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Academic year: 2021

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Il “progetto educativo” di Anne Sullivan Macy

Anne Sullivan Macy’s educational project

Riflessione teorica

(A. incontro con la storia; B. questioni epistemologiche; C. temi emergenti)

The article presents, through the analysis of direct sources such as letters and speeches by Anne Sullivan, a milestone in the history of special education. Anne’s educational project shaped for her famous student Helen Keller will be analyzed with a hermeneutic approach. The story of Anne's life and her thoughts show the universality of education and the educability of every indi-vidual, in all health conditions.

Key-words: Anne Sullivan, Helen Keller, special education, knowledge, method.

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Angela Magnanini

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Premessa

La storiografia attuale vive una stagione aperta all’incrocio tra le scienze e tra le metodologie, rifacendosi alla tradizione della Nouvelle Histoire di Febvre e Braudel (Burke, 1992) e della Social History. Due correnti che hanno saputo rinnovare la dimensione storiografica, aprendo la storia (il suo prodotto) alle molte storie, ai diversi approcci, alle angolature di osservazione particolari, per cogliere sempre più nel profondo le molteplici facce del divenire. Una storia totale che celebra la meto-dologia della lunga durata, che pone il problema delle strutture sociali, quelle presenti e quelle passate e che lega la storia al presente in modo indissolubile (Braudel, 1969). Una storia plurale, relativa (Serpe, 2016, pp. 168-169), segnata da disomogeneità e differenze che si costruisce su una molteplicità di fonti (Bellatalla, Genovesi, 2006). Non una storia che racconta esclusivamente le istituzioni o le idee, ma che porta all’emersione di “scenari” sommersi, inediti, così come ben spiegati da Santoni Rugiu (1994).

Nel campo della storia della pedagogia speciale e dell’educazione speciale i silenzi sono moltissimi e i campi da investigare innumerevoli. La difficoltà, come hanno reso evidente Canevaro e Goussot (2000), risiede nella difficile reperibilità delle tracce, dei segni e nel fatto che per lungo tempo la storia si è interessata prin-cipalmente al racconto del centro e non dei margini, che spesso sono rimasti senza parola e senza voce (Cambi, Ulivieri, 1994).

In una stagione non facile per l’integrazione/inclusione siamo persuasi che sia necessario ripartire dalla storia per aiutare a comprendere questioni sociali e cultu-rali, vissuti personali e collettivi, forme di discriminazione che continuano ad inne-scarsi sulla fragilità e sulla vulnerabilità delle persone, dando vita a comportamenti sociali stigmatizzanti e di diseguaglianza. Una riflessione storica che deve animare e deve tradursi in azioni concrete di trasformazione delle pratiche, dei comporta-menti sociali, dei concetti, delle culture. Per consentire questo passaggio dalla rico-struzione storiografica all’agire presente (dalla conoscenza, alla consapevolezza, all’azione) è necessario non solo rifarsi fedelmente ai documenti (storia documen-taria), ma farli rivivere, reinventandoli, attraverso quell’operazione di ricostruzione ermeneutica e di narratività interpretativa, che consente di dare nuova vita, attra-verso l’analisi di fonti e documenti, a ciò che è già accaduto, arricchendolo di signi-ficati rinnovati ed originali (Bellatalla, 2004, pp. 34-35). Questo è possibile grazie al continuo divenire della storia, che mai si arresta, ma che continuamente viene rico-stituita (Le Goff, 1988) attraverso una interpretazione come sintesi complessa, soggettiva e non esaustiva dalle molteplici ricadute sull’esistente individuale e collettivo. Il “fatto storico”, nell’incrocio ed intersezione tra saperi e discipline, può far emergere nodi, accadimenti, figure che erano rimasti inesplorati o non capiti prima nella loro rilevanza culturale e che acquistano un particolare significato grazie a quell’universo di senso che il ricercatore sa portare con sé, leggendo quei docu-menti attraverso la lente della propria disciplina.

1. Ratio

Sulla scia del lavoro di Piero Crispiani, Storia della Pedagogia speciale. L’origine, lo

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rico-struzione biografica e del pensiero (aspetti strettamente intrecciati) di un’inse-gnante, divenuta famosa soprattutto per la sua allieva, Helen Keller (1880-1968) (Magnanini, 2009; Bocci, 2011; Zurru, 2016; Zappaterra, 2018).

La storiografia europea ha dato poco spazio nelle proprie ricerche a Miss Anne Sullivan Macy (1866-1936). Per comprendere a pieno la vicenda miracolosa di Helen è necessario, invece, soffermarsi sul lavoro educativo condotto incessantemente dalla sua insegnante che capisce, in pieno clima attivistico, la necessità di centrare l’educazione sui bisogni dell’allievo, sottolineando il diritto all’istruzione di ogni persona, a prescindere dalla propria condizione di salute. La storia di Sullivan è un piccolo tassello nel complesso mosaico della storia dell’educazione speciale e dell’educazione in generale, che ci aiuta a riflettere sul senso profondo della rela-zione educativa, tracciando percorsi imprescindibili per rendere il sapere accessi-bile, partecipato e condiviso, invitandoci a considerare la diversità una categoria fondativa dell’educazione stessa e rimarcando il concetto di Educabilità, così come concepito da Itard (Magnanini, Crispiani, 2016).

Questo saggio, nello specifico, intende focalizzarsi sulla costruzione del progetto educativo, che Sullivan mette a punto per la sua allieva, attraverso la metodologia ermeneutico-interpretativa (Trinchero, 2004) di una particolare fonte, le lettere scritte da Sullivan a Sophia C. Hopkins (governante presso l’Istituto Perkins di Boston, con la quale Anne stabilisce un rapporto materno) dal 6 marzo 1887 al 22 marzo 1888 durante il suo primo anno di lavoro con Helen.

