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Capitolo 1

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

L’articolazione coxofemorale e indicazioni alla sua

sostituzione protesica.

La protesi d’anca rappresenta uno dei maggiori successi della moderna ortopedia in quanto consente ai pazienti affetti da numerose patologie invalidanti di migliorare la qualità di vita ripristinando la funzionalità articolare ed abolendo la sintomatologia algica.

Indicazioni all’intervento di sostituzione protesica: In oltre il 70% dei casi, l’indicazione per questo intervento è un processo artrosico-degenerativo in fase avanzata, ragione per cui i pazienti principalmente operati sono anziani e l’intervento è, per la gran parte dei casi, programmato in elezione11. Infatti, il forte dolore e la conseguente riduzione funzionale dell’articolazione causato dalla coxartrosi, refrattari a misure conservative e farmacologiche, quali la terapia antiinfiammatoria non steroidea (FANS), la riduzione del peso, la limitazione dell'attività e l'uso di supporti come il bastone, riducono così drasticamente la qualità della vita (in una popolazione sempre più longeva) da spingere paziente e chirurgo ad intervenire con la chirurgia. È ampiamente dimostrato in letteratura che l’artrosi dell’anca è la maggior causa di dolore e di disabilità nella popolazione anziana e che l’artroprotesi totale rappresenta il trattamento maggiormente utilizzato, nonché più efficace12,13,14.

L’intervento di sostituzione protesica dell’anca costituisce inoltre una soluzione sempre più diffusa anche per numerose altre patologie invalidanti come: l’artrite reumatoide, la displasia congenita, il morbo di Paget, il trauma, le metastasi, l’osteonecrosi della testa femorale, alcune ripercussioni scheletriche di malattie

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del collagene e lupus etc. Il paziente trae generalmente notevoli benefici dall’intervento chirurgico, che risolve la sintomatologia dolorosa, restituisce autonomia di movimento e conduce a un sensibile miglioramento della qualità di vita15.

Scopo dell’intervento: La chirurgia protesica articolare è fondata sul concetto elementare di sostituire le superfici articolari danneggiate con un nuovo rivestimento, costituito da materiale non biologico (materiali metallici, plastici e ceramici). Scopo di un’articolazione artificiale è realizzare un sistema che ripristini, per quanto possibile, la cinematica fisiologica e consenta di sopportare i carichi. Sostituendo le superfici articolari danneggiate si elimina la fonte del dolore in modo efficace e permanente, permettendo al paziente un miglioramento della mobilità articolare.

Origine ed evoluzione della protesi d’anca: L’articolazione che storicamente ha aperto l’era della protesica in ortopedia è la coxo-femorale ed il primo versante articolare su cui è stata progettata una protesi è stato quello femorale (endoprotesi d’anca). Il vero fondatore della protesica dell’anca è stato il chirurgo inglese Sir John Charnley, che all’inizio degli anni ’60 sviluppò ed introdusse i primi modelli di artroprotesi. Egli elaborò studi per il miglioramento dei materiali (scoperta del polietilene a basso PM –UHMWPE- che tutt’oggi è ampiamente utilizzato16), delle tecniche chirurgiche, della biomeccanica e delle norme da applicare in sala operatoria. Il suo modello era dotato di testina fissa monoblocco da 22 mm, ossia molto piccola rispetto ad una testa femorale umana, in modo tale che il piccolo diametro della testa diminuisse l’usura del polietilene. Per tale motivo chiamò la sua tecnica “Low Friction Arthroplasty”17, ossia protesi a bassa usura. Pur se con alcune modifiche, questo modello è ancora oggi in uso ed ha quindi il registro e i risultati più lunghi disponibili in letteratura. Berry et al. (2002) hanno pubblicato i dati dopo 25 anni di utilizzo di queste protesi in 461 pazienti impiantati negli anni 1969-1971, dimostrando risultati discretamente

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soddisfacenti. Grazie al continuo perfezionamento della tecnica chirurgica, delle caratteristiche degli impianti e dell’esperienza degli operatori, il numero di interventi è tutt’oggi in continuo aumento e tale tendenza sembra essere destinata ad evolvere ulteriormente18. Analizzando infatti i dati più recenti dal National Joint Registry – UK del 2012, emergono valori che evidenziano in maniera significativa l’importanza socio-economica che la coxartrosi e l’impianto di PTA hanno nella popolazione. Infatti il numero totale di procedure chirurgiche eseguite in UK durante il 2012 è stato di 86.488 (Tab. 1) e 10.040 sono state revisioni (in aumento rispetto al 2011 passando dall’ 1% al 12%). Di tutti gli interventi di PTA del 2012, 33% sono stati impianti cementati, 43% non cementati, 1% procedure di resurfacing e 2% teste grandi metallo con metallo. L’età media dei pazienti è stata di 67,4 anni (0,2 anni in più rispetto ai report del 2011). Il 60% dei pazienti erano donne e i pazienti che hanno fatto resurfacing erano più giovani, con età media di 53,3 anni. Il BMI è aumentato in questi ultimi 8 anni da un valore di 27.4 a 28.7.

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In Italia, invece, secondo gli ultimi dati del Registro Nazionale Artroprotesi RIAP19, si effettuano ogni anno quasi 160.000 interventi di artroprotesi in 750 strutture, con un incremento medio annuo di circa il 5% ed un costo totale stimato in circa 1 miliardo di euro per il solo DRG (Diagnosis-Related Group) chiurgico. Secondo un’analisi del database SDO 2001-2010, disponibile presso l’Ufficio di Statistica dell’ISS, per i codici ICd9-CM (International Classification of Diseases) articolare, in Italia c’è stato un netto incremento di interventi chirurgici di sostituzione protesica di anca, passando da circa 46.000 primi impianti nel 2001 a circa 60.000 primi impianti nel 2010, con un incremento netto del 3%. (Tab.2).

Tabella 2

Dopo aver analizzato attentamente questi dati appare evidente che l’elevato numero di pazienti coinvolti, l’impatto sulla qualità della vita e l’impegno sanitario, fanno assumere a questo tipo di chirurgia un valore estremamente importante e, quindi, l’eventuale fallimento rappresenta a livello mondiale un problema socio-economico grave. Fortunatamente la sostituzione protesica è un intervento di chirurgia protesica maggiore con un discreto margine di successo, arrivando secondo alcuni studi ad un indice di soddisfazione dei pazienti maggiore del 90 -

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95% a 15 anni dall’intervento20. In alcuni casi invece è stato dimostrato un miglior trend di soddisfazione in un intervallo di tempo compreso tra i 6 mesi ed i primi anni dall’intervento, per poi decrescere nel periodo successivo. Il monitoraggio degli impianti è, quindi, fondamentale per comprendere i motivi del loro successo o del loro fallimento ed eventualmente per apportare modifiche che possano migliorarne la longevità.

