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del bon sauvage al fine di calarsi a pieno anche nell’ideologia di stampo rousseauiana tanto in auge

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III

Prima di dare inizio al confronto ideologico tra Diderot e Rousseau in rapporto alle analogie e differenze esistenti tra il Supplément au Voyage de Bougainville e il Discours sur l’orgine de l’inégalité, è bene tracciare un breve excursus della teoria primitivistica

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del bon sauvage al fine di calarsi a pieno anche nell’ideologia di stampo rousseauiana tanto in auge

nel Settecento francese. Il mito del buon selvaggio, il gusto per la natura, sono i temi ricorrenti che si sviluppano a partire dai tempi della civilizzazione avanzata, da strutture sociali complicate e inegualitarie. È soprattutto nel XVIII secolo che l’apologia della nature naïve è inseparabile dai temi primitivistici: la leggenda dell’età dell’oro, i sogni primordiali

arcadici e l’idealizzazione della vita selvaggia. Nella maggior parte dei testi la figura del buon selvaggio mette in luce un’idea anticristiana, quella della bontà naturale dell’uomo e il concetto di natura semplice può trasformarsi in un atteggiamento di rifiuto del mondo moderno. È stato quasi sempre rilevato che il selvaggio si definisce soprattutto mediante

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Per quanto riguarda il primitivismo rousseauiano, si veda l’insigne capolavoro di Arthur Lovejoy, «The supposed Primitivism of Rousseau’s “Discours of Inequality”», Modern Philology, XXI (1923), p. 165-186 (cfr. la traduzione italiana in A. O. Lovejoy, L’abero della conoscenza. Saggi di storia delle idee, Bologna, 1982, p. 43-68). Oltre a descrivere il Discours rousseauiano come un vero e proprio trattato del processo evolutivo della storia dell’umanità, Lovejoy argomenta come Rousseau abbia suddiviso il raggiungimento della condizione umana perfetta in quattro stadi. Il concetto di «Stato di natura», può assumere in Rousseau almeno tre significati: uno meramente cronologico, riferendosi alla condizione primordiale dell’uomo e alla sua evoluzione fisica. Nella concezione politica, tale termine è impiegato per descrivere la condizione di individui o gruppi che nei loro rapporti non sono assoggettati ad alcuna autorità o forma di governo. Infine, esso può essere impiegato con il valore culturale che gli si attribuisce più comunemente nel XVIII secolo, per far riferimento allo stato sociale in cui le arti e le scienze erano meno progredite. Rousseau afferma che il terzo stadio e cioè lo stadio nascente, sia il migliore cui la condizione umana possa anelare ed è quello che si contrappone radicalmente allo stadio dell’animalità a tutto tondo definito dal ginevrino come stadio di natura presociale. L’uomo primitivo era sano, di indole buona ma stupido, asociale e amorale; l’uomo civile, al contrario, è arguto ma fortemente malizioso, cattivo e infelice. Rousseau ha cercato di trovare la via di mezzo proprio nel terzo stadio, sebbene anch’esso sarà annientato con l’avvento dell’attività agricola e metallurgica che ha generato l’instaurarsi della proprietà privata: in questo caso gli individui non sono così buoni e neppure così pacifici e tranquilli come nello stato di natura presociale ma sono anche meno ignoranti e meno asociali.

Insieme, essi non erano così intelligenti e autorevoli come l’uomo civile, ma erano anche meno maliziosi e

infelici di lui. Rousseau considerava, quindi, lo stato selvaggio, non come il raggiungimento della perfezione

naturale, ma come uno stato intermedio tra due estremi inconciliabili tra loro.

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negazioni, attraverso ciò che non ha rispetto all’uomo civile. È colui che conduce un’esistenza semplice, ignorante, che utilizza solo i prodotti della natura per soddisfare i propri bisogni; inoltre, egli è estraneo alle istituzioni politiche o almeno non conosce che le più semplici; è colui che predilige l’istinto alla ragione, dove per ragione si intende probabilmente la falsa ragione, quella dell’ipocrisia e dei pregiudizi, non la ragione naturale.

Quelli appena descritti rappresentano, per sommi capi, i tratti distintivi della figura del buon selvaggio.