Il materiale non ha traduzione in lingua italiana ed è conservato presso l’archivio storico dell’Istituto Perkins di Boston nel fascicolo Letters by Anne Sullivan Macy (nel testo per ogni citazione verrà riportata la data della lettera). Una miscellanea delle lettere è contenuta nel testo The story of my life by Helen Keller with her letter

(1887-1901) and a supplementary account of her education, including passages from the reports and letters of her teacher (New York, 1903). Il materiale è prezioso

poiché pochi sono gli scritti di Sullivan per alcuni motivi che essa stessa ribadisce: la difficoltà nella vista che la accompagna per tutta la vita, causata da una malattia degenerativa, la paura di scatenare troppo clamore sul caso di Helen e la riluttanza a scrivere un metodo, poiché essa stessa era convinta che non bisognasse trovare delle ricette, ma attraverso studi continui, lavorare insieme allo studente per otte-nere miglioramenti significativi (Lash, 1980; Nielsen, 2010). Altri importanti elementi del suo progetto educativo, si possono rintracciare nelle lettere scritte dalla stessa Sullivan a Michael Agnanos (Direttore dell’Istituto Perkins tra il 1877 e il 1896), in tre relazioni scritte sui progressi di Helen (1887, 1888 e 1891) ed inviate allo stesso Istituto e in una relazione preparata per il Congresso di Chautauqua, organizzato nel 1894 per promuovere l’insegnamento vocale dei non vedenti. Tutto il materiale è stato messo a disposizione dall’Archivio Storico dell’Istituto di Boston e personalmente tradotto in lingua italiana.

Perché ci si soffermerà sul primo anno di lavoro di Anne? Perché proprio nelle lettere inviate all’amica (e, quindi, senza paura di essere studiata e giudicata) Sullivan mostra con semplicità, alcune volte timore, il proprio lavoro di osservazione, costru-zione progettuale, di mediacostru-zione didattica e di creacostru-zione di strategie per la indivi-dualizzazione degli apprendimenti. Proprio in questo primo anno Sullivan crea tutte quelle condizioni necessarie all’instaurarsi di una relazione educativa efficace che condurrà la propria allieva al successo formativo e al superamento delle difficoltà incontrate durante i primi sei anni di vita, quando la bambina non ha ricevuto un’educazione formalizzata.

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Le lettere, che formano una sorta di diario di bordo, intrecciate alle vicende di vita di Sullivan (Keller, 1903a; 1955; Braddy, 1933; Hickok, 1961; Selden, 1987; Nielsen, 2009) mostrano la capacità della stessa non solo di vivere dal di dentro la relazione educativa, ma di riuscire ad astrarsi per riflettere sul proprio oggetto di studio e di intervento, costruendo ex novo, un congegno concettuale in grado di guidare la propria azione, con la possibilità di creare aggiustamenti continui.

Sullivan, in questa direzione, non si comporta solo da insegnante e da educatore, ma da donna di scienza che ha ben compreso il valore dell’educazione, come forma di accompagnamento verso l’autonomia personale, di emancipazione e di umaniz-zazione.

2. Note biografiche

Miss Anne Sullivan Macy nasce a Feeding Hills nel Massachusetts il 14 aprile 1866 (morirà a New York il 20 ottobre 1936), da una famiglia povera di agricoltori immi-grati irlandesi (Thomas Sullivan e Alice Cloesy). La morte della madre nel 1872, l’al-colismo e la violenza del padre, insieme alla povertà ed alla malattia (a 5 anni contrae a causa di batteri il tracoma, una malattia degli occhi) che la renderà parzial-mente cieca, costringono Anne ed il fratello Jimmie ad essere ricoverati nel febbraio del 1876 in una casa dei Poveri “Tewksbury Almshouse”, che la stessa Sullivan rino-mina Dead House (Nielsen, 2009, p. 17). Questa istituzione accettava “bambini molto piccoli, infermi, malati mentali, poveri” (Ivi, p. 15) e le condizioni di vita al suo interno erano pessime, così come dichiarato dalla stessa Sullivan (Braddy, 1933, p. 37).

Dopo circa tre mesi dal loro arrivo, in una situazione sovraffollata, il fratellino muore e Anne trascorrerà nella Casa ancora quattro anni prima di riuscire ad essere traferita, grazie all’aiuto di alcune dame caritatevoli e al dottor Sanborn (Ispettore del Massachusetts State Board of Charities), nell’Istituto Perkins per Ciechi di Boston, il 7 ottobre 1880 (Braddy, 1933, p. 50). Questo istituto era stato aperto nel 1832 da Samuel Gridley Howe, dopo un viaggio del medico John Fisher in Francia negli anni Venti, che aveva intuito l’opportunità di istituire negli Stati Uniti istituzioni educative per i ciechi (Ferreri, 1903). L’Istituto già nel 1881 produceva testi in Braille e prestava molta attenzione all’inserimento lavorativo dei suoi alunni e dal 1892 accoglieva studenti con disabilità multiple diverse dalla cecità (Nielsen, 2009, p. 30).

Lo Stato regala a Miss Sullivan due vestiti e, grazie alla mediazione di Sanbron, si fa carico delle spese di istruzione della stessa ragazza (McGinnity, Seymour-Ford and Andries, 2004), che è fortemente intenzionata a studiare duramente per cambiare il proprio destino.

Quando arriva al Perkins era Direttore Michael Agnanos, che ne aveva trasfor-mato il nome in Massachusetts school for the blind. Il suo intento era di creare non un rifugio ma un’istituzione in grado di educare gli studenti ad essere indipendenti economicamente, moralmente e socialmente (Nielsen, 2009, p. 38). Il sistema della scuola era denominato Cottage System. Gli studenti erano suddivisi in piccoli gruppi che vivevano in casette sotto la guida di una governante che prestava cure materne e educava alla disciplina per ovviare agli effetti negativi della loro vita passata. Attra-verso, poi, lo studio della letteratura, della musica, dell’educazione fisica e l’esercizio delle abilità manuali, i bambini ciechi “potevano ricevere la stessa educazione che ricevevano i bambini vedenti nelle scuole comuni” (Ivi, p. 38). Si trattava di un

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sistema di istruzione ispirato alle teorie di Fröebel e di Pestalozzi e poggiato sul simultaneo sviluppo di mente, corpo e morale per la promozione di un’educazione che conducesse i bambini ciechi a diventare bravi cittadini (Ivi, p. 39). Veniva rifiutato l’insegnamento meccanicistico e, dopo le prime difficoltà dovute all’età di Anne, rispetto ai compagni ed alle sue incapacità, date dal non aver mai frequentato una scuola, Anne apprende a scrivere e a leggere, anche grazie ad una operazione agli occhi che le ha restituito in parte la vista. Nel curricolo molta importanza erano date all’educazione fisica e alla educazione musicale. Anne, riesce a stringere buoni rapporti con la governante, che tratterà sempre come una madre e dalla quale capirà l’importanza dell’educazione affettiva, laureandosi nel 1886 e, preparandosi, poi al proprio inserimento nella vita lavorativa (Morani Catellani, 1979).