1.1 Anatomia dell’ anca

L’articolazione coxofemorale o dell’anca rientra nell’ambito delle diartrosi, in particolare, rappresenta un tipico esempio di enartrosi, in quanto le superfici articolari che si affrontano sono a forma di segmenti di sfera. Il femore vi partecipa mediante la testa femorale che rappresenta circa i 2/3 di una sfera piena di 4 o 5 cm di diametro, mentre l’anca con l’acetabolo, una cavità di forma quasi emisferica. I capi articolari, a contatto tra loro per interposizione delle cartilagini ialine, ruotano reciprocamente, in modo che le relative diafisi compiano movimenti angolari su tutti i piani. Tale articolazione rappresenta il punto di connessione della parte libera dell’arto inferiore alla cintura pelvica e quindi, al tronco. La cintura pelvica, costituita dalle due ossa dell’anca, risulta infatti saldamente connessa con lo scheletro assile mediante l’articolazione sacroiliaca. Anteriormente le due ossa dell’anca si articolano tra loro sulla linea mediana nella sinfisi pubica, e definiscono, insieme a osso sacro e coccige, gli ultimi due segmenti del rachide, un complesso osseo noto come bacino o pelvi. Il bacino e le articolazioni coxo-femorali sono collocate al centro della catena cinematica del corpo, quindi risulta evidente che, un’alterazione a carico di tale distretto si fa

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risentire biomeccanicamente sia nella parte superiore che in quella inferiore dello scheletro.

L’osso dell’anca è un osso piatto, pari e simmetrico che deriva dalla fusione di tre abbozzi cartilaginei (l’ileo, l’ischio e il pube) il cui punto di incontro si trova nella regione acetabolare. Queste tre componenti nella vita prenatale e nell’infanzia si presentano come ossa distinte connesse da cartilagine, mentre nell’adolescenza inizia il loro processo di saldatura, che terminerà dopo il 15°-16° anno di età (Fig.1: Osso dell’anca - Henry Gray, Anatomy of the Human Body - ).

Fig. 1

L’osso dell’anca, anche detto osso coxale, ha una forma irregolarmente quadrilatera, che presenta due facce, interna ed esterna, e quattro margini, anteriore, posteriore, superiore ed inferiore. La faccia esterna permette l’articolazione tra anca e femore grazie ad una cavità approssimativamente

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emisferica, detta acetabolo o cotile 21, che accoglie la testa del femore. L’acetabolo è delimitato da un lembo osseo circolare detto ciglio cotiloideo o margine dell’acetabolo che presenta tre discontinuità in corrispondenza dei punti di fusione degli abbozzi ossei suddetti; di queste solo una è ben evidente a livello del margine inferiore del cotile, tra ischio e pube, e prende il nome di incisura dell’acetabolo, trasformata in foro dal labbro dell’acetabolo, un mezzo di contenimento dell’articolazione dell’anca. Dell’acetabolo, solo la porzione periferica e liscia, detta faccia semilunare è rivestita da cartilagine articolare e quindi partecipa all’articolazione, mentre la porzione profonda centrale e rugosa, di forma pressoché quadrilatera, non rivestita di cartilagine articolare ma da periostio, che prende il nome di fossa dell’acetabolo e contiene tessuto adiposo, non vi prende parte. A livello della faccia esterna dell’osso dell’anca, superiormente all’acetabolo, riconosciamo la faccia glutea, che si presenta come una vasta superficie piana divisa in tre parti da due linee rugose ad andamento semilunare: le linee glutee posteriore ed anteriore. I territori così individuati delineano le sedi di inserzione prossimale dei tre muscoli glutei (grande,medio e piccolo gluteo). Inferiormente alla linea glutea anteriore è possibile individuare un altro breve rilievo convesso in alto e in dietro, la linea glutea inferiore, che rappresenta il limite inferiore del muscolo piccolo gluteo. Inferiormente all’acetabolo troviamo il forame otturatorio, delimitato in alto dai corpi di ischio e pube ed in basso dai rami inferiori degli stessi; tale foro risulta essere chiuso in maniera incompleta da una membrana fibrosa, la membrana otturatoria, che dà attacco a muscoli su entrambe le superfici. Sulla faccia interna dell’osso dell’anca si individuano due territori, divisi da una linea obliqua diretta in basso ed in avanti, detta linea arcuata o innominata, dei quali: il superiore, denominato fossa iliaca, presenta una superficie piana e corrisponde alla parte inferiore della cavità addominale, mentre l’inferiore, anch’esso a superficie pianeggiante, è compreso tra la linea arcuata e il forame otturatorio e corrisponde esternamente

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all’acetabolo. Importanti, ai fini dell’articolazione del bacino, sono: la faccetta auricolare, un’area posta dietro l’origine della linea arcuata, che si articola con la corrispondente faccia articolare del sacro a costituire l’articolazione sacro-iliaca, e la tuberosità iliaca, sulla quale si inseriscono i legamenti sacro-iliaci posteriori. I quattro margini dell’osso dell’anca risultano importanti soprattutto per le inserzioni muscolari e tendinee che vi hanno luogo. Sul margine anteriore si possono distinguere due parti: Lungo la porzione superiore, pressoché verticale, è possibile individuare due protuberanze, la spina iliaca anteriore superiore e quella inferiore,che delineano un’incisura per il passaggio del muscolo ileo psoas. La porzione inferiore,invece, si dirige inferiormente e medialmente in modo da disegnare con la precedente un angolo di circa 140o; su di essa si individuano in senso latero-mediale: l’eminenza ileo-pettinea per l’inserzione dell’omonima benderella, la superficie pettinea dove trova inserzione il muscolo pettineo, e il tubercolo pubico, sede d’inserzione del legamento inguinale. La linea arcuata termina proprio sul margine anteriore, in particolare sulla superficie pettinea, formando una cresta tagliente, detta cresta pettinea. Il margine posteriore è molto più accidentato. Nella sua porzione superiore presenta anch’esso due spine, la spina iliaca posteriore superiore e quella inferiore, mentre nei 2/3 inferiori delinea due incisure, separate dalla spina ischiatica: la grande e la piccola incisura ischiatica. Al di sotto di quest’ultima si nota una grossa sporgenza, la tuberosità ischiatica, che rappresenta la parte più distale del margine posteriore. Il margine superiore è noto come cresta iliaca, sulla quale si individuano un labbro interno ed uno esterno, che delimitano uno spazio intermedio poco profondo. Il margine inferiore inizia posteriormente con la tuberosità ischiatica e con decorso arcuato, obliquo in avanti e medialmente, si porta anteriormente dove termina con una faccetta ovalare (faccetta mediale o sinfisiana) che, articolandosi con l’omologa faccetta controlaterale, contribuisce alla costituzione della sinfisi pubica, previa interposizione di un disco fibrocartilagineo.

