità dell’animale-dio attraverso la partecipazione al banchetto sacrificale. Secondo tale interpretazione di Robertson Smith, ogni sacrificio consisteva in origine in una forma di comunione grazie a cui i membri di un gruppo sociale rinnovavano il senso di solidarietà e di appartenenza alla comunità celebrando i legami che li univano all’animale totem.6

Il pensiero di Robertson Smith rivestì un’influenza notevole sullo sviluppo delle teorie etnologiche e storico-religiose dei primi anni del XX secolo. Non a caso un notevole riscontro si intravede nell’opera di E. Durkheim per quanto riguarda l’importanza dei rituali collettivi nel promuovere e ricreare la coesione della comunità e nella formazione del sentimento del sacro. Questi, infatti, nella sua opera Les Formes élémentaires de la vie religieuse del 1912, ritenne il sacrificio

6

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riconducibile alla vita sociale e al suo utile, così come egli stesso ebbe modo di constatare presso gli aborigeni australiani.7

Sempre sulla scia della teoria evoluzionista di Robertson Smith, si colloca anche parte del pensiero di Freud, per quanto riguarda la concezione dell’orda primitiva e dell’uccisione del padre primordiale, da cui avrebbe origine la pratica del sacrificio totemico, oltre al costume dell’esogamia e al complesso edipico.8

Tuttavia, al giorno d’oggi buona parte delle argomentazioni di Robertson Smith appaiono discutibili e complessivamente superate. In particolare, la teoria evoluzionistica, secondo cui il totemismo costituirebbe una fase attraverso cui sarebbero passate tutte le culture umane, compresi gli antichi Semiti, risulta piuttosto precaria. Inoltre, la fonte storica più interessante sulla quale Robertson Smith basava la sua interpretazione dell’antico rito sacrificale semitico, il racconto del sacrificio di un cammello da parte dei beduini riportato da Nilus, un presunto eremita che viveva nella penisola del Sinai, si è rivelata un falso storico di autore ignoto e quindi un documento inattendibile.9

7

Spunti in proposito dello stesso autore si ritrovano anche nella precedente opera Représentations individuelles et représentations collectives del 1898.

8

La questione viene affrontata da Freud nel suo libro Totem e tabù a proposito delle origini primitive della tragedia greca, con particolare attenzione per l’aspetto collegato alle sofferenze dell’eroe protagonista. In proposito così si esprime Biondi I. Letteratura Greca, Firenze, 1942, vol. II, p.14: «Nel corso di studi antropologici circa le usanze di alcune tribù primitive, Freud osservò che esisteva presso di loro una cerimonia annuale in cui i membri della tribù uccidevano il loro totem, cioè l’animale sacro da cui credevano di essere discesi, nutrendosi poi delle sue carni; ma in tutto il resto dell’anno, l’animale era considerato tabù, ed ucciderlo e mangiarlo sarebbe stata la più grave delle colpe. Analizzando questo rituale in chiave psicanalitica, freud vide simboleggiata in esso l’uccisione del Padre o Capostipite (il totem) da parte dei Figli (i componenti della tribù). Al delitto, provocato dal carattere tirannico del padre, padrone assoluto delle mogli e dei figli, faceva immediatamente seguito un terribile senso di colpa, che opprimeva tutti gli uccisori, costringendolo in qualche modo a riparare. Perciò essi identificavano il Padre con l’animale-totem , che non si può né cacciare, né uccidere, né mangiare, se non in quell’unica occasione in cui il tabù viene infranto e l’antico delitto viene rievocato. Alla luce di questa teoria, la primitiva struttura delle tragedia non sarebbe altro che una cerimonia di tipo totemico, in cui l’eroe è il Padre, che narra le sue luttuose vicende, mentre i componenti del coro incarnano i Figli omicidi. Secondo Freud, oltre che nell’origine della tragedia, il ricordo di questo dramma primordiale sarebbe stato identificabile anche nel mito di Urano, Kronos e Zeus.»

Relativamente all’opera Totem e tabù di Freud, si veda l’edizione Newton Compton, Roma, 2002.

9

Henninger, J. , Ist der sogennante Nilus-Bericht eine brauchbare religionsgeschichtliche Quelle? , “Anthropos” 50, pp. 81-148, 1955.

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Resta comunque di notevole interesse il contributo metodologico del filone di studi inaugurato dallo studioso scozzese, ossia di individuare nel sacrificio un meccanismo di doni e di scambi con una doppia valenza: da un lato il rapporto tra uomini e divinità, in cui l’essere sovrumano viene integrato nelle relazioni sociali mediante l’offerta e il dono; dall’altro, la relazione che lega tra di loro i partecipanti al rituale, la comunità dei praticanti, la quale, attraverso l’identificazione con la divinità del gruppo, celebra la propria solidarietà ed i vincoli che la tengono unita. Robertson Smith, in tal modo, ha contribuito ad evidenziare il contesto simbolico e sociale che si articola intorno al corpo della vittima, il senso di comunione, condivisione da parte di tutti i partecipanti di un insieme di pratiche corporali, di gesti e di significati che esprimono i valori sociali del gruppo.

2.2. 3 Hubert e Mauss: il sacrificio come “consacrazione”

Sempre sul finire dell’800, basandosi sulla documentazione a loro disposizione, ed in particolare sui riti sacrificali dell’India Vedica e degli antichi Ebrei, H. Hubert e M. Mauss pongono l’accento non tanto sulla trasformazione simbolica della vittima, quanto sull’effetto che il sacrificio determina su coloro che ne sono gli attori principali, ossia sui sacrificatori.

In questa prospettiva, il sacrificio produce una trasformazione della condizione di colui che lo pratica, mentre l’oggetto sacrificato agisce come termine mediatore tra la sfera del profano e quella del sacro. Il corpo della vittima, in quanto mediatore, viene distrutto perché la pericolosità della sfera del sacro è tale da non poter essere avvicinata impunemente. Secondo l’ottica della scuola sociologica francese, pertanto, il sacro si rivela come una proiezione di forze e meccanismi sociali: il sacrificio non è che uno strumento attraverso il quale l’individuo ha accesso alla sfera sacrale, possiede la facoltà di entrare in comunicazione con il mondo soprannaturale. Inoltre, dal momento che le potenze ultraterrene non sono altro che proiezioni di forze sociali, il sacrificio si configura come un mezzo

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mediante il quale l’individuo riconosce la propria dipendenza dalle influenze e dalle rappresentazioni collettive. La prospettiva di Hubert e Mauss, tuttavia, va oltre il semplice riconoscimento del sacrificio come fatto sociale: essa si delinea come tentativo di ricostruire la logica che soggiace ai fenomeni sacrificali.10 In questo contesto la figura dell’entità a cui si rivolge il sacrificio viene oscurata e si scolora in una più o meno definita ipostatizzazione della società stessa. Di contro l’attenzione si sposta sul sacrificatore e sulle modificazioni che la sua condizione subisce attraverso il processo sacrificale: l’uomo accede a una diversa dimensione sacrale mediante la manipolazione della vittima, che assume le caratteristiche di un simbolo, di un tramite. L’oggetto o l’animale che si distrugge offrendolo alla divinità è lo strumento che consente al sacrificatore di passare a una condizione diversa, di manipolare e modificare il proprio rapporto con la sfera sacrale. D’altra parte, l’oggetto sacrificato assume anche caratteristiche che lo assimilano o lo identificano con il sacrificatore. In questa ottica, pertanto, si può collegare il sacrificio di un oggetto esterno con la pratica dell’autosacrificio. La vittima offerta in sacrificio costituisce, così, una parte del corpo del sacrificatore stesso, lo rappresenta, si identifica con lui: in molti casi, ciò che di più prezioso il sacrificatore può offrire è il proprio corpo, il proprio sangue.