All’età di quattordici anni Sullivan, non sapeva leggere o scrivere il suo nome. Non aveva mai posseduto una camicia da notte o spazzola per capelli e non sapeva come infilare un ago. La maggior parte delle altre ragazze erano figlie di ricchi mercanti o contadini prosperi (Keller, 1903b). L’incontro con Agnanos, le letture pedagogiche, convincono Anne del potere trasformativo dell’educazione, proprio come è avvenuto nel suo caso. Molto importante per la sua formazione è l’incontro con Laura Dewey Bridgman (1829-1889). Laura è stata colpita all’età di 2 anni dalla scarlattina rimanendo cieca e sordo-muta. Nel 1837 la sua formazione è affidata alle cure del Dottor Howe, che sviluppa un sistema educativo, che orienterà l’edu-cazione di molti sordo-cieco muti in tutta Europa (Martinazzoli, Credaro, 1901, p. 222), insegnando il linguaggio attraverso etichette in rilievo da comporre, attraverso l’imitazione e la memorizzazione. La stessa Sullivan parte dalle teorizzazioni di Howe per sviluppare, poi, la sua pratica didattica quotidiana.

Dopo la laurea, per Sullivan arriva il momento di mettersi in gioco. Nel 1887 partirà, infatti, per Tuscumbia, dopo che il direttore Agnanos, dopo essersi confron-tato con il dottor Bell, la designa come insegnante di Helen Keller, una bambina, che all’età di 19 mesi a seguito di una malattia infantile, allora sconosciuta e definita come “congestione acuta dello stomaco e del cervello”, precipitando nell’“inco-scienza di una neonata” (Keller, 1903), rimane priva della vista e dell’udito.

Per le sue vicende di vita, lei stessa persona con difficoltà, inizia il suo lavoro con uno sguardo positivo, creando un progetto per l’alunna, guardando oltre il deficit, per valorizzarne le potenzialità e per dare vita ad una relazione educativa, in grado di riordinare il caos in cui Helen ha vissuto fino all’età di 7 anni.

Le sue lettere riportano alla luce il suo incessante lavoro di accompagnamento, di studio, di ricerca per rispondere ai bisogni educativi di Helen, mostrando delle traiettorie che finiscono per diventare parole chiave e segmenti orientativi della Pedagogia speciale moderna.

3. Costruire la relazione educativa

La relazione educativa che ha in mente Sullivan parte da ciò che ha appreso nei suoi anni di formazione all’Istituto Perkins, ma ben presto si accorgerà che i metodi di Agnanos non sempre sono efficaci con la sua allieva. Per questo ritiene necessario osservare e studiare attentamente tutte le sue reazioni, cambiando anche rotta laddove questi si rivelino fallimentari. Il suo è un progetto educativo, nel senso etimologico della parola Progetto, dal latino projectus (participio passato di pro

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della prospetticità, ossia la capacità di guardare avanti con gli occhi della mente, di formulare ipotesi, per la realizzazione di quanto ancora non c’è, trovando i mezzi e gli strumenti più idonei (Genovesi, 1998, p. 340). Per questo il suo è un progetto, teso alla creazione di una relazione educativa, che almeno sulla carta si rivela impos-sibile, data la situazione di partenza della sua allieva. Il senso stesso dell’educazione è racchiuso nella costruzione del “non c’è”, schiudendo la strada ad ogni percorso praticabile.

Seguendo la riflessione di Avanzini possiamo far notare come la relazione educa-tiva, sempre in situazione di asimmetrica, si snodi su due direzioni contemporanea-mente: a) valorizzare le capacità del discente di essere soggetto di conoscenza, valorizzare dunque la sua individualità; b) assumere il ruolo di costante ostacolo/stimolo al fine di porre tale soggettività in stretta relazione con altre soggettività e più in generale con quel mondo in comune rappresentato dalla cono-scenza condivisa (Avanzini, 2003, p. 102). Sullivan parte dal costante coinvolgimento della bambina, restituendo il senso di una relazione reciproca, che non può non partire dal contesto di vita del soggetto, dalla rilevazione dei suoi interessi, per farvi leva al fine di costruire la conoscenza. Questa prospettiva risulta in piena linea con l’attivismo che si sta sviluppando negli Stati Uniti, grazie all’operato di John Dewey, recuperando anche le teorie di Fröebel, di cui Sullivan era ben a conoscenza. L’atti-vismo pone la propria attenzione sul puerocentrismo, sul ruolo di guida dell’inse-gnante come facilitatore nella scoperta del bambino, sul legame interesse/bisogni, sulla personalizzazione dell’insegnamento, sul legame insegnamento/vita. L’appren-dimento, inoltre, si struttura attraverso l’esperienza pratica (Cambi, 1995, p. 437). Tutti questi elementi sono presenti nella progettazione educativa di Miss Sullivan. In continuità, poi, con le tesi di Fröebel punta sulla capacità creativa di Helen, facendo leva sull’affettività (De Giorgi, 2018).