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Il femore22 è un osso lungo, pari, che costituisce da solo lo scheletro della coscia, la quale, in associazione a gamba e piede, costituisce la parte libera dell’arto inferiore. Nella stazione eretta esso risulta avere decorso obliquo in basso e medialmente, in particolare nella femmina tale obliquità risulta essere accentuata per la maggior ampiezza del diametro latero-laterale del bacino. Nel femore si riconoscono un corpo e due estremità ( Fig.2: Femore - Henry Gray, Anatomy of the Human Body - ).

Fig. 2

Il corpo, o diafisi, è incurvato ad arco con concavità posteriore, ha forma prismatica e mostra tre facce lisce e leggermente convesse (anteriore, posteromediale e posterolaterale), e tre margini (mediale, laterale e posteriore). Il calibro della diafisi mostra un aumento progressivo andando verso le epifisi. I

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margini laterale e mediale sono smussi, mentre il margine posteriore, noto come linea aspra, sia per il suo aspetto rugoso che per il suo spessore, rappresenta la sede d’inserzione della maggior parte dei muscoli della coscia. Distalmente essa si biforca delineando uno spazio triangolare noto come triangolo popliteo, i cui lati di terminano ognuno in corrispondenza di un condilo femorale. Prossimalmente invece la linea aspra è tripartita: il labbro laterale si fonde con la sporgenza della tuberosità glutea; il labbro intermedio, detto linea pettinea, inserzione dell’omonimo muscolo, si estende fino al margine posteriore del piccolo trocantere; il labbro mediale raggiunge, antero-superiormente, la linea intertrocanterica e dà inserzione al muscolo vasto mediale. Il forame nutritizio del femore, diretto prossimalmente, è posto lungo la linea aspra. L’epifisi distale del femore è circa tre volte più larga della diafisi ed è impegnata nell’articolazione del ginocchio. Essa presenta una vasta superficie articolare, per la tibia e la patella, che in avanti si configura a troclea; posteriormente invece, i due versanti della troclea divergono formando due rilievi convessi, i condili, mediale e laterale, dei quali il mediale è più lungo, mentre la gola centrale si approfonda a formare la fossa intercondiloidea. I condili femorali si articolano con i condili tibiali che sono posti su un piano quasi orizzontale. Gli epicondili sono rilievi ossei che offrono inserzione a legamenti e muscoli, in particolare l'epicondilo mediale, che è il più prominente, dà inserzione al legamento collaterale tibiale e sulla superficie prossimale presenta un rilievo accentuato, il tubercolo adduttorio, che dà inserzione al muscolo grande adduttore. L'epicondilo laterale dà invece inserzione al legamento collaterale fibulare. La faccia dei condili che invece volge verso l’asse del femore, dà attacco ai legamenti crociati, anteriore e posteriore. L’epifisi prossimale, invece, partecipa all’articolazione dell’anca. In essa si descrivono: una testa, un collo e due rilievi denominati trocanteri. La testa è la porzione direttamente coinvolta nell’articolazione coxofemorale, ha forma sferica in modo da adattarsi alla cavità cotiloidea ed è diretta in alto, in avanti e

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medialmente. Al suo centro presenta la fovea capitis, una depressione che dà attacco ad una delle estremità del legamento rotondo, un legamento intra-articolare. Attraverso il centro geometrico della testa passano i tre assi dell’articolazione: orizzontale, verticale, antero-posteriore. Il collo anatomico ha forma prismatica-rettangolare ed è interposto tra testa e trocanteri. Presenta lo stesso orientamento della testa e permette di definire l’ angolo di inclinazione e di declinazione: il primo è compreso tra l’asse del collo e l’asse diafisario e ,nel soggetto adulto, misura circa 120°-130o (media 125o); il secondo è aperto medialmente e in avanti, è formato dall’intersezione dell’asse del collo con il piano frontale passante per l’asse trans-condiloideo, è anche detto angolo di antiversione e misura 15-20°. I trocanteri sono due robuste eminenze,unite da una ben evidente cresta intertrocanterica. Il grande trocantere localizzato in alto e lateralmente, offre inserzione a piccolo e medio gluteo, ai muscoli otturatori interno ed esterno, al muscolo piriforme ed ai muscoli gemelli, mentre il piccolo trocantere, posto in basso e medialmente, offre inserzione al muscolo ileopsoas. In corrispondenza della base del grande trocantere, sul versante mediale,si trova una profonda depressione, la fossa trocanterica. Subito inferiormente ai trocanteri, nel punto di passaggio tra epifisi prossimale e diafisi, troviamo il collo chirurgico del femore. La conformazione interna del femore è diversa tra diafisi ed epifisi: la diafisi è costituita da una corticale compatta che ospita al suo interno il canale midollare (dove viene alloggiato lo stelo protesico); la corticale delle epifisi, invece, ha uno spessore minore ed avvolge osso spugnoso le cui trabecole hanno la caratteristica di essere orientate secondo le linee di carico. Nonostante la complementarietà morfologica, le superfici articolari di anca e femore non sono perfettamente corrispondenti, ragion per cui sul contorno della cavità acetabolare si fissa un cercine fibrocartilagineo, il labbro dell’acetabolo, che ha funzione di aumentare considerevolmente la profondità della cavità del cotile e colmare le irregolarità del ciglio; rappresenta quindi uno dei fattori di

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stabilizzazione dell’articolazione, in associazione a: gravità, pressione atmosferica, legamenti e muscoli. Il cercine passa a ponte dell’incisura ischio-pubica, trasformandola in un foro, e si inserisce sul legamento trasverso dell’acetabolo fissato, a sua volta, sui due lati dell’incisura. Nonostante questo, esso non limita i movimenti dell’articolazione perché, se un’escursione articolare porta il collo femorale ad appoggiarsi sul ciglio cotiloideo, comprimendo il cercine, quest’ultimo cede e si deforma in modo tale da non ostacolare il movimento. Come tutte le diartrosi, per garantire la contiguità dei capi articolari, l’articolazione

coxofemorale21 si avvale di mezzi di unione rappresentati dalla capsula articolare, con i relativi legamenti di rinforzo, e da un legamento intra-articolare: il legamento rotondo. La capsula articolare è un manicotto fibroso che avvolge i due capi articolari. Prossimalmente si fissa al contorno dell’acetabolo e al labbro acetabolare, distalmente si porta ad avvolgere il collo anatomico del femore in maniera sfalsata, se si considera il suo andamento circonferenziale lungo tale segmento osseo, infatti, in avanti la capsula articolare si spinge fino alla linea intertrocanterica, mentre posteriormente essa si ferma al confine tra terzo medio e terzo laterale del collo femorale. Ne deriva quindi, che la faccia anteriore del collo anatomico del femore è intracapsulare, mentre la faccia posteriore lo è solo nei 2/3 mediali. La sinovia presenta la caratteristica disposizione delle diartrosi: tappezza la superficie interna della capsula e, a livello dell’inserzione di questa sull’osso, si riflette a rivestire le porzioni intracapsulari dei capi ossei fino ai limiti delle cartilagini articolari. Anche il legamento rotondo risulta totalmente rivestito da membrana sinoviale che si riflette su di esso dopo aver ricoperto il tessuto adiposo dell'incisura acetabolare. Sulla superficie inferiore del collo si riscontrano delle pliche sinoviali dette “frenula capsulae”, la cui importanza si riscontra sul versante funzionale, in quanto esse hanno il compito di rendere più agevole la distensione elastica della capsula nei movimenti di abduzione poiché, svolgendosi, permettono un’escursione supplementare, ovviando quindi