Sempre in relazione alle teorie sul sacrificio fornite da Hubert e Mauss, tra i Maya del periodo classico, ad esempio, l’offerta del proprio sangue da varie parti del corpo costituiva una pratica diffusa e ricorrente: alcune spine venivano infilate nella lingua, nelle labbra, nelle guance, nelle orecchie o nel pene, e il sangue veniva lasciato scorrere liberamente. In questo modo i Maya cercavano probabilmente di ottenere una visione quale manifestazione di un antenato o di una divinità. L’offerta di sangue rappresentava uno dei principali “ingredienti” della loro pietas e costituiva parte integrante di ogni attività rituale.11 Al loro

10

Hubert, H. - Mauss, M. , Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, “Année Sociologique” 2, pp. 29-138, 1899.

11

Sulla questione significativa l’opera di Schele, L. e Miller, M. E. , The blood of kings, London, 1986.

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arrivo gli Spagnoli, inorriditi da queste pratiche, le condannarono e le repressero con brutalità in quanto manifestazione di idolatria e paganesimo, dimenticando peraltro quanto spesso le feste e le processioni del mondo cattolico ispanico fossero teatro di flagellazioni, macerazioni e mortificazioni corporali, le cui finalità andavano nella stessa direzione.12

2.2.4 Wundt e Schmidt: il sacrificio come “oblazione dovuta”

La configurazione del sacrificio-dono teorizzata da Hubert e Mauss viene stravolta a distanza di qualche decennio da padre W. Schmidt nell’adattamento che egli ne fa alla propria ipotesi del “monoteismo primordiale”, come prima forma religiosa dell’umanità. Da questo punto di vista il dono sacrificale non è più considerato per la sua efficacia obbligante, ma diventa l’oblazione dovuta ad un Essere supremo per attestare la sua signoria sul creato. Per giungere a questo significato padre Schmidt privilegia, mettendola all’origine di ogni pratica sacrificale, la cosiddetta “offerta primiziale” rinvenibile presso le popolazioni più primitive (e, perciò, attestante, secondo padre Schmidt, una notevole anteriorità rispetto al sacrificio complesso relativamente recente teorizzato da Hubert e Mauss) ed il cui meccanismo peraltro si spiega nel senso di un atto dovuto al destinatario sovrumano senza avere su di esso alcun effetto obbligante.13

L’aspetto dell’ “oblazione dovuta” era stato proposto all’attenzione, prima di padre Schmidt e comunque secondo un differente modulo interpretativo,

12

Notizie in proposito in Romano, R. , I conquistadores: i meccanismi di una conquista coloniale, traduzione di L. Banfi, Milano, 1974.

13

Queste teorie sono riportate da Schmidt in Ethnologische Bemerkungen zu theologischen Opfertheorien , Sahrbuch des Missionhausens St. Gabriel, vol. I, Mödling Bei Wien, 1922, in cui sostiene tra l’altro che il "sacrificio" ha origine, nelle arcaiche società dei "cacciatori raccoglitori", nel "sacrificio delle primizie", ovvero nella donazione all'Essere supremo, a cui tutto appartiene, di una parte del raccolto e della caccia. Tale meccanismo sacrificale fu ereditato, successivamente, dalle società pastorali ed agricole. E in queste ultime, il destinatario del sacrificio furono considerati i morti, ovvero gli antenati che hanno bisogno del "sacrificio" stesso per alimentarsi. Da questo passaggio con i defunti, Schmidt fece derivare il procedimento del "sacrificio" come meccanismo di scambio, eseguito in "cambio" dell'ottenimento di un risultato.

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dell’etno-psicologo W. Wundt, per il quale l’origine del sacrificio andrebbe ricercata in riti espiatori volti a riparare le conseguenze di una violazione di un tabù. In questa ottica la linea esegetica fondata sull’espiazione, porta a considerare l’offerta sacrificale come un “male minore” (comunque controllabile perché ritualizzato) sostitutivo di un “male maggiore” (incontrollabile, accidentale: una disgrazia, una punizione divina, ecc.); dunque contiene in sé tanto l’idea del dono obbligante (in vista della liberazione dal “male”) quanto l’idea del dono dovuto (in vista della liberazione da “colpe”).14

Questo principio della funzione sostitutiva del sacrificio è stato portato alle estreme conseguenze da G. van der Leeuw, il quale, muovendo dalla “legge di partecipazione” formulata da Lévy-Bruhl (per cui la personalità di un individuo si prolunga nelle sue appartenenze), asserisce che ogni sacrificio è sempre sacrificio di se stessi. 15

2.2.5 Loisy: il sacrificio tra “dono” e “rito magico”

All’incirca nello stesso periodo A. Loisy pubblicò un voluminoso saggio sul sacrificio che riscosse subito un’ ampia diffusione forse per il suo carattere sistematico, ma probabilmente anche per un generale interesse alla teologia “modernista”, professando la quale Loisy, sacerdote cattolico, fu sospeso a

divinis e poi scomunicato nel 1908. Di fatto con Loisy si torna al sacrificio-dono

di Tylor operante nella logica del do ut des; la differenza sta nella tesi che tale forma sacrificale sia sorta dalla fusione di due fenomeni distinti: il dono alimentare gratuito che avrebbe avuto origine dalla “nutrizione” dei morti, e il rito magico compiuto con l’idea di ottenere per suo mezzo effetti di ogni sorta. Tra le varie tipologie del fenomeno sacrificale finora individuate attraverso gli studiosi sopra citati, si ricava ineluttabilmente che uno degli aspetti più

14

Wundt, W. , Völkerpsychologie, 10 Bände, 1900 – 1920.

15

Van der Leeuw, G. , in Phanomenologie der Religion, Tübingen, 1933, criticò il "dono" alle potenze sovrumane così come inteso da Tylor, sostenendo che il sacrificante "dona" qualcosa che gli appartiene personalmente e quindi "dona" parte di sé.

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inquietanti e, al tempo stesso avvincente del sacrificio consiste nella soppressione cruenta di una vittima: fermo restando che esistono varie forme di sacrificio che includono offerte e distruzioni di oggetti, di prodotti vegetali, di bevande o di altri beni, è certamente il sacrificio di sangue quello che ne costituisce il modello per antonomasia e che ne fa una forma di culto del tutto singolare. Il fatto poi che varie tradizioni religiose (ad esempio lo zoroastrismo e il buddhismo, oltre che l’ebraismo postesilico e l’islamismo) si siano scagliate con forza contro la pratica dei sacrifici di sangue ne sottolinea l’evidente antichità, ma al tempo stesso la variabilità di interpretazione e di valorizzazione religiosa.16

2.2.6 Jensen: il sacrificio come “riattualizzazione” del mito

L’enigmatica caratteristica del sacrificio, di essere cioè un rituale religioso che si prefigge di promuovere il benessere della comunità dei praticanti, la benevolenza degli esseri soprannaturali e la scrupolosa esecuzione delle tradizioni sacrali attraverso l’uccisione di un essere vivente, fu affrontata, fra i primi, dall’etnologo tedesco A. E. Jensen, nell’ambito dell’Istituto di Morfologia Culturale, fondato a Monaco dall’africanista Frobenius. Jensen considerò l’interpretazione del sacrificio inteso quale dono offerto ad una divinità come nient’altro che una sopravvivenza impoverita e deformata di una pratica che aveva avuto la sua origine fra le più antiche culture di agricoltori. Per questi popoli il cosmo si presentava basato su un ordinamento instabile, in cui si alternavano periodicamente distruzioni e ricreazioni, morti e rinascite, così come accade ai prodotti dei campi, che devono essere tagliati e distrutti: seppelliti poi i semi, questi daranno vita, la stagione successiva, a un nuovo raccolto. Ispirandosi alle popolazioni dell’area indonesiana, Jensen riteneva che l’uccisione rituale di uomini e animali non fosse altro che la riattualizzazione di un mito, a suo parere universalmente diffuso tra le culture di orticoltori primitivi. Secondo tale mito,

16

Notizie sparse sull’elemento del sangue nei riti sacrificali in Grottanelli, C. , Il sacrificio, Roma-Bari, 1999.