Il XVIII secolo cerca in modo particolare di costruire un mondo nuovo sulle rovine del vecchio, si sforza di dipingere un quadro dell’umanità felice e giusta e, per la realizzazione di questo grande disegno, il tema del buon selvaggio può costituire un’arma utile contro il dispotismo. È il secolo per eccellenza in cui la leggenda del bon sauvage acquista tutta la sua importanza. Essa ha sedotto l’immaginazione di un pubblico per il quale le parole di nature ed état de nature sono state avvolte da un alone di fascino.

Questo ottimismo generale tende a dirigersi verso uno scopo lontano, al quale l’individuo ha da sempre aspirato: la società perfetta. Quindi l’uomo illuminista è spinto verso un avvenire che mira alla perfezione, che ritorna ad un passato permeato di bonheur.

Un aspetto paradossale della condizione umana è che l’uomo avanza verso un futuro che

crede migliore e allo stesso tempo si immerge in un passato immaginario, ricco di sfumature

nostalgiche. La spiegazione di questa contraddizione si riduce in un rifiuto da parte

dell’uomo di accettare la mediocrità, le imperfezioni del presente; si tratta di un diniego

salutare, in quanto conduce l’uomo a fare degli sforzi positivi dal punto di vista sociale e

morale. Se la perfezione si offre in un quadro passato-futuro, essa può ugualmente ricercarsi

al di fuori del tempo, nell’immaginazione stessa, dalle utopie letterarie ai mondi semi-reali

o totalmente inventati. Mentre le frontiere del reale vengono meno, le utopie crescono.

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Le terres australes divengono il centro delle ambizioni e delle attenzioni di numerosi avventurieri: i progetti di esplorazione, infatti, si protraggono per tutto il secolo, conclusosi con le relazioni dei vari Wallis, Bougainville, Cook e via discorrendo. L’immaginazione quindi si colloca nei mari del sud, nel vasto oceano albergante tutto ciò che di meglio si possa desiderare: oro, oggetti commerciali, nuove civiltà, animali e piante sconosciuti e infine il buon selvaggio.

Esiste un motivo valido per collocare la figura di tale personaggio all’interno degli arcipelaghi polinesiani, ragione che possiede fondamenti storici e scientifici: l’aspetto fisico;

«je n’ai jamais rencontré des mieux faits ni mieux proportionnés. Pour peindre Hercule ou Mars on ne trouverait nulle part d’aussi beaux modèles»

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. Il culto dei tahitiani per le arti e per i profumi costituisce un altro aspetto che li rende superiori ad altri selvaggi. Ma il dettaglio più importante riportato da molti viaggiatori, è il colore della pelle dei polinesiani:

«les sauvages de cette île sont tous blancs. Il ne paraît y avoir parmi eux aucun noir qu’ils semblent abhorrer»

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. Quindi l’aspetto generale di tale popolo è conforme alle regole di bellezza greco-romana. Il colore talvolta un po’ bruno è una conseguenza climatologica, ma le caratteristiche fisiche sono quelle dei più belli europei. Ecco perché i tahitiani ricordano i buon selvaggi originari. Ulteriore aspetto determinante per la collocazione del buon selvaggio nei mari del sud fu l’insularità. Per definizione l’isola è un luogo chiuso, circoscritto, al contrario di ogni altro posto. La tradizione letteraria, dai racconti alle leggende o ai viaggi immaginari, abbonda di isole deserte, irraggiungibili, popolate da ninfe o da mostri. Altri luoghi immaginari presentano ugualmente un principio di insularità, sebbene non siano delle isole. Ad esempio, il paradiso terrestre è un luogo chiuso, che

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Cfr. Voyage, ed. Proust.

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Cfr. Philibert Commerson, Voyage autour du monde in Mercure de France, novembre, 1767.

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contiene ogni felicità, alle porte del quale si apre il mondo infinito, il vero regno umano:

sofferenze, speranze, schiavitù, morte.