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all’insufficiente lunghezza della parte inferiore della capsula durante tali movimenti. Tra i legamenti di rinforzo si distinguono i tre legamenti longitudinali (ileofemorale, ischiofemorale e pubofemorale) e un fascio di rinforzo profondo: la zona orbicolare. Il legamento ileofemorale di Bertin si fissa alla porzione anteriore della capsula articolare, ed è costituito da due fasci, il verticale (o discendente) e l’obliquo (o ileo-pretrocanterico); entrambi originano al di sotto della spina iliaca anteriore inferiore,ma nel loro sviluppo divergono a ventaglio, dirigendosi, il primo verso la parte più bassa della linea intertrocanterica, il secondo verso il margine anteriore del grande trocantere. Il legamento ileo femorale entra in tensione nella completa estensione del femore e contribuisce a mantenere la stazione eretta. Il legamento pubofemorale rinforza la porzione antero-mediale della capsula, origina da un’area più estesa rispetto al legamento ileo femorale in quanto nasce dal tratto pubico del ciglio dell’acetabolo, dall’eminenza ileo pettinea e dalla parte laterale del ramo superiore del pube per perdersi nella capsula davanti al piccolo trocantere. Il legamento pubo-femorale si tende nell'estensione e limita il movimento di abduzione del femore. La capsula articolare è sottile tra i legamenti ileo-femorale e pubofemorale dove è ricoperta dal robusto tendine del muscolo ileo-psoas. La borsa mucosa ileo pettinea si trova tra tale tendine e la capsula articolare. Il legamento ischiofemorale contribuisce alla stabilizzazione posteriore dell’articolazione e presenta una forma triangolare. Origina dalla doccia sottoacetabolare e dal lato ischiatico del ciglio cotiloideo e da qui forma un robusto fascio le cui fibre superiori, contornando il margine superiore del collo femorale, finiscono per terminare sopra e davanti alla fossa trocanterica, mentre le fibre inferiori si inseriscono sulla zona orbicolare, formando così il legamento-ischio capsulare. La zona orbicolare, o anello di Weber, è un fascio fibroso profondo che origina dal margine dell’acetabolo e dal labbro acetabolare, profondamente all’inserzione del legamento ileo femorale; costituisce un anello fibroso che abbraccia la testa del femore per tutta la sua circonferenza ritornando

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poi a fissarsi al punto d’origine. Le fibre della zona orbicolare sono più abbondanti nella regione posteriore della capsula articolare e contribuiscono a mantenere la testa del femore nell'acetabolo; esse infatti formano, a livello del collo femorale, un restringimento netto che divide la cavità articolare in due settori (interno ed esterno). Il legamento rotondo è un fascio fibroso intra-articolare che origina dalla fovea capitis per terminare, con due radici, sui bordi dell’incisura dell’acetabolo, restando adeso, lungo il suo decorso, sulla testa del femore. Non ha un grande ruolo meccanico, per quanto estremamente resistente (carico di rottura= 45 kg) e, contrariamente a quanto accade in genere per i legamenti interossei, non è teso nonostante la sua lunghezza comunque non superi mai i 35mm. L’unica posizione in cui il legamento rotondo diviene realmente teso è l’adduzione. Il legamento rotondo contribuisce alla vascolarizzazione della testa femorale in quanto nel suo spessore decorre l’arteria omonima, ramo della branca posteriore dell’arteria otturatoria. Le arterie dell'articolazione sono rami delle arterie circonflesse mediale e laterale del femore, del ramo profondo dell'arteria glutea superiore e dell'arteria glutea inferiore. Il ramo posteriore dell'arteria otturatoria vascolarizza parte della testa del femore. L'innervazione per l'articolazione dell'anca è costituita da fibre nervose sensitive, che trasmettono le informazioni propriocettive e da fibre vasomotorie. Deriva dal plesso lombare con i rami dei nervi femorale e otturatore e dal plesso sacrale con rami del nervo gluteo superiore e del nervo del muscolo quadrato del femore, tutti derivati dalle radici da L2 a S123.

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1.2 Biomeccanica dell’anca

Dallo studio anatomico dell’anca risulta evidente che: quando questa è in posizione di riferimento (stazione in piedi eretta), le due superfici articolari non sono in asse, in quanto il collo femorale è orientato in alto, medialmente ed in avanti, mentre l’asse del cotile è obliquo in basso, in avanti ed in fuori. Ne deriva che la parte superiore del cotile si spinge oltre la testa (in misura corrispondente all’angolo di Wiberg che normalmente è di 30o) e che tutta la parte antero-superiore della testa risulta scoperta.

Sulla base di tale assetto anatomico, si deduce che:

 la pressione esercitata dalla testa è massima a livello del tetto del cotile ed infatti è qui che la cartilagine è più spessa, sia sulla testa che sulla semiluna articolare;

 il versante antero-superiore dell’articolazione, se si considera solo la “coppia ad incastro” acetabolo-testa femorale, rappresenta il punto a minor stabilità articolare;

Quindi, per far “rientrare” completamente la testa nel cotile sono necessari tre movimenti:

a) flessione di circa 90o; b) leggera abduzione;

c) leggera rotazione esterna.

Attraverso l’anca si trasmettono le sollecitazioni meccaniche dal bacino all’arto inferiore che le scarica a sua volta tramite l’appoggio a terra. Ciò che va messo in evidenza, in quanto spiega anche l’architettura del femore, è che l’asse meccanico dell’arto inferiore non è perfettamente sovrapponibile all’asse anatomico: se, infatti, a livello della gamba questi due assi coincidono, nella coscia l’asse meccanico forma con l’asse di forza o diafisario) del femore un angolo di circa 6o. Il peso del corpo applicato alla testa femorale è quindi diretto

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lungo l’asse meccanico dell’arto inferiore, ma viene scaricato attraverso la diafisi femorale a cui è trasmesso per interposizione di un braccio di leva, il collo del femore. Per evitare che la base del collo si fratturi, l’estremità superiore del femore presenta una tipica organizzazione strutturale in due sistemi di travate che corrispondono a linee di forza meccaniche.

Il sistema principale è formato da due fasci di lamelle che si irradiano verso il collo e la testa:

 Il fascio arciforme di Gallois e Bosquette (1) che corrisponde a forze di trazione : origina dalla corticale esterna della diafisi e termina sulla parte inferiore della corticale cefalica;

 Il fascio cefalico (2) che corrisponde a forze di pressione: partendo dalla corticale interna della diafisi e del collo, risale verticalmente fino alla parte superiore della corticale cefalica.