La relazione educativa che intende costruire Sullivan si pone, inizialmente, come relazione di aiuto, consentendo all’allievo di esercitare la propria soggettività. Come sostiene Resico, la relazione d’aiuto “è un fare insieme, che diviene fare da sé, supe-rando la condizione di crisi della persona assistita” (Resico, 2011, p. 111). La rela-zione accompagna il soggetto verso la propria autonomia, predisponendo un contesto ed utilizzando mezzi e strumenti capaci di mettere la persona nelle condi-zioni di “crescere”.

L’analisi delle lettere di Sullivan fa emergere, attraverso una lettura pedagogico-speciale, alcune parole chiave, che strutturano la sua progettazione educativa: 1. Osser-vazione sistematica e conoscenza; 2. Affettività; 3. Comunicazione; 4. Mediazione.

Già prima dell’arrivo a Tuscumbia, grazie agli scambi con la famiglia, Sullivan aveva cominciato a studiare le caratteristiche di Helen, ma al suo arrivo la descri-zione pare contraddire ciò che aveva immaginato. Nella prima Lettera, datata 6 marzo 1887, scrive:

“In qualche modo mi aspettavo di trovare una bimba pallida e delicata: credo che ciò fosse dovuto alla descrizione fatta dal Dr. Howe di Laura Bridgman al momento del suo arrivo all’istituto. Ma Helen non ha nulla di pallido o delicato. È di corporatura forte, robusta, è rossa in viso, e sfrenata nei movimenti come un giovane puledro. Non presenta irritanti tic nervosi che di solito si evidenziano così tanto nei bambini non vedenti. Il corpo è vigoroso e ben formato, e inoltre Mrs. Keller dice che non è mai stata malata un giorno da quando contrasse la malattia che la privò della vista e dell’udito... L’espressione è intelligente, ma manca di mobi-lità o di anima o di quel non definibile “non so che”. La bocca è larga e ben delineata.

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Si vede subito che è cieca perché un occhio è più grosso dell’altro e sporge notevol-mente. Sorride raramente, infatti ho visto il suo sorriso solo una o due volte da quando sono arrivata... È molto sveglia e volenterosa e nessuno, a parte suo fratello James, ha mai tentato di darle degli ordini. Helen non sta “mai ferma un momento. È qui, là, dappertutto. Le sue mani sono su tutto; ma niente riesce ad attirare la sua attenzione a lungo. Povera bambina, il suo spirito che non trova pace brancola nel buio. Le sue mani insoddisfatte e non istruite distruggono qualsiasi cosa toccano, perché non sanno cosa altro farne delle cose”.

La bambina ha spesso comportamenti aggressivi. Sullivan tratteggia, attraverso un racconto minuzioso ed un’osservazione attenta i tratti caratteristici ed il suo temperamento: “Helen stava sdraiata sul pavimento, scalciando, urlando e cercando di farmi cadere dalla sedia. Continuò così per mezz’ora, poi si alzò per vedere cosa stessi facendo. Le feci vedere che stavo mangiando ma non le lasciai mettere la mano nel mio piatto. Cominciò a darmi dei pizzicotti e le diedi uno schiaffo ogni volta che lo faceva. Poi fece un giro attorno al tavolo per vedere chi c’era, e non trovando nessuno eccetto me, sembrò smarrita. Dopo pochi minuti tornò indietro al suo posto e cominciò a mangiare la colazione con le dita. Le diedi un cucchiaio che lei buttò sul pavimento. La obbligai a spostarsi dalla sedia ed a raccoglierlo. Finalmente riuscì a farla rimettere a sedere, a tenere il cucchiaio in mano, obbligan-dola a raccogliere il cibo con esso e portarlo alla bocca” (Lettera 11 marzo 1887). Prosegue, affermando: “Quando ho cominciato a insegnarle, mi trovai circondata da molte difficoltà. Non voleva cedere a nessuna richiesta senza prima averla conte-stata in maniera violenta. Non riuscivo neanche a persuaderla, con delle moine, a raggiungere dei compromessi. Anche per farle fare le cose più semplici - come petti-narle i capelli, lavarle le mani o allacciarle gli stivali - era necessario usare la forza e, naturalmente, a questo seguiva una scena drammatica (Ivi).

L’atteggiamento aggressivo si accompagnava ad una motricità non finalizzata, non intenzionale e non consapevole. L’eccessiva tutela protettiva della famiglia avevano reso Helen disobbediente e poco incline al rispetto delle regole. Il primo problema educativo di Sullivan si rileva, in questa direzione, quello di far compren-dere ad Helen l’autorevolezza, facendo perno sulla affettività e sull’obbligo. L’affetti-vità è uno degli elementi caratterizzanti ogni processo educativo (Galanti, 2001), senza questa componente, l’educazione si rileva mero addestramento.

Helen sembra non rispondere alle richieste di Sullivan, che si interroga come possa essere possibile iniziare a comunicare e a far apprendere il linguaggio, se non si instaura un clima di fiducia reciproca. Scrive, infatti, “mi sono accorta subito che gli approcci usuali per arrivare al suo cuore non funzionavano. Accettava forzata-mente tutto ciò che facevo per lei ma rifiutava di essere accarezzata, e non c’era modo di fare appello al suo affetto, compassione o amore infantile per l’approva-zione. O voleva o non voleva e non c’era niente da fare. Quindi studiamo, pianifi-chiamo e ci prepariamo per un compito e quando viene il momento di mettere tutto in atto, ci accorgiamo che il sistema seguito con tanta fatica e orgoglio non funziona in quel caso” (Lettera 11 marzo 1887).