Quindi ogni società utopica è generalmente strutturata nelle isole. La nostalgia della pace delle origini evocata dalle città utopiche, si ritrova nelle immagini degli arcipelaghi e non a caso l’isola richiama, anche, la figura ideale del cerchio, del mondo chiuso, un vero e proprio simbolo di perfezione. Oltre a questo le isole del Pacifico possiedono anche il carattere esotico, orientale e, grazie al loro paesaggio, sembrano ancora più vicine allo stato primordiale del mondo. L’attrazione verso una natura vergine è causata dal desiderio di essere a contatto con quello stato puro e grandioso della creazione del globo, impossibile da trovare in Europa. In questo quadro così affascinante non può che vivere un uomo degno di tutto ciò, un uomo che non ha ancora conosciuto la corruzione, l’ipocrisia, la menzogna, un uomo che riesce a distinguere nettamente il superfluo dal necessario e quest’uomo non può essere che il selvaggio, colui che è destinato a vivere nella più assoluta felicità. La sua immagine viene sempre concepita e descritta in opposizione all’uomo moderno, cristiano, nato nel peccato, nel dolore, allevato nella costrizione, prigioniero dei vincoli sociali, invecchiato nella sofferenza e morto nell’incertezza del suo avvenire post-mortem.

Tutti questi elementi non esistono nelle società selvagge, dove i suoi abitanti, al contrario, vivono in un eterno presente, nella più completa libertà. Il Settecento quindi è un secolo fecondo per le descrizioni letterarie del mito in questione. Anche in Inghilterra la leggenda del bon sauvage si diffuse notevolmente grazie e soprattutto al romanzo pubblicato nel 1720 da Daniel Defoe intitolato Robinson Crusoe. I selvaggi con i quali Robinson viene a contatto, invece, sono cannibali ed è sotto questo aspetto che appaiono ai suoi occhi. Essi, sono per lui, stupidi e feroci, quindi siamo ancora lontani dal mito del buon selvaggio.

Tuttavia mai una volta Robinson cerca di giudicare le loro azioni o cerca di punirli.

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Egli arriva perfino a pensare che essi erano la prova che Dio li aveva abbandonati alla loro stupidità. Ma dal giorno in cui cerca di convertire Venerdì, evangelizzandolo, la sua opinione sui selvaggi dell’isola cambia radicalmente. Essi diventano i testimoni di una grande disposizione a istruirsi, ad accettare le verità morali che Robinson propone loro;

inoltre, possiedono una grande sincerità e generosità d’animo, insomma acquistano tutte le qualità del buon selvaggio.

Il ritratto così ammirevole che Defoe fa dei selvaggi dell’isola è talmente concreto che viene accettato per vero; tutti credono che ci sia un fondo di verità in tutto ciò che dice l’autore. In questo romanzo, quindi, ci sono entrambi gli aspetti del selvaggio: la prima impressione realistica e veritiera e la seconda probabilmente sovraccarica di elementi positivi, ma ciò fu sufficiente per affascinare l’Europa intera. Durante la seconda metà del secolo il mito del buon selvaggio diviene una leggenda più che mai accettata e diffusa.

Questa creazione fu l’unione, sempre sperata, tra una realtà lontana e una vicina in un secolo di preoccupazioni e turbamenti intellettuali: l’incontro tra il vero selvaggio del Pacifico e il selvaggio ideale dei libri di avventura. Questo insieme assicurò notevoli informazioni sugli arcipelaghi dei mari del sud, sulla geografia, sulla letteratura, sulla filosofia e sull’immaginario europeo. Vennero elaborate una serie di immagini astratte che portarono all’esaltazione del mito del buon selvaggio. Si tratta di sogni riducibili ad uno stato naturale dove l’uomo è privo di contraddizioni insite nel suo sistema sociale; è come uno slancio verso una realtà astratta, una fuga dal mondo.

La scoperta dell’Oceania ebbe, quindi, il merito di concretizzare temi tipici del

primitivismo in modo che i selvaggi polinesiani potessero divenire l’incarnazione di queste

fantasie e di conseguenza la concretizzazione del selvaggio. È il 1750 quando Rousseau,

partecipando al concorso indetto dall’Accademia di Dijon, si proclama nemico delle scienze

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e delle arti, inseparabili dal lusso pervertitore e responsabili della demoralizzazione dell’uomo civile. Ecco che l’ideale di estrema semplicità e di uguaglianza diviene il messaggio fondamentale del suo pensiero già nel primo Discours. In entrambi i suoi Discours, Rousseau elogia l’uguaglianza e lo stato di natura dal quale l’uomo si è fin troppo

allontanato. È soprattutto Rousseau che esprime in termini semplici e chiari una teoria della storia e dell’evoluzione sociale.

A partire dagli uomini «seuls et errants dans les bois» si assiste all’unione di queste tribù: il loro bisogno di ferro e grano li porta alla divisione del lavoro e ad un ingranaggio di leggi e costrizioni per la protezione della proprietà che corromperà l’intera umanità.