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nei tempi primordiali esistevano esseri semidivini, chiamati dema. La prima morte, la morte del dema, era caratterizzata dal fatto di non essere un semplice morire, ma di costituire una morte violenta spesso seguita dallo smembramento del corpo, un atto gravido di conseguenze. Il momento dell’uccisione separa infatti idealmente un “prima” mitico, in cui vigevano diverse condizioni di esistenza, da un “dopo” , corrispondente al tempo storico e all’attuale stato delle cose. Dal corpo della vittima uccisa in modo violento e smembrata, infatti, sarebbero sorti per la prima volta gli alimenti fondamentali per la sussistenza di quel dato popolo. Non solo dal momento della morte del dema si sarebbe dispiegata l’esistenza umana nella sua realtà biologica e culturale (la mortalità, la possibilità di generare, la caccia, ecc.), ma tutti i riti e le cerimonie di questi popoli coltivatori primitivi dovevano essere intesi, nella prospettiva di Jensen, come delle riattualizzazioni di questo divino accadimento primordiale tanto importante e commemorato dal mito stesso.

Emblematico è il caso del mito Hainuwele, essere dema dei Wemali di Ceram: la fanciulla, nata straordinariamente da una palma, fu uccisa nel corso di una grande danza cerimoniale dagli uomini, gelosi per il fatto che ella era in grado di distribuire grandi ricchezze. Questi uomini la fecero cadere in una fossa e la seppellirono nel corso della danza, ma il padre estrasse il cadavere, lo fece a pezzi e riseppellì le singole parti del suo corpo. Da quel terreno nacquero i bulbi, di cui principalmente si nutrono i Wemali: da allora gli uomini possono anche sposarsi e morire, cosa che non accadeva prima. Tutte le cerimonie, dai riti di iniziazione, alla caccia alle teste, al cannibalismo, ripetono in qualche modo la vicenda narrata dal mito e sarebbero incomprensibili al di fuori del loro legame con essa. Tutto ciò che risultava indispensabile per la vita e la sussistenza quotidiana, dunque, trova il suo fondamento in una mitica uccisione originaria che viene ripetuta, per l’appunto, con funzione di rifondazione proprio mediante il rito.17

17

Le teorie di Jensen, A.E. sono raccolte nella sue opere: Come una cultura primitiva ha concepito il mondo, Torino,1948 e Mythos und Kult bei Naturvölker, Wiesbaden, 1951.

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Da quanto detto emerge chiaramente che l’interesse di Jensen era rivolto essenzialmente al mito da cui si faceva derivare solo secondariamente il rito, come sua commemorazione, pur nella necessaria concatenazione organica dei due aspetti nel totale della vita religiosa di una società.

2.2.7 Burkert e Girard: il sacrificio violento come “atto” per eccellenza Tutta una corrente di studi già fin dagli inizi del XX secolo si è indirizzata nell’attribuire al sacrificio una particolare potenza ed efficacia, giungendo a rivendicare la necessità e il valore cosmico, se non cosmogonico, dell’atto di uccidere in sé e per sé. Ecco pertanto che in buona parte del pensiero del XX secolo il tema dell’uccisione o della messa a morte violenta, soprattutto quella raggiunta mediante lo spargimento e l’effusione del sangue, occupa una posizione centrale.

Da più parti, infatti, studiosi e autori di diversa formazione e difforme inclinazione hanno concordato nell’attribuire in qualche modo all’atto violento una particolare efficacia. Su questo filone si è fatta strada, in modo sempre più insistente, una pericolosa concezione dell’uccisione come atto in qualche modo “centrale” e fondante per l’esistenza umana.

In molteplici teorie proposte in questo secolo per l’appunto, il gesto violento appare come “l’atto” per eccellenza, quello che assicura la stabilità degli edifici e Sulla figura del dema fondamentale l’opera di Sabbatucci, D. , Sui protagonisti dei miti, Roma, 1981.

Sull’etimologia e su ulteriori note esplicative del termine dema significativa è la voce di G. Della Ragione, s.v. in GDE , vol. VI, pp. 412-13, che peraltro rimanda Jensen, A.E. , Mythes et cultes chez les peuples primitifs, Parigi, 1954, e che si riporta contestualmente: «Termine (dal papua) dei Marind-anim della Nuova Guinea introdotto da Jensen. Indica una particolare categoria di eroi culturali, sia maschili che femminili, che al tempo delle origini, attraverso la loro morte, in genere violenta e per smembramento, diedero vita all’esistenza sulla terra e in particolare al mondo delle piante e quindi della nutrizione. I dema sono anche capostipiti di gruppi clanici e sono si solito connessi con una mitologia di tipo lunare, tipica delle culture agricole arcaiche. Tali figure si differenziano dalle divinità vere e proprie poiché non sono oggetto di un culto propiziatorio, ma vengono ricordate solo nelle cerimonie che rievocano il mitico tempo delle origini e ripetono in modo drammatico gli atti istitutivi della vita sociale e della cultura.»

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l’accesso agli alimenti fondamentali, che inaugura le istituzioni e le rende accessibili al gruppo, quello cioè con cui si deve inaugurare ogni nuovo corso, che garantisce l’ordine, ma soprattutto la possibilità stessa del vivere in società. L’uccisione, pertanto, si configura come atto necessario e vitale, quello da cui non si potrebbe in alcun modo prescindere senza dover rinunciare al tempo stesso anche a quegli elementi che costituiscono l’essenza stessa della cultura umana nella sua specificità.

Su questa linea si collocano in particolare due celebri testi che riassumono, per così dire, un filone cardine del pensiero storico-antropologico occidentale del Novecento e che appaiono fondamentali per comprendere il problema della funzione fondante attribuita al sacrificio, inteso, come più volte ribadito, come messa a morte cruenta di una vittima scelta. Si tratta di: Homo necans18 del

grecista Walter Burkert, e La violenza e il sacro19 del critico letterario René

Girard. Pubblicate nel medesimo anno, il 1972, le due opere, attingendo a fonti diverse e perseguendo obiettivi altrettanto differenziati, pongono ugualmente il problema delle origini violente di ogni fenomeno culturale, quindi anche religioso: violenza che fonda e giustifica la possibilità stessa per l’uomo di vivere in società.