Sullivan, replicando il sistema educativo (Cottage System) del Perkins, predi-spone per rispondere a tale problematica, il trasferimento suo e di Helen nel cottage di famiglia dove può, senza le interferenze protettive dei genitori, compiere libere scelte per la formazione ed il benessere di Helen. Affidandosi agli oggetti di vita come mediatori, ai lavoretti manuali, al rispetto delle regole del vestirsi e del mangiare, al gioco, il 20 marzo scrive:

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“La piccola creatura selvaggia di due settimane fa, si era trasformata in una bambina docile. Siede di fianco a me mentre scrivo, la sua espressione è felice e serena, e lavora con i ferri una lunga rossa maglia di lana scozzese. Questa settimana ha imparato a lavorare a maglia ed è molto orgogliosa dell’obiettivo raggiunto. Quando è riuscita a realizzare una maglia capace di congiungere i due estremi della stanza, si è data un colpetto sul braccio e poi ha messo il primo lavoro, fatto amore-volmente con le sue mani, vicino alla sua guancia. Adesso si lascia baciare da me e quando è particolarmente di buon umore mi si appoggia in grembo per un po’... Il grande passo, il passo che conta, è stato compiuto. La piccola selvaggia ha imparato la prima lezione sull’obbedienza” (Lettera, 20 marzo 1887). Fare leva sull’affettiva significa instaurare un clima di rispetto ed empatia, per poi puntare sull’autorevo-lezza, l’obbligo, la forzatura, l’impegno e l’allenamento incessante (Magnanini, 2009, p. 193).

3.1 La comunicazione

Il secondo passaggio nell’educazione di Helen è rappresentato dalla ricerca da parte di Sullivan di un canale comunicativo alternativo al comune, in grado di permettere la concretizzazione del meccanismo insegnamento-apprendimento, consentendo di lavorare su contenuti specifici e condivisi. Questo canale è rappresentato dalle mani, che diventano lo strumento di conoscenza degli oggetti e del mondo circo-stante. Da subito Sullivan ha utilizzato tale sistema (che aveva appreso al Perkins), racconta, infatti, Helen “mi aiutò a disfare il bagaglio quando arrivò e fu felice quando trovò la bambola che le bambine le mandarono. Ritenni che quella fosse una buona opportunità per insegnarle la sua prima parola. Feci lentamente lo spel-ling della parola “b-a-m-b-o-l-a” nella sua mano e indicai la bambola e mossi su e giù la testa, che sembrava essere il suo segno per indicare il possesso. Ogni volta che qualcuno le dava qualcosa, lei la indicava e muoveva su e già la testa. Sembrava perplessa e toccò la mia mano e così le ribadii le lettere. Le imitò molto bene e indicò la bambola” (Lettera 7 marzo 1887).

Sullivan compie lo spelling di ogni oggetto di vita di Helen nelle sue mani, che all’inizio impara imitando, non senza confusione. Il 13 marzo aveva appreso tre parole. Questa settimana, scrive Sullivan, “Helen ha imparato svariati nomi. “T-a-z-z-a” e “l-a-t-t-e” le hanno dato più problemi delle altre parole. Quando fa lo spelling della parola “l-a-t-t-e” indica la tazza, quando fa lo spelling della parola “t-a-z-z-a” fa il gesto di versare o di bere, il che mostra che ha confuso le due parole. In ogni caso non ha ancora capito che tutto ha un nome” (Lettera 20 marzo 1887). I no ed i sì, espressi dall’insegnante attraverso i movimenti del capo diventano un mezzo di comunicazione tra docente ed allievo, che, così, si inviano continui feedback durante la conversazione. Sullivan, insegna le parole ad Helen attraverso un alfabeto manuale di ideazione di monaci trappisti spagnoli. Compitava sulla mano della bambina le lettere corrispondenti alle parole (Alliegro, Micelisopo, 1996). Agli inizi Helen ripeteva quei gesti, inconsapevole che si trattasse di sequenze motorie ficanti oggetti o persone o azioni, inconsapevole dell’esistenza delle parole a signi-ficare qualsiasi elemento della realtà fenomenica e non fenomenica (Zappaterra, 2018, p. 27).

Il percorso di Sullivan è fatto di scoperte, divieti, sorprese e di ripetitività di gesti. Scrive, infatti, Anne: “Faccio lo spelling nelle sue mani di tutto ciò che facciamo

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durante tutto il giorno, anche se lei tuttora non ha nessuna idea di cosa significhi… trovo che sia più facile insegnarle le cose nei momenti più disparati e non ad orari prestabiliti (Lettera 6 aprile 1887). Il 31 marzo, annota ancora l’insegnante, “ho scoperto che Helen conosceva diciotto nomi e tre verbi… Quelle segnate con una croce sono le parole che lei ha chiesto di conoscere perché le serviva saperle. Bambola, tazza, spilla, chiave, cane, cappello, tazza, scatola, acqua, latte, caramella, occhio (x), dito della mano (x), dito del piede (x), testa (x), torta, neonato, mamma, siedi, in piedi, cammina” (Lettera 31 marzo 1887). Il 1 di aprile ha imparato i sostan-tivi coltello, forchetta, cucchiaio, piattino, tè, nonno, letto e il verbo correre. Le parole sono legate all’ambiente di vita ed alle attività preferite dalla bambina (Lettera 1 aprile 1887).

L’alfabeto manuale è per Helen la chiave della conoscenza. Sullivan ha trovato lo strumento che consente ad Helen di comunicare con lei e con il mondo. Attra-verso i gesti intenzionali (e non più sconnessi ed inconsapevoli, come al suo arrivo), come ad esempio un colpetto sulla spalla quando vuole conoscere il nome di una cosa, Helen comunica con la sua insegnante in maniera efficace (Lettera 28 marzo 1887).