Il sistema accessorio è formato da due fasci che si diramano nel grande trocantere, a partire dalla corticale interna della diafisi (3) e parallelamente al grande trocantere (4). Dall’intreccio di questi fasci ne derivano due aree molto solide: la prima localizzata nel massiccio trocanterico, la seconda nel collo e nella testa con la massima concentrazione di trabecole in corrispondenza del centro della stessa.

In maniera analoga, nel bacino le sollecitazioni vengono trasferite lungo due linee di forza dirette verso il cotile e l’ischio attraverso due sistemi trabecolari: le travate sacro-cotiloidee e le travate sacro-ischiatiche. E’ proprio il sistema della travate ischiatiche che sostiene il peso del corpo nella posizione seduta.

Per quanto riguarda il movimento, l’articolazione coxofemorale, come tutte le enartrosi, è dotata di estrema mobilità, sebbene in misura minore rispetto alla scapolo-omerale; questo limite trova la sua motivazione nella principale funzione dell’anca, che è quella di sostegno del tronco nella stazione eretta e durante i movimenti della deambulazione. L’anca possiede tre gradi di libertà e tre assi: l’

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asse trasversale su cui si effettuano i movimenti di flesso-estensione; l’ asse antero-posteriore per l’adduzione e l’abduzione; l’ asse verticale che passa per il centro della testa del femore raggiungendo il punto centrale dell’epifisi inferiore, tra i condili, che permette i movimenti di rotazione esterna ed interna.

La flessione e l’estensione sono i movimenti tramite i quali l’arto inferiore è portato rispettivamente anteriormente e posteriormente ad un piano frontale passante per l’articolazione. Con la flessione la superficie anteriore della coscia si avvicina al tronco; l'ampiezza massima di tale escursione è condizionata da diversi fattori, quali: carattere attivo o passivo del suo svolgimento e flessione del ginocchio. Nei movimenti attivi dell'anca la flessione è di circa 90° con ginocchio esteso e di 120° con ginocchio flesso. Nella flessione passiva i valori cambiano rispettivamente in 120° e 140°. In che modo la posizione del ginocchio possa influenzare l’ampiezza della flessione dell’anca è facilmente compreso se si analizza il comportamento dei muscoli ischio-crurali, che sono estensori dell’anca e flessori del ginocchio. Man mano che l’anca si flette, questi muscoli subiscono un accorciamento relativo, in quanto la distanza tra i loro capi di inserzione va progressivamente aumentando; ciò accade perché il centro dell’anca, intorno al quale ruota il femore, non è esattamente sovrapponibile al punto intorno al quale essi si orientano. Il compenso all’accorciamento relativo può essere offerto dalla flessione del ginocchio e dall’elasticità muscolare, infatti per gradi iniziali di flessione dell’anca, la sola flessione passiva del ginocchio riesce ad ovviare a tale accorciamento, riavvicinando i punti di inserzione, prossimale e distale, dei suddetti muscoli; quando la flessione aumenta, acquista un ruolo importante l’elasticità muscolare. Se la flessione supera i 90 o diviene molto difficile conservare le ginocchia in estensione completa. Da un punto di vista clinico, quanto sopra detto si traduce in due conseguenze:

 la flessione dell’anca aumenta l’efficacia degli ischio-crurali come flessori del ginocchio perché ne aumenta la tensione;

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 la mancanza di esercizio e, quindi, la scarsa elasticità muscolare, riducono l’ampiezza del movimento di flessione dell’anca.

A ciò si aggiunge un altro fattore da prendere in considerazione: la retroversione del bacino associata all’appianamento della lordosi lombare, che aumenta l’ampiezza della flessione.

Tutti i legamenti dell’anca si dispongono intorno al collo femorale nello stesso senso: in un’anca destra vista lateralmente, essi ruotano tutti in senso orario (dall’osso iliaco verso il femore), quindi l’estensione li avvolge attorno al collo femorale e la flessione li svolge. Ne deriva che l’ampiezza dell’estensione dell’anca è notevolmente inferiore alla flessione in quanto risulta maggiormente limitata dai legamenti, in particolare dall’ileo-femorale, che, essendo pressoché verticale, è quello che si tende maggiormente.

Come per la flessione, l’ampiezza dell’estensione è differente a seconda che sia di tipo attivo o passivo e che avvenga a ginocchio flesso o esteso. I valori tipici per un’estensione attiva sono: 20° e 10° rispettivamente per ginocchio esteso e ginocchio flesso. I valori caratteristici per un’estensione passiva sono 20° e 30° rispettivamente a ginocchio esteso ed a ginocchio flesso tirato all'indietro. L’estensione del ginocchio favorisce l’estensione dell’anca perché i muscoli ischio-crurali possono essere utilizzati totalmente per l’estensione dell’anca, non essendo già impegnati per la flessione del ginocchio. Queste due osservazioni rendono evidente l’importanza dei muscoli mono-articolari (popliteo e capo breve del bicipite) che conservano la loro efficacia qualunque sia la posizione dell’anca. Anche in questo caso la posizione del rachide lombare influenza l’ampiezza del movimento; in particolare, l’antiversione del bacino associata all’iperlordosi lombare aumenta notevolmente l’estensione dell’anca. Questo spiega perché soggetti che costituzionalmente presentano un basculamento in basso ed in avanti del bacino, sono in grado di compiere estensioni di ampiezza maggiore rispetto a soggetti con assetto normale.

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L'abduzione è il movimento che porta l'arto inferiore esternamente allontanandolo dal piano di simmetria del corpo. L'abduzione dell'anca, misurata come angolo tra l'asse longitudinale dell'arto inferiore e l'asse formato dall'intersezione del piano sagittale e frontale, raggiunge i 45° se è di tipo attivo ma può aumentare notevolmente con l’esercizio e l’allenamento. In realtà quando si parla di abduzione, si fa riferimento implicito al movimento di ambedue gli arti inferiori, in quando si tratta sempre di un’abduzione delle due anche di pari entità. Man mano che l’arto si allontana dal piano di simmetria del corpo, il bacino accompagna questo movimento con un basculamento progressivo che determina un’inclinazione anche della verticale passante per il piano di simmetria. Quanto più aumenta l’ampiezza dell’abduzione, e quindi del basculamento del bacino, tanto più interviene il rachide con meccanismo di compenso,descrivendo una curva convessa verso il lato portante. Quando si raggiunge il massimo del movimento di abduzione attiva, l’angolo formato dagli arti inferiori è 90°, per cui si può concludere che l’abduzione massima di un’anca è 45°. Il limite all’abduzione è posto dalla parte superiore del ciglio cotiloideo e, soprattutto, dalla tensione dei muscoli adduttori e dei legamenti pubo- ed ischio-femorali (l’ileo-femorale invece si detende); non a caso l’ampiezza dell’abduzione è aumentata dalla flessione del bacino (per l’atteggiamento di iperlordosi del rachide che detende i legamenti) e dall’esercizio/allenamento, prerogativa delle ballerine.