In particolar modo appare inquietante l’affermazione della necessità di un collegamento fra la “violenza” e il “sacro”, principio affermato da Girard già programmaticamente nel titolo della sua opera, ma presente non di meno anche nel pensiero di Burkert. Anzi, proprio quest’ultimo definisce l’onnipresenza del sacrificio cruento un “paradosso”, un’ “anomalia” sconcertante20 , uno “scandalo”21

, riferendosi al fatto che al cuore stesso delle religioni e dei loro riti

18

Burkert, W. , Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Torino, 1981.

19

Girard, R. , La violenza e il sacro, Milano, 2000 (1972).

20

Burkert, W. , The Problem of Ritual Killing, in Violent Origins: Walter Burkert, René Girard and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation, pp. 149-176, in particolare pp. 162-3, Stanford, 1987.

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si ritrova proprio l’uccisione, il versamento di sangue: il sacrificio sarebbe così solo l’espressione più palese di questa “violenza sacra”.

Le prospettive e i metodi d’indagine dei due autori, nonostante le premesse, tuttavia si rivelano particolarmente diversi. Burkert approda alla sua teoria mediante un’analisi dei complessi mitico-rituali della Grecia antica. Recuperando la tesi di Karl Meuli sulla continuità fra rituali di caccia e sacrificio (da lui proposta nel 1946 nel saggio Griechische Opferbräuche22), propone una lettura in qualche modo “biologica” dell’immolazione rituale, incentrata sul concetto di colpa come reazione umana ad una “prima uccisione”.

Girard, al contrario, attinge da più fonti e deduce la sua “ipotesi scientifica” da un vasto repertorio di studi in primo luogo letterari, ma anche etologici, etnologici, nonché dalla conoscenza di miti e riti di varie culture. Attraverso un’analisi che spazia fra i fenomeni più diversi, egli individua nel meccanismo dell’unanime violenza indirizzata contro una vittima espiatoria il principio unico e universale che garantisce ogni forma di espressione culturale umana. Per Girard, perciò, il concetto chiave è quello di “capro espiatorio”, espressione mutuata dall’episodio biblico narrato nel Levitico23, che riguarda il “caper

emissarius”, della Vulgata ma piegato ad un significato nuovo. Notevoli sono infatti le differenze formali, intenzionali, come pure l’origine del sacrificio e la natura del capro espiatorio girardiano rispetto a quello biblico.

Nel Levitico si racconta il rito per il Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur), quando Aronne, fratello di Mosè e sacerdote prototipico, prese due capri e tirò a sorte per deciderne il destino: uno lo offrì al Signore, l’altro lo inviò nel deserto come offerta ad Azazel, dopo aver imposto su di lui tutte le colpe del popolo di Israele.

Il “capro espiatorio” di Girard, al contrario, non è inserito nel quadro di un rituale: è la vittima casuale di un linciaggio ripetibile, sulla quale si scarica la violenza collettiva da lungo tempo accumulata in seno alla comunità ed in cerca

22

Meuli, K. , Griechische Opferbräuche, Schwabe, 1946.

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di sfogo. Esso dunque condivide con quello biblico solo il concetto molto generico di un “trasferimento” di qualcosa che riguarda la collettività su un solo soggetto arbitrariamente scelto. In un caso, tuttavia, si tratta dell’insieme delle “colpe” del popolo, nell’altro delle tendenze aggressive dell’intera comunità: le funzioni si rivelano palesemente diverse.

Questo risulta essere il concetto-chiave intorno al quale si articola il pensiero di Girard; per Burkert, invece, si può dire che tutto ruoti intorno al problema del sentimento di “colpa” del gruppo stesso dal quale deriva l’aggressività. Quest’ultima è descritta come una peculiarità insita nell’uomo, da lui convogliato verso degli oggetti esterni non appartenenti alla specie, ma successivamente, in realtà, anche verso gli appartenenti alla specie stessa.

L’uomo si qualifica, dunque, nel pensiero di Burkert, rispetto agli altri primati, in primo luogo in quanto hunting ape. La caccia implica infatti la cooperazione fra gli individui, la differenziazione di ruoli fra sessi, la distribuzione della carne conquistata, l’uso del fuoco e delle armi, oltre alla stessa postura eretta dell’uomo. Si tratta, in sintesi, di quella che Burkert definisce hunting hypothesis

of hominization24 .

È dunque la caccia che fa l’uomo nella sua specificità e che gli permette di soddisfare il bisogno naturale di nutrirsi; è attraverso la caccia inoltre che si istituisce la prima comunità umana. In proposito Konrad Lorenz25 per primo aveva osservato questo meccanismo per cui dal comportamento aggressivo poteva facilmente generarsi un legame di solidarietà fra gli aggressori.

In Burkert, però, la società appare retta non solo dall’aggressività, ma anche dalla condivisione del senso di colpa dell’uomo per quel gesto di uccidere, che doveva

24

Burkert, W. The Problem of Ritual Killing , Op.cit. (1987), p.164.

25

Lorenz, K. , L’aggressività, (trad.it. Bolla, E.), Milano, 2008. Nell’opera l’autore definisce l'aggressività come la pulsione combattiva fra individui della stessa specie. Lo spunto di Lorenz è la bellicosità innata dei pesci della barriera corallina, i cui maschi, in mancanza di rivali del proprio sesso, arrivano ad attaccare le proprie femmine e la prole. A partire da qui l'autore prende in esame vari esempi di aggressività nel mondo animale, andando in cerca di motivazioni e modalità: dai combattimenti rituali dei lupi e dei leoni alle colonie di ratti, i cui membri sono solidali tra loro ma spietati nei confronti di chi non ne fa parte. L'uomo, in ultima analisi, risulta l'unico animale incapace di trovare un equilibrio tra istinti aggressivi e modi per inibirli o sfogarli.

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sembrargli tanto necessario quanto terribile. Versare il sangue di un altro essere vivente, anche non umano, in cui l’uomo in ogni caso si identificava, avrebbe prodotto infatti uno shock traumatico legato ad un’inibizione biologica mirante alla conservazione della specie. Tuttavia, per nutrirsi, proprio questa inibizione naturale doveva essere superata attraverso dei dispositivi culturali: per far fronte al senso di colpa sarebbero stati inventati i primi riti, ascrivibili già ai cacciatori del paleolitico, consistenti per lo più in tentativi di negazione dell’atto compiuto e di restituzione simbolica della vittima, con probabili manifestazioni di “lutto”.26

Atti di tale tipologia sono descritti, secondo l’efficace espressione coniata da Meuli, come delle vere e proprie “commedie dell’innocenza”27

. In ogni caso, per elaborare il senso di angoscia che ne conseguiva, all’atto di uccidere sarebbe stato conferito un valore “sacro”, “religioso”: l’uomo così diventa homo

religiosus, in quanto homo necans.

Da questa esperienza preistorica, e per far fronte alle stesse esigenze, derivò poi il sacrificio vero e proprio, in cui la ritualizzazione dell’atto di uccisione aveva, ancora una volta, la stessa palese funzione di riparazione e di discolpa.

È l’uccisione, lo spargimento di sangue, dunque, l’esperienza fondamentale e fondante del “sacro”. Ogni forma religiosa deve interpretarsi come la risposta al conflitto intimo vissuto dalla hunting ape delle origini, scissa tra la necessità di nutrirsi e il trauma che necessariamente ne derivava. In questa chiave e secondo tale interpretazione si dovrebbero leggere, quindi, tanto i tentativi di restituzione dei cacciatori del paleolitico quanto il sacrificio poi praticato nella Grecia antica: si tratta di ritualizzazioni atte a giustificare la messa a morte dell’animale il cui reale fine da parte dell’uomo è quello di nutrirsi.