Il 5 aprile segna una tappa fondamentale nella formazione di Helen. Così descrive Sullivan ciò che è accaduto: “Io ho fatto lo spelling di “a-c-q-u-a” e non ci ho più pensato fino a dopo colazione. Poi mi è venuto in mente che con l’aiuto di questa nuova parola sarei potuta riuscire a superare il problema “tazza-latte. Andammo verso il pozzo e feci tenere la tazza ad Helen sotto il getto, mentre pompavo l’acqua. Mentre l’acqua fredda riempiva la tazza, cominciai a fare lo spel-ling di “a-c-q-u-a” nella mano libera di Helen. La parola che si avvicinava così tanto alla sensazione dell’acqua fredda che scorre su di lei sembra sconvolgerla. Lasciò la tazza e stette immobile come paralizzata. Il suo viso si illuminò di una nuova luce. Fece lo spelling di “a-c-q-u-a” più volte. Poi cadde per terra e chiese il nome dell’acqua, indicò il pozzo e il graticolato e, voltandosi improvvisamente, chiese il mio nome e feci lo spelling di “i-n-s-e-g-n-a-n-t-e”. Subito dopo la balia portò la sorel-lina di Helen vicino al pozzo ed Helen fece lo spelling di “b-a-b-y” ed indicò la balia. Fu eccitata lungo tutto il tragitto che riportava a casa, e imparò il nome di ogni oggetto che toccava, così che in poche ore aggiunse trenta nuove parole al suo voca-bolario… È impaziente di far fare lo spelling ai suoi amici e volenterosa di insegnare le lettere a chiunque incontri. Abbandona la pantomima e i segni che usava prima appena conosce le parole per i vari oggetti, e l’acquisizione di nuove parole le procura il più genuino dei piaceri. Abbiamo notato che il suo viso diventa sempre più espressivo ogni giorno di più” (Lettera 5 aprile 1887).

Nel tentativo di insegnare ad Helen il linguaggio, Sullivan, osservando la cugi-netta di 15 mesi, comprende di dover far leva sull’imitazione. E, così, si propone di “parlare nelle sue mani come se stessi parlando nelle orecchie di un bimbo piccolo. Devo partire dal presupposto che lei abbia una normale capacità come hanno tutti i bambini di assimilare e imitare. Devo usare frasi complete nel parlarle e accom-pagnare il significato con i gesti e i segni descrittivi, solo quando è strettamente necessario, ma non devo cercare di tenere la sua mente concentrata solo su uno di questi mezzi. Devo fare tutto ciò che posso per interessarla e stimolarla ed aspettare i risultati” (Lettera 10 aprile 1887). Il 24 aprile Sullivan scrive che Helen conosce già il significato di 100 parole, anche se ancora non sa esprimere farsi complete (Lettera 24 aprile 1887). “È meraviglioso come le parole generino le idee! Ogni nuova parola che Helen impara sembra portare con sé la necessità di conoscerne molte di più.

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La sua mente avanza attraverso la sua inarrestabile attività” (Lettera 16 maggio 1887).

Il lavoro di Sullivan, descritto con tanta meticolosità, si articola su due livelli: il primo si fonda sull’imitazione ed il secondo realizza un raccordo tra la percezione delle cose e la percezione dei segni comunicativi dell’insegnante. L’evocazione sensi-tiva non imita semplicemente un gesto fisico ma un gesto mentale, che conduce Helen a risvegliare l’intelligenza, liberando i significati delle cose. La capacità evoca-tiva consente al soggetto di cogliere il senso della realtà che lo circonda (Sacchetti, 2001; Magnanini; 2009). In questo senso, il 1 ottobre Sullivan racconta: “Un giorno le ho fatto una semplice domanda in combinazione con dei numeri, sicura che ne conoscesse la risposta. Ma lei risponde a caso: rimane immobile e l’espressione del suo viso faceva chiaramente capire che stava cercando di pensare. Le tocco la fronte e faccio lo spelling di “p-e-n-s-a-r-e”. La parola, così messa in associazione con l’atto, sembrava imprimersi nella sua memoria tanto come se avessi messo la sua mano su un oggetto e avessi fatto lo spelling del suo nome. Da questo momento in poi ha sempre usato la parola pensare” (Lettera 1 ottobre 1887).

Per realizzare il suo progetto educativo, inoltre, Sullivan utilizza l’integrazione dei sensi, nonostante gli specialisti abbiano messo in evidenza l’incapacità totale di vedere e di sentire di Helen. Questa integrazione si realizza attraverso il movimento, che rappresenta per Sullivan uno degli elementi principali del processo di appren-dimento e di sviluppo intellettivo. Attraverso il movimento delle dita, il tocco del viso, il movimento spaziale Helen riconosce le emozioni, collegando certi “movi-menti del corpo con la rabbia, altri con la gioia e altri con la tristezza” (Lettera 1 ottobre 1887). A tal proposito il 15 maggio Sullivan scrive “Se dai ad un bambino qualcosa di dolce, lui dimena la lingua, fa schioccare le labbra ed ha l’espressione contenta, ha una sensazione molto definita insomma; se, ogni volta che gli succede questo, lui sente la parola dolce, o qualcuno gli fa lo spelling nelle sue mani, userà subito questo segno arbitrario che indica quel tipo di sensazione. Allo stesso modo, se gli si mette un po’ di limone sulla sua lingua, lui arriccia le labbra e prova a sputarlo; dopo che avrà avuto questa esperienza un po’ di volte, se gli si offre un limone, chiuderà la bocca e farà le facce, indicando chiaramente che si ricorda la sensazione spiacevole. La tua etichetta è acido, e lui adotterà il tuo simbolo. Se avessi chiamato queste sensazioni rispettivamente nero e bianco, lui le avrebbe prontamente adottate; ma con nero e bianco avrebbe inteso le stesse cose che con dolce e acido. Allo stesso modo il bambino impara da molte esperienze a distinguere i sentimenti, e noi gli diamo un nome per lui: buono, cattivo, delicato, violento, felice, triste. Non è la parola, ma la capacità di provare la sensazione che conta nella sua educazione” (Lettera 15 maggio 1888).

3.2 La mediazione

Anne usa una serie di mediazioni e di mediatori/facilitatori della comunicazione. Le vibrazioni provocate dalla valigia sulle scale all’ingresso della casa, la bambola, gli indumenti, il lasciarsi toccare il volto, il linguaggio dei gesti, il toccare gli oggetti di vita quotidiana, l’imparare a rispettare le regole di convivenza sociale in momenti significativi della giornata (come il pranzo o la cena), il contatto corporeo e l’esercizio dei sensi attraverso le percezioni provocate dall’acqua, dall’aria, dal cibo, l’imparare a prendersi cura di sé ma anche degli altri esseri viventi (i piccioni, l’uovo, il pulcino,

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il cane), il ragazzino nero come compagno di gioco (come tutor), si rivelano elementi e strategie intermediarie del processo di conoscenza. Secondo Moliterni la relazione tra insegnante ed alunno è sempre azione “mediale” (Moliterni, 2013, p. 112). Ed il compito dell’insegnante è quello di “favorire l’avvicinamento dell’alunno alla cultura e condurre alla realizzazione personale delle esperienze e delle conoscenze secondo modalità adeguate alla presa in carico dell’esperienza conoscitiva da parte del soggetto in apprendimento” (Ivi, p. 113). Sullivan non intende forzare i tempi, ma utilizzare dei mediatori, soprattutto attivi, perché vicini alla realtà di Helen, ed analo-gici come il gioco, che facendo leva sulla simulazione, aiutano Helen nel suo processo di conoscenza e razionalizzazione.