L’adduzione è il movimento che porta l’arto ad avvicinarsi al piano di simmetria del corpo umano. A causa del contatto degli arti inferiori nella posizione fisiologica di riferimento, non esiste un movimento di adduzione "puro"; esso è possibile solo conseguentemente ad un’ abduzione (movimenti di adduzione relativa) o se accompagnato ad una lieve flessione o estensione dell'anca (movimenti di adduzione combinati). In questo caso, poiché il movimento di adduzione dipende dal grado di flessione o estensione dell’anca, non si parla di escursione angolare tipica. In tutti questi movimenti d’adduzione combinata,

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l’ampiezza massima corrisponde a 30°. Essa risulta limitata prevalentemente dalla tensione della parte obliqua del legamento femorale (fascio ileo-pretrocanterico), in quanto sia il pubo-femorale che l’ischio-femorale si rilasciano. E’ importante evidenziare che la parte verticale del legamento ileo-femorale, essendo quasi perpendicolare all’asse antero-posteriore, che è appunto l’asse intorno al quale si svolgono l’abduzione e l’ adduzione, non esercita grossa influenza su questi movimenti.

I movimenti di rotazione dell’anca si effettuano attorno all’asse meccanico dell’arto inferiore, in particolare attorno all’asse meccanico della coscia perché questi movimenti possono avvenire sia a ginocchio esteso che flesso. Nella posizione di riferimento questo asse si confonde con l’asse verticale dell’articolazione coxo-femorale; in queste condizioni, la rotazione esterna è il movimento che porta la punta del piede in fuori, la rotazione interna, viceversa, lo porta in dentro. L’intra e l’extrarotazione vengono meglio valutate quando il ginocchio è flesso di 90°,con paziente prono oppure seduto; in questo caso l’ampiezza della rotazione esterna è maggiore perché l’anca flessa detende i legamenti ileo- e pubo-femorali che sono i principali responsabili della limitazione dell’extrarotazione. A partire dalla posizione del paziente seduto sul bordo di un tavolo con il ginocchio flesso ad angolo retto, quando la gamba si inclina in fuori si misura la rotazione interna, la cui ampiezza massima varia da 30° a 40°; diversamente quando si inclina in dentro si misura la rotazione esterna, che ha un'ampiezza massima di 60°. Nella limitazione dei movimenti di rotazione dell’anca rivestono un ruolo importante sia i legamenti articolari che l’angolo di antiversione del collo femorale: la rotazione esterna tende i legamenti anteriori, in particolare quelli a decorso orizzontale (pubo-femorale e fascio obliquo dell’ileo-femorale), mentre il legamento ischio-femorale è deteso; la rotazione interna, al contrario, tende il legamento ischio-femorale, mentre i legamenti anteriori si rilasciano (Fig.3).

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Fig. 3

Anche l’angolo di declinazione risulta importante. Un angolo di antiversione maggiore della media fa sì che nell’articolazione una porzione maggiore della testa del femore resti scoperta e si crei quindi la tendenza, durante la deambulazione, ad una rotazione interna dell’arto inferiore per mantenere la testa femorale all’interno della cavità acetabolare.

Proprio per il ruolo che riveste, è fondamentale che l’anca conservi una stabilità tale da garantire un adeguato sostegno del peso del corpo e, nello stesso tempo, una libertà di movimento in grado di permettere la locomozione. Sono numerosi i fattori che conferiscono queste caratteristiche all’anca, che risulta l’articolazione più difficile a lussarsi. Primo fra tutti la gravità, almeno nella stazione eretta, contrariamente all’articolazione scapolo-omerale. Per il terzo principio della dinamica infatti, la testa del femore viene spinta verso il tetto del cotile con una forza pari alla forza peso del corpo, restando quindi ben inserita nella cavità cotiloidea. A ciò contribuisce il cercine cotiloideo che, aumentando la superficie articolare, migliora il rapporto tra le due superfici che contribuiscono all’articolazione in modo da creare ciò che in terminologia meccanica è detto “coppia ad incastro fibroso” in quanto è lo stesso cercine che, coadiuvato dalla zona orbicolare della capsula, trattiene la testa del femore. Un fattore importante da non trascurare è la pressione atmosferica, in quanto questa agisce sulla testa femorale in misura maggiore rispetto alla pressione vigente nello spazio

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interposto tra la testa e la fossa dell’acetabolo, cosicché la forza totale che agisce sulle superfici articolari è diretta verso la cavità cotiloidea, stabilizzando l’articolazione. Questa osservazione spiega perché le lussazioni dell’anca sono più frequenti in caso di fratture del cotile. I legamenti ed i muscoli rivestono un ruolo essenziale nel mantenere a contatto le superfici articolari, in particolare al davanti dell’articolazione i muscoli risultano essere poco numerosi mentre i legamenti sono robusti e quindi contribuiscono maggiormente alla stabilizzazione della coxofemorale; posteriormente, invece, la condizione è opposta. I legamenti esercitano la massima azione di stabilizzazione in posizione di riferimento e ancor più in estensione, in quelle posizioni cioè in cui risultano tesi; in queste condizioni, per lussare l’anca è necessario che la forza applicata all’articolazione sia di notevole entità. In flessione, invece, i legamenti sono rilasciati e la testa non è più premuta contro il cotile, il ché rappresenta una situazione di instabilità per l’articolazione. Una posizione molto comune, ma estremamente instabile per l’articolazione dell’anca è la posizione seduta a gambe incrociate l’una sull’altra; in questa circostanza, alla flessione si aggiunge l’adduzione e la rotazione esterna. L’adduzione contribuisce a detendere ulteriormente i legamenti pubo- ed ischio-femorale, e i legamenti che dovrebbero esser tesi dalla rotazione esterna mostrano solo un minimo grado di tensione perché la flessione dell’anca, coadiuvata dall’adduzione, ne determina il rilasciamento. Anche le strutture muscolari concorrono in maniera valida a stabilizzare l’articolazione coxofemorale ed in particolar modo quei muscoli che hanno decorso parallelo al collo femorale (pelvi-trocanterici e prevalentemente piccolo e medio gluteo), mentre i gruppi muscolari che non seguono quella particolare direttrice non compattano, anzi, se disposti lungo una linea longitudinale, tendono con la loro azione a far fuoriuscire la testa dal cotile. Il piccolo e medio gluteo ricoprono un ruolo di primo piano, sia perché, dato il loro orientamento, hanno un’importante componente di coattazione, che per la loro potenza, tanto che sono stati definiti

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come muscoli sospensori dell’anca. Tra i muscoli che invece tendono a lussare l’articolazione a causa della loro direzione longitudinale, troviamo gli adduttori. La loro azione lussante è potenziata da un cotile malformato e da un angolo di inclinazione maggiore alla norma (coxa valga), situazioni che si associano nella lussazione congenita dell’anca. Inoltre, quando esiste una malformazione del cotile, l’azione lussante degli adduttori è tanto più forte quanto più la coscia è addotta. E’ facile capire perché un tetto acetabolare sfuggente, con inclinazione esagerata (angolo di Hilgenreiner maggiore di 30°), predisponga alla lussazione, mentre è meno immediata la comprensione di come un angolo di inclinazione oltre la norma riduca la stabilità dell’articolazione coxo-femorale, però tenendo conto del fatto che con l’adduzione, l’asse del collo del femore ruota in modo da puntare sempre più verso il tetto del cotile, se ne può comprendere la motivazione biomeccanica. Al contrario, la retroversione del collo e l’intrarotazione sono fattori di stabilità per l’articolazione coxo-femorale.