26

Le problematiche relative alla presenza del sacrificio, ma in genere della dimensione rituale, presso l’umanità preistorica, presentano una vasta e talvolta ambivalente letteratura. Ad esempio un filone di ricerca tende a demolire l’interpretazione ritualistica di molti celebri ritrovamenti preistorici, come le serie di crani allineati di orsi. Su tali tematiche si vedano Chirassi Colombo, I. , Problemi per lo studio dei fatti religiosi della preistoria, in Les religions de la prehistoire. Valcamonica Symposium ’72, a cura di Anati, E. , pp. 567-581, Capo di Ponte, 1975 e Lee, R.B. - De Vore, I. , Man The Hunter, Chicago, 1968.

27

L’espressione “commedia dell’innocenza” è la traduzione italiana dell’originario termine tedesco “Unschuldkomödie”, coniata da Meuli, K. nel saggio già citato Griechische Opferbräuche, pp. 907- 9.

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Quella di Burkert appare dunque come una lettura in qualche modo “bio-storico-antropologica”: l’homo sapiens, infatti, per la sua costituzione e per la sua presunta necessità di cibarsi di carne, non poteva essere allo stesso tempo homo

necans e in conseguenza, come si è visto, homo religiosus. Il sacrificio, pertanto,

fatto derivare dalla caccia, attività atta a soddisfare il bisogno biologico di nutrirsi, risulta rappresentare uno schema di reazione all’ansietà dell’uccidere. Del resto, Burkert, in un suo testo più recente, intitolato Creation of the Sacred.

Tracks of Biology in Early Religions28 ,individua alcune matrici biologiche relativamente all’insieme dei modelli simbolici che possono essere definiti “religione”. La “religione” è collocata, infatti, nell’incerto confine fra biologia e cultura, in quanto ripropone “degli schemi biologici di azione, reazione e sentimenti”29. Essi esistono in prima natura già presso gli animali: l’uomo li ha,

però, rielaborati attraverso la pratica rituale e gli insegnamenti verbali, allo scopo di superare situazioni d’angoscia. Programmi biologici più antichi ancora dell’homo sapiens si conservano dunque sviluppando caratteristiche particolari: essi vengono incorporati nella tradizione che definiamo religiosa allo scopo di superare e controllare angosce che sono tutte profondamente umane.

Tale appare in modo evidente, per Burkert, l’atto sacrificale: il rito, partendo da presupposti puramente biologici, li rielabora sul piano culturale in modo da controllare l’angoscia umana dell’uccidere. Biologica è infatti la necessità di cibarsi, altrettanto biologica è allo stesso tempo l’inibizione ad uccidere un altro essere vivente; religioso e, dunque, biologico-culturale risulta il ciclo di aggressione-rimorso-compensazione, con cui l’uomo controlla l’angoscia ed il conflitto mediante la ritualizzazione dell’atto traumatico. Si tratta, come detto, di un modo di reagire all’ansietà, indirizzando quest’ultima ad un controllo attivo della realtà mediante la ritualizzazione di comportamenti che hanno, in origine, radici meramente biologiche. Il comportamento rituale, in questo caso, quello per

28

Burkert, W. , Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions, Massachussets-London, England, 1996.

29

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l’appunto sacrificale, è prospettato da Burkert30 in termini ancora socio-biologici,

come una strategia, che nell’ambito della selezione di gruppo si è dimostrata di successo ed è stata dunque tramandata come proficua per l’evoluzione delle società. La ritualizzazione di situazioni traumatiche, come quella che ha luogo nel sacrificio, deve aver garantito all’uomo notevoli vantaggi ed essersi dimostrata funzionale al suo sviluppo.

Nella sua opera dedicata alla presentazione critica del sacrificio come modello rituale31, Cristiano Grottanelli rileva che, sebbene la teoria di Burkert (derivazione del sacrificio dai rituali dei cacciatori del Paleolitico) possa incontrare talune difficoltà, tuttavia allo studioso tedesco, si deve riconoscere l’indubbio merito di aver messo in luce per primo il problema del “trauma sacrificale”, ossia di quel senso di malessere diffuso che evidentemente appare legato all’uccisione. Esso sarebbe dimostrato da quella volontà di negazione, tanto palese nel mito di fondazione dei boufo/nia, letteralmente “immolazioni di buoi”, antiche feste ateniesi, attestate anche da Aristofane32 . Il complesso mitico

rituale greco è scelto da Burkert come un tipico caso di “commedia dell’innocenza”: si tratta di quello giuntoci attraverso un’opera del neopitagorico Porfirio33, che riassumendo però un testo più antico di Teofrasto, commemora il

30

Burkert, W. , The Problem of Ritual Killing , Op.cit. (1987), pp. 156-8.

31

Grottanelli, C. , Il sacrificio , Op.cit. , pp. 28-33.

32

Aristofane, Nuvole, 985 sgg., in un celebre passo in cui parla il Discorso Peggiore (O ETTWN LOGOS) che così si esprime: «Roba d’altri tempi, come le Dipolie: un’orgia di cicale, di Cecida e di Bufonie.» (Traduzione da Aristofane, Commedie, a cura di Mastromarco, G. , Vol. I, p.405, Torino, 1997.)

33

Porfirio, De Abstinentia, 2,10. Se ne riassume qui il contenuto: un contadino, non cittadino ateniese, Sopatro, indignato perché il suo bue da lavoro aveva disturbato un’azione sacra, in un moto d’ira uccise l’animale. Consapevole della gravità del suo gesto (nella situazione pre-attuale del tempo mitico ogni effusione di sangue era irreparabile e comportava un’insanabile impurità, per cui il colpevole non avrebbe più potuto far parte del gruppo), l’uomo fuggì, ma una prescrizione oracolare impose di richiamarlo e di ripetere simbolicamente l’uccisione a scopo di espiazione, abbinando tuttavia il rito ad una valutazione di tipo giudiziario. Al rito doveva partecipare l’intera comunità, Sopatro compreso, e tutta la comunità doveva rispondere della colpa. Così si fece, ma alla fine si condannò il coltello sacrificale, la ma/xaira, con la quale il bove era stato ucciso, che fu gettata nel mare. Ogni anno ad Atene si ripeteva ritualmente questa vicenda in occasione di un’antica festa in onore di Zeus.

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primo spargimento di sangue e con esso l’introduzione del sacrificio cruento e dell’alimentazione carnea nella po/lij ateniese.34

Il senso del complesso mitico-rituale in questo caso è emblematico: si trattava di un estremo tentativo di negare, riparare e giustificare quell’atto violento, che era tuttavia necessario per nutrirsi. È evidente dunque che l’uccisione dell’animale, in questo caso poi si parla dell’uomo nelle fatiche rurali, doveva essere percepita come un atto particolarmente empio (o almeno, di certo, lo era nella lettura di un filone di pensiero ben presente nella cultura greca come movimento di margine, quello definito orfico-pitagorico) e doveva accompagnarsi ad un notevole senso di disagio. Il malessere avvertito nell’esecuzione del sacrificio cruento pare ugualmente dimostrato anche da un’altra usanza, quasi sempre presente nei riti sacrificali ordinari dei Greci, la ricerca di un “assenso” della vittima, prima di procedere alla sua uccisione.

Questo gesto, così come i vari tentativi di restituzione e di rinnovamento, che Burkert osserva nei vari complessi mitico-rituali greci, testimonierebbe un tentativo di negazione della morte o quantomeno, di renderla funzionale in una prospettiva che la veda necessaria per riaffermare la vita, in un contesto di

renovatio.