L’inuguaglianza sociale, l’ingiustizia, l’oppressione, tutto nasce da questa banale seppur semplice evoluzione. Secondo Rousseau l’equilibrio si spezza nel momento in cui la divisione del lavoro diventa tale che la presenza dell’altro è indispensabile alla sopravvivenza. Da allora si instaura l’ineguaglianza e la società evolve culturalmente al prezzo della sua rovina; ed ecco che alla libertà originale del selvaggio isolato succede il compromesso, l’interesse dell’uno verso l’altro.

Rousseau evoca la leggenda dell’età dell’oro; si tratta di un mito collocato lontano nel tempo che l’uomo moderno deve sperare di veder rinascere. Egli disprezza la società attuale perché è viziata, fondata sul principio della proprietà, mentre lo stato di natura è per lui un paradiso definitivamente perduto, che sarà considerato come un’ipotesi grazie alla quale gli sarà possibile studiare un uomo primitivo e semplice. Infatti il ginevrino spoglia l’uomo dai vizi, lo riduce all’essenziale, poiché solo così egli appare «heureux et bon».

È necessario, a questo punto, sottolineare la differenza tra la filosofia di Rousseau e

quella dei suoi predecessori. Questi ultimi rappresentavano lo stato di natura come se fosse

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una realtà e proponevano i selvaggi come modello da imitare. Per Rousseau l’età dell’oro è ormai scomparsa e ogni tentativo di ritorno è vano, quindi non rimane altro che il ricordo di quel periodo, di quei principi, ricordo che può solo servire da monito a migliorare la condizione attuale

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. Egli si entusiasma di fronte alle opere di immaginazione sfrenate come quella di Thomas More, ma prende troppo sul serio i problemi sociali per lasciarsi trasportare dall’utopia. Nel Supplément au voyage de Bougainville, lo stato di natura di Tahiti è secondo l’autore oggetto di una entusiasta ammirazione per la comunione dei beni e per la libertà del popolo. Infatti Diderot esorta Bougainville a non turbare la felicità degli insulari e a non distoglierli dal seguire «l’état de nature» e a non insegnare loro «la distinction du tien et du mien». In realtà Diderot rivolge la sua critica alla società moderna e più ancora alla morale cristiana. Infatti il Supplément non è che una fantasia ed è molto probabile che se qualcuno avesse proposto allo scrittore di vivere come i tahitiani o come il buon selvaggio polinesiano, Diderot avrebbe avuto qualche obiezione da fare.

L’introduzione al Supplément di Herbert Dieckmann contiene un interessante spunto circa il rapporto e lo stretto legame che associa il Discours sur l’inégalité di Rousseau al Supplément diderotiano, si tratta di uno sviluppo in cui il professore si allontana

ideologicamente da Chinard, promuovendo l’idea di una totale indipendenza delle due opere.

Le verosimiglianze sono molteplici, e il rapporto tra i due testi ha creato, tra gli studiosi, una notevole divergenza di opinioni. L’état de simple nature, proposto all’interno del presunto complemento al Voyage de Bougainville, viene fortemente lacerato e messo in discussione all’arrivo dei colonizzatori, i quali non solo si appropriano fisicamente dell’isola, ma

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Cfr. Supplément, Dieckmann. L’introduzione dieckmanniana al Supplément fa molta luce sugli aspetti di

similitudine e contrasto esistenti tra Diderot e Rousseau.

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introducono in quei meravigliosi luoghi il principio tanto odiato da Rousseau, la proprietà privata.

Orbene, secondo il ginevrino, infatti, è proprio l’introduzione e la diffusione della propriété che ha dato origine alla distinzione tra civiltà e natura. La costituzione della

proprietà privata, si pone alla base di ogni conflitto psicologico e morale, essa non fa che dar vita, all’interno di gruppi sociali più o meno ampi, al seme della disparità e della diseguaglianza, di conseguenza nell’uomo scaturiscono sentimenti quali l’orgoglio e la vendetta verso l’altro. Proprio la sete di ottenere e guadagnare ancora e ancora, hanno portato l’essere umano a prevaricare sul suo simile, rendendolo addirittura schiavo. Rousseau, quindi, molto legato alla tematica delle ingiustizie sociali, ha cercato di descriverle come il risultato di un binomio inscindibile in cui le due protagoniste, propriété e inégalité procedono di pari passo. La tematica della proprietà privata e dell’ineguaglianza tra gli individui rappresenta il nocciolo centrale del pensiero rousseauiano, mentre per Diderot essa gioca un ruolo leggermente più marginale.