L’equilibrio dell’anca è garantito dal bilanciamento tra muscoli estensori e flessori, per la stabilizzazione del bacino sul piano antero-posteriore, e tra abduttori ed adduttori che ne assicurano l’equilibrio trasversale. L’insufficienza di uno o più di questi muscoli può determinare instabilità del bacino che si traduce in un atteggiamento viziato non solo dell’anca, ma anche del rachide, il quale interviene come meccanismo di compenso per mantenere l’equilibrio. I muscoli estensori dell’anca sono situati dietro al piano frontale passante per il centro dell’articolazione. Il più importante di tutti è il grande gluteo che è il muscolo più potente (34 kgm per un accorciamento di 15 cm), più grande (66 cm2), e più forte (238 kg) del nostro corpo. Insieme ad esso, intervengono nell’estensione anche i restanti muscoli posteriori dell’anca, eccezion fatta per i fasci anteriori del medio e piccolo gluteo che invece sono attivi nella flessione dell’anca e dei muscoli ischio-crurali (bicipite, semitendinoso e semimenbranoso). Essendo muscoli biarticolari, l’efficacia di questi ultimi sull’anca dipende dalla posizione del

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ginocchio: il blocco in estensione del ginocchio favorisce la loro funzione di estensori dell’anca in quanto la loro corsa può essere utilizzata completamente per l’estensione dell’anca. I muscoli flessori invece passano tutti al davanti dell’asse di flesso-estensione che giace sul piano frontale. Appartengono a questo gruppo: l’ileo-psoas (il più potente e quello di maggiore lunghezza), il sartorio, il retto anteriore e il tensore della fascia lata.

I muscoli abduttori ed adduttori, sono responsabili della stabilizzazione trasversale del bacino, quando questo è in appoggio bilaterale, mentre in appoggio unilaterale, condizione che si verifica durante la deambulazione, l’equilibrio trasversale è garantito dai solo abduttori. Il principale muscolo abduttore dell’anca è il medio gluteo che deve la sua grande potenza soprattutto alla direzione quasi perpendicolare al braccio di leva (che unisce il suo punto d’inserzione sul grande trocantere al centro della testa femorale). La caratteristica di questo muscolo è che la sua efficacia aumenta man mano che aumenta l’abduzione fino a raggiungere il massimo a un’abduzione di circa 35o, quando la direzione della sua forza è perpendicolare al braccio di leva. Per angoli maggiori o minori di 35o la forza del medio gluteo può essere scomposta in due vettori perpendicolari tra loro: uno è diretto verso il centro dell’articolazione e rappresenta la componente coattante, l’altro invece è la forza efficace del muscolo; all’aumentare della forza efficace, diminuisce la forza coattante e viceversa. Questo spiega perché, per gradi di abduzione ≥35° il medio gluteo è sempre meno coattante e sempre più abduttore. Il medio gluteo è coadiuvato nell’abduzione dal piccolo gluteo (1/3 della potenza del medio gluteo) e dal tensore della fascia lata (1/2 della potenze del medio gluteo). Il grande gluteo partecipa all’abduzione in minima parte, solo con i suoi fasci superiori, essendo principalmente un muscolo adduttore; è importante sottolineare però, che esso prende parte alla costituzione del deltoide della natica. Questo è un largo ventaglio muscolare sito sulla faccia esterna dell’anca formato da due ventri

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muscolari distinti che delineano i margini anteriore e posteriore di un triangolo: davanti, il tensore della fascia lata, e indietro la parte superficiale del grande gluteo; questi muscoli terminano in uno sdoppiamento della benderella ileo-femorale (ispessimento laterale della fascia lata) e,tramite questa, vanno ad inserirsi sulla faccia esterna della tuberosità tibiale laterale. La contrazione simultanea dei due ventri muscolari determina un’abduzione pura in quanto le componenti di rotazione interna ed esterna, rispettivamente del tensore della fascia lata e del grande gluteo, si annullano. Se però la componente glutea diviene deficitaria, come avviene negli interventi di protesi d’anca con accesso postero-laterale, l’abduzione prodotta dal deltoide della natica sarà associata alla rotazione interna dell’anca. I muscoli adduttori dell’anca sono situati generalmente all’interno del piano sagittale passante per il centro dell’articolazione; tra di essi il grande adduttore è il più potente. Nel complesso, sono responsabili dell’adduzione i muscoli mediali della coscia (gracile, pettineo, adduttore lungo, adduttore breve, grande adduttore), il grande gluteo e gli altri muscoli posteriori dell’anca (tranne piccolo e medio gluteo) ed i muscoli posteriori della coscia (bicipite femorale, semitendinoso e semimenbranoso). Durante la deambulazione, il peso del corpo, applicato al baricentro, tende a far basculare il bacino attorno all’anca portante e ad inclinarlo, di conseguenza, dal lato privo di appoggio. Per mantenere l’equilibrio del bacino, il medio gluteo deve esercitare una forza tale per la quale il momento angolare del sistema sia nullo. La stabilità del bacino determinata dal medio e piccolo gluteo e dal tensore della fascia lata è indispensabile durante la marcia normale, situazione che vede il susseguirsi di appoggi unilaterali alternativamente sui due arti inferiori; nonostante l’appoggio monopodalico infatti, la linea del bacino, materializzata dalla linea bi-iliaca, resta orizzontale e praticamente parallela alla linea delle spalle. Se uno dei muscoli abduttori diviene insufficiente, l’azione della gravità non è più controbilanciata ed il bacino si inclina dal lato opposto di un angolo tanto più ampio quanto più