È per questo che i tre momenti fondamentali del sacrificio individuati da Burkert, preparazione, atto “indicibile” e restituzione, trovano una particolare espressione nelle feste di dissoluzione e rinnovamento che avevano luogo in Grecia al termine dell’anno.

In ogni caso i Boufo/nia testimoniano parallelamente, oltre al disagio dello spargimento del sangue, anche il potere fondatore attribuito a questo stesso gesto che pure suscita orrore. Difatti, anche se ci troviamo qui nell’ambito puramente mitico, l’uccisione del bue, benché percepita come sacrilega (o forse proprio per questo), viene ritenuta all’origine di aspetti importanti della vita umana: fonda l’alimentazione carnea dell’uomo, prima non consentita, e poi ammissibile solo in seguito all’uccisione sacrificale, nonché l’essere cittadini, il vivere

34

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57

politicamente.35 La vita politica è infatti basata sulla partecipazione dei cittadini alla “colpa”, cioè all’uccisione del bove da lavoro, compagno dell’agricoltore.36

Sempre sulla questione del sacrificio e della sua spartizione quale pasto comune, Marcel Detienne, grecista, antropologo e storico delle religioni, mette giustamente in luce come la pratica sacrificale in Grecia rinvii contemporaneamente alla pratica alimentare e a quella politica: nessuna alimentazione carnea poteva aver luogo senza sacrificio e nessun potere politico poteva essere esercitato senza offerta sacrificale: tutte le attività più importanti della città, infatti, dovevano essere sancite da questo rito e dal conseguente pasto comune. Erano chiaramente in rapporto al tessuto politico e alla gerarchia sociale anche le modalità di spartizione della vittima sacrificale: ad Atene, una volta prelevati pezzi di prima scelta, cioè la porzione particolare accordata a coloro che possedevano un “onore” o una “dignità” particolari, il resto era oggetto di una divisione egualitaria.37 In questo caso dunque l’uccisione sacrificale (lo spargimento di sangue), si collega direttamente alla sfera non di un sacro inteso in modo assoluto, ma di un “sacro” che organizza ed è organizzato dalla dimensione politica.

Girard, rispetto a Burkert e a Detienne, si spinge oltre riconducendo esplicitamente qualsiasi forma di espressione culturale, dal potere politico a quello giudiziario, dal teatro alla filosofia, all’atto violento, fino al punto di affermare:

«L’unità, non solo di tutte le mitologie e di tutti i rituali, ma della cultura umana nella sua totalità, religiosa e antireligiosa, e questa unità delle unità è tutta quanta sospesa a un unico meccanismo sempre operativo perché sempre misconosciuto, quello che assicura spontaneamente l’unanimità della comunità contro la vittima espiatoria ed intorno ad essa.»38

35

Detienne, M. , Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, in La cucina del sacrificio in terra greca, a cura di Detienne, M. – Vernant, J.P. , pp. 7-10, Torino, 1982 (1979).

36

Chirassi Colombo, I. , La religione in Grecia, Op.cit. , p.91.

37

Detienne, M. , La cucina del sacrificio in terra greca, Op.cit. , pp. 18-9.

38

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L’idea centrale del testo di Girard, infatti, poggia sul fatto che la violenza insita in ogni società umana, che porterebbe naturalmente alla sua distruzione, possa essere domata solo se canalizzata da tutti i suoi membri, uniti, contro un unico capro espiatorio. Nell’ipotesi girardiana, infatti, la violenza appare come un atto che non si può in alcun modo neutralizzare, in quanto connaturata all’essere umano.

Riassumendo sinteticamente i termini estremi dell’ipotesi girardiana, conseguono alcuni punti salienti: si può solo opporre alla cattiva violenza, indifferenziata e dilagante senza controllo all’interno della comunità, una violenza “buona”; questa infatti appare regolata e diretta in genere contro un oggetto in qualche modo esterno, e come tale sacrificabile, di solito un animale, oppure soggetti comunque marginali, come gli schiavi, i prigionieri di guerra, quello che costituiva il fa/rmakoj dell’antica Grecia, oppure il re delle monarchie sacre africane, studiate da Frazer39, oppure anche altro.

Per Girard la “necessità” del sangue nasce dal fatto che il conflitto tra gli uomini è inevitabile, poiché l’essere umano, per sua natura, è portato a desiderare solo quanto gli altri desiderano. Proprio questa natura “mimetica” del desiderio lo porta ineluttabilmente ad entrare in conflitto con i suoi antagonisti: dal momento in cui la violenza si scatena, essa si propaga come un contagio in una catena infinita di vendette e ritorsioni, tale da minacciare l’esistenza stessa della comunità. Questo rischio può essere evitato solo a patto che la comunità intera ritrovi la propria unità nel polarizzare tutte le tensioni aggressive contro un unico oggetto, accettato da tutti e, come tale, ritenuto sacrificabile perché marginale e, quindi, non suscettibile di vendetta. La sua uccisione, o comunque la sua espulsione, permette di porre termine al contagio violento e di restaurare l’ordine e la pace, tanto che il “capro espiatorio” in principio considerato come malefico e terrificante, si configura come salvatore.

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Questo meccanismo continua ad essere ripetuto in ogni società da “tempi immemorabili”, da quando cioè gli uomini una prima volta ne avrebbero sperimentato casualmente l’efficacia.

Secondo Girard, infatti, se la violenza unanime contro la vittima espiatoria si pone come condizione necessaria per l’esistenza di una società, proprio una prima uccisione spontanea, avvenuta in tempi remotissimi, dovette essere all’origine di ogni ordine culturale. Tutti i riti e i miti conosciuti, tutte le forme culturali a noi note, anche profane, da allora, anche se non sempre esplicitamente, tendono a riattualizzare quest’atto fondamentale, che per la prima volta arrecò la pace nella società, allo scopo di vivificare e rinnovare l’ordine culturale. La violenza contro il “capro espiatorio” sarebbe quindi l’evento fondatore per eccellenza, garante di qualsiasi forma culturale attuale e necessaria perché una qualsiasi società possa esistere.

Secondo una lettura recente dei testi girardiani40, solo il Cristianesimo sarebbe riuscito a porre fine a questa prospettiva di eterna violenza rivelando per la prima volta il meccanismo della vittima espiatoria.

Benché correntemente si tenda, infatti, ad interpretare la Passione di Cristo come l’ennesimo caso di sacrificio di un capro espiatorio, Girard tenta di dimostrare una tesi diametralmente opposta. Già nell’Antico Testamento, per l’appunto, i profeti iniziarono a ripudiare il culto sacrificale, preferendogli il dono di sé, cioè “l’amore non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti”.41

Sono solo i testi evangelici, tuttavia, che portano a compimento definitivo questo processo: Gesù, infatti, non solo non rappresenta la vittima di una violenza spontanea e unanime (al contrario, egli è la vittima programmata delle autorità religiose e politiche), ma soprattutto smaschera il processo mimetico rivale dei

40

Colombo, A. , Il capro espiatorio nell’ipotesi scientifica di René Girard, in Colpa e sacrificio. Il sacrificio vicario nella storia delle religioni, a cura di Fiorensoli, D. , pp. 44-54, Verona, 2002.

Girard, R. , Generative Scapegoating, in Violent Origins: Walter Burkert, René Girard and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation, pp. 73-105, Stanford, 1987.