Altro aspetto utile al confronto tra i due testi è quello dei disordini causati

dall’interferenza del code civil all’interno della sfera sentimentale: nelle due opere lo stato

di natura è in lizza con lo stato sociale. Il disagio vissuto dall’uomo civile, è frutto di

molteplici malesseri e tra gli altri quello relativo alla sfera amorosa e sessuale, ricopre un

ruolo essenziale. Anche Rousseau, come Diderot considera necessaria la scissione tra la

visione morale e quella fisica, identificando nella moralité l’origine dei conflitti interiori più

profondi nonché la causa del deterioramento del rapporto tra i sessi. A tal proposito,

l’opinione di Rousseau non è differente dalla posizione diderotiana:

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Commençons par distinguer le moral du physique, dans le sentiment de l’amour. Le moral est ce qui détermine ce désir [le désir physique] et le fixe sur un seul objet exclusivement, ou qui du moins lui donne pour cet objet préféré un plus grand désir d’énergie. Or, il est facile de voir que le moral de l’amour est un sentiment factice né de l’image de la société

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.

Ma, procedendo, si constaterà come le due grandi personalità avranno occasione di distanziarsi l’una dall’altra: è noto che uno tra i temi centrali del dialogue diderotiano, è proprio dedicato abbondantemente alla sfera passionale e sentimentale, topos che invece, nel Discours rousseauiano, viene affrontato in modo leggermente trasversale descrivendolo

come uno dei tanti esempi del mancato perseguimento del bonheur. Rousseau dedica a questo tema solo qualche pagina, e non si lascia trasportare dalla descrizione particolareggiata dei plaisirs des sens come fa Diderot. L’interesse del ginevrino, nel Second Discours, è puramente politico, legato ad aspetti di psicologia generale e non a descrizioni

puramente fisiche come accade in Diderot.

Il Supplément diderotiano sottolinea come i sentimenti negativi possano essere generati anche dalle istituzioni religiose, Rousseau, invece, non lascia spazio ad altre interpretazioni, vices e virtues si sono originati a causa della società e della civilizzazione.

La chiave di lettura nel pensiero di Rousseau, è l’istinto aggressivo e la lotta di dominio, un istinto talmente forte al quale si possono ricondurre tutti gli altri fenomeni dello stato civile, desiderio di accrescere la proprietà privata, soddisfare i propri bisogni, l’ambizione di sentirsi diversi e quindi superiori agli altri, nonché la forte dicotomia tra être e paraître.

Diderot, al contrario, sebbene sollevi anch’egli le problematiche discusse da Rousseau, identificherà nell’introduzione delle ristrettezze e limitazioni imposte agli istinti sessuali, una tra le cause fondamentali dell’infelicità dell’individuo. Il concetto di état de nature nel

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Cfr. Rousseau, Discours sur l’origine. Il presente volume è stato consultato in formato elettronico al seguente

indirizzo: https://archive.org/details/discourssurlori01rousgoog (ultimo accesso: 15/10/2014).

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Supplément, non è né storico, empirico e neanche logico secondo la logica vigente in natura,

poiché da un canto Diderot afferma che alcuni principi erano sconosciuti ai tahitiani, e dall’altro, gli conferisce delle caratteristiche peculiari dell’uomo civile.

C’è nel Supplément una certa distanza che il paradosso e la tipologia dialogica cercano di introdurre tra idea e manifestazione. Molto interessante, è il passo che conferisce un significato duplice, se così si può dire, al pensiero diderotiano:

Voulez-vous que je vous dise un beau paradoxe ? C’est que je suis convaincu qu’il ne peut y avoir de vrai bonheur pour l’espèce humaine que dans un état social, où il n’y aurait ni roi, ni magistrat, ni prêtre, ni lois, ni tien, ni mien, ni propriété mobilière, ni propriété foncière, ni vices, ni vertus ; et cet état social est diablement idéal

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.

Il Discours rousseauiano, così come il dialogo di Diderot, hanno come fine principale, la critica e la protesta contro le fratture interiori inflitte all’uomo dalla società.