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marcata è l’insufficienza. La risultante inclinazione del bacino provocherebbe una caduta se il tronco non si portasse in blocco verso il lato d’appoggio con un basculamento inverso alla linea della spalle. Questo atteggiamento caratteristico in appoggio unilaterale associato al basculamento del bacino dal lato opposto e allo spostamento della parte superiore del tronco rappresenta il segno di Duchenne-Trendelembourg, segno caratteristico della paralisi o dell’insufficienza del piccolo e medio gluteo, che si può presentare nei primi mesi dopo l’intervento di sostituzione protesica dell’anca con accesso postero-laterale di Gibson-Moore, per poi scomparire successivamente al recupero del tono muscolare del medio gluteo. Da quanto precedentemente detto risulta evidente che le forze agenti sull’anca per mantenere l’equilibrio nell’appoggio unilaterale sono la forza peso e la forza esercitata dal medio gluteo, dalla cui somma vettoriale si ricava la forza totale agente sull’anca, inclinata di circa 16°-20° sulla verticale. A tale forza si contrappone una forza uguale e contraria corrispondente alla contro-spinta proveniente dall’urto del piede con il terreno (terzo principio della dinamica), che sviluppa: una forza di taglio (uguale e contraria al modulo orizzontale della forza totale agente sull’anca), la quale spinge la testa femorale all’interno dell’acetabolo ed una seconda forza (uguale e contraria al modulo verticale della forza totale agente sull’anca). Ne deriva che, complessivamente, sull’anca gravano carichi estremamente elevati, soprattutto in condizioni dinamiche, nonché ciclici, data la fisiologia della deambulazione, che, mentre nelle strutture ossee possono indurre fenomeni di rimodellamento, nelle protesi producono fenomeni di fatica. Basti pensare, a tal riguardo, che nella deambulazione lenta l’effetto combinato del peso corporeo e delle forze muscolari fa sì che la testa femorale sia soggetta a una forza pari a circa 4 volte il peso corporeo nella fase di appoggio unipodale, mentre nelle attività più strenue, come la corsa o l’arrampicata, l’articolazione è esposta a forze maggiori, fino a 10 volte quelle del peso corporeo24.

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1.3 Biomeccanica dell’anca protesizzata

L'analisi biomeccanica delle forze agenti sull’articolazione coxofemorale, ha spinto gli ingegneri progettisti a posizionare i componenti protesici in modo tale da massimizzare il sostegno dell'impianto, nel corso di tutto il ciclo di deambulazione. Gli impianti protesici sono pensati per avvicinarsi il più possibile alla funzione dell'articolazione naturale. Tuttavia, le considerazioni inerenti la tribologia protesica e la loro produzione dettano delle caratteristiche nei componenti protesici che possono limitare il raggiungimento di questo obiettivo25. Caratteristiche di un impianto protesico: nel progettare la protesi occorre tenere in

considerazione dei requisiti anatomici, funzionali e di biocompatibilità che derivano dallo studio del normale funzionamento dell’articolazione sana e dall’esperienza clinica. Una protesi deve:

1. consentire il movimento;

2. supportare i carichi a cui è sottoposta l’articolazione mostrando buona resistenza alla fatica meccanica e all’usura garantendo, quindi, un tempo di vita medio-lungo;

3. essere biocompatibile;

4. essere tecnologicamente perfetta (possibilità di esser sottoposta a microlavorazioni che consentano la migliore adattabilità al sito d’impianto);

5. avere requisiti chirurgici quali: facilità di inserzione e di posizionamento dei componenti, minimizzazione del trauma chirurgico e possibilità di eseguire un re-intervento.

Nel caso di sostituzione protesica, i carichi vengono trasmessi dalla protesi all’osso e generano in quest’ultimo una distribuzione di tensioni nettamente diversa da quella fisiologica, che dipende dalla configurazione geometrica della protesi, dalle caratteristiche meccaniche dei materiali (rigidità dello stelo) e dal

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tipo di interfaccia (cementata / non cementata). Le maggiori differenze fra anca normale ed anca protesizzata si verificano soprattutto per il sovvertimento della distribuzione delle tensioni nella zona prossimo-mediale del femore. Nelle articolazioni naturali, le forze vengono trasmesse, attraverso le superfici articolari, le inserzioni muscolari e quelle legamentose, alle strutture dell'osso spongioso e corticale.

La trasmissione dei carichi alla protesi: L'inserimento di una protesi altera questa distribuzione e crea sollecitazioni che non hanno alcun corrispettivo fisiologico. Si determina una vera e propria inversione del normale pattern di distribuzione delle sollecitazioni; infatti, mentre nei femori naturali la massima sollecitazione si ha a livello prossimo-mediale, nei femori protesizzati si verifica una marcata riduzione delle sollecitazioni nella zona prossimale (metafaisaria), più accentuata quando la protesi è sprovvista di colletto (riduzione fino al 90%), ed un incremento delle stesse al di sotto della punta dello stelo, dove si registrano le massime sollecitazioni.

Stress shielding: Questo effetto di schermatura del carico, noto come Stress Shielding, dipende dal diverso modulo di elasticità di femore e stelo protesico e si manifesta sotto forma di aree di apposizione e riassorbimento osseo secondo la legge di Wolff: l’osso si rimodella in funzione delle forze che su di esso si esercitano per cui nelle zone sottoposte a carico si registra l’apposizione di nuovo osso, mentre le aree prive o con minor sollecitazioni vanno incontro a riassorbimento26. Questo principio ha un carattere puramente descrittivo e non è stato finora possibile giungere a una determinazione quantitativa della legge stessa. Sono stati però definiti alcuni comportamenti di massima che si sviluppano successivamente all’inserimento dello stelo:

 Le deformazioni longitudinali, nella regione ossea prossimo-mediale, sono inferiori a quelle fisiologiche, mentre sono superiori nella parte distale; questo effetto è più evidente nelle protesi non cementate ed in particolare

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in quelle con rivestimento poroso esteso su tutta la superficie dello stelo, con le quali si assiste spesso ad un’ipertrofia della corticale;

 Le deformazioni circonferenziali, sono più elevate, rispetto ai valori "fisiologici" (negli steli a press-fit si ha un aumento delle tensioni circonferenziali pari al 125% - Walker 1992 -) e, al contrario di quelle longitudinali, la loro distribuzione non sembra modificabile variando la rigidezza dello stelo;

 Sono presenti elevate sollecitazioni torsionali intorno all'asse longitudinale della protesi e l’influenza del peso del paziente sulle sollecitazioni nella parte prossimale è superiore a quello di altri parametri;

 All'interfaccia osso-impianto si hanno sollecitazioni di taglio e compressione. Nelle protesi con finitura superficiale, le sollecitazioni di taglio vengono equilibrate dall’azione dei microincastri, ed in quelle con superficie liscia dall’attrito, con un coefficiente stimato intorno a 0,5. Se presenti, le sollecitazioni di trazione tendono a separare le superfici contigue dell’osso e della protesi , favorendo il flusso di liquidi e la disseminazione di particelle di usura.

Carichi statici e dinamici: A monte di ogni tipo di interazione meccanica protesi-osso ci sono i carichi statici e quelli dinamici che agiscono sull’articolazione dell’anca: il peso del corpo è il principale determinante dei carichi statici. I fattori che condizionano l’entità di questi carichi sono rappresentati essenzialmente dal sistema di fissazione delle componenti protesiche (protesi cementate e non cementate), dalla forma dell’impianto e dalle caratteristiche morfometriche dei segmenti scheletrici che ospitano la protesi. I carichi dinamici si sovrappongono a quelli statici durante il movimento articolare modificandone i vettori, non solo in termini di valore assoluto, ma anche di direzione.

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