41

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suoi linciatori, rovesciando la vendetta in perdono e accettando liberamente di offrire se stesso per amore verso il prossimo e verso Dio.

Girard aggiunge inoltre che la morte di Gesù non è mai definita come un sacrificio nei Vangeli che negano la validità di qualsiasi sacrificio. Solo sulla base dell’ Epistola agli Ebrei di Paolo, i Cristiani avrebbero adottato questo termine per definire la morte di Cristo e, con esso, anche l’ideologia tipica dell’antica Legge, che attribuiva al sangue il potere di redimere, riscattare, purificare, ma si trattava pur sempre di un sangue “tabuizzato”42.

Conseguentemente, fra le varie tipologie di sacrificio elencate nel Levitico, è da annoverare quella dei “sacrifici espiatori”, necessari a purificare l’altare e i luoghi santi in generale, e ad allontanare dal popolo l’impurità, la contaminazione procurata mediante i suoi peccati. Purificando l’altare, si credeva, il sangue sacrificale contribuiva in qualche modo anche a conservare il popolo in santità e dunque in comunione con Dio.43 Nei Vangeli, invece, secondo Girard, non si registra alcun sacrificio di questo genere, ma, al contrario, il rovesciamento della consueta tradizione sacrificale, con la vittima che offre spontaneamente se stessa, orientando per la prima volta la violenza sacrificale al servizio della libertà e dell’amore. I Vangeli, quindi, nella prospettiva girardiana, non possono essere letti come dei miti; al contrario essi sarebbero dei “demistificatori” di miti giacchè la visione adottata non è qui quella dei persecutori, con l’attribuzione della colpa alla vittima, ma quella del perseguitato, di cui è ampiamente riconosciuta l’innocenza: non c’è dunque alcuna vittima espiatoria in senso stretto, se con “espiatorio” si intende che la vittima sia diversa dal colpevole.

42

Sulla questione di notevole importanza risulta un passo emblematico dell’Antico Testamento: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue è spia, in quanto è la vita. Perciò ho detto agli Israeliti: nessuno tra voi mangerà il sangue, neppure lo straniero che soggiorna fra voi mangerà sangue:» Levitico 17, 11-12, trad. da La Sacra Bibbia, Op.cit. , p. 101.

43

Dictionnaire de la Bible, Supplement X, s.v. Sacrifice, p. 1928 sgg. , a cura di Pirot, L. , Paris, 1494-97.

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La lettura di Girard appare per molti aspetti sbilanciata nella supervalutazione della “novità cristiana”44; differentemente da quella di Burkert, l’interpretazione

di Girard implica sì la necessità dell’uccisione, sacrificale o meno di una vittima, ma al tempo stesso prevede anche la possibilità di un superamento del meccanismo vittimario violento.

La differenza fondamentale riconosciuta dai due studiosi, tuttavia, riguarda la scena originaria del sacrificio: per Burkert si tratta non di un accadimento fortuito e isolato, ma di una pratica necessaria che si sviluppò con la caccia; per Girard, invece, si tratterebbe di un generico avvenimento fondante, che poi servì da modello per le ripetizioni successive.

Sia per Girard che per Burkert, comunque, pur nelle specifiche e debite differenze, si possono rilevare numerose analogie con la scena originaria descritta da Freud in Totem e tabù45.

44

Su questo importante elemento della “novità cristiana” girardiana, risulta illuminante un saggio di Alejandro Llano: La nuova sensibilità, Milano, 1997, di cui si riporta un passo significativo: «… La rottura tra la fase mitologica e la religiosità autenticamente teologica si rivela nella tradizione ebraico-cristiana. Nell’Antico Testamento si produce un meraviglioso evento culturale che non promana dal naturale ingegno o dalla bontà degli uomini: viene data la parola agli innocenti, come accade nei Salmi o nel Libro di Giobbe, cui Girard dedica il suo bel saggio Antica via degli empi (trad. it. 1994). Ci si pone dalla parte della vittima, come Giuseppe, anziché appoggiare i persecutori, rappresentati dai fratelli maggiori, dalla moglie di Potifar o da certi dignitari egizi. Si pondera l’umiltà e la dignità della sofferenza. Si incomincia a scoprire che l’amore – differente dal mero desiderio – è più forte della violenza. Nelle narrazioni della Bibbia ebraica permangono, indubbiamente, non pochi residui di violenza mitica, poiché Dio rivela i propri disegni in modo graduale e tollerabile per l’uomo. Ma l’edificio mitologico incomincia a sgretolarsi, la violenza non dà più avvio al dinamismo religioso; il sacrificio non poggia più sul suo lato sanguinoso, ma se ne sottolinea il senso oblativo. Il tentato sacrificio di Isacco segna la rottura tra l’uno e l’altro atteggiamento: ciò che Iahvè chiede è la donazione dello spirito e non lo spargimento del sangue. Siamo ormai in un altro mondo culturale, sociale e religioso, che ha sempre meno a che vedere con la crudeltà e il terrore delle religioni arcaiche, così come è drasticamente lontano dai giochi erotici e dagli arbitri tipici dei mortali che connotano l’Olimpo greco-romano. Ci troviamo davanti a uno sforzo titanico per svincolare la Bibbia ebraica dall’interpretazione mitologica e per mostrare che in essa si apre un cammino decisivo per il futuro della coscienza umana, inaugurando il valore positivo della misericordia e la difesa di ogni essere umano dal terrore. Oggi, che pietà e tenerezza hanno ceduto tanto terreno alla prepotenza degli aggressori, dei ricchi e dei potenti di questo mondo, la pacata lettura del Libro appare come la terapia indispensabile per l’ultima generazione dei “figli dell’ira”.»

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62 2.2.8 Freud: l’ipotesi totemica del sacrificio

Anche per Freud una prima messa a morte risulta elemento fondante. Un primo linciaggio spontaneo, quello del padre da parte dei figli nell’orda primitiva, fece sorgere infatti i due fondamentali tabù delle religioni totemiche, quelli cioè relativi all’incesto e all’uccisione del totem, nella cosiddetta ipotesi “storica” freudiana.

In essa si postulava che un tempo i fratelli, cacciati dall’orda paterna, avessero ucciso e divorato il loro genitore verso cui nutrivano sentimenti ambivalenti: da un lato egli era per loro un modello, dall’altro si opponeva ai loro desideri e alle loro esigenze sessuali, tenendo per sé le donne del gruppo. Dopo il gesto, terribile e memorabile insieme, i fratelli, placato il sentimento di odio, sentirono l’esigenza di dare sfogo a quelli che erano stati gli impulsi affettuosi verso il padre. Giunsero perciò a rifiutare spontaneamente ciò che prima era il padre ad impedire, cioè l’accoppiamento endogamico e incestuoso: divenne inoltre tabù uccidere l’animale totem, rappresentazione sostitutiva del genitore.

Tutte le religioni successive al “totemismo”(qui inteso come lo stadio più “semplice” e più “primitivo” dell’esperienza religiosa in un’ipotetica scala evolutiva, prospettiva del resto comune anche a Durkheim e Frazer), sarebbero altrettanti tentativi di reagire al dramma primordiale, che ha da sempre tormentato la coscienza dell’umanità: lo stesso dio delle religioni superiori, sostiene Freud, non è che una forma più avanzata di quel surrogato del padre, che all’origine era rappresentato dal totem46. Dal senso di colpa e dal pentimento

avrebbero avuto dunque origine le organizzazioni sociali, le limitazioni morali, le religioni.