I due filosofi attaccano duramente i limiti che la civilizzazione impone agli impulsi, alle azioni e alla coscienza, e in questo, le due personalità, sono concordi: essi anelano alla possibilità di salvezza e guarigione della morale naturale. Le Discours sur l’inégalité può essere visto come un esempio di analisi molto dettagliata delle conseguenze apportate dalla civilizzazione. Rousseau ha conosciuto la nostalgia per lo stato di natura, per la vita povera, vissuta secondo canoni selvaggi e primordiali, tutti sentimenti esistenti prima della distinzione tra il bene e il male. A differenza dell’autore del Supplément, Rousseau non si è lasciato trasportare dal mito edenico e non ha collocato mentalmente la propria idea di état de nature su un’isola lontana.

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Cfr, Diderot, Œuvres complètes, VI, p. 439.

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Il paradosso, è che il suo naturalismo assoluto, lo conduce a posizioni ben più estreme rispetto a quelle di coloro che, negli stessi anni, teorizzano la dimensione del selvaggio:

questo accade perché Rousseau denuncia gli elogi del selvaggio come rappresentazioni, egli ritiene che un popolo corrotto non possa più tornare alla virtù.

Il ginevrino è abbastanza diffidente nei confronti dei vari récits des voyageurs, nonché verso le descrizioni che essi forniscono del bonheur comunitario dei popoli primitivi:

egli, più che altro, vuole resistere alla tentazione di indebolire e ricondurre la volontà della riforma al mero sogno utopico, ad un luogo quasi intangibile. Egli, però, è ben consapevole dell’impossibile attuazione e realizzazione dell’état de nature, una condizione che non esiste più e forse non esisterà mai neanche in futuro.

Rousseau, ha per la letteratura di viaggio molti sospetti, in primo luogo perché, le fonti non sono, in alcuni casi, sia pure per motivi diversi, davvero credibili. D’altra parte, su questo sospetto, e forse anche grazie a esso, il ginevrino costruisce un universo naturalistico di grande complessità: pur ispirandosi all’Histoire naturelle de l’homme di Buffon, il suo stato di natura a differenza di quello disegnato da Buffon stesso o da Diderot, prospetta una situazione di isolamento, una condizione secondo cui l’uomo primitivo dovesse vivere da solo. Quando, dunque, poco prima della rottura Diderot rimprovera a Rousseau il suo desiderio di isolarsi, non sta semplicemente polemizzando contro il suo ritorno a Ginevra, bensì anche contro la sua idea originaria e fin troppo estremista della naturalità dell’uomo.

Per Diderot, infatti, la natura è un processo in continuo divenire, un organismo in movimento e dunque la società e le sue forme di organizzazione collettive, sono il frutto della sua genesi;

Rousseau, invece, anela una società scarnificata che si oppone drasticamente alla società del

lusso. Tra il 1757 e il 1758, gli viene attribuita da parte di Voltaire l’etichetta di Simie de

Diogène.

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La rottura definitiva con gli altri philosophes è inevitabile, essi lo considerano come un antiphilosophe proprio per l’eccessivo isolamento e per la protezione degli aristocratici.

Nel Deuxième discours, Rousseau idealizza la società selvaggia e naissante che non conosce le ineguaglianze della società moderna, sebbene egli sia consapevole che tornare indietro nel tempo e riprodurre situazioni passate sia pressoché impossibile. L’état de nature nel Supplément è volto a trovare una soluzione nel presente, a differenza di quello rousseauiano

che vive di solo passato. Tahiti è un luogo esistente, non appena scoperto e Diderot lo idealizza, così come fece anche il suo ispiratore Bougainville. In un certo senso, il Supplément, è un’opera in cui il miraggio utopico si sostituisce alla volontà tenace di riforma, dove la dialettica della storia è rimpiazzata dall’antitesi delle idee.

Ma Tahiti non è un esempio di utopia a tutto tondo, poiché Diderot non trascenderà

completamente la realtà: egli utilizza l’isola come espediente per poter mettere in pratica

un’avvincente critica della società europea del tempo ma la sostituzione non avverrà, almeno

nell’immediato. Dieckmann, più che di utopia parla di ideologia, riferendosi alla descrizione

di Tahiti: essa si trasforma in ideologia ogni qual volta che essa ricopre la funzione di una

legge ideale che l’individuo è invitato a seguire, sebbene esso sia consapevole che la sua

condotta non coinciderà mai con la norma proposta.

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