L’utilizzo del gioco come forma di mediazione è ben presente in Sullivan. Per comporre le frasi, cosi come all’inizio aveva usato le perline, le tesserine con le lettere in rilievo, utilizza un gioco, un riadattamento della caccia al tesoro. Così, infatti, scrive: “Nascondo qualcosa in una palla, o in un rocchetto, e noi lo cerchiamo. La prima volta che abbiamo giocato a questo gioco, due o tre giorni fa, Helen si mostrò molto sveglia nel trovare gli oggetti. Cercava in posti dove sarebbe stato impossibile mettere la palla o il rocchetto... Adesso la tengo interessata al gioco per un’ora e più, e si mostra molto più scaltra di prima, e spesso mostra anche grandis-sima ingenuità nella ricerca: stamattina ho nascosto un cracker; lei ha guardato dappertutto senza successo, ed era evidentemente disperata; quando improvvisa-mente fu assalita da un pensiero…venne da me correndo, e mi fece aprire la bocca spalancata, mentre la “perquisiva” accuratamente. Non trovando nessuna traccia del cracker, indicò il mio stomaco e fece lo spelling del verbo “mangiare” intendendo “L’hai mangiato?” (Lettera 8 maggio 1887).

L’apprendimento acquisisce una connotazione ludica. Sullivan racconta, infatti, “trasformiamo la lezione di lettura in una sorta di gioco per vedere chi trova le parole più velocemente, Helen con le sue mani ed io con i miei occhi” (Lettera 22 maggio 1887). Ed ancora racconta: “Sua madre ed io abbiamo tagliato svariati fogli di parole in rilievo in modo che lei potesse costruire frasi. Questo l’ha divertita più di ogni altra cosa che avesse fatto fino ad allora, e la pratica fatta ha preparato il terreno per le lezioni di scrittura. Non c’era nessun problema nel farle capire come scrivere la stessa frase con la matita e la carta che preparava ogni giorno con i foglietti, e molto presto percepisce che non ha bisogno di limitarsi a frasi già imparate, ma poteva comunicare ogni pensiero che le passava per la testa. Metto una delle lava-gnette di scrittura usate dai ciechi tra i fogli di carta sul tavolo e la lascio osservare l’alfabeto delle lettere quadrate, esattamente come lei stava per fare. Poi le ho guidato la mano per formare le frasi: “Gatto beve latte”. Quando finisce è piena di gioia. Lo porta alla madre che fa lo spelling a lei” (Lettera 5 aprile 1887).

Con il tempo gli strumenti utilizzati divengono sempre più complessi e Sullivan decide di valersi anche della lavagna Braille in quanto Helen è pronta per la scrittura (Lettera 2 giugno 1887).

Da metà giugno cominciano le operazioni di calcolo, le lezioni di ginnastica all’aperto. Il 19 giugno scrive “Durante le nostre passeggiate continua a fare lo spel-ling e si diverte ad accompagnarlo con azioni come saltare, correre, camminare in fretta, camminare piano e simili… Conosce quattrocento parole oltre a numerosi nomi propri... Può contare molto velocemente fino a trenta e sa scrivere sette delle lettere manuali quadrate e delle parole che potevano essere formate con esse. Rico-nosce istantaneamente una persona una volta conosciuta” (Lettera 19 giugno 1887).

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stimolando la sua curiosità coi perché. Il 18 settembre l’insegnante ancora scrive “Ha l’impulso di usare il linguaggio come ce l’hanno i bambini normali e mostra grande fertilità di risorse nel formare le parole a suo comando e nel trasmettere significati” (Lettera 18 settembre 1887). Le sue lettere mostrano insieme le strategie che adotta e i cambiamenti della sua allieva.

Il 1 gennaio 1888 scrive che Helen ha necessità di essere avviata alla vita ordi-naria, attraverso viaggi e frequentazione coi coetanei. Afferma, infatti, Miss Sullivan, “Voglio che conosca bambini e che passi più tempo possibile con loro. Molte bambine hanno imparato a fare lo spelling delle parole sulle loro dita e sono molto orgogliose di questo risultato” (Lettera 1 gennaio 1888).

Dall’ottobre del 1889 il suo lavoro è stato più regolare ed ha incluso aritmetica, geografia, zoologia, botanica, lettura con l’esigenza, poi avvertita in maniera sempre più cogente, di far frequentare ad Helen una scuola, perché Helen è una bambina come le altre (Keller, 1903b).

La storia di Helen si rivela esemplare. Riuscirà a leggere, a scrivere e a parlare, dal 1890 seguendo le lezioni di Sara Füller, che sull’esempio di Ragnhild Kaata, una bambina norvegese cieca e sorda, utilizzava un metodo che consisteva nel passare la mano dell’educando sul suo volto, facendo sentire la posizione delle labbra e della lingua quando emetteva un suono (Nielsen, 2009, p. 104; Zappaterra, 2018). Helen si laureerà nel 1904 al Radcliffe College, dopo aver fatto esperienza di una scuola comune alla Cambridge School of Weston, con ragazze normodotate (Keller, 1903a).