Come sostiene lo stesso Burkert47, Freud, insieme con Konrad Lorenz, ha fornito il common background per i suoi studi, come anche per quelli di Girard: che il

46

Oltre all’opera portante di Freud sul valore del totem, risultano opere imprescindibili quella di Tylor, E. , Remarks on Totemism, “Journal of the Royal Anthropological Institute”, I, 1899 e Frazer, J. , Totemism and Exogamy , Londra, 1910. Più recente è l’opera di Lévi-Strauss, C. , Il totemismo oggi, Milano, 1983 (quinta ed.).

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testo freudiano debba aver influenzato notevolmente entrambi gli studiosi appare evidente.

Con Freud, Burkert condivide il fatto che il “fenomeno religioso” e la società sono fatti derivare dalla “colpa” per eccellenza, ossia da un’uccisione sanguinaria, avvertita come traumatica e implicante la necessità di una riparazione. Proprio su questa “colpa” poggiano la società stessa e la possibilità della convivenza fra gli uomini: è dal pentimento che ne consegue e dal bisogno di riparare che sono sorte tutte le religioni.

Anche la teoria di Girard mostra vistose analogie con quella freudiana; in particolare l’omicidio originario si configura in entrambi come l’esito inevitabile di un desiderio “mimetico”, orientato però in Freud verso una figura particolare, quella del padre: la sua uccisione da parte dell’insieme dei fratelli dell’orda riporta, come nel caso del meccanismo vittimario girardiano, la pace, e, come in quel caso, la vittima espiatoria diviene in seguito all’uccisione, sacra, anzi addirittura divina. La differenza fra le due letture, quella di Burkert e quella di Girard, come già anticipato, riguarda soprattutto la ricostruzione di questa scena originaria: Girard tuttavia puntualizza che anche quella da lui postulata non consiste in un avvenimento unico e storico, isolato, come quello freudiano, bensì in un fatto assolutamente ripetibile, un’occorrenza normale nella storia e nella preistoria dell’umanità.48

2.2.9 De Maistre e Eliade: il sacrificio nell’ambito del’integralismo cattolico Una lettura dell’uccisione come atto efficace, potente, in grado di generare e rigenerare, attraverso la sua ripetizione rituale, istituzioni vitali per l’uomo, è stata riproposta più volte nel corso del XX secolo attraverso moduli e modelli differenziati.

48

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Ad esempio Grottanelli, nel suo testo Il Sacrificio49, punta l’attenzione sulla concezione della messa a morte quale elemento di estrema positività analizzandolo in una sorta di scala evolutiva attraverso il pensiero che da Joseph De Maistre conduce a Mircea Eliade, a Georges Bataille fino a Roger Caillois. L’iniziatore di una tale estrema interpretazione legata al sacrificio viene individuato in Joseph De Maistre, cattolico reazionario della Restaurazione della Francia post-napoleonica, che già nel 1821, nelle Soirées de Saint Petersbourg50, proponeva una visione della terra come un “altare” che deve essere perpetuamente bagnato dal sangue di tutti gli esseri viventi in un’immolazione infinita che avrà termine solo con “l’estinzione del male, fino alla morte della morte.”51

Una tale concezione del resto appariva funzionale all’ideologia cattolica estremista del pensatore, che vedeva in un tale sacrificio infinito la preparazione alle “meraviglie” della comunione cristiana, dunque alla passione e all’eucaristia. Se dunque il precursore dell’ideologia sacrificale, intesa come fatto in sé, positivo e potente, fu un uomo dell’Ottocento, accadde però nel secolo successivo che il concetto di sacrificio, benchè ormai secolarizzato, divenne predominante nel pensiero di molti intellettuali.

In particolare il valore cosmogonico e l’efficacia attribuiti al rito sacrificale e allo spargimento di sangue, in generale, sono stati al centro della riflessione di numerosi studiosi degli anni Trenta del XX secolo.

Sempre Grottanelli, nel saggio sopra citato, prende in esame in particolare la posizione dell’intellettuale rumeno, noto storico delle religioni, Mircea Eliade, che nel Commento alla leggenda di mastro Manole, composto tra il 1936 e il 1943, definiva il sacrificio come “gesto vivificante e salvifico”.52

49

Grottanelli, C. , Il sacrificio, Op.cit. , pp. 8-10, pp. 92-98.

50

Il testo fondamentale di tale opera è: Les Soirées de Saint-Pétersbourg ou Entretiens sur le gouvernement temporel de la Providence, suivies d'un Traité sur les Sacrifices, édit. Rodolphe J.B. ,Pélagaud et Cie, Imprimeurs-Libraires, Lyon et Paris, 1821, 2 vol. post.

51

Grottanelli, C. , Il sacrificio, Op.cit. , p. 93.

52

Eliade, M. , Mesterul Manole, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan. Studi comparati sulle religioni e sul folklore della Dacia e dell’Europa Orientale, pp. 224 sgg, Roma, 1975.

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65

Relativamente al pensiero di Eliade si individuano tre temi principali: il sacrificio cosmico, inteso come ripetizione della creazione, avvenuta mediante un sacrificio primordiale e avente lo stesso valore cosmogonico; la valorizzazione della morte in sé; il sacrificio di costruzione, come atto necessario a conferire stabilità e vita. Eliade appartiene a quel generale “movimento di rivalutazione esistenziale della religione”, come è stato definito da Ernesto de Martino in Mito, scienze religiose

e civiltà moderna53, che si può definire nato dall’influenza straordinaria esercitata

dal famoso testo Il sacro di Rudolf Otto, pubblicato nel 191754. In tale opera si sosteneva non solo l’autonomia, ma anche il valore ontologico del “sacro”, inteso come il “tutt’altro” rispetto alla sfera dell’usuale e dell’ordinario, un’esperienza irrazionale ed ambivalente, che proprio per questo non poteva essere spiegata mediante il pensiero, ma solo esperita nella sfera emozionale e religiosa. In questo clima di rivalutazione del “sacro”, il sacrificio, sua manifestazione, non era ovviamente storicizzato o reso oggetto di critica: al contrario esso fu da molti vissuto emotivamente come un atto in grado di per sé di sprigionare energie, sortire degli effetti reali, riportare l’uomo ad una diversa modalità di esistenza, ad un mondo più pieno, più vitale e più vero, quello appunto del “sacro”.

Tale visione riuscì ad accomunare gruppi intellettuali disparati dell’estrema destra e dell’estrema sinistra del tempo. Eliade fu infatti coinvolto in età giovanile nel movimento di estrema destra della “Legione dell’Arcangelo Michele”55

, caratterizzato proprio da un misticismo cristiano ricco di accenti sacrificali: riguardo a questo movimento Grottanelli afferma che esisteva una canzone legionaria nella quale il sangue dei martiri metaforizzava il cemento che rinsalda il muro della patria.

53

De Martino, E. , Furore Simbolo Valore, p. 74, Milano, 2002 (1962).

54

Otto, R. , Il sacro, cura di Terrin, A.N. , Brescia, 2011.

55

Su questo movimento si veda l’opera di Rizza, P. , Guardia di ferro. La legione dell’Arcangelo Michele, Chieti, 2009, da cui emerge il carattere di estrema destra, ispirantesi al fascismo, cristiano-integralista, ultra-nazionalista, antibolscevico, anticapitalista e in tal senso antiebraico, del Movimento legionario fondato da Corneliu Zelea Codreanu in Romania intorno al 1930.

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