Conclusioni: il metodo come ricerca

Più volte Sullivan dichiara di non seguire un metodo sistematizzato, ma di studiare, di informarsi, mettendo in crisi tutto ciò che ha appreso all’Istituto Perkins, recupe-rando solo l’utilizzo del movimento e del gioco come forme primarie di mediazione didattica. Scrive in una Lettera datata 22 maggio “Se solo fossi più adatta a questo altissimo compito! Mi sento meno adeguata ogni giorno di più. La mia mente è piena di idee ma non riesco a metterle in atto. Vedi, la mia mente è indisciplinata, piena di lacune e di anelli mancanti, e qui e là ci sono molte cose ammassate in angoli bui. Quanto vorrei metterle in ordine! Oh, se solo ci fosse qualcuno ad aiutarmi! Ho bisogno di un insegnante tanto quanto Helen” e a tale proposito chiede a Sophia Hopkins di inviarle dei testi di psicologia di Perez e Sully (Lettera 22 maggio 1887).

Sullivan lavorando quotidianamente con Helen afferma: “Sto iniziando a sospet-tare di tutti i tipi di sistemi di educazione elaborati e cosiddetti speciali. Mi sembrano essere fondati sulla supposizione che ogni bambino sia una sorta di idiota che deve essere istruito a pensare” (Lettera 8 maggio 1887). In questa direzione, sostiene, inoltre, Sullivan, “da quando ho abbandonato l’idea di fare lezione in maniera tradi-zionale, trovo che Helen impari molto più velocemente. Sono convinta che il tempo passato dall’insegnante a tirare fuori dal bimbo ciò che lui ha dentro, solo per soddi-sfare se stessa e per dimostrare che il sistema funziona, sia tempo buttato via. È molto meglio, credo, presupporre che il bimbo stia facendo la sua parte e che il seme coltivato darà i suoi frutti quando sarà il momento giusto. In ogni caso è giusto nei confronti del bambino e ti risparmia da molti problemi non necessari” (Ivi). In questo passaggio Sullivan rende evidente la partecipazione diretta del discente nel processo di apprendimento.

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confi-nare la mia allieva – scrive Sullivan – ad alcun sistema precostituito. Ho sempre cercato di trovare cosa le interessasse di più e di fare di ciò il punto di partenza per la nuova lezione, non considerando se fosse rilevante o meno per la lezione che avevo programmato di fare. Helen ha acquisito il linguaggio attraverso l’esercizio e l’abitudine piuttosto che attraverso lo studio di regole e definizioni. La grammatica con il suo esercito inspiegabile di classificazioni, nomenclature e paradigmi, è stata scartata del tutto dalla sua educazione. Ha imparato il linguaggio perché è stata messa in contatto direttamente con la lingua viva stessa; lei ha dovuto fare i conti con essa nelle conversazioni quotidiane e nei suoi libri, e in una miriade di forme diverse finché non è stata capace di usarla correttamente. Senza dubbio ho parlato molto di più con le mie dita, più costantemente di quanto avrei dovuto fare con la mia bocca; se avesse avuto l’uso della vista e dell’udito, sarebbe stata meno dipen-dente da me per quanto riguarda l’auto intrattenimento e l’istruzione” (Sullivan, 1894, p. 2). L’utilizzo, poi, dei libri ha completato l’acquisizione del linguaggio stesso. Miss Sullivan ha consentito a Helen il passaggio da un’educazione intesa come mero momento di “cura del bambino”, legato alla gestione della sopravvivenza (dal latino educare), a un’educazione intesa come possibilità di trarre fuori le potenzialità del soggetto per trasformarlo e migliorarlo (da ex-ducere).

Sullivan passa dal momento fattuale al momento concettuale, poiché a guidare l’educazione di Helen è la stessa idea di educazione che l’insegnante va pian piano maturando durante il suo lavoro con la bambina. Le indicazioni sul campo, le risposte di Helen non fanno altro che guidare l’opera di studio e di ricerca di Sullivan stessa. A prescindere dalla volontà di lasciare un metodo preconfezionato, le indi-cazioni del suo viaggio educativo con Helen e, al di là della eccezionalità della stessa bambina, si rivelano indicazioni importanti nella progettazione educativa delle persone con disabilità, perché ribadiscono l’universalità dell’educazione, la sua costante tensione ad includere ogni persona, a prescindere dalla sua condizione di salute.

Le strategie messe a punto da Sullivan riescono a condurre Helen sulla strada della crescita umana e culturale e a mostrare recuperando un’espressione di Gelati che ogni percorso educativo che riguarda le persone con disabilità, deve partire “dal bambino con deficit e non dal deficit del bambino” (Gelati, 1999, p. 9). Questo è possibile vedendo nell’altro, prima di tutto, una persona, con le sue caratteristiche. Sullivan, infatti, afferma “in ogni bambino ci sono capacità, che vanno sviluppate nel modo giusto, tanto che ogni bambino cieco e sordo può essere educato” (Sullivan, 1894, p. 3). Bisogna solamente tracciare percorsi alternativi, creare degli ambienti di apprendimento idonei allo sviluppo delle capacità dei soggetti, attivare gli interessi come molla dell’apprendimento (interesse-uso-memoria-utilizzo-gene-ralizzazione), sfruttandoli per dar vita a lezioni semplici che via via divengono più complesse per condurre il bambino alla simbolizzazione.

Goussot ha sottolineato che nel caso di Keller il “deficit è stato fonte di ricchezza e punto di forza” (Canevaro, Goussot, 2000, p. 41). Riprendendo Vygotski, Goussot afferma che se Helen fosse nata in un ambiente diverso, sarebbe rimasta nell’oscu-rità (ivi, p. 41). Il suo difetto è stato un impulso, che ha creato autostima e che, ben inserito in una progettazione educativa valorizzante, ha mostrato il potere trasfor-mativo dell’educazione. I bambini, secondo Sullivan, vanno educati nelle giuste condizioni, con stimoli, guide ed orientamenti e tempi giusti.

Sullivan dimostra che non esiste un metodo universalmente riconosciuto, ma che il metodo proprio come indica l’etimologia della parola rappresenta una via di

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ricerca, da tracciare, valutare, perfezionare, correggere costantemente, nel rispetto dei tempi e delle caratteristiche di ognuno